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  • Aldo Moro e Franco Piperno, i perché ancora senza risposta

    Aldo Moro e Franco Piperno, i perché ancora senza risposta

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    Quarantaquattro anni, tanti ne sono passati dalla strage di via Fani e dal delitto Moro, potrebbero essere un’occasione per fare chiarezza. Per avere qualcosa di più delle speculazioni necrofile che scattano ad orologeria in occasione degli anniversari tragici. Questo qualcosa – per ciò che riguarda il sequestro del leader democristiano – avrebbe un valore immenso, se provenisse da testimoni eccezionali.
    È il caso di Franco Piperno, che abbiamo provato comunque a contattare.

    Un mosaico in nero

    Non c’è saggio sul delitto Moro in cui il nome del fisico calabrese non compaia almeno una trentina di volte. Ne citiamo quattro, più o meno recenti, che tentano di raccontare quei fatti con gli approfondimenti doverosi e col tentativo di arrivare a una verità che vada oltre le insoddisfacenti versioni “ufficiali” senza tuttavia cedere alla dietrologia.
    Così ha tentato di fare lo storico ed ex parlamentare Miguel Gotor, nel suo Il memoriale della repubblica, uscito undici anni fa per Einaudi.

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    Franco Piperno negli anni ’70

    La spia che venne dal freddo

    Ancor prima di lui ha scritto cose significative il giornalista Francesco Grignetti, nel suo Professione spia (2002), dedicato a Giorgio Conforto, il più famoso agente del Kgb in Italia. Non è da sottovalutare, inoltre, il contributo del magistrato Rosario Priore in Chi manovrava le Brigate rosse?. E per finire, cose molto significative provengono da Il puzzle Moro, l’importante inchiesta di Giovanni Fasanella uscita quattro anni fa per Chiarelettere.

    Difficile orientarsi nel labirinto di citazioni, fatti, ipotesi documentate o solo verosimili, in cui, in un modo o nell’altro, spunta la figura di Piperno, che si ritrova al centro di un mosaico oscuro, che il professore non ha chiarito. O almeno non troppo.
    In questo mosaico c’è di tutto: l’inchiesta giudiziaria e la spy story, il racconto giornalistico e il romanzo, il saggio storico e la suggestione indiziaria. E c’è, attraverso Piperno ma non solo, un po’ di Calabria. Non mancano le polemiche, inevitabili quando le verità si moltiplicano perché ne manca una.

    Giorgio Conforto, in questa vicenda, c’entra indirettamente. Il legame tra Piperno e lui passa attraverso la figlia Giuliana, protagonista ufficialmente inconsapevole, del colpo di coda calabrese dell’affaire Moro.
    Conforto padre, nel 1979, è un funzionario del Ministero dell’agricoltura con un passato a dir poco interessante: legato all’Urss sin dalla prima giovinezza e salvato per un pelo dai rigori del Fascismo (della sua situazione si occupò personalmente Arturo Bocchini, il supersbirro di Mussolini) era stato per anni al servizio del Kgb come capocentro. Giuliana, invece, è una fisica ricercatrice, amica da anni dello scienziato calabrese.

    Proprio quest’ultimo si sarebbe interessato per procurare a Giuliana, separata da poco e con due figlie, un incarico all’Università della Calabria. Sempre nello stesso periodo Piperno e Lanfranco Pace, ex esponenti di punta di Potere Operaio, chiedono a Giuliana di ospitare due “compagni in difficoltà”. Sono Valerio Morucci e Adriana Faranda, Br in fuga, che avevano avuto un ruolo nel sequestro Moro ma si erano dissociati dall’ala dura del movimento, che faceva capo a Mario Moretti e ad Alberto Franceschini.

    Giuliana Conforto ospita i due, mentre fa su e giù dalla Calabria. E ne paga il prezzo: la notte del 29 maggio del 1979 la polizia fa irruzione in casa sua, a viale Giulio Cesare. La ricercatrice finisce in manette assieme ai suoi ospiti, di cui nega di conoscere la reale identità. Ma c’è di più: durante il blitz di viale Giulio Cesare, gli agenti trovano un arsenale di armi, tra cui la famigerata pistola Skorpion usata per uccidere Moro.

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    Lanfranco Pace negli anni ’70

    È doveroso dire che Giuliana Conforto è stata prosciolta da ogni accusa a livello giudiziario. Ma restano alcuni dubbi a livello storico. Il primo deriva dalle dichiarazioni di Pace e Piperno, riportate da Grignetti, che risultano in parte discordanti. Infatti, Pace dichiara di aver rivelato alla Conforto importanti elementi sull’identità dei suoi ospiti. Piperno, invece, si è limitato a parlare di “compagni con problemi”.

    Ma la dietrologia non finisce qui, perché Fasanella e Gotor vanno oltre. E pensano che nel blitz di viale Giulio Cesare potrebbe aver avuto un ruolo Giorgio Conforto, che avrebbe “consegnato” Morucci e Faranda in cambio della “salvezza” di Giuliana… sono ipotesi non confermate ma, a quel che risulta, neppure smentite.

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    Il brigatista rosso, Valeri Morucci

    La deposizione

    Lo spessore politico e intellettuale di Piperno emerge in pieno dalla deposizione resa il 18 maggio 2000 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, presieduta dall’ulivista Giovanni Pellegrino.
    In quell’occasione Piperno racconta il suo ruolo nel sequestro Moro. La vicenda è risaputa: su invito di Mario Scialoja, all’epoca direttore de l’Espresso, lo scienziato calabrese tentò una mediazione col Psi, attraverso il vicesegretario Claudio Signorile, per rompere il “fronte della fermezza”, costituito – com’è noto – da Dc e Pci.

    Nella sua deposizione, Piperno dice due cose importanti, che suonano un po’ come una smentita e un po’ come una reticenza. Afferma che il suo gruppo, che faceva capo alla rivista Metropolis, non aveva rapporti con Morucci e la Faranda e dice di non ricordare quali fossero stati i suoi contatti con le Br. Al riguardo, si spinge oltre: «Anche se li ricordassi non li direi, per un impegno d’onore».
    Poi marca la differenza tra Potere Operaio, di cui era stato leader, e le Br: anarcosindacalista e “sorelliano” PotOp; comuniste, anche d’ispirazione cristiana, le Brigate. Carica d’ironia l’accusa di “analfabetismo politico” rivolta ai brigatisti. Ma anche un’accusa facile, perché a livello culturale tra lui e Negri da un lato e i vertici delle Br dall’altro c’era un abisso.

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    Adriana Faranda, militante delle Brigate Rosse

    Resta un dubbio su due aspetti della vicenda: Morucci era comunque una conoscenza di Piperno, visto che proveniva da Potere Operaio. E, come abbiamo visto, resta agli atti l’impegno del professore calabrese per aiutarlo dopo la rottura.
    Inoltre, Morucci, pur avendo avuto un ruolo forte nel sequestro di Moro (lui e la Faranda sarebbero stati i “postini” delle Br), era entrato in collisione con l’ala militarista e mirava a negoziare. Possibile che non sia stato proprio lui il contatto di Piperno? E ancora: Flora Pirri, all’epoca moglie di Piperno, fu arrestata con l’accusa di aver partecipato all’attentato di via Fani. Fu una svista clamorosa, che – per fortuna – non ebbe conseguenze giudiziarie. Ma è una svista indicativa di come i movimenti e i legami del prof fossero più che attenzionati.

    Infine, sull’unico numero di Metropolis fu pubblicato un fumetto che raccontava in termini realistici (e corrispondenti al vero) gli interrogatori subiti da Moro. Siamo sicuri che i contatti del prof fossero persone “borderline”, come dice lui o elementi interni?
    Secondo aspetto: Gotor ipotizza che l’impegno di Piperno mirasse a discolpare gli ambienti dell’autonomia dalle accuse di collusione con la lotta armata. E questo è comprensibile, sebbene operare distinzioni in ambienti “permeabili” in cui i militanti passavano da un gruppo all’altro con facilità sia tuttora impossibile.

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    L’agguato di Via Fani in cui fu rapito Aldo Moro

    E tuttavia: perché proprio Piperno? Solo perché era figura di grande spessore e prestigio o, non piuttosto, perché in PotOp si erano formati alcuni futuri militanti delle Br?
    Su altre accuse, Piperno ha dato smentite secche. Ci si riferisce a quelle, formulate da Gotor, secondo cui lui avrebbe gestito la vicenda dell’appartamento di via Gradoli.
    Ne prendiamo atto, anche perché questa vicenda è oggetto di una pesantissima querela rivolta dalla giornalista tedesca Birgit Kraatz a Gero Grassi, ex membro della Commissione Moro 2. Ma non ci sono sue smentite su quanto scrivono Grignetti e Gotor sui rapporti con Morucci.

    La scuola delle spie

    L’aspetto più inquietante della parabola delle Br e quindi del sequestro Moro resta la scuola di lingue Hyperion, fondata a Parigi nel ’77 da Corrado Simioni, intellettuale inquieto ed ex membro del gruppo originale da cui sarebbero sorte le Brigate Rosse.
    Assieme a Simioni ebbero un ruolo in questa scuola anche Duccio Berio e Vanni Mulinaris. I tre avrebbero, inoltre, fatto parte della cosiddetta Superclan (che sta per Super clandestina), un’organizzazione scissionista delle Br, di cui non approvava le modalità operative.

