Scuole di via Roma, il Tar boccia i genitori. La querelle intorno alla demolizione della piazzetta antistante i due istituti, con l’area intitolata a Stefano Rodotà destinata a lasciare spazio al ritorno delle auto, era finita davanti ai giudici amministrativi di Catanzaro. Ad adire le vie legali contro la scelta del Comune di Cosenza era stato un gruppo di genitori degli alunni delle elementari “Lidia Plastina Pizzuti”.
Per il Tar ai genitori tocca pagare il Comune di Cosenza
La seconda sezione del TAR, però, ha rigettato il loro ricorso, con una decisione arrivata peraltro a cantiere ormai avviato. Le famiglie degli studenti chiedevano l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dei provvedimenti con i quali Palazzo dei Bruzi aveva dato il via ai lavori nello spazio pedonale tra la “Plastina Pizzuti” e la “Zumbini”. Il Tar le ha invece condannate a pagare al Comune di Cosenza le spese e le competenze di questa fase del giudizio.
Via Roma, la soddisfazione di Caruso
Secondo i giudici, riporta l’Ufficio Stampa del municipio, non ci sarebbero stati profili di palese illogicità e ragionevolezza nei provvedimenti della Giunta. Il sindaco Franz Caruso, nel vedere rigettata l’istanza cautelare, ha espresso soddisfazione e ringraziato l’assessore ai Lavori pubblici, Damiano Covelli, che si occupa della questione via Roma. E sottolineato come il Tar abbia confermato «il rispetto, da parte dell’Amministrazione comunale dei principi della correttezza, della legittimità e della tutela degli interessi della comunità amministrata».
Rispetto al Censimento del 2011, in linea con l’andamento negli ultimi decenni, le famiglie italiane sono aumentate nel 2019 di 1,2 milioni di unità (+5,0%), passando da 24,6 a 25,8 milioni; considerando gli ultimi 50 anni, l’aumento è di quasi 10 milioni (15.981.177 nel 1971). Le famiglie aumentano, ma sono sempre più piccole. Il numero medio di componenti, infatti, scende da 3,35 del 1971 a 2,29 del 2019. Nelle regioni del Sud, dove le famiglie sono storicamente più numerose, il valore si attesta a 2,5 componenti, ma erano 3,75 nei primi anni Settanta e 2,92 all’inizio del nuovo millennio.
Le profonde trasformazioni economiche e sociali che hanno interessato l’Italia nel corso di mezzo secolo, il calo delle nascite, il progressivo invecchiamento della popolazione e il consistente ingresso di cittadini stranieri hanno contribuito al forte ridimensionamento della numerosità dei componenti nel nucleo familiare.
Italiani sempre più soli
A crescere sono soprattutto le famiglie unipersonali, pari a 9,1 milioni nel 2019, contro il 12,9% del 1971. In altri termini, vive da solo circa il 15% degli individui abitualmente dimoranti in Italia.
Dentro la rete della famiglia allargata venivano erogati servizi di assistenza e di solidarietà che si stanno trasformando in meccanismi di mercato: pensiamo alla crescita esponenziale delle badanti per gli anziani o alle baby sitter per i bambini. Il grande assente di questa trasformazione è stato l’apparato pubblico, che ha congelato una struttura dei servii sociali costruita nell’Italia del miracolo economico, in uno scenario radicalmente differente.
Più asili nido e più assistenza agli anziani
Questo profondo rivolgimento nella struttura sociale della famiglia dovrebbe condurre ad un ripensamento nel modello di offerta dei servizi collettivi: aumenta la necessità di servizi di assistenza alla persona, che prima erano svolti all’interno della famiglia allargata, capace di stare al fianco degli anziani e dei bambini, che vivevano spesso sotto lo stesso tetto, creando una rete di servizi incrociati sottratti al mercato ed allo Stato.
Servono ora invece più asili nido e più servizi domiciliari di assistenza per gli anziani non autosufficienti. Il mutamento nella struttura demografica della piramide sociale determinerà un numero tendenzialmente inferiore di allievi nelle scuole secondarie, mentre imporrà l’infittimento dei servizi di assistenza sanitaria alle persone con età crescente.
Nurse consoling senior woman holding her hand
Niente più famiglie numerose
Alla crescita delle famiglie unipersonali si affianca la diminuzione nel corso del tempo di quelle più numerose. Nel 1971 le famiglie formate da cinque componenti o più erano 3,4 milioni e rappresentavano il 21,5% del totale delle famiglie residenti. Nel 2019 se ne contano solo 1,3 milioni, e costituiscono poco più del 5% delle famiglie censite.
Anche nel 2019 la percentuale più elevata di queste famiglie si rileva nelle regioni dell’Italia meridionale (6,9%) e insulare (5,5%) a cui si contrappongono incidenze inferiori alla media nazionale (5,1%) nelle ripartizioni Nord-occidentale (4,1%), Nord-orientale (4,9%) e del Centro (4,6%). Decisamente più marcate erano le disuguaglianze nel 1971, quando nel Sud della Penisola quasi una famiglia su tre (31,2%) era formata da almeno cinque persone, mentre nel Nord-ovest queste erano meno del 14% del totale.
La crescita a due velocità delle famiglie
In Calabria le famiglie sono 796.780 nel 2019, rispetto a 772.977 nel 2011, con un aumento di 23.803 unità familiari nel periodo, pari al 3,1%, un valore significativamente più basso di quello nazionale (5%). Il valore medio dei componenti risulta nel 2019 di 2,37 in Calabria, molto vicino ormai al valore nazionale (2,29), mentre nel 2011 l’indicatore era pari in Calabria a 2,53. In vent’anni, tra il 2001 ed il 2021, la popolazione calabrese è diminuita complessivamente del 7,4%. Ma, soprattutto, è cambiato profondamente il mix della piramide demografica: si è assottigliata fortemente la presenza delle fasce giovanili, mentre è cresciuto drammaticamente il peso della popolazione anziana.
Le famiglie italiane hanno sempre meno figli
Aumenta l’età media in Calabria
La fascia oltre i 65 anni è passata in Calabria dal 17,1% del 2001 al 22,9% del 2021. Nelle classi tra 55 e 64 anni di età si aggiunge un altro 17,5%. I calabresi con oltre 55 anni di età rappresentano il 40,4% del totale della popolazione. L’età media è passata in Calabria da 32,6 del 2001 a 45,2 anni oggi.
L’invecchiamento della popolazione richiede una struttura completamente differente dei servizi sociali, molto più attenta alla medicina di territorio ed all’assistenza domiciliare, se si vuole evitare che l’ospedalizzazione della sanità determini un incremento insostenibile di costi ed una condizione estraniante per le persone.
Un terzo delle famiglie a Reggio è unipersonale
Il baricentro delle necessità, per quanto riguarda la Calabria, deve focalizzarsi dunque principalmente sul ripensamento dei servizi di assistenza alle popolazioni anziane. Le tendenze future della demografia accentueranno ulteriormente questa necessità, mentre andrebbero predisposte parallelamente politiche della famiglia per invertire la tendenza drammatica alla riduzione della popolazione, favorendo la ripresa delle nascite mediante servizi alle famiglie per l’assistenza ai bambini.
Il fenomeno di allargamento del numero delle famiglie e di restringimento dei componenti del nucleo famigliare è ancora più accentuato nelle città di maggiore dimensione. A Reggio Calabria il numero delle famiglie cresce tra il 2011 ed il 2019 del 4,5%, mentre nello stesso periodo la popolazione in famiglia si riduce del 3,2%. Un terzo delle famiglie a Reggio Calabria nel 2019 è unipersonale, rispetto al 27,2% del 2011; le famiglie con sei o più componenti sono ormai solo l’1,3%. Le grandi città sono il laboratorio che richiede maggiore radicalità e maggiore cura. Siamo già in grave ritardo, perché molto è già accaduto, e nulla è stato fatto. Sarebbe il caso di cominciare subito.