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    Il corpo senza vita di Aldo Moro ritrovato in via Caetani

    Piperno nella sua deposizione afferma di non aver avuto rapporti con la scuola Hyperion. Tuttavia, secondo Priore, questa scuola avrebbe avuto rapporti con le Br: aprì una sede a Roma poco prima del sequestro Moro e questa sede era vicina a via Caetani, dove fu ritrovato il corpo dello statista. E ci sarebbe dell’altro: secondo molte accuse, mai finite in una sentenza, Hyperion sarebbe stata una “centralina” sia dei gruppi eversivi internazionali (Olp, Ira, Eta e Br ecc.) sia di alcuni Servizi segreti, tra cui Cia e Kgb. Il che riporta senz’altro a Conforto. Ma anche ad altri Servizi: in questo caso la Stasi, che aveva schedato Piperno, Morucci, Faranda, Pace e altri protagonisti di questa vicenda.
    Inoltre, un docente di Hyperion fu l’ex PotOp Toni Negri. Davvero è impossibile saperne di più?

    Inchiesta alla ’nduja

    Il contraccolpo sulla Calabria fu il blitz all’Unical dei carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto il 29 giugno 1979. Fu una maxiperquisizione senza esiti giudiziari ma seguita da polemiche aspre.
    Contro il generale si schierò Giacomo Mancini. I comunisti, in particolare Franco Ambrogio, presero posizione contro le Br.
    Altri tempi. Che sarebbe opportuno ricostruire con più chiarezza.

    Franco Piperno in una foto di qualche anno fa
  • Tra Azienda zero e Corte dei Conti, la sfida di Occhiuto plenipotenziario (ma non troppo)

    Tra Azienda zero e Corte dei Conti, la sfida di Occhiuto plenipotenziario (ma non troppo)

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    L’ultima doccia di realtà è arrivata, bella fredda, dalla solita Corte dei conti. Che proprio nei giorni scorsi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha aggiunto alla vergogna dei fondi Covid non spesi – 77 milioni di euro di cui si era già parlato a fine anno – quella, ugualmente nota, degli importi pagati per prestazioni già remunerate (quindi pagati due volte), per prestazioni extrabudget, per interessi e indennità non spettanti. Somme «veramente notevoli» che ammontano, in totale, ad «almeno 61/65 milioni di euro». Cioè a oltre due terzi del disavanzo sanitario (91 milioni di euro) emerso dall’ultimo Tavolo “Adduce”.

    La strigliata della Corte dei Conti

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    Il passato e il presente della sanità calabrese sono questo. Li ha descritti impietosamente il procuratore regionale Maria Rachele Anita Aronica parlando del «frequente ricorso, da parte dei creditori delle Aziende sanitarie e, in particolare da parte degli Enti accreditati, allo strumento della cessione di credito a società deputate istituzionalmente al recupero crediti, senza però che il credito sussista o perché già pagato o perché non esistente, per di più, talora, anche sovrastimato».

    Le transazioni si sono spesso concluse con il pagamento di crediti in realtà già saldati o di interessi «con conseguenze devastanti in caso di mancato pagamento anche di una sola rata residuale e d’importo notevolmente inferiore rispetto a quanto già pagato». Sono inoltre stati corrisposti «abnormi importi (svariati milioni di euro) per interessi, rivalutazione e spese di giudizio, a seguito di decreti ingiuntivi non opposti e alla nomina dei Commissari ad acta per l’esecuzione del giudicato».

    L’Asp di Reggio, si sa, non ha presentato i Bilanci dal 2013 fino al 2018. L’Asp di Cosenza non lo fa dal 2017. Anche le altre Aziende (sanitarie e ospedaliere) non se la passano bene: nel 2020 tutte hanno chiuso in perdita. Le Asp di Reggio e Catanzaro sono state pure commissariate per mafia. E i vari commissari alla Sanità nominati dal governo «non sono riusciti a porre fine al caos contabile e organizzativo né, d’altra parte, hanno potuto contare su un valido reale supporto di personale».

    Il deficit della Sanità aumenta

    Questo aspetto lo ha evidenziato la Corte Costituzionale in una sentenza del 2021 sul Decreto Calabria. In quel verdetto la Consulta ha scritto: «Solo nella Regione Calabria (…) le irregolarità registrate nella gestione regionale della sanità hanno assunto livelli di gravità mai riscontrati in precedenza». La Corte dei conti ci ha messo sopra il carico: «Purtroppo il caos contabile e la disorganizzazione sono inevitabilmente fonte di mala gestio e terreno fertile per la criminalità organizzata che trova nutrimento in questi fenomeni, prosperando ancor di più».

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    La Corte Costituzionale

    Un quadro «desolante aggravato dal deficit che, come è stato detto in sede di parifica, non si è ridotto in misura sensibile dopo oltre dieci anni – dal 2009 – anzi è sicuramente di molto superiore, considerato che non si dispone di alcuni dati/Bilanci certi». Per il procuratore regionale è «evidente che se non si pone fine a questa insensata situazione attraverso un’adeguata programmazione, un congruo monitoraggio e utilizzo di idonei strumenti informatici nonché di personale, qualitativamente e quantitativamente appropriato, il rientro dal disavanzo sanitario non potrà avvenire».

    Passato, presente e… Azienda zero

    Ecco, proprio questo è il punto: come se ne esce? Il presidente/commissario Roberto Occhiuto ha individuato la soluzione – non l’unica ma certamente finora la più rilevante – nella creazione di un nuovo ente, l’Azienda zero. Esiste già in altre Regioni, in cui la situazione è certamente meno grave, e dovrebbe sovrastare tutti gli altri organismi del Servizio sanitario regionale accentrando funzioni molto importanti. Per Occhiuto questo è il futuro della sanità calabrese.

    Con l’Azienda zero, e con un aiutino della Guardia di finanza, è convinto di poter tagliare sprechi, doppi pagamenti e altre varie nefandezze mettendo ordine nei conti del sistema sanitario, con tanto di sospirata quantificazione del debito complessivo della sanità calabrese entro la fine del 2022. Dall’istituzione della nuova creatura a oggi si sono però consumati dei passaggi politici e legislativi che probabilmente, tra rimandi normativi e modifiche di articoli e commi, ai cittadini sfuggono nel loro significato reale.

    Concentrato di poteri

    La legge istitutiva è stata approvata dal consiglio regionale lo scorso 14 dicembre. Tra le competenze assegnate c’è la centralizzazione degli acquisti e l’espletamento delle procedure di selezione del personale delle Aziende del Servizio sanitario. Spese e concorsi, insomma, li gestisce direttamente l’Azienda zero. Che si prende anche gli accreditamenti delle strutture sanitarie e sociosanitarie. Non proprio bazzecole, se si pensa a cosa hanno significato e significano tuttora le assunzioni e gli interessi dei privati per la sanità calabrese.

    Ci sono poi le funzioni della Gestione Sanitaria Accentrata (GSA). Si tratta di un cervellone che tiene la contabilità di tutti i rapporti economici, patrimoniali e finanziari intercorrenti fra la Regione e lo Stato, le altre regioni, le Aziende sanitarie, gli altri enti pubblici e i terzi. Pure questa non è esattamente robetta. Viene da chiedersi cosa rimanga alle Asp e a cosa serva mantenere in vita il dipartimento regionale Sanità.

    Le prime modifiche ad Azienda zero

    Comunque: un altro passaggio legislativo si è consumato lo scorso 28 febbraio. Il consiglio regionale ha approvato due proposte di legge che modificano quanto era stato previsto a dicembre per il nuovo moloch della sanità calabrese. La prima porta la firma di due fedelissimi del presidente, Pierluigi Caputo e Salvatore Cirillo. Tra gli «interventi di manutenzione normativa» hanno inserito l’assegnazione all’Azienda zero di tutto il sistema regionale dell’emergenza urgenza 118 ed elisoccorso e il numero unico di emergenza 112.

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    Roberto Occhiuto con il fedelissimo Pierluigi Caputo

    Ma non solo: il nuovo ente attuerà «la programmazione, il controllo e il monitoraggio dei Lea in materia di emergenza urgenza e pre e intraospedaliera in linea con gli indirizzi regionali e nazionali». Anche questa non una cosa da poco: i Lea (Livelli essenziali di assistenza) risultano decisivi ogni qual volta il governo verifica lo stato di attuazione del Piano di rientro.

    Il baratto tra Governo e Occhiuto

    L’altra proposta approvata a fine febbraio porta invece la firma dello stesso Occhiuto. È composta da una serie di modifiche che, con ogni evidenza, il governo ha chiesto in cambio della decisione benevola di non impugnare la legge istitutiva. In alcuni casi si tratta di refusi o di chiarimenti interpretativi. In altri proprio no. Come nel caso della cosiddetta norma di salvaguardia.

    Questa ha lo scopo di «garantire le prerogative spettanti al commissario ad acta fino al termine del periodo di commissariamento, nonché a salvaguardare l’applicazione delle norme nazionali». Sembrano passaggi tecnici, ma sono sostanziali. La norma specifica che fino a quando sarà in atto il commissariamento sono «fatte salve, nell’attuazione della presente legge, le competenze attribuite al Commissario ad acta».

    Il pallino resta in mano a Roma

    La seconda aggiunta prevede che la legge su Azienda zero si applichi «laddove non in contrasto con quanto disposto dal decreto-legge 10 novembre 2020, n. 150 (il “Decreto Calabria”, ndr). È chiaro, insomma, che il governo si è tutelato: ha messo dei paletti all’Azienda zero e ha richiamato la centralità del commissario. Che sì, al momento è sempre Occhiuto, ma ove mai si incrinasse qualcosa nei suoi rapporti con Roma, Palazzo Chigi potrebbe nominare qualcun altro togliendo il pallino della sanità dalle sue mani. La nomina del direttore generale dell’Azienda zero, che ne è il legale rappresentante ed esercita le funzioni della GSA, spetta infatti al commissario ad acta.

    Azienda zero: un nuovo carrozzone?

    Il governatore/commissario, nel dare vita alla sua creatura, si è comunque guardato dal ricalcare la frettolosità di chi guidava la Regione nel 2007. Era l’epoca Loiero-Lo Moro e, a sorpresa, il consiglio regionale, con un emendamento al collegato alla Finanziaria, cancellò le 11 Aziende sanitarie locali per creare, al loro posto, le attuali cinque Asp provinciali. L’articolo 1 della legge sull’Azienda zero dispone invece che l’ente entri in funzione solo nel momento in cui la giunta regionale approverà una delibera che ne disciplini i tempi di attuazione.

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Dunque al momento esiste solo sulla carta. E resta da vedere se la creazione di questa Azienda, che come ogni nuovo ente pubblico in Calabria è ad alto rischio carrozzone, possa davvero rivelarsi la cura giusta per le purulenti ferite della sanità calabrese. Che continuano a sanguinare debiti e disavanzo. E assorbono, come da ultimo bilancio approvato dalla Regione, il 62% delle risorse a disposizione: 3,9 miliardi di euro solo per il 2022.

  • Pane, concimi, energia: quanto pesano Russia e Ucraina sui prezzi in Calabria

    Pane, concimi, energia: quanto pesano Russia e Ucraina sui prezzi in Calabria

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    Ce l’hanno ripetuto all’inverosimile: il battito d’ali di una farfalla può provocare un tornado dall’altra parte del mondo. E la crisi scatenata dal conflitto in Ucraina, che non è propriamente una farfalla, sembra confermare il paradosso geopolitico. Anche per quel che riguarda la Calabria.

    Siamo stati risparmiati per un pelo dallo sciopero dei trasportatori, che sarebbe stata una Caporetto economica, perché la nostra marginalità geografica, combinata all’inadeguatezza delle infrastrutture, rende problematico il trasporto su gomma, che resta la forma principale di approvvigionamento.

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    Ma lo scampato pericolo (per quanto?) non ridimensiona il problema dell’aumento dei prezzi, finora avvertito nel settore dell’energia e dei carburanti.
    Fare il pieno alla macchina è un problema e le bollette del gas possono ridurre tantissimi sul lastrico. Ma può esserci di peggio: l’aumento dei prezzi del cibo o, nei casi più estremi, la difficoltà a procurarselo.

    Caro pane, Cosenza resiste. Ma per quanto?

    Il pane è l’alimento per eccellenza. E quello calabrese, lo diciamo senza alcun campanilismo, è un prodotto vincente grazie a un ottimo rapporto qualità-prezzo, che, fino a poco prima dell’inizio delle ostilità tra Russia e Ucraina, oscillava attorno ai due euro e qualcosa al chilo. Questo prezzo è rimasto stabile, finora, solo nel Cosentino, grazie ai calmieri imposti dalla grande distribuzione organizzata. Ma questa può non essere una buona notizia, perché tenere i prezzi bassi di fronte all’aumento di grano, farina e carburanti può diventare un boomerang nel medio periodo.
    L’anello sensibile della panificazione è rappresentato dai molini, che riforniscono i forni, i quali sono le aziende alimentari “di prossimità” più diffuse.
    I cinque molini calabresi sono perciò l’osservatorio perfetto per quantificare il potenziale “caro pane”, calcolabile a partire dall’aumento del grano tenero.

    Né Russia né Ucraina, ma il prezzo sale lo stesso

    Il grano più utilizzato in Calabria non è quello ucraino (per decenni il più consumato d’Europa, anche ai tempi dell’Urss) né quello russo. Bensì quello francese.
    Ma lo stop dei due grandi mercati dell’Europa orientale ha comportato il venir meno dell’effetto calmiere sui prezzi del grano occidentale, che oggi costa quasi il doppio.
    Prima di procedere è doverosa un’avvertenza: la Russia non ha messo nessun blocco all’esportazione del proprio grano. Il problema è dovuto solo all’esclusione degli istituti di credito russi dallo Swift, cioè dal sistema di pagamenti globale. In pratica, quel grano è sempre in vendita ma per noi è impossibile comprarlo.

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    Farine in un molino

    Veniamo alla forbice dei prezzi. A marzo 2021 un chilo di grano tenero costava 22-23 centesimi circa al kg. Oggi ce ne vogliono circa 47.
    Ciò comporta che i molini sono costretti a vendere la farina a circa 75-80 centesimi al kg, con un aumento significativo rispetto ai 40 centesimi al kg di marzo 2021.
    In questa lievitazione del prezzo occorre includere anche il costo dell’energia necessaria ad attivare le macchine, il costo del carburante e del packaging.

    Un euro e cinquanta in più al kg

    E il pane? Al momento si può fare solo una proiezione, secondo la quale il prezzo di un kg di pane bianco potrebbe arrivare a 3,50 euro al kg.
    Una mazzata per l’economia delle famiglie calabresi, se si considera che il pil (che non vuol dire reddito) pro capite è di 17mila e rotti euro annui.
    Al momento la situazione è sotto controllo perché la Gdo obbliga di fatto i forni del cosentino a vendere il pane a circa 2 euro e rotti al kg, che mantengono relativamente bassi i prezzi in tutta la regione. Ma questo calmiere rischia di diventare una tagliola per i forni, che prima o poi saranno costretti ad aumentare e quindi a portare i prezzi del pane ai livelli di Lazio e Campania…

    pane

    Anche il fai da te è proibitivo

    Se comprare il pane potrebbe diventare proibitivo, ricorrere al “fai da te”, per cucinare pizze e focacce in casa come ai tempi del lockdown è già quasi impossibile: il prezzo della farina al supermercato è lievitato notevolmente.
    Il prodotto più gettonato, in questo caso, è la farina “0”, indicata per la panificazione casareccia e per i rustici: un chilo costa al consumatore tra gli 85 e i 90 centesimi, con un aumento medio di quasi 40 centesimi rispetto ai 52 centesimi di marzo 2021.
    In questo caso, spiegano gli addetti ai lavori, l’aumento è dovuto al maggior uso del packaging e alla distribuzione.

    Non solo pane: il problema con i concimi

    Si dice paniere perché il riferimento principale è il pane. Ma nel paniere ci entra di tutto. E questo “tutto”, cioè carne, frutta e verdura, si misura attraverso un elemento base: il concime, che incide direttamente nella produzione vegetale, e in maniera meno diretta nella produzione delle carni.
    In questo caso, l’aumento è vertiginoso: circa del 90%.

    Grazie all’economia “di guerra” in cui si trova l’Italia (senza, per inciso, aver sparato neppure un colpo), sono diventati introvabili fosforo e potassio e inizia a scarseggiare l’azoto. In Calabria, l’aumento di queste materie prime per i fertilizzanti incide ancor di più, visto che non sono prodotte sul territorio ma devono arrivarci attraverso il trasporto su gomma e scontano il raddoppio del prezzo del carburante.
    Ciò comporta un aumento di almeno il 20% potenziale del prezzo dei prodotti della nostra agricoltura.

    Fuori pericolo, almeno al momento, le carni. Ma anche questa non è una buona notizia: la scarsità dei mangimi di origine vegetale costringe non pochi allevatori ad abbattere i capi. Questa scelta obbligata, nel breve periodo può ridurre in maniera sensibile il costo della carne. Tuttavia, nel medio periodo provocherà aumenti sensibili, visto che molte aziende andranno in crisi e, dopo la fine della sovrabbondanza, saranno costrette ad alzare i prezzi in maniera imprevedibile.

    Gas e petrolio, la speculazione oltre la guerra

    Non è tutta colpa di Putin, c’è da dire. Anzi, il presidente russo, al riguardo, si è dimostrato meno guerrafondaio del solito e si è detto meravigliato dell’aumento del costo dell’energia in Occidente visto che, ha ribadito, la Russia non ha chiuso i rubinetti.
    Ciò significa che, dietro le quinte della narrazione “bellica”, agisce una forte speculazione. Detto altrimenti, i grandi distributori avrebbero ammassato le materie prime per lucrare l’aumento dei prezzi indotto dalla scarsità, che a questo punto è dovuta solo in parte alla crisi ucraina.