Nelle regioni dove maggiore è risultato il cambiamento, e quindi in particolare nel Mezzogiorno e nella Calabria, andrebbero radicalmente riscritti la struttura, l’organizzazione ed il processo di erogazione dei servizi collettivi,dall’istruzione alla sanità, dai trasporti ai servizi culturali. Se questo non accadrà, varrà solo la legge del mercato, con un aumento delle diseguaglianze e con un processo che determinerà ulteriore spopolamento.
Il Ministero per le Infrastrutture e la Mobilità Sostenibile ha elaborato un documento che illustra, regione per regione, gli interventi che si prevedono col PNRR e le altre risorse nazionali e comunitarie in materia di infrastrutture e trasporti, un settore nevralgico per la Calabria. Complessivamente sono in ballo per l’intero Paese finanziamenti per 61,4 miliardi di euro. Due terzi (40,4) derivano dal PNRR e 21 da fondi integrativi.
La gran parte di queste risorse, il 92,9%, servirà alla realizzazione di opere pubbliche, mentre il 6,9% ad acquisti di beni e servizi e l’1,6% a contributi verso le imprese. La parte del leone va gli investimenti previsti per l’ammodernamento della rete ferroviaria nazionale, con 36,6 miliardi di euro. Valgono il 59,6% del totale complessivo previsto per le infrastrutture ed i servizi di trasporto.
PNRR, poco meno di 7 miliardi alla Calabria
Alla Calabria spetteranno 6,8 miliardi di euro, pari all’11,1% del valore complessivo del programma: una cifra che non indica certo uno sforzo straordinario nel volume complessivo dello sforzo finanziario. Con il PNRR si dovrebbe, come è noto, invertire la tendenza alla marginalizzazione dei territori meno competitivi per generare un volano capace di attrarre investimenti privati produttivi.
Ma già nella dimensione quantitativa del programma, si evidenzia che la Calabria non sta nel quadro strategico prioritario. Se poi si entra maggiormente nel merito delle linee di azione previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, questa sensazione cresce ancor di più.
I progetti chiave e i treni pigliatutto
Il documento ministeriale elenca i progetti chiave che sono previsti per la Calabria: potenziamento della zona economica speciale; accessibilità ai porti di Gioia Tauro e Reggio Calabria; potenziamento ed ammodernamento delle ferrovie regionali; rinnovo delle navi sullo Stretto; edilizia residenziale pubblica; rigenerazione urbana; alta velocità Salerno-Reggio Calabria.
Però, dopo aver snocciolato il rosario delle singole voci sugli interventi previsti in Calabria, ci si accorge che l’investimento ferroviario per alta velocità e rete regionale pesa per l’80,2% sul totale. Il resto si disperde in interventi che non modificano la sostanza dell’assetto infrastrutturale regionale.
Il PNRR e la tratta-Salerno-Reggio Calabria
Quando si passa ulteriormente al merito del principale investimento, vale a dire la realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, il quadro diventa ancor più fosco. Quello che effettivamente si realizzerà entro il 2026, come ha detto in Parlamento l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, Vera Fiorani, sarà la tratta tra Battipaglia e Romagnano. Ossia un lotto lungo 40 chilometri che punta verso est, piuttosto che verso la Calabria.
Questo itinerario, previsto nella progettazione ferroviaria già da lungo tempo, non era stato affatto concepito per servire la Calabria; percorre difatti un itinerario ferroviario che conduce a Potenza, per poi proseguire verso la costa ionica, raggiungendo Metaponto e, a seguire, Taranto.
Solo quando sarà stata realizzata questa prima tratta, è prevista la prosecuzione verso Praia a Mare, dopo aver solcato il Vallo di Diano, puntando verso il mare e raggiungendolo con una lunga serie di gallerie, nei pressi di Buonabitacolo fino alla costa tirrenica cosentina. Lavori lunghi e complessi che non potranno terminare prima di un decennio a partire da oggi.
Cristo si è fermato a Romagnano
Quindi, dal punto di vista della esecuzione, nell’arco del PNRR si realizzeranno solo i 40 km della linea Salerno Reggio Calabria, da Battipaglia sino a Romagnano, completamente inutile per migliorare i tempi di percorrenza di chi deve recarsi in Calabria. Il resto della tratta, quella che dovrà collegare Salerno con Reggio, vedrà il finanziamento della sola progettazione. L’esecuzione arriveràben dopo la scadenza del 2026.
In queste settimane si svolgerà il dibattito pubblico sull’alta velocità Salerno Reggio Calabria. Ci si auspica che non prevalga ancora una volta la retorica delle cifre vuote di significato. Che ci si concentri, invece, sul miglioramento effettivo della accessibilità e dei servizi per i calabresi. Un tempo si diceva che Cristo si era fermato ad Eboli. Ora scenderà un po’ più giù, per fermarsi a Romagnano.
Porto di Gioia Tauro strategico? Tutta retorica
Analoga perplessità desta tutta la retorica, nel documento ministeriale, sul ruolo strategico del porto di Gioia Tauro. Nel disegno complessivo del PNRR, infatti, si dice con estrema chiarezza che la centralità marittima nazionale si gioca nelle due ascelle settentrionali adriatica e tirrenica, Trieste e Genova.
Sarebbe il caso che la Calabria, così come l’intero Mezzogiorno, manifestasse la capacità di smarcarsi dalla retorica nella quale si esaurisce la discussione pubblica, per concentrarsi invece sulle scelte fondamentali. Ne guadagnerebbero non solo le regioni meridionali, ma l’intero Paese stesso. Che è cresciuto a ritmi intensi solo quando lo sviluppo del Sud avveniva a ritmi più accelerati rispetto al resto dell’Italia.
Una discarica “di servizio” da realizzare ma ancora in attesa dell’individuazione di un comune disposto ad accollarsela. Un’altra in costruzione da oltre un decennio ma sospesa nel limbo per il rischio di infiltrazioni nell’acquedotto che serve il centro più popoloso della provincia. Poi un impianto di trattamento dei rifiuti profondamente trasformato e (quasi) in consegna. E un altro che resta appeso al braccio di ferro tra la città metropolitana – che lo ha inserito come parte integrante dell’Ato provinciale – e il Comune di Siderno.
Quest’ultimo, invece, teme i rinculi ambientali che l’opera provocherebbe e si è rivolto ai giudici amministrativi per ottenere una sospensiva ai cantieri. E, ancora, i lavori al termovalorizzatore di Gioia Tauro – l’unico in Regione – che da anni va avanti a mezzo servizio. In questo marasma disordinato e costoso, Reggio e la sua provincia annaspano sotto il peso di un miserrimo 32% di raccolta differenziata. Sono circa 15 punti percentuali in meno della media regionale.
Il termovalorizzatore di Gioia Tauro
Guarascio re dei rifiuti e le proroghe
È un disastro che pone la città più grande della Calabria appena sopra il fanalino di coda Crotone e che è andato peggiorando – certifica il report annuale di Arpacal – negli ultimi due anni. Un disastro gestito “a monte”, di proroga semestrale in proroga semestrale, da Ecologia Oggi, il gruppo che fa capo al “re dei rifiuti” Eugenio Guarascio. Gruppo che, dopo avere preso in mano l’intero comparto al dileguarsi della multinazionale francese Veolia, ha gestito, di fatto da monopolista, tutti gli impianti presenti nel Reggino. Ma è uscito sconfitto nella gara – l’unica finora espletata dalla Città metropolitana – per la gestione dell’impianto di Sambatello, i cui lavori di rewamping dovrebbero essere completati entro fine anno.