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    Vladimir Putin

    Difficile prevedere quando si potrà tornare alla normalità. Se le operazioni belliche cessassero a breve e Russia e Ucraina trovassero un accordo soddisfacente, il prezzo degli alimenti, a partire dal grano calerebbe nel giro di un mese.
    Ma non tornerebbe ai prezzi di dicembre perché continuerebbe a pesarvi il costo dell’energia, che ci metterebbe di più, almeno sei mesi, per rientrare a livelli di guardia.
    E la Calabria sconterebbe più a lungo, almeno per un mese in più, l’instabilità energetica per via della sua marginalità geografica, che rende più oneroso il trasporto su gomma.
    Finché c’è guerra c’è speranza: era il titolo di un’amarissima commedia di Alberto Sordi. Gli speculatori concordano.

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    Alberto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza
  • Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Reduce da un recente viaggio di lavoro a Napoli, nel muovermi per la città tra le bellissime stazioni della più originale metropolitana d’Europa e alcuni eccezionali Musei, mi torna ogni volta in mente quanto dobbiamo alla cultura napoletana nel nostro territorio, soprattutto a Cosenza e nella sua estesa provincia.

    Tra le cose che ormai da tempo mi colpiscono, la profonda differenza tra lo stato di degrado e illegalità diffusa di Cosenza, con la totale mancanza di rispetto di ogni minima regola civica, dal parcheggio in doppia/tripla fila, fino alla occupazione selvaggia di strade, marciapiedi, spazi pubblici ad opera delle automobili. Mentre scorgo che a Napoli, ancora di più oggi sotto la guida di Gaetano Manfredi, si torna ad osservare una città vivibile e ordinata, in cui i vigili urbani e polizia non sono chiusi negli uffici, ma si muovono in strada per garantire legalità e rispetto delle regole, soprattutto non fanno finta di non vedere la diffusa illegalità, ma la perseguono.

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    La stazione Toledo della metropolitana di Napoli

    Se ce l’ha fatta Napoli, perché non Cosenza?

    Mi chiedo, se ci sono riusciti a Napoli, che pareva luogo indomabile, perché a Cosenza, di gran lunga più piccola e controllabile, tutto questo non è possibile? Di chi le responsabilità? Perché non si agisce in direzione di un ripristino del rispetto minimo delle regole di vita quotidiana che peraltro paralizzano il traffico, non già a causa di qualche strada pedonalizzata, ma proprio per l’intasamento degli assi viari principali e secondari a causa di soste selvagge e illimitate e la enorme quantità di auto circolanti?

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    Cosenza, auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Tanta Napoli a Cosenza

    La seconda riflessione, senza dubbio più di visione e prospettiva, mi sovviene per la lunga sequenza di storie, esperienze, collegamenti che la storia ci ha consegnato nel rapporto tra Napoli e Cosenza, a partire dal nostro dialetto e dalle evidenti influenze terminologiche napoletane, fino alla cucina e alle arti minori e maggiori, come i segni evidenti nell’architettura religiosa e civile in cui tracce di modelli e manodopera napoletana sono fin troppo palesi.

    Una collaborazione da ampliare

    Da qui sorge la mia domanda del perché con Napoli, nel recente passato, e da lungo tempo, nessuno mai abbia pensato, soprattutto in ambito pubblico, culturale, museale, economico, di costruire una solida collaborazione, che vada oltre il consolidato canale accademico tra le università, e si prefigga lo scopo di una sinergia di lunga durata, capace di garantire un sostegno a molte attività locali che pagano il prezzo di un isolamento geografico e strategico, anche per la mancanza di centri urbani competitivi in Calabria.

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    L’Università della Calabria

    Napoli è una delle più grandi città calabresi (come Roma del resto), a poche ore di treno, a poche distanze etniche, con una importante dotazione di attività a vario livello, dai centri di ricerca, al commercio, alle fiere ed eventi di richiamo nazionale. Napoli è la cruna dell’ago da cui passa, sta passando, passerà un riscatto del Sud, e senza un legame con questa realtà, locomotiva lenta ma robusta, il rischio, della parte alta del meridione in cui Cosenza ricade, è perdere di vigore e capacità dinamiche.

    Dai musei di Napoli a quelli di Cosenza e Rende

    Per queste, e ancora altre ragioni, penso, ad esempio, alla condivisione di importanti opere d’arte, con strutture museali di Cosenza, Rende, altrove possibile, non solo perché a Napoli i depositi dei musei traboccano di opere che non si possono esporre per carenza di spazio – e in questa direzione va una recente direttiva del Ministero della Cultura, che prevede il prestito a musei di provincia di opere chiuse in depositi – ma anche per stabilire circuiti espositivi e culturali dinamici e attrarre qui, grazie a opere di peso, un certo numero di turisti interessati a percorsi culturali e d’arte.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Penso inoltre alla ridotta estensione e qualità delle nostre stagioni teatrali, e a come si potrebbe collegare a quella di teatri napoletani, anche sperimentali, per avere opportunità di inserirsi in circuiti significativi, e rinnovare un rapporto speciale che ha interessato le due culture, quella napoletana e cosentina, calabrese in generale.

    C’è da preoccuparsi

    Per questo viene in mente che alla costante perdita di attrattività, a favore di altre realtà urbane, Cosenza potrebbe almeno tentare di opporre una robusta collaborazione con realtà che possano, anche solo in parte, sottrarla a questo progressivo impoverimento, tra cui senza dubbio Napoli, per evidenti ragioni storiche e culturali. Al contrario, la deludente sensazione di questa stagione di fallimenti, corroborata, purtroppo dalla quotidianità cosentina, è che in questa città, ora e in precedenza, non sembra emergere una preoccupazione, collettiva, pubblica e privata, nel fare leva sulle significative opportunità latenti e allontanare la realtà sempre più deludente.

    Vedi Napoli e poi risorgi

    Cosenza sembra essere passata da una presunta dimensione nazionale ad una paesana, ovvero dalla ricerca di consenso attraverso un effimero marketing urbano, alla soluzione di problemi spiccioli, ignorando e seguendo nell’abbandono del grande e prezioso centro storico, il quale, nella costruzione di una visione di cosa potrà essere la città di domani, dovrebbe avere un ruolo centrale. Restano solo gli eccessi trionfalistici di faraonici sogni urbanistici che si infrangono con la mancanza assoluta di uno sguardo progettuale concreto, tanto visionario, quanto fattivo.

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    La statua di Alarico ai piedi dei resti dell’Hotel Jolly, che avrebbe dovuto ospitare un museo dedicato al re barbaro (foto Alfonso Bombini)

    Se “vedere Napoli e poi risorgere”, quindi non morire, come recitava la famosa frase, nelle forme più significative auspicabili, potrebbe aiutare Cosenza a rinnovare il suo presente e futuro, i passaggi non sono poi così complessi e impossibili, ma ancora una volta la volontà potrebbe vincere sull’immobilismo e sulla minaccia, incombente, di fallimenti.

  • Piccoli ma non fessi: la città unica oltre Cosenza e Rende

    Piccoli ma non fessi: la città unica oltre Cosenza e Rende

    Un lenzuolo troppo corto per coprire i territori e, soprattutto, chi li abita.
    L’area urbana di Cosenza risulta problematica non solo nella sua versione “minima”, che comprende il capoluogo, Rende e Castrolibero, ma persino in quella maxi che, a seconda delle scelte politiche, dovrebbe estendersi o a nordest, in direzione Sibari, o a sud, verso il Savuto.

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    Franz Caruso, sindaco di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Si badi bene: non sono scelte neutrali. Mirare a sud significa avvantaggiare Cosenza e i Comuni sulla vecchia via del mare (Dipignano e Carolei) e alle pendici del Monte Cocuzzo (Mendicino e Cerisano). Puntare a nord, invece, vuol dire riproporre la centralità di Rende, che farebbe leva sulla vicina Montalto e ridimensionerebbe non poco il capoluogo.
    Non è un caso che, durante la campagna elettorale di settembre Franz Caruso abbia rilanciato l’idea di “area vasta” o “area urbana allargata”, cioè estesa ai paesi a sudest.

    Ed è certo che anche il recente braccio di ferro sull’ospedale – che i rendesi vogliono nei pressi dell’Unical e i cosentini a Vaglio Lise – sia motivato dalle stesse dinamiche.
    L’area vasta puntellerebbe l’ipotetica “Grande Cosenza” a Sud e le eviterebbe il confronto diretto con Rende, che al momento sarebbe micidiale per la città dei bruzi.
    Una geopolitica su scala provinciale, non meno pericolosa di quella vera, perché chi perdesse la sfida sarebbe condannato allo spopolamento, dovuto all’aumento delle tariffe e al calo dei servizi.
    Ovviamente, i conti si fanno con gli osti, cioè i sindaci di tutti i comuni potenzialmente interessati.

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il ruggito di Orlandino

    Il nodo cruciale dei due modelli di area urbana è Castrolibero, che ha ancora molto da dire, visto che è uno dei territori più ricchi del Sud come reddito pro capite.
    Castrolibero è incuneato tra Cosenza e Rende, con cui confina senza alcun ostacolo fisico: solo la segnaletica chiarisce in quale Comune ci si trova.
    Orlandino Greco – attuale vicesindaco ed ex sindaco di Castrolibero, ex presidente del Consiglio provinciale di Cosenza ed ex Consigliere Regionale – esprime una preoccupazione non proprio trascurabile: la sua cittadina potrebbe essere schiacciata dalle due importanti dirimpettaie. Anche a livello economico: «Rende», spiega Greco, «è in predissesto e Cosenza ha un dissesto importante, difficile da risolvere in breve». Perciò il dubbio è lecito: tutto ciò che si trova attorno rischierebbe di essere risucchiato dai passivi delle due città leader.

    Grande Cosenza? Niente fusioni a freddo

    Per Orlandino è, quindi, inutile ipotizzare «fusioni a freddo, come nei casi di Corigliano-Rossano o dei Casali del Manco, che mi sembrano situazioni fallimentari, visto che parliamo di territori caratterizzati da importanti disparità fiscali e tariffarie interne e tuttora agitati da campanilismi duri a morire».
    Secondo Greco l’area urbana dev’essere disegnata «cerchi concentrici e non, come ipotizzava Sandro Principe, a linea retta». L’ipotesi del vicesindaco è piuttosto chiara: un nucleo basato su Cosenza, Rende e Castrolibero che attrarrebbe tutto ciò che lo circonda in maniera virtuosa.

    L’ex consigliere regionale e leader di Idm, Orlandino Greco

    No al modello Principe

    Già: «Il modello di Principe darebbe una certa baricentricità a Rende, ma trasformerebbe tutto il resto, a partire dal capoluogo, in una periferia». Il modello di Greco, al contrario, «farebbe perno su Cosenza e rispetterebbe tutti».
    In quest’ottica, Castrolibero avrebbe fatto già dei passi importanti per due fattori almeno: il Psc e il sistema dei trasporti pubblici. «Noi abbiamo integrato l’Amaco nel nostro territorio e abbiamo impostato il Piano strutturale comunale in modo da poterci allineare subito a un progetto urbanistico condiviso». Ma questo progetto non può essere sviluppato nel breve periodo: «Occorre partire dalla condivisione dei servizi per dare uguali chance a tutti gli abitanti del territorio, perché non serve a nessuno una città enorme ma piena di periferie poco servite».

    Caracciolo tira a nord

    Montalto Uffugo è stata considerata a lungo un satellite della “Grande Cosenza” per via della sua “eccentricità”: non sfiora neppure il capoluogo, ma è collegata solo a Rende attraverso Settimo.
    Pietro Caracciolo, il sindaco della cittadina che ispirò “I Pagliacci” a Leoncavallo, è consapevole di questa particolarità e, ovviamente, tira a nord. «Ripeto quel che ho già detto per l’Ospedale, che deve sorgere a Rende: nella nostra zona verrà realizzato un secondo svincolo della A3, inoltre sono in fase di realizzazione il ponte che unirà ancor di più le nostre zone industriali e sono in cantiere molte iniziative che faranno di Rende e Montalto le aree più infrastrutturate della provincia».

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    Pietro Caracciolo, sindaco di Montalto Uffugo

    Morale della favola: la “Grande Cosenza” dovrà comunque servire tutto il territorio provinciale, che è uno dei più grandi del Paese «e l’area a nordest è l’unica veramente baricentrica sia verso lo Jonio sia verso il Tirreno». Montalto, in altre parole, è una gemella siamese di Rende, che mira ad approfittare dei vantaggi della città sorella: l’Università innanzitutto, ma anche la zona industriale, prossima alla fusione territoriale con la propria. Il blocco Rende-Montalto darebbe non poco filo da torcere.

    Carolei non vuole essere periferia della Grande Cosenza

    Carolei, all’estremo opposto di Montalto, sconta un grosso fallimento urbanistico e un dissesto recente, subito e tamponato alla meno peggio da Francesco Iannucci, sindaco dal 2017.
    Il fallimento si chiama Vadue, la grande frazione residenziale che ha avvicinato il paese all’ingresso sud di Cosenza, tra piazza Riforma e viale della Repubblica. Negli anni ’80 Vadue era considerata la “zona dei ricchi”, ora è diventata una periferia quasi priva di servizi, in cui solo l’edilizia privata, basata su ville e palazzine, mantiene qualche ricordo del passato glorioso e delle promesse mancate.

    Francesco Iannucci, sindaco di Carolei

    La diffidenza è il minimo. E Iannucci la esprime non troppo tra le righe: «In linea di principio sarei d’accordo», spiega il sindaco. Ma il problema è il “come”. Già: «Cosa guadagnerebbero in concreto gli abitanti di Carolei e dei paesi a Sud dall’area vasta? Se a questo progetto corrispondesse un’idea di sviluppo, si proceda pure, altrimenti non converrebbe a nessuno diventare periferia di un’area che avrebbe il suo centro ad almeno dieci chilometri di distanza». Meglio iniziare da una condivisione dei servizi e poi chi vivrà vedrà.

    La geopolitica di Dipignano

    Una cosa è sicura: Gaetano Sorcale, docente universitario di Relazioni internazionali, si intende di geopolitica e diplomazia. E le applica come può per favorire Dipignano, di cui è sindaco da poco più di un anno.
    Dipignano confina con Cosenza attraverso Laurignano, nel cui territorio ricade una parte di Molino d’Irto, l’antica zona industriale di Cosenza.
    A dirla tutta, Laurignano sembra una frazione del capoluogo, «visto che su 1.800 residenti più di mille sono cosentini».

    Gaetano Sorcale, sindaco di Dipignano e docente universitario

    Secondo il sindaco l’estensione a sud dell’area urbana darebbe grosse possibilità non solo al suo Comune, ma anche alla stessa Cosenza: «Nel nostro territorio potrebbe passare benissimo il secondo svincolo sud della A2, che decongestionerebbe il traffico cittadino, diventato problematico dopo le trasformazioni urbanistiche dell’era Occhiuto». Inoltre, la maggiore disponibilità di territorio di Dipignano «consentirebbe uno sviluppo equilibrato dell’area, che si potrebbe bilanciare a sud».
    Tuttavia, secondo Sorcale, non sarebbe un processo di breve periodo: «Occorre uno sviluppo per fasi: iniziamo a mettere assieme i servizi, a progettare assieme lo sviluppo urbano e la grande città verrà da sé».

    In alternativa c’è Pandosia

    Se la “Grande Cosenza” dovesse risultare problematica, nessuna paura: ci sarebbe sempre Pandosia, il progetto lanciato da Mendicino circa otto anni fa.
    Si tratta di un maxicomune che comprenderebbe nove paesi per un totale di circa 30mila abitanti. Un secondo Casali del Manco, ma più grande che aggancerebbe una buona fetta di Appennino al capoluogo.

    Antonio Palermo, sindaco di Mendicino

    Già, spiega Antonio Palermo, il sindaco di Mendicino: «Il mio territorio non è solo parte dell’area urbana ma è anche un elemento fondamentale delle Serre Cosentine».
    Pertanto «non siamo obbligati a diventare una periferia ma possiamo sempre scegliere se e come diventare “grandi”». Ovvero: se nessuno garantisce lo sviluppo equilibrato della “Grande Cosenza”, possiamo sempre creare una realtà più vasta che ci consentirà economie di scala piuttosto importanti.
    Proprio in quest’ottica deve essere interpretato il sostegno dato da Palermo all’idea di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise: «Se parliamo di grande città, il capoluogo deve essere baricentrico, altrimenti è un nonsenso». Sui tempi e modi di questa realizzazione, Palermo si allinea agli altri sindaci: «Iniziamo con la gestione comune dei servizi e poi si vedrà».

    Lucio Di Gioia, sindaco di Cerisano

    Cerisano ha già l’aria buona

    Il meno interessato sembra essere Lucio Di Gioia, il sindaco di Cerisano, che non ha confini diretti con Cosenza.
    «Il nostro vantaggio è essere un borgo in mezzo alla natura, che consente una buona qualità di vita», spiega il primo cittadino. Quindi «entrare in un’area più vasta può essere utile solo se ne ricavassimo più servizi di migliore qualità». Per il resto, «diventare una periferia non ci serve».

    Quattro case e un forno

    Rende e Cosenza duellano per chi deve essere la prima della classe. Gli altri diffidano. Forse perché, sussurrano i maligni, la fascia tricolore piace a tutti, anche se consente di amministrare a malapena le famose “quattro case e un forno”.
    O forse perché, alla fin fine, i campanili piacciono a tutti. La vera sfida sarà la costruzione dal basso della grande città. E, date le premesse, non sarà un processo breve né facile.

  • Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Nella Calabria delle aspiranti capitali deluse (Diamante e Capistrano), di quelle che ce l’hanno fatta ma si sono impelagate nelle polemiche (Vibo) e di quelle che sognano a occhi aperti facendo finta di non vedere la realtà (la Locride), la cultura resta una chimera. Per lo più se ne fa materiale da brochure o da programma elettorale, e a decretarne gli indirizzi sono spesso personaggi mitologici, metà direttori artistici e metà amministratori locali, in una promiscuità di rapporti e funzioni che prescinde quasi sempre dalle reali competenze.