L’ingresso dell’impianto di Sambatello
Reggio città e l’ecodistretto
Reggio città ha contabilizzato negli ultimi anni una perdita percentuale di quasi 6 punti sul dato della raccolta differenziata. Il suo ecodistretto – tre in totale quelli previsti per tutta la provincia, con Siderno e Gioia – se la passa meglio, almeno in prospettiva: i lavori appaltati nel 2020 per l’impianto di Sambatello dovrebbero essere consegnati entro fine anno. I 41,5 milioni di euro finanziati con fondi Por hanno consentito una profonda trasformazione del sito.
Si è passati da tecnologia meccanica-biologica a una piattaforma di recupero dei rifiuti con una linea per il secco e una per il trattamento anaerobico dell’organico con produzione di biometano. Un passo avanti importante, per un impianto che si appoggerà alla discarica di Motta San Giovanni per i materiali di scarto frutto della lavorazione del differenziato. Scarti che ad oggi, per la mancanza di siti attualmente attivi, finiscono fuori dai confini provinciali, con inevitabile aumento delle tariffe.
Melicuccà: la storia infinita
La mancanza di discariche finali rappresenta uno dei punti più dolenti dell’intera vicenda legata al trattamento dei rifiuti in Calabria e ancora di più nel reggino. In attesa di una ancora lontanissima autosufficienza, sono state previsti i lavori per la realizzazione di due siti distinti: il primo, individuato nel territorio di Melicuccà e destinato a servire gli scarti del termovalorizzatore di Gioia, è diventato, suo malgrado, simbolo ormai storico dell’inefficienza dell’intero comparto.
Posto a 550 metri di quota sul versante tirrenico d’Aspromonte, il sito di contrada La Zingara “vanta” una storia antica di violenze ambientali. Sede per decenni della vecchia discarica comunale, nel 2006 arrivò l’ordine di dismissione per una serie di violazioni alle leggi di tutela dell’ambiente. Poi, nel 2009, la Regione anche nell’ottica dell’eterna emergenza rifiuti, individuò, proprio accanto alla vecchia discarica dismessa, un altro sito dove costruirne una nuova.
L’interno del sito di trattamento dei rifiuti di Melicuccà
Falde a rischio inquinamento
La scelta portò in piazza centinaia di persone in protesta. «Sotto il sito individuato dalla Regione – dicevano i rappresentanti delle associazioni di cittadini che si oppongono all’opera – scorrono le falde che alimentano l’acquedotto Vina che serve Palmi e Seminara». La successiva denuncia presentata da Legambiente portò al sequestro dell’area. Siamo nel 2014, quando i lavori erano già iniziati da un pezzo.
Per uscire dallo stallo servirebbe un’approfondita analisi geologica del terreno, ma nessuno se ne occupa e l’indagine decade per decorrenza termini. Passano gli anni ma quello di contrada La Zingara è sempre il sito su cui Regione e città Metropolitana puntano per costruire la discarica di servizio, e così nel 2021, con un finanziamento di 15 milioni di euro, i lavori per una discarica “monstre” da 400 mila tonnellate ripartano.
Le indagini (e lo stop) a cantieri quasi pronti
Prima però che le indagini tecniche affidate al Cnr (incaricato dalla Città Metropolitana) e all’Ispra (chiamata in causa dal comune di Palmi) possano stabilire se esista un rischio di inquinamento delle falde acquifere. E così, come da migliore paradosso calabrese, quando arrivano i risultati delle due indagini, i cantieri – siamo nel dicembre dello scorso anno – sono quasi pronti.
Ma le conclusioni dei due istituti di ricerca concordano nel ritenere possibile il rischio di inquinamento delle falde. Per entrambi gli studi, infatti, la conformazione geologica del terreno, fatto di sabbie e rocce granitiche frammentate, ha creato una serie di sacche d’acqua. E queste potrebbero alimentare, a valle, i torrenti sotterranei che alimentano la sorgente Vina.
Una sorta di pietra tombale scientifica sulla possibilità dell’entrata in esercizio del sito (e conseguentemente sul completamento delle strutture previste dall’Ato 5 Reggio Calabria) a cui Regione e metrocity proveranno a mettere una pezza attraverso Arpacal che dovrebbe realizzare la «perimetrazione della fonte» mettendo così una parola definitiva all’ennesimo rischio ambientale.
L’emergenza rifiuti…che nessuno vuole
Se sul Tirreno il tira e molla sulla discarica va avanti da quasi venti anni, sul versante jonico della provincia, il sito destinato a servire l’impianto di trattamento dei rifiuti di Siderno, non è stato nemmeno individuato. Nonostante la possibilità di incassare le royalties per la presenza del sito sul proprio territorio comunale (Siderno incassa 7 euro per ogni tonnellata di monnezza trattata nel Tmb) nessuno dei 42 sindaci infatti si è fatto avanti per avanzare la propria candidatura.
I capannoni dell’impianto di Siderno
Questo stallo imbarazzante dura da anni. Non si è fermato nemmeno davanti alla nomina dell’ennesimo sub commissario regionale che, nel 2020, avrebbe dovuto d’imperio individuare un sito. Alla soluzione dall’alto, però, si preferì una scelta condivisa tra tutti gli amministratori della Locride che, da allora, non sono riusciti a trovare un’intesa. Sul rinvio della scelta del luogo, va detto però che almeno in questa occasione si è preferito, al contrario di quanto successo a Melicuccà, attendere la relazione sui territori che rispondono alla caratteristiche tecniche necessarie ad un intervento di questa portata.
Ne resterà solo uno
Arrivata la mappa, ora ci si concentrerà sui comuni da escludere: quelli che non rientrano per conformità del terreno così come quelli che ospitano, o hanno ospitato in passato, impianti o siti destinati ai rifiuti. Escluse quindi Caulonia, Bianco e Melito, che ospiteranno i centri di smistamento di zona. Fuori anche Casignana, nel cui territorio ricade la terrificante discarica dismessa. E fuori quindi anche Siderno, dove è presente il Tmb su cui a giorni si attende la pronuncia del Tar che dovrà decidere sui lavori di rewamping che prevedono nuove costruzioni per oltre 60 mila metri quadri. Di quanti ne mancano, ne resterà soltanto uno. E dovranno sceglierlo gli stessi sindaci.
Il centrodestra catanzarese, usurato dal ventennio di Sergio Abramo e scalfito dalle varie Gettonopoli, Multopoli, Farmabusiness e Basso Profilo, è in fermento. Le scelte andranno fatte e anche in fretta. Tutto in mano ai tavoli romani che, esaurito il non matrimonio tra la deputata azzurra Marta Fascina ed il Cavaliere, dovrebbero riprendere a breve. La scelta è tra rinunciare ai propri simboli (come hanno fatto molti consigliere comunali uscenti di centrodestra in attesa di ricollocazione, definiti da Domenico Tallini come «anonimi») e nascondersi dietro il civismo per paura di “pesarsi” elettoralmente, oppure riorganizzarsi in tempo con una candidatura unitaria (che ad oggi non è pervenuta e, come si dirà, nemmeno tanto ricercata).
Mimmo Tallini, ex presidente del Consiglio regionale
Centrodestra in cerca di una nuova verginità
Occorre per il centrodestra, quindi, rifarsi una verginità alla svelta. Ed ecco che fin d’ora si è messo in campo un gioco di candidature farlocche e di nomi da bruciare in vista delle Comunali di Catanzaro. Con accuse, veti e giochi delle tre carte tra i vari attori in campo. Eppure a sciogliere la matassa sarebbe bastata la candidatura diretta dell’ex consigliere regionale Baldo Esposito, del presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso o della parlamentare Wanda Ferro. Invece, i “big” se la sono data a gambe levate, lasciando il cerino in mano fondamentalmente a Forza Italia e alle liti più o meno sotterranee tra il coordinatore regionale Giuseppe Mangialavori e quello provinciale Domenico Tallini, con in mezzo l’ex candidato regionale Antonello Talerico tornato centrale nel dibattito dopo la vittoria in primo grado del ricorso elettorale contro l’azzurra Valeria Fedele.