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    La squadra fortissima di Primavera dei teatri: da sinistra Settimio Pisano, Dario De Luca e Saverio La Ruina

    Nell’attuale giunta regionale nessuno detiene la tradizionale delega perché se n’è scelta una più modernista («Attrattori culturali»). Il marketing però è un’altra cosa. E molto di ciò che si spaccia per arte e cultura è in verità commercio puro: nomi altisonanti usati per fare quantità, bandi discutibili e progetti di dubbia consistenza a drenare finanziamenti. Ma va anche sfatato il luogo comune della mancanza di risorse: i soldi, per la cultura in Calabria, ci sono. Lo conferma Settimio Pisano, che da anni si occupa di curatela nel campo del teatro e delle arti performative. È quello che si dice un addetto ai lavori (direttore generale e responsabile della programmazione internazionale del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, nel 2019 ha ricevuto il Premio UBU come “Miglior curatore/organizzatore”) e, per questo, gli abbiamo posto qualche domanda.

    Molto banalmente: in Calabria, con la cultura, si mangia?

    «Certo. Nel comparto lavorano migliaia di persone e intorno si genera un indotto importante. Bisognerebbe fare molto di più, non soltanto immettendo più denaro nel settore ma gestendolo meglio. Il punto non sono le risorse, ma come vengono impiegate».

    Che tipo di problemi riscontrano i lavoratori del settore nel rapporto con gli enti pubblici calabresi, in particolare con la Regione?

    «Bisogna prendere atto di una situazione evidente: la Regione Calabria non è in grado di gestire efficacemente il settore artistico-culturale e non potrà farlo finché non si doterà di specifiche competenze professionali. In oltre vent’anni di attività ho visto decine di assessori, dirigenti e funzionari. Molti sono stimati professionisti e si sono spesi con rigore e sensibilità per svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia i problemi permangono, anzi si aggravano col tempo».

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    La sede della Giunta e degli uffici regionali a Germaneto

    Perché?

    «La scarsa considerazione di cui gode il settore artistico e la conseguente trascuratezza gestionale, le pastoie burocratiche e l’incapacità della politica di governarle, sono questioni che hanno un peso determinante. Ma la faccenda è più complessa».

    Come sempre. Ma provi a spiegarlo…

    «C’è un problema strutturale. L’organizzazione della Regione e le sue competenze interne non sono adeguate costitutivamente a governare il settore. Serve un ente intermedio, sul modello delle Film Commission regionali, che abbia al suo interno le professionalità e le competenze adeguate. Una Calabria Live Commission, un’istituzione a partecipazione pubblica e privata in grado di produrre una visione corretta, tempi di programmazione certi, conoscenza specifica e sul campo delle varie discipline artistiche, un alfabeto comune con gli addetti ai lavori, regole impermeabili all’invasività della politica e ai cambi di amministrazione, avvisi pubblici redatti in base a obiettivi reali con adeguate azioni di monitoraggio e valutazione dei progetti.

    Gli operatori del settore artistico sono professionisti e meritano una governance all’altezza. Alla guida del settore servono profili professionali precisi: curatori, mediatori culturali in grado di coniugare sensibilità artistica e competenze manageriali, riconosciuti e attivi in ambito nazionale ma ancorati al territorio regionale. Soprattutto non servono artisti: gli artisti facciano gli artisti».

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Con Roberto Occhiuto alla Cittadella non è cambiato niente?

    «È un po’ presto per valutare l’operato della nuova Giunta. Certamente la cultura non è stata tra le priorità di questi primi mesi. Adesso però è urgente darsi una mossa. Ma sono certo che il presidente Occhiuto abbia la giusta sensibilità per affrontare e migliorare la situazione, del resto da consigliere regionale nel 2004 ha redatto e firmato la prima Legge regionale sul Teatro».

    Ma ci saranno anche delle lacune dall’altro lato, quello di chi “produce” arte, no?

    «La lacuna più grave è l’incapacità di produrre un’offerta artistica plurale e di alta qualità. A guardare i principali cartelloni è evidente un’omologazione su un tipo di offerta mainstream, commerciale, di puro intrattenimento. Offerta assolutamente legittima per la quale, al limite, si può discutere della reale necessità di sostegno con soldi pubblici. Ma è possibile che i calabresi restino esclusi da quanto accade nel panorama artistico contemporaneo nazionale e internazionale? In Europa il paesaggio artistico è in continua evoluzione, è in atto un ricambio generazionale che sta portando innovazione nei linguaggi, nei contenuti, nelle estetiche».

    Mentre qui a che punto siamo?

    «Beh… mi chiedo con quale orizzonte artistico, culturale, estetico stiamo crescendo i nostri figli. Gli stiamo offrendo le stesse possibilità di visione, di formazione del gusto, di riflessione sulle nuove forme d’arte e di cittadinanza, di partecipazione al dibattito culturale che hanno i loro coetanei italiani ed europei? La risposta è no. E non è semplicemente responsabilità di cattive politiche pubbliche, che pure sono determinanti. Il punto è la qualità di un’offerta che, nella maggioranza dei casi, è fortemente provinciale e sempre uguale a sé stessa. È un problema, ancora, di profili professionali non adeguati a produrre un rinnovamento nella proposta artistica. È un problema di mancato confronto col resto del mondo, di mancata conoscenza di quanto accade oltre i confini regionali nelle arti contemporanee. Vero, ci sono le eccezioni: esistono alcune realtà che spingono in direzioni nuove, ma sono poche e limitate a contesti dai quali fanno molta fatica ad uscire per raggiungere un pubblico più ampio».

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    Il TAU, Teatro auditorium dell’Unical

    Come si può sprovincializzare la cultura in Calabria?

    «Confronto, confronto e ancora confronto con quello che succede fuori da casa nostra. Visione, conoscenza, ibridazione: per i cittadini e per gli artisti. Per questi ultimi anche di più: gli artisti sono i primi a chiudersi nel loro studio o nel loro teatro e a ignorare quanto accade fuori. E questo è un problema serio per la Calabria, dove quasi tutti gli operatori del settore si definiscono artisti. Dal punto di vista politico, poi, è necessario rafforzare le poche esperienze che stanno dimostrando di aprirsi all’esterno e al nuovo, accompagnarle verso una crescita che le affranchi dalla condizione di isolamento e subalternità».

    Il rapporto tra politica e cultura, in Calabria, sembra ancora passare per altre dinamiche…

    «È necessaria un’inversione del paradigma secondo il quale la proposta “istituzionale” è quella mainstream, mentre il resto è sperimentazione per pochi eletti. La prima, pur legittima e gradevole, è tuttavia il passato, è un orizzonte limitato che ci impedisce di guardare oltre. “Il resto” è il presente e il futuro, è la strada per riavvicinarci al resto d’Italia e d’Europa, per contribuire alla crescita di una generazione di cittadini più consapevoli e critici in grado di desiderare, immaginare e infine costruire un futuro diverso. È necessaria una rottura, un ribaltamento di prospettiva, un cambio di passo deciso e improvviso. La comunità artistica calabrese deve farsene carico».

  • Cosenza e Rende: due poli, una città

    Cosenza e Rende: due poli, una città

    L’ipotesi di dare vita a un’altra Cosenza, una Cosenza diversa che comprendesse un’area vasta, una realtà urbana che tenesse in conto realtà urbanistiche contigue non solo da un punto di vista urbanistico-funzionale ma anche culturale e per alcuni versi antropologico oltre che sociologico non è materia originalissima.
    La riprendono su queste colonne nei giorni scorsi e con accenti e contenuti intrecciati fra loro Giacomantonio, Paletta, Spirito e il direttore Pellegrini, prendendo spunto, presumo, da taluni segnali, o forse è il caso di definirli vagiti, che sono trapelati dalle agenzie.

    Cosenza e lo sviluppo verso Rende: ostacoli o interessi da tutelare?

    La contiguità topografica dei territori cis e ultra il Campagnano è evidenza inconfutabile sottolineata da fenomeni di conurbazione moltiplicatisi negli anni che rendono non distinguibili i contorni separati delle due città che si sono sviluppate lungo l’asse sud-nord in sinistra Crati. Un asse che tipizza lo sviluppo longitudinale sacrificando le aree meridionali in virtù di presunte insormontabili osticità di tipo morfologico e ortografico mentre, più in aderenza alla realtà, sarebbe il caso di parlare di rendite fondiarie e grandi proprietà.

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    L’Università della Calabria

    Perché, è da chiedersi, un’ipotesi di area urbana vasta, che mettesse insieme Cosenza, Rende e oltre, non è mai andata al di là di puntuali e singole enunciazioni? È mancata la volontà degli amministratori, l’adesione dei cittadini, l’autorevolezza dei proponenti, sufficiente chiarezza di intenti? È possibile, e il coacervo di tante cause insieme potrebbe dar conto del perché si è fermi al palo, ma parimenti induce a una verifica attenta e aggiornata, oggi, della sua percorribilità oltre che opportunità.

    Due poli, una città

    Anni fa, con Empio Malara ci mettemmo a tavolino, guardammo carte, studiammo, scrivemmo articoli, proponemmo di far nascere un’altra Cosenza, un’altra Rende, insieme a Mendicino, Castrolibero… Parallelamente l’Associazione Prima che Tutto Crolli aveva finalizzato la sua copiosa attività nella redazione e pubblicazione di un Libro Bianco, che aveva il suo fuoco, sì, sul Centro Storico cosentino ma ponendolo ed esplicitandolo come polo binario nei confronti di un altro polo, quello di Unical in territorio rendese. C’è un background, voglio dire, di lavoro, elaborazione, anche coinvolgimento che conserva attualità e, meglio ancora, lucida prospezione verso il futuro.

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    Il centro storico di Cosenza

    La storia e il futuro insieme

    È una sfida che occorre rilanciare, una sfida alta, che riprenda concetti basilari quali pianificazione e programmazione, che introduca anche da noi l’idea di città circolare, che metta al centro la cultura della storia, il Centro Storico cosentino, e quella del futuro, l’università.
    Un’attenta lettura del PNNR varato dal governo assegna un ruolo centrale ai sindaci e alle municipalità in generale, vero nodo nevralgico dell’impalcatura chiamata a gestire risorse finanziarie di portata più che considerevole, che richiamano una strutturale riqualificazione, una ridefinizione delle città, specialmente al Sud. Isaia Sales ne ha denunciato debolezze e limiti accresciuti progressivamente.
    A Villa Rendano, anni fa, la Fondazione Giuliani molto si impegnò in tal senso: forse i tempi non erano maturi, è probabile fosse necessario lasciar decantare ancora alcuni processi, oggi val la pena riprovarci.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario dell’Università della Calabria ed ex senatore della Repubblica

  • Donne d’Ucraina, un 8 marzo di guerra e non di festa

    Donne d’Ucraina, un 8 marzo di guerra e non di festa

    Non potevamo non dedicare il nostro pensiero alla festa delle donne, che l’8 marzo celebrano una ricorrenza che è ormai diventata di tutti noi che riconosciamo nelle nostre mogli e compagne, nelle nostre figlie e madri, nelle nostre amiche e colleghe il contributo prezioso che ciascuna di loro con le proprie virtù e possibilità reca alla comunità intera.

    Avremmo voluto utilizzare una foto di donne che si spendono oggi nelle strutture ospedaliere contro il Covid e le altre patologie passate sotto silenzio. O una foto di studentesse e lavoratrici, di donne che valorizzano le famiglie soprattutto quando le difficoltà della vita si fanno sentire.

    Ma la nostra scelta convinta è stata quella di mostrare una donna ucraina, perché lì le donne stanno pagando un prezzo indicibile di dolore e di angoscia per i propri figli, compagni, amici, per tutto il popolo ucraino.
    L’8 marzo è una “festa”, la festa delle donne in ogni angolo del mondo. In Ucraina non c’è festa, c’è morte.
    Alle eroiche donne di Ucraina, simbolo di ogni donna, il nostro abbraccio.

  • Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    In Calabria si contano 327 comuni con meno di 5.000 abitanti, su un totale di 404 enti locali: rappresentano l’80,9% del totale, una delle percentuali più alte tra le regioni italiane. Un terzo della popolazione calabrese vive in questi piccoli comuni. Ma è il nanismo istituzionale che si esprime sul territorio mediante una maggiore frammentazione.
    Sono 17 in Calabria i comuni con meno di 500 abitanti: sette di questi, quasi la metà, sono concentrati nella sola provincia di Cosenza: Carpanzano, Castroregio, Panettieri, Nocara, Alessandria del Carretto, Serra d’Aiello, Cellara. Quando i comuni sono polverizzati per numero di abitanti, è davvero difficile poter offrire ai cittadini servizi adeguati alle necessità.

    Comincia spesso in questi casi un pendolarismo territoriale alla ricerca delle condizioni compatibili, che in diversi casi, come nella sanità, conduce alla l’approdo verso altre regioni del Paese, nella maggior parte dei casi verso il Settentrione.
    Questa realtà vale, sua pure con un caratteristiche meno accentuate, per l’intero territorio nazionale. Su poco meno di 8.000 comuni presenti in Italia, se ne contano 882 comuni con meno di 500 abitanti; quelli con meno di 1.000 abitanti sono poco meno di 2.000.

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    Alessandria del Carretto vista dall’alto

    Poche unioni di Comuni in Calabria

    Per rispondere a questa eccessiva frammentazione del modello istituzionale ed organizzativo, si è adottata la formula della Unione dei comuni, in modo tale da assicurare una migliore erogazione dei servizi ai cittadini. Non dappertutto questa formula è stata utilizzata con la stessa capacità di superare i localismi nell’interesse delle comunità presenti sul territorio. Sono soltanto 12 le unioni di comuni in Calabria, su 564 che se ne contano in Italia: una percentuale pari appena al 2,1%. La scarsa utilizzazione della formula della Unione dei comuni ha impedito di mettere assieme fattori e risorse per assicurare una migliore risposta ai cittadini.

    L’ente consorziato è costituito da due o più comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di competenza comunale.
    L’Unione di comuni è dotata di autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione, dalle norme comunitarie, statali e regionali. A questo istituto si applicano, per quanto compatibili, i princìpi previsti per l’ordinamento dei comuni, con specifico riguardo alle norme in materia di composizione e numero degli organi dei comuni, il quale non può eccedere i limiti previsti per i comuni di dimensioni pari alla popolazione complessiva dell’ente.

    Casali del Manco è tra i pochi Comuni calabresi nati dopo la fusione di diversi enti di minori dimensioni

    Cui prodest?

    Per quale motivo non si è affermato anche in Calabria, ed in generale nel Mezzogiorno, un disegno di razionalizzazione degli enti locali capace di dare risposta ai bisogni del territorio? Se continua a prevalere la frammentazione istituzionale vuol dire che il territorio ricava la sua convenienza: a partire dalle organizzazioni criminali, che hanno sempre da guadagnare dalla debolezza istituzionale, per finire alle consorterie politiche, che evidentemente trovano vantaggioso moltiplicare le poltrone per governare meglio il controllo del consenso.

    La frammentazione istituzionale del Mezzogiorno trova radici antiche: da un lato conta un fattore sociologico permanente, che resta ancora primario rispetto al resto del Paese, vale a dire quel familismo amorale studiato proprio in Calabria da Edward C. Banfield negli anni Cinquanta del secolo passato. D’altro lato pesa una classe dirigente politica più attenta a preservare le poltrone del potere rispetto alla soddisfazione degli interessi e dei diritti del cittadino.

    Il contesto normativo

    Eppure, il contesto normativo ha definito anche sistemi di incentivazione per spingere verso le unioni dei comuni ed anche verso altre forme più spinte di aggregazione. La fusione di uno o più enti, con l’istituzione di un nuovo comune, costituisce la forma più compiuta di semplificazione e razionalizzazione della realtà dei piccoli centri. Anche le fusioni di comuni godono di incentivi statali.

    L’entrata in vigore dell’esercizio obbligatorio di tutte le funzioni comunali dei piccoli comuni è stato prorogato più volte, da ultimo al 31 dicembre 2022 da parte del DL 228/2021. Si contano sinora nove proroghe, ma ora dovremmo essere al punto di non ritorno. Questo ennesimo appuntamento dovrebbe indurre ad accelerare non solo ragionamenti, ma anche decisioni, per accorpare i comuni di piccole dimensioni e per raggiungere quelle masse critiche necessarie per una maggiore efficienza amministrativa.
    Insomma, non resta molto tempo per superare una organizzazione comunale che non corrisponde all’ottimo sociale, ma solo ad una geografia politica che ha fatto il suo tempo.

    I Comuni e il PNRR

    In Calabria la strada da percorrere è lunga. La qualità amministrativa del governo territoriale è una delle condizioni essenziali dalle quali dipende il futuro dello sviluppo. Partiamo da una base largamente insoddisfacente. Mentre tutta l’attenzione si concentra sul PNRR, molto di quello che sarà il destino del Mezzogiorno dipenderà dalla configurazione istituzionale dei poteri locali.
    Costituire unioni di comuni e favorire fusioni di comuni sono due indicatori che ci dimostreranno la capacità di innovazione del ceto politico locale in Calabria e nel Mezzogiorno.

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    La Camera dei deputati

    Mentre il Parlamento ha tagliato della metà il numero dei rappresentanti, tra senatori e deputati, a livello locale è cresciuta nei recenti decenni una selva di “cadreghe” territoriali che costituiscono un ostacolo alla modernizzazione della macchina amministrativa.
    Ma, mentre sulla casta nazionale sono state scritte quantità impressionanti di letteratura, sulle caste territoriali è mancata la stessa meticolosa attenzione. Eppure, in termini di danni prodotti, il federalismo asimmetrico degli ultimi decenni è stato molto più dannoso dei poteri centrali sempre meno efficaci.

  • Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella». Il complimento al quadrumviro (e alla città) proveniva da una fonte insospettabile: Pietro Ingrao, che si era rifugiato in Presila e aveva visitato più volte il capoluogo.
    Ingrao parlava della Cosenza dell’immediato dopoguerra, iniziato in Calabria un po’ prima, con l’arrivo degli Alleati. Cioè parlava di una città di poco più di 40mila abitanti che di lì a poco avrebbe vissuto un boom urbanistico formidabile e una crescita demografica impetuosa.