Wanda Ferro, parlamentare di Fratelli d’Italia
L’amicizia è sacra
Alla base della fuga dei notabili, però, ci sarebbe la stretta amicizia tra i citati Esposito e Ferro ed il candidato sindaco Valerio Donato. Amicizia sì, ma non tale da portare ad un appoggio elettorale secondo la deputata meloniana, che avrebbe varie svolte smentito pubblicamente l’ipotesi. Troppe volte, in effetti, al punto di suscitare comunque più di un dubbio agli alleati. Lo stesso Filippo Mancuso, sarebbe pronto con la lista civica “Alleanza per Catanzaro” a rinunciare al simbolo della Lega, che gli sta assolutamente stretto, per “sposare” la causa Donato.
Difficile per Fi replicare la strategia delle comunali di Vibo Valentia del 2015 (con rinuncia dei simboli di partito e sostegno al “civico” Elio Costa). Equivarrebbe a riconoscere kingmaker elettorale l’esponente di Coraggio Italia, Francesco De Nisi. Quest’ultimo infatti – tramite il consigliere comunale Andrea Amendola, suo referente locale – ha già messo la bandierina su Valerio Donato, la cui candidatura, come è noto, è nata su idea dell’imprenditore Giuseppe Gatto e dell’ex presidente della Catanzaro Servizi, Giuseppe Grillo.
Incoerente risulterebbe anche la stessa Wanda Ferro che al ballottaggio delle comunali del 2006 sostenne il centrosinistra di Rosario Olivo contro il civico Franco Cimino «perchè deve vincere la politica contro l’antipolitica», disse unitamente a Michele Traversa.
Torna la balena bianca alle comunali di Catanzaro
Tante sono le manovre per l’agognato ritorno del “grande centro”, con una sfilza di vecchi e meno vecchi politici democristiani che dichiarano l’appoggio al docente di diritto privato ed ex commissario liquidatore di Calabria Etica. Non mancano anche le sigle di partiti e partitini. Da, appunto, Coraggio Italia con il citato Amendola (che è stato in passato consigliere comunale di Alleanza di Centro e di Forza Italia) all’Udc con Giovanni Merante, già consigliere comunale di Catanzaro dal 2006 con la Dc, poi anche assessore con Sergio Abramo nel 2008.
Giova ricordare che proprio con l’Udc ha corso alle ultime Regionali il notabile di centrodestra Baldo Esposito. Presenti anche il nuovo Cdu, con l’ex assessore comunale Vito Bordino, e Italia viva che con il senatore Ernesto Magorno (e l’ex parlamentare Brunello Censore, unitamente al sindaco di Sellia Marina, già candidato con il centrodestra alle Regionali, Francesco Mauro) ha espresso pubblicamente l’orientamento del partito a sostegno di Donato.
L’ex sindaco Dc e non solo
Incognita Azione, Noi con l’Italia e mastelliani sono già schierati a favore del citato Antonello Talerico, che in queste ore continua il suo braccio di ferro con Mangialavori e al contempo è in fase dialogante sia con Donato che con Fiorita.
A sostenere Donato ci sono anche altre personalità del passato politico catanzarese come l’ex consigliere e assessore comunale (con Sergio Abramo nel 2001) e provinciale (nel 2008) Vittorio Cosentino, già esponente di Alleanza Nazionale; l’ex sindaco di Catanzaro nel 1992 in quota Dc, Francesco Granato.
L’elenco comprende pure Caterina Laria, anch’essa già assessora con Sergio Abramo e nel 2012 candidata alle comunali con la lista Scopelliti (le sopraggiunse una condanna in primo grado per peculato durante la campagna elettorale). Piccolo particolare: la Laria fa parte di “Comunità competente” di Rubens Curia insieme ad Amalia Bruni. Insomma, il centro c’è ed è pronto a pesarsi elettoralmente a Catanzaro.
Ernesto Magorno, parlamentare di Italia Viva e plenipotenziario renziano in Calabria
Il garofano perde petali
Il Psi, invece, si spacca e perde pezzi. Dopo l’1,83% della lista regionale a sostegno di Amalia Bruni. Il segretario provinciale Pierino Amato si dimette e “abbraccia” Donato.
Politico di lunghissimo corso, classe ’39, già consigliere comunale e presidente della Provincia, consigliere regionale della Margherita e del Pd, assessore all’Agricoltura con Agazio Loiero e poi vicepresidente del Consiglio regionale all’epoca di Scopelliti, Amato è stato anche Presidente del Lions Club di Catanzaro.
Nel 2015 lascia il Pd e passa al Psi, esperienza oggi conclusa, nonostante fosse la scorsa estate in prima fila al Parco Gaslini di Catanzaro alla presentazione del cosiddetto “Nuovo Centrosinistra” a favore di Nicola Fiorita e ora in campo con il “suo” circolo dedicato a Carlo Rosselli è in prima fila a favore del docente universitario della Umg.
Il garofano rosso a sostegno di Donato (almeno idealmente, data la difficoltà a comporre una lista autonoma) ci sarà ugualmente. È arrivato, infatti, il sostegno di Domenico Fulciniti, storico coordinatore regionale del Nuovo Psi (collocato stabilmente nel centrodestra dato alle regionali 2014 aveva pubblicamente sostenuto Wanda Ferro, mentre nel 2020 Jole Santelli). Scampata, quindi, almeno in parte, la scissione dell’atomo.
Nicola Fiorita, professore universitario e candidato a sindaco del centrosinistra
Da campo largo a campo di calcetto
Fermento anche tra i dem. Al di là dei numeri e del decantato “campo largo” ( «di calcetto» però, secondo la battuta dell’ex capogruppo del Pd in consiglio comunale Alcide Lodari) un fatto è chiaro: il dispensamento di pennacchi avvenuto con i congressi (regionale, provinciale e cittadino) del Pd non è servito a nulla. Sulle amministrative si rilevano importanti diaspore in casa dem.
Era già avvenuto in parte nel 2017, con esponenti del Pd che abbandonarono partito e coalizione per sostenere l’allora civico puroNicola Fiorita contro l’ormai ex consigliere regionale Enzo Ciconte.
La fuga dei democrat è certificata da una sequela di comunicati stampa contenenti prese di distanza dal Partito e, contemporaneamente, pubblici atti di devozione all’altro PD (il partito di Donato).
2022, fuga dal PD
A “fare male”, in quanto sonoro schiaffo politico, è l’addio del sindacalista Fabio Guerriero (il fratello Roberto, consigliere comunale, è tra i “donatiani” della prima ora), primo dei votati a Catanzaro città (con 1.861 preferenze in città e 4.291 totali secondo Eligendo) alle ultime Regionali a sostegno di Amalia Bruni.
Fabio Guerriero, a Roma con il ministro Orlando e a Catanzaro con Donato
Fabio Guerriero è stato candidato alla Camera con il Pd nel 2013, molto vicino al già vicesegretario nazionale del Pd e attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, che lo scorso settembre giunse in Calabria a sostenerne la candidatura regionale. Piccolo particolare: Orlando e Boccia sono strettamente legati. Questo addio rischia dunque di portare ad un indebolimento della lista del Pd, con buona pace delle mosse del responsabile nazionale enti locali dei dem. Oltre a lui, si registra il sostegno a Donato dell’ex vicesindaco di Catanzaro, Antonio Argirò che lasciò il Pd per abbracciare “Autonomia e diritti” di Agazio Loiero. L’ex presidente della Regione, tra l’altro, in queste ore molto attivo a reperire candidati a favore di Valerio Donato.
Gli altri con Donato per le Comunali di Catanzaro
A sostegno di Donato ci sarà anche anche l’esercito di ex. Pino Tomasello, già coordinatore della segreteria provinciale del Pd di Catanzaro fino a due anni fa e prima ancora capo di gabinetto del Presidente della Provincia del Pd, Enzo Bruno; la dottoressa Elena Bova, che nel 2017 abbandonò il Pd per candidarsi a sostegno di Nicola Fiorita e ora lo ri-abbandona per sostenere il docente catanzarese; l’ex segretario del Pd di Santa Maria, Maurizio Caligiuri (che fino a poco tempo fa rappresentava il Pd al tavolo del “Nuovo centrosinistra” di Catanzaro); l’ex segretario del circolo Pd di Catanzaro centro, Antonio Menniti, l’ex segretario provinciale (e candidato alle regionali del 2020 e del 2021), Gianluca Cuda e l’ex consigliere comunale dem Antonio Gigliotti.
Boccia chiama, Iemma e Viscomi non rispondono
In tutto questo marasma il già citato ex ministro Francesco Boccia ha chiesto un impegno diretto a candidarsi in prima persona alla Presidente regionale del Pd Giusy Iemma e al deputato Antonio Viscomi. Entrambi, per paura del flop dell’intera lista alle comunali di Catanzaro, pare abbiano risposto picche. La Iemma è molto vicina al già citato ex vicepresidente del Consiglio regionale Vincenzo Ciconte (il fratello Andrea è stato anche per anni suo portaborse), che ha visto una delle sue figlie conseguire il dottorato di ricerca proprio con Valerio Donato. Seppur lontano dalla scena politica da due anni, oggi non si esclude brami una rivincita nei confronti del suo ex sfidante del 2017, Nicola Fiorita.
Antonio Viscomi, parlamentare del Pd e professore universitario
A Fiorita resta il simbolo. E poi?
Difficilmente il Pd sarà sostenuto dalla ex candidata e attuale membro dell’assemblea regionale Aquila Villella, collega di cattedra universitaria e sodale di Valerio Donato. Si è in attesa di conoscere l’orientamento della cognata, Amalia Bruni, che a Palazzo Campanella tenta di fare da garante dell’intesa e dell’opposizione M5S-Pd, oggi molto scricchiolante.
Un altro esponente dell’assemblea regionale del Pd è Francesco Pitaro, attuale portaborse del consigliere regionale Raffaele Mammoliti, che miete vendetta nei confronti di un Pd che lo ha escluso all’ultimo minuto alle ultime regionali ed è tentato dal seguire il fratello Pino (attivo con Francesco De Nisi in Coraggio Italia) nel predisporre una intera lista a sostegno di Donato.
Insomma, a Fiorita nel Pd di Catanzaro rischia di rimanere solo il simbolo ed una piccola cordata composta dalle sardine (!), dal segretario Fabio Celia e dal fedelissimo di Enzo Bruno col sogno di un assessorato comunale, Salvatore Passafaro. E la campagna elettorale è appena cominciata.
La prima volta in cui il suo nome rimbalzò sui media italiani fu nel novembre del 2016, quando Bruno Giancotti tirò fuori Matteo Salvini da un piccolo guaio in cui si era cacciato con la Polizia russa. Il leader della Lega aveva esposto nella piazza Rossa un cartello contro il referendum renziano, ma i gendarmi intervennero fermandolo per qualche ora perché la legge russa vieta di esporre striscioni con slogan politici senza una preventiva autorizzazione. «Lo avevo avvertito», racconta Giancotti, uomo d’affari originario di Serra San Bruno che, dalle montagne del Vibonese, è arrivato a stabilirsi a Mosca fin dal 1986.
Il calabrese putiniano di ferro
Un po’ più serio, quantomeno per il contraccolpo mediatico, si è rivelato in seguito il caso dei presunti fondi russi alla Lega e degli audio diffusi da BuzzFeed. Il suo nome è spuntato anche nel Russiagate, ma Giancotti assicura di non essere lui il «Gianko» a cui i protagonisti della trattativa del Metropole facevano riferimento parlando di percentuali su una grossa partita di gasolio russo da far arrivare in Europa.
Una questione molto più seria, e drammatica, è oggi quella della guerra Russia-Ucraina. Incalzato sull’argomento, Giancotti non si tira indietro di fronte alle domande. Ma va detto subito e chiaramente che lui è di parte: è dalla parte di Vladimir Putin e non nasconde di avere «conoscenze nelle alte sfere del potere» a Mosca. «Sono un putiniano convinto», spiega. «Invece mia moglie, che è russa, è antiputiniana. Io la definisco addirittura russofoba».
Lo abbiamo contattato attraverso Facebook.
Ma alcuni social network non erano stati oscurati in Russia? E non è censura questa?
«Io riesco a usare Facebook perché il mio account è stato registrato in Italia, ma effettivamente sì: qui è stato bloccato».
«Beh… la guerra mediatica la Russia l’ha sempre persa e la continua a perdere. Però le fake news erano diventate esorbitanti così è stata presa la decisione di limitare i social. Non è una decisione democratica, certo, ma siamo in guerra…».
Almeno lei non la chiama «operazione speciale»… Ma che aria si respira lì? Sembra evidente la repressione del dissenso.
«A Mosca c’è un’atmosfera tranquilla, non c’è panico né isteria. Certo, non si può negare che ci siano proteste contro la guerra di Putin. Repressione? La Russia è in guerra con l’Ucraina. E in guerra vigono regole particolari che contemplano anche temporaneamente la restrizione di libertà democratiche. Quelli nei confronti dei manifestanti comunque non sono quasi mai arresti ma fermi, gli arresti scattano solo in casi di violenze verso la polizia, come del resto accade anche in Europa. E poi quasi tutti i manifestanti sono giovani: è quasi fisiologico che si ribellino. Ma non ci sono arresti di massa. Ho osservato parecchie manifestazioni contro Putin e il comportamento della polizia mi è sembrato sempre molto corretto».
Di certo Putin non è quello che si dice un campione dei diritti civili…
«Non lo è mai stato, anzi ha sempre detto che la democrazia liberale è un fallimento. Lui è sempre stato per un regime decisionista, che in Occidente è definito dittatoriale».
Giancotti alla marcia del 9 maggio (Il Giorno della Vittoria) sulla Piazza Rossa a Mosca
Quindi chi dice che in Russia c’è un regime ha ragione?
«Nei dibattiti televisivi gli oppositori di Putin parlano sempre senza problemi. Non c’è la censura di cui si parla in Occidente, io non la avverto. Vedo intellettuali oppositori del governo che parlano e agiscono indisturbati. Alcuni hanno una linea politica in contrasto con la tradizione russa e vengono perfino finanziati dallo Stato».
Torniamo alla guerra Russia-Ucraina. È un’invasione di uno Stato confinante. È un conflitto giusto secondo lei?
«È una guerra. E la guerra si fa con le armi, non con i fiori. Le vittime ci sono da ambo le parti. Ma non è una guerra tra Russia e Ucraina, bensì tra Russia e resto del mondo. Fin dal 2007, dalla Conferenza di Monaco, Putin ha detto che è ora di smetterla con il mondo dominato da una sola potenza. Perché possa esistere un mondo multipolare servono dei meccanismi che garantiscano la sicurezza di tutti. Da allora non ha mai smesso di dire questi: abbiamo nostri valori, non stanno bene all’Occidente e al globalismo? Beh, vanno comunque rispettati».
Insomma quella della Russia sarebbe un’azione difensiva?
«La Nato aveva promesso di non estendersi verso Est. Invece anche fonti non russe, come la rivista tedesca Spiegel, confermano che sono avanzati piano piano, in sostanza manca solo l’Ucraina per chiudere il fronte attorno alla Russia. Io ricordo il periodo catastrofico di Eltsin, quando vedevo i generali dell’esercito vendere le loro medaglie al mercato nero. La Russia all’epoca non poteva alzare la voce contro gli Usa, che ne approfittavano per bombardare Belgrado. Ora invece c’è una potenza militare e non permetteremo che venga compromessa la nostra sicurezza con basi Nato. In Ucraina poi agiscono incontrollate formazioni neonaziste che non sottostanno certo al governo di Kiev».
Vladimir Putin
È passato quasi un mese dall’inizio della guerra. Non crede che l’esercito russo stia incontrando ostacoli inaspettati?
«In Occidente si sostiene che la Russia stia avendo più difficoltà di quanto pensasse. Putin invece ha detto che tutto sta andando come nei piani. E che si sta attuando una tattica ben precisa: colpire obiettivi in modo chirurgico e non distruggere tutto con bombardamenti a tappeto».
Intanto però le bombe cadono anche su ospedali e teatri. Le vittime tra i civili ci sono eccome.
«Parliamo di centinaia, mentre con azioni massicce sarebbero state centinaia di migliaia».
Gianluca Savoini, Claudio D’Amico e Bruno Giancotti
Gli italiani che stanno in Russia secondo lei come la stanno vivendo?
«Per quello che vedo io, o sono indifferenti o per lo più condividono la linea di Putin. È solidale con il governo russo anche tanta gente che non ha nessun rapporto con il potere».
Chiudiamo tornando al Russiagate. Possibile che non fosse davvero lei «Gianko»?
«Non ero io, non so nulla di quella storia, altrimenti mi avrebbero indagato (la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per corruzione internazionale in cui all’epoca nel registro degli indagati figurava solo Gianluca Savoini, ndr).
Ma Savoini, D’Amico e Salvini li conosce, o no?
«Sì, ho introdotto io D’Amico e Savoini in Russia. Accompagnavo Salvini al Parlamento, ma non perché io sia della Lega. Io sto dalla parte della Russia. E chiunque sia amico della Russia è mio amico. In quel momento c’era un accordo tra il partito di Putin, Russia Unita, e la Lega. Gli audio del Metropole mi hanno reso famoso ma non ero io quello di cui si parlava. È vero che ho partecipato a trattative simili, ma esclusivamente di natura commerciale, non certo per finanziare la Lega. È il mio lavoro: faccio il mediatore commerciale. Credo che Savoini abbia avviato la trattativa per conto suo ma ci abbia messo dentro la Lega per rendere la cosa più appetibile. Invece era una pura trattativa commerciale, condotta però da chi di commercio non capisce nulla: degli imbecilli, da una parte e dall’altra. Vorrei però precisare un’ultima cosa».
Prego.
«Quello che sono diventato è dovuto solo alle mie capacità personali e non sono arrivato dove sono per vicinanza al potere. Le mie convinzioni non le vendo».
Però conosce bene diversi di quelli che vengono identificati come oligarchi, vero?
«Li conosco fin da quando non erano ricchi, fin da quando vendevano valuta al mercato nero scambiando rubli con dollari. Ora sono ultramiliardari».
L’assoluzione di Domenico Tallini un mese fa nell’ambito del processo Farmabusiness da parte del Gup distrettuale di Catanzaro Barbara Saccà ha disatteso le accuse di Gratteri e i suoi. In attesa del deposito delle motivazioni (tra circa 60 giorni) e di sapere se la Dda appellerà la decisione, il dato politico è chiaro: l’ex Presidente del Consiglio regionale è in gran spolvero.
«Occhiuto piccolo e meschino»
Subito dopo la pronuncia giudiziaria è stato tutto un susseguirsi di dichiarazioni alla stampa. Con una nota (molto formale) il coordinamento regionale di “Forza Italia Calabria” (che ha a capo il senatore Giuseppe Mangialavori che, però, non appone il suo nome in calce) affermava che l’assoluzione «restituisce dignità politica a un uomo delle istituzioni», con l’auspicio che «Tallini possa al più presto riprendere il cammino politico interrotto».
Mangialavori e Occhiuto durante l’ultima campagna elettorale per la Regione
Queste, invece, le parole del presidente della Regione, Roberto Occhiuto: «L’assoluzione dell’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini, è una bella notizia: è stata finalmente ratificata la sua estraneità ai fatti che gli venivano imputati. Allo stesso tempo altre decisioni arrivate oggi – 14 condannati, con pene che variano tra i 16 ed i 2 anni di reclusione – dimostrano che il processo ‘Farmabusiness’ era tutt’altro che campato per aria».
Il Mimmo furioso
La dichiarazione di Occhiuto ha mandato su tutte le furie Tallini. Che in una chat di WhatsApp con qualche centinaio di simpatizzanti politici si è lasciato andare. «Registro che il Presidente Occhiuto Roberto sembra più preoccupato delle ricadute negative sulla procura catanzarese che della mia estraneità ai fatti. Ambire ad essere un grande Governatore e nel contempo rilasciare dichiarazioni che dimostrano riverenze e sottomissioni nei confronti della magistratura… Significa essere piccoli e meschini».
Una versione edulcorata poi nella nota pubblica del suo “pupillo” e commissario di Forza Italia a Catanzaro, Ivan Cardamone: «Tallini meritava maggiore e più concreta fiducia dai vertici del partito… Una fiducia che non è stata ricambiata nel tempo».
Il ritorno in campo
Il ringalluzzito Tallini non ci sta a recitare ruoli di secondo piano né, tantomeno, a limitarsi a fare l’offeso. Forza Italia ha nicchiato di fronte all’accusa di concorso esterno e voto di scambio avanzata dalla Dda di Nicola Gratteri, ma, al contempo, non lo ha mai sostituito come commissario provinciale del partito. Certo, non sono mancati nuovi innesti politici catanzaresi voluti da Mangialavori che dovevano fungere da contraltare al “tallinismo”: in primis l’arcinemico Marco Polimeni – presidente del Consiglio comunale di Catanzaro e (ex?) pupillo dell’ex candidato Udc, Baldo Esposito – e Antonio Chiefalo, l’ex commissario cittadino della Lega.
Tallini vs Mangialavori: ennesimo round
La neo consigliera regionale Valeria Fedele
Sia alle Regionali che alle Provinciali di Catanzaro, Tallini e Mangialavori sono stati “separati in casa”. Nella prima competizione, il vibonese ha puntato le sue fiches su Michele Comito e (ma solo ad esclusione e per arginare altri non graditi competitor) Valeria Fedele. Tallini, a sua volta, fece votare la figlia dell’ex capogruppo regionale di Forza Italia, Claudio Parente, Silvia.
Alle Provinciali dello scorso dicembre, invece, i due notabili azzurri corsero con due liste separate. Mangialavori (con Fedele e Polimeni) con la lista “Noi in Provincia”, Tallini con “Centrodestra per la provincia”. Vinse la prima 3 a 1. Ma ora, con il round delle amministrative del capoluogo, si gioca una nuova partita, ancora più importante.
Come a Vibo non si può
Valerio Donato
Le amministrative di Catanzaro sono, da tempi non sospetti, l’emblema del trasversalismo e del trasformismo a tinte civiche. I partiti dimostrano la loro debolezza ed in questo momento è proprio il centrodestra, usurato dal ventennio di Sergio Abramo (nonostante la vittoria alle elezioni regionali e a quelle provinciali), ad essere in tilt (ci torneremo). I candidati di peso se la sono data a gambe. La parlamentare di Fdi, Wanda Ferro e il presidente del Consiglio regionale in quota Lega, Filippo Mancuso, hanno entrambi rifiutato la candidatura come primi cittadini. Lo stesso ha fatto il già citato Baldo Esposito.
E la tentazione di virare sul PD (leggasi “Partito di Donato”) si fa forte.
Lo stesso Mangialavori fece qualcosa di simile alle comunali di Vibo Valentia del 2015, virando sul magistrato Elio Costa. In quell’occasione Forza Italia rinunciò al simbolo, la Lega non c’era e Fratelli D’Italia corse da sola. Oggi un’opzione del genere non è praticabile, pena risultare un mero gregario dei centristi (in particolare del consigliere regionale vibonese Francesco De Nisi) che con Coraggio Italia e l’Udc si sono già posizionati sul “civico” Valerio Donato.
Tallini e le candidature
Dall’altra parte, si susseguono i comunicati di Domenico Tallini. Invita ora all’unità, ora a far cadere quelli che definisce «assurdi veti» (nello specifico, a suo dire, quello di Mangialavori sull’ex candidato azzurro Antonello Talerico). Si è ripreso la scena politica al punto da proporre al tavolo del centrodestra la candidatura a sindaco (nientepopodimeno che) del suo avvocato difensore, Valerio Zimatore. Insomma, uno stallo che ha, giocoforza, rimesso ai tavoli romani (più volte bistrattati in sede locale) una scelta che ancora tarda ad arrivare.
Il Comune di Catanzaro
Che Tallini si ricandidi a consigliere comunale pare cosa certa. Con buona pace delle ambizioni in area azzurra dell’assessore Ivan Cardamone e del consigliere provinciale Sergio Costanzo. Difficile che Tallini viri su Donato (politicizzerebbe troppo la candidatura e, dicono, non sarebbe ben accetto), per cui in spolvero, un po’ obbligato, c’è anche la sua fede partitica. Insider del Comune di Catanzaro parlano di una lite tra l’assessore Franco Longo, vicino al leghista Filippo Mancuso, e lo stesso Tallini. Secondo il gruppo che fa riferimento al presidente del Consiglio regionale, si vocifera, una candidatura diretta di Tallini sarebbe negativa per un centrodestra già ammaccato (e disgregato).
Lo sgambetto della Severino
La voglia di “contarsi” di Tallini, però, deve fare i conti con la legge Severino. Lo scorso gennaio, l’ex presidente del Consiglio regionale è stato condannato dal Tribunale di Catanzaro per abuso d’ufficio nell’ambito del processo “Multopoli”.
L’ex ministro Paola Severino
Il Decreto Legislativo 235 del 2012 (articolo 11, comma 1, lettera a) prevede la sospensione di diritto per 18 mesi per il consigliere comunale condannato con sentenza non definitiva per determinati reati, tra cui l’abuso d’ufficio. Una norma “salvata” dalla Corte Costituzionale che ritenne ragionevole che una condanna (ancorché non definitiva) per alcuni reati susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per garantire la “credibilità” dell’amministrazione presso i cittadini ed il rapporto di fiducia che lega la prima ai secondi (sentenza 236 del 2015).
La normativa e la giurisprudenza sono chiare: la sospensione arriva anche se la condanna avviene prima dell’elezione.
Insomma, il gioco alla “conta” che potrebbe fare Tallini subirà lo sgambetto della sospensione prefettizia in caso di elezione, non assegnando né a lui né a Mangialavori il punto di questo ennesimo round della sfida interna agli azzurri.
La metafora veicola una suggestione da scrittore, ma la sostanza restituisce il pragmatismo del manager: Santo Gioffrè nella vita ha fatto e fa entrambe le cose. Dunque, se gli si chiede cosa pensi della creazione dell’Azienda Zero come cura per la sanità calabrese, risponde così: «Mi sembra un tentativo di prendersi la carne e lasciare le ossa alle Asp».
La lobby masso-bancaria e la Sanità calabrese
Lui un’Asp l’ha guidata. Nel 2015 è stato commissario straordinario dell’Azienda più inguaiata di Calabria, quella di Reggio, raccontando poi quell’esperienza in un libro-testimonianza sulla «grande truffa nella sanità calabrese» . Quanto il suo sguardo sul «sistema» sia disincantato lo si intuisce subito: «C’è, almeno dal 2005, una lobby masso-bancaria che in combutta con i colletti bianchi ha creato un meccanismo attraverso il quale si è reso impossibile conoscere o risalire alla vera contabilità delle Asp».
L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria
Il nodo, secondo Santo Gioffrè, sta tutto lì: «Se non ricostruiscono il debito, portando a galla tutti gli interessi che ci sono dietro, possono inventarsi pure la luna». Dunque l’Azienda zero «in linea di principio potrebbe anche funzionare, ma in un contesto sano». In quello attuale, «se non sai se ciò che stai pagando è già stato pagato, come fai?». C’è poco da girarci attorno: «Bisogna accertare chi si è preso i soldi, quanti ne ha presi e come li ha presi. Un’operazione di questo tipo si vuole fare? Serve una volontà di ferro».
Il debito mai quantificato
Proprio in questi giorni Roberto Occhiuto si è mostrato sicuro: «Abbiamo messo su una procedura – ha annunciato su Facebook – per accertare il debito entro il 31 dicembre 2022». Se ne occuperanno dei «gruppi di lavoro» che, tra il Dipartimento regionale e le Aziende del servizio sanitario, dovrebbero avere il supporto della Guardia di finanza per provare a capire quanto sia grande il buco nei conti. E così riuscire dove hanno fallito, in 12 anni di commissariamento, fior di generali delle stesse Fiamme gialle e dei carabinieri.
Fin dall’avvio del Piano di rientro (era la vigilia di Natale del 2009) sono stati macinati commissari e spesi miliardi senza cavare un ragno dal buco. Con l’aggravante che ci si è avvalsi di una società, la Kpmg Advisory, che doveva appunto dare una mano nella ricognizione e riconciliazione del debito pregresso. È finita malissimo. Carlo Guccione ha dichiarato in consiglio regionale che, dal 2008, questa società ha ricevuto compensi per 11 milioni di euro. Ma l’entità del debito ancora non la sappiamo.
La Kpmg e quell’ufficio regionale
La storiaccia calabrese della Kpmg si incrocia, a questo proposito, con quella di una sigla poco nota ai non addetti ai lavori, BDE, che significa Bad Debt Entity. «Si trattava di un ufficio creato in Regione nel 2010 con l’intento di ripianare i debiti delle Aziende sanitarie e ospedaliere», spiega il manager-scrittore. I soldi, circa 500 milioni di euro, arrivavano da un mutuo contratto dalla Regione. «I debiti si pagavano in base alla certificazione delle fatture effettuata da Kpmg. Dopo 4 anni (fine ottobre del 2014) le somme residue sono state date, con una specie di forfait, alle Aziende: “pagate voi”, dissero da Catanzaro. E le Aziende cominciarono a fare le transazioni in base alle tabelle fornite da Kpmg».
Una delle sedi dela Kpmg, colosso internazionale della revisione contabile
Il meccanismo si inceppa
In uno schema di transazione utilizzato spesso dalle Aziende si sostiene che grazie alla BDE ci sarebbe stata «una riduzione del livello di indebitamento verso gli istituti tesorieri e un decremento dei relativi interessi passivi sulle anticipazioni di cassa nel corso dell’esercizio 2015». Qualcosa però deve essersi poi inceppato visto che negli anni successivi sono emerse «varie difficoltà da parte delle Aziende Sanitarie nell’efficace utilizzo delle risorse ricevute per il pagamento del debito pregresso, dovute principalmente alla carenza di figure professionali e competenze tecnico specialistiche nello svolgimento delle attività amministrative per il perfezionamento con i debitori di transazioni e nella emissione dei mandati di pagamento, nonché a difficoltà connesse alla verifica delle partite debitorie già pagate in esecuzione di assegnazioni giudiziarie, al fine di evitare pagamenti multipli per medesime fatture».
Le origini del bilancio orale secondo Santo Gioffrè
Ecco, le fatture pagate due volte ai privati. È proprio ciò che si è puntualmente verificato – come di recente confermato dalla Corte dei conti – e che Gioffrè ha denunciato. Da anni va ripetendo, carte alla mano, cosa si celi dietro i «pignoramenti non regolarizzati» a cui «mai nessuno, dal governo a ogni istituzione che ne avrebbe il dovere, ha voluto mettere mano». Come funzionava il sistema? «Le aziende creditrici si rivolgevano al giudice, che ordinava il pignoramento presso terzi, cioè alla banca che svolgeva il servizio di Tesoreria per l’Azienda. L’istituto bancario però non trasmetteva all’Asp le minute delle fatture che pagava. È questa l’origine del famigerato “bilancio orale” che ha sconquassato tutto. L’Asp non negativizzava quel debito, che rimaneva sempre attivo, anche se i soldi se li erano presi».
Dietro ci sarebbe la «lobby» che, grazie ai mancati controlli e a qualche complicità nelle stanze delle Asp, avrebbe provocato una lievitazione spropositata di pignoramenti non regolarizzati. Che quando Gioffrè si è insediato, a marzo del 2015, ammontavano a «circa 400 milioni di euro», ai quali va aggiunto il resto del contenzioso. «Quando ho capito il meccanismo mi sono messo in testa di ricostruire il bilancio, per farlo però avevo bisogno diventi persone che esaminassero ogni tipo di pagamento fatto. E lì mi hanno fermato».
In nove anni 600 commissari ad acta
Questo fa capire perché nessuno, dal 2013, sia riuscito ad approvare il bilancio dell’Asp di Reggio, dove in due anni si sono insediati «ben 600 commissari ad acta per il recupero crediti». Gioffrè legge incredulo la relazione in cui un suo predecessore parlava – era il 2014 – di «quasi 349 milioni corrispondenti a mandati di pagamento effettuati ma non ancora contabilmente imputati e regolarizzati». Vi si aggiungeva che «nel passaggio di consegne dal vecchio al nuovo tesoriere non sarebbero state fornite le carte e tutto ciò che veniva pagato non veniva inserito nel sistema di contabilità».
Tutte fuori dal Piano di Rientro, Calabria esclusa
Questa sarebbe l’origine di un disastro debitorio che, negli anni successivi, sarebbe arrivato a sfiorare, solo a Reggio, il miliardo di euro. Tutto a causa di una «complicità verticale» che ha reso «marcio» l’intero settore. La controprova? Semplice: «Su 10 Regioni entrate in Piano di rientro ormai oltre un decennio fa 9 ne sono uscite. La Calabria invece rimane in questa condizione e rischia di non uscirne mai. Perché il Piano di rientro ha a che fare con la finanza e l’economia. I calabresi sono numeri».
La sede della Regione Calabria a Germaneto
«Tutto ciò – conclude amaramente Gioffrè – ha prodotto un blocco delle assunzioni che ha fatto saltare due generazioni di professionisti e ha ridotto la capacità di dare risposte terapeutiche e di prevenzione. Con un aumento di mortalità pari al 4% rispetto alle regioni che non sono più in Piano di rientro. Non ci sono medici. C’è una sola università. Intanto paghiamo 330 milioni all’anno alle regioni del Nord per la mobilità passiva. Il sospetto che da Roma vogliano mantenerci in questa condizione sorge, eccome».
Promulgato il 16 marzo 1942, con la previsione che sarebbe entrato in vigore nel giorno del Natale di Roma, il successivo 21 aprile, il Codice civile italiano veniva preannunciato nel 1939 da Vittorio Emanuele III – nel discorso di apertura della XXX legislatura davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni – come il coronamento dell’opera di codificazione mussoliniana, già avviata con i codici penale e di procedura penale, che nel nuovo testo, secondo il regale avviso, avrebbe assunto “particolarissima importanza” soprattutto nella disciplina “del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra razza, alla quale il regime ha dato sin dall’inizio le sue più costanti energie”. Basti ricordare che nell’anno precedente il monarca non ebbe alcuna difficoltà a promulgare le leggi razziali, per comprendere come il passaggio del discorso appena ricordato dimostri, se ve ne fosse bisogno, che quelle ignominiose leggi erano pienamente condivise e non subite dal promulgante.
Il Codice civile del 1942
Codice civile, un testo fascista
Esaltato come tale, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale lo definiva “superba conquista della civiltà fascista”, narrandone le innovazioni e gli aggiornamenti determinati, rispetto alla “vecchia legislazione”, dall’influsso delle idee della “nuova civiltà nazionale e fascista”. Insieme al codice di procedura civile, a quello della navigazione e alla legge fallimentare – si diceva certo l’alto magistrato – “entrando in attuazione nel mentre la guerra infuria, queste leggi costituiscono un potente strumento di compattezza e di resistenza morale e politica e danno una base salda e duratura alle realizzazioni dell’immancabile vittoria, che schiuderà all’Italia nuovi spazi vitali nel mondo”.
Una profezia fallace
La firma dello Statuto Albertino
Nel luglio 1943 cade il fascismo, il monarca prima plaudente fa arrestare Mussolini, la guerra è persa e viene firmato l’armistizio. Viene soppresso l’ordinamento corporativo, indicato fra le fonti del diritto nella prima disposizione preliminare al codice civile, ma il codice sopravvive intonso fino al 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana, che sostituisce alla posizione centrale dell’ordinamento giuridico, in precedenza (i.e. Statuto albertino) assunta dall’autorità statuale (che poteva, ad esempio, permettersi anche di varare leggi razziali), i diritti naturali della persona umana, inviolabili da chiunque, anche dallo Stato.
La rivoluzione copernicana del nuovo Codice civile
Una vera e propria rivoluzione copernicana che, ponendo al centro la persona, afferma le libertà del cittadino, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, contemperandole con i doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); dichiara la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro eguaglianza, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, assegnando alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).
Tale rivoluzione mette in discussione l’impianto stesso del codice civile, che tuttavia non viene rimosso dal legislatore ordinario e continua a regolare la vita dei cittadini ed i loro rapporti, quasi che l’impatto costituzionale dovesse riguardare prevalentemente il diritto pubblico (quod ad statum rei romanae spectat), ma meno incisivamente il diritto privato (quod ad singulorem utilitatem). Si teorizza che le norme costituzionali hanno soprattutto carattere programmatico, riservando al legislatore il compito di attuarle con nuove leggi. Inizia in tal modo il percorso, oggi giunto al compimento degli ottanta anni, attraverso il quale il codice, navicella costruita per navigare nel mare del sistema corporativo e del regime autoritario, affronta la sfida della navigazione in tutt’altro mare e con punti cardinali mutati.
Ottant’anni di cambiamenti
In questi ottanta anni sono intervenute sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità di singole norme, ma non sono mancate riforme legislative parziali, che però hanno mutato l’assetto di specifiche materie senza incidere sull’impianto generale. La materia del lavoro, ad esempio, rimasta orfana dell’ordinamento corporativo, non ha conosciuto una riforma del codice ed è stata affidata alla legislazione speciale e alla contrattazione collettiva, con la mutevolezza che ne è derivata nelle diverse stagioni politiche. Viceversa la materia commerciale, che aveva trovato dimora nel codice civile per “scelta fascista” (nella codificazione ottocentesca esistevano due distinti codici: quello civile e quello di commercio), è stata mantenuta a dimora e tuttavia riformata più volte soprattutto con riferimento al diritto societario.
Il Codice civile e le famiglie
Laddove l’azione riformatrice è stata più incisiva, nel diritto di famiglia, il progresso è stato molto lento. Ci sono voluti ventisette anni, nel 1975, evidentemente sull’onda del referendum popolare del 1974 che ha respinto le istanze di abrogazione della legge sul divorzio, perché il legislatore si decidesse a porre mano all’art. 144 (Potestà maritale) che, in contrasto con il principio di uguaglianza fra i sessi, sancito dall’art. 3 Cost., recitava: “il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.
Cittadini in piazza contro l’abrogazione del divorzio
Le ragioni di tanto ritardo sono tutte culturali e non hanno mancato di influenzare persino i lavori dell’Assemblea Costituente, se nel testo dell’art. 29 della Costituzione è dato leggere, con chiaro riferimento