    Ma nel piano di crescita urbana disegnato da Bianchi covavano già i germi del futuro declino della città: prima di altri il supergerarca aveva intuito che l’unica possibilità di espansione di Cosenza era a nordest, cioè verso Rende, perché a sudovest c’era l’ostacolo insormontabile dei colli e c’era un hinterland accidentato, pieno di campagne urbanizzate male e collegate peggio, da strade che tutt’oggi gridano vendetta.

    Una rissa per l’Ospedale

    La storia si ripete, ma stavolta in farsa. Riguarda il nuovo Ospedale hub di Cosenza che Marcello Manna, il sindaco di Rende, vorrebbe nel suo territorio.
    E lo vuole così tanto da aver chiesto a Roberto Occhiuto un progetto di fattibilità.
    Manna, nella sua richiesta, ha rilanciato un mantra vecchio di almeno dieci anni: Rende sarebbe preferibile al declinante territorio perché c’è l’Unical, che ha un corso di laurea in Farmacia e uno in Medicina e Tecnologie digitali nuovo di zecca. Inoltre, perché la città del Campagnano ha più territorio disponibile, anche in posizione strategica, a cavallo tra la Statale 107 e lo svincolo Nord della A2.

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    L’Università della Calabria

    Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, ha risposto picche e ha rilanciato l’idea, altrettanto di lungo corso, di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise, nei pressi della Stazione ferroviaria. Il presidente del Consiglio comunale bruzio, Giuseppe Mazzuca, a tal proposito ha già annunciato che l’assise si pronuncerà in tal senso da qui a poco
    In questo braccio di ferro, ciò che fa notizia è la pretesa rendese, segno che la città che è stata dei Principe al momento è in vantaggio sulla città che è stata dei Mancini, degli Antoniozzi e dei Misasi.

    Cinquant’anni di braccio di ferro

    Cosenza, al momento, mantiene gli uffici e i servizi pubblici che contano, a partire da Prefettura e Tribunale per finire con l’Ospedale e la sede della Provincia. E, ovviamente, ha l’anagrafe a suo favore che, con circa 67mila e rotti abitanti, la fanno poco più del doppio rispetto alla sua aggressiva dirimpettaia, da cui la dividono un tratto del torrente Campagnano e un segnale sul cavalcavia della Statale 107.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma il numero degli abitanti è illusorio, perché quei 67mila sono ciò che resta di una città che ha vissuto tempi migliori. E questo resto è destinato a calare, sia per la decrescita demografica sia per la ripresa dell’emigrazione, Al contrario, Rende, coi suoi poco meno di 34mila abitanti, tiene botta e denuncia una flessione minima.
    Come si è arrivati a questo punto? Com’è stato possibile che un paese, sostanzialmente arroccato su una collina e sceso a valle dai primi anni ’70 sia arrivato al punto di dare la polvere all’orgogliosa (e spocchiosa) “Atene delle Calabrie”?

    Un flashback

    Facciamo un passo indietro e torniamo al 1970. Allora Rende aveva incassato un importante risultato: l’Università della Calabria, in quel momento “ospite” a Cosenza, ma la cui sistemazione definitiva era stata concessa a Rende, che l’aveva spuntata su Piano Lago. Fu un colpo da maestro di Cecchino Principe, sindaco dal 1952 e all’epoca deputato di lungo corso e sottosegretario alle Partecipazioni statali. Il notabile socialista fece una serie di espropri “lampo” a costi bassissimi e con un metodo che oggi si definirebbe “clientelare”: indennizzò i proprietari dei terreni di Arcavacata con posti di lavoro nell’Università. Questa mossa, completata col disegno urbanistico affidato al big Empio Malara, cambiò le sorti di Rende e di tutta l’area urbana cosentina.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    La “grande Cosenza”, ideata da Michele Bianchi iniziava a svilupparsi, ma al contrario: non era Cosenza che si “allargava” verso Rende fino ad inglobarla, ma quest’ultima a estendersi verso il capoluogo. Inoltre, lo sviluppo di Rende ebbe un’altra conseguenza politica di lunga durata: l’irruzione dei Principe sulla scena politica regionale con un ruolo di primo piano e in piena autonomia rispetto alla leadership di Giacomo Mancini.
    Forse meno carismatico rispetto al big cosentino, Cecchino Principe aveva dalla sua una forte empatia coi suoi elettori e un grande senso pratico. L’agronomo di Rende l’aveva fatta sotto il naso al sussiegoso avvocato cosentino, che univa ai galloni dell’antifascismo militante il peso della tradizione familiare.

    La grande Cosenza che fu

    I cosentini minimizzarono: Rende, allora, aveva poco più di 13mila abitanti, una bazzecola. Cosenza, invece, aveva superato da poco i 100mila e si orientava a sudovest, cioè verso la vecchia via del mare, che portava ad Amantea per la vecchia strada borbonica. E aveva una zona industriale di tutto rispetto, tra Molino Irto e Vadue, che faceva perno sulle Cartiere Bilotti e sul Pastificio Lecce.
    Forse per questo non colsero la seconda mossa di Principe, che con un’altra serie di espropri consentì l’arrivo di Legnochimica a Contrada Lecco: era l’atto di nascita della zona industriale di Rende, che oggi è la principale dell’area urbana.
    Ma tant’è: i partiti politici facevano da collante e il vecchio sistema di finanza derivata ridimensionava non poco il peso delle autonomie, perché i quattrini arrivavano in base alla popolazione.

    La gara dei vampiri

    A questo punto si arrivò al paradosso: tutti i municipi dell’hinterland tentarono di agganciarsi al capoluogo per “vampirizzarne” la popolazione. Lo fece Carolei, che inventò Vadue, lo fece Mendicino e lo fece Laurignano. E lo fece Castrolibero con Andreotta.
    Ma chi succhiò più abitanti, fu Rende, semplicemente perché, a differenza dei suoi concorrenti, aveva un piano urbanistico a prova di bomba. E poi perché Cecchino Principe ebbe l’abilità di non farsene accorgere. La “sua” Rende si sviluppò come quartiere della Cosenza bene e benestante. Le cose sarebbero cambiate a partire dagli anni ’90, con l’ascesa di Sandro Principe, che interpretò in maniera particolare il nuovo sistema delle autonomie e pensò Rende come città alternativa e concorrente rispetto al capoluogo. Anche perché, tolto Giacomo Mancini, ormai non aveva quasi rivali.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    L’effetto Duracell

    Tangentopoli fu un rullo compressore per Cosenza: azzerati i partiti storici, spento l’astro di Riccardo Misasi, il capoluogo provò a resistere col decennio manciniano, caratterizzato da alcune brillanti intuizioni che si sarebbero rivelate delle cambiali.
    Tutte le misure urbanistiche (il rifacimento di piazza Fera e il ponte di Calatrava) miravano ad arroccare la città a Sud. Al contrario, Sandro Principe potenziò Rende a Nord, con massicci investimenti nella zona di Quattromiglia, che divenne un quartiere modello.
    Era iniziato il braccio di ferro tra una città che perdeva abitanti e un’altra che aveva raddoppiato la popolazione residente. Il volano fu l’Unical, che aveva superato i 35mila iscritti dando il via a un mini boom edilizio.

    Ma l’aspetto politico restava quello più importante: la fine dei partiti aveva provocato l’azzeramento delle vecchie élite cosentine, che riuscirono sì e no a riciclarsi nel nuovo alla meno peggio. A Rende, invece, fu centrale la continuità dei Principe, che consentì una gestione razionale e “dirigista” dello sviluppo urbano ed economico.
    Principe seguiva a Principe. A Cosenza, invece, i Gentile, gli Adamo, i Guccione, gli Incarnato, i Morrone e via discorrendo avevano preso il posto dei Misasi, dei Mancini, dei Perugini, degli Antoniozzi, dei d’Ippolito e via discorrendo. Se non è declino questo…

    E ora?

    Il declino è uguale per tutti ma ad alcuni fa più male. È il caso di Cosenza, che pesa nelle dinamiche regionali solo perché è capoluogo di una delle province più grandi d’Italia. Ma questo peso è illusorio, perché l’ente Provincia, con la fine della Prima repubblica, si era “paesanizzato” non poco: basti pensare che i presidenti provinciali più duraturi, Antonio Acri e Mario Oliverio, sono stati di San Giovanni in Fiore.

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    Mario Oliverio

    Se dalla demografia si passa all’economia, la situazione peggiora. Rende ha il bilancio in crisi, ma evita il dissesto grazie al suo consistente patrimonio immobiliare. Cosenza è andata in default il 2019, dopo aver nascosto per quasi vent’anni un debito imponente, nato in lire e lievitato in euro. Il che significa una cosa: a parità di tasse (al massimo in entrambi i Comuni), Rende riesce a garantire servizi passabili, Cosenza no.

    E la Grande Cosenza, in tutto questo? È solo un richiamo retorico per i cosentini che vivono nel capoluogo e consolano il proprio campanilismo con l’idea della “città policentrica” (un’assurdità urbanistica, perché tutte le città hanno un centro). I cosentini che hanno popolato Rende, al contrario, sono piuttosto tiepidi: a nessuno fa piacere diventare periferia di una città in declino e subirne i contraccolpi finanziari.
    E Telesio? L’Accademia Cosentina? E le memorie risorgimentali? Un’altra volta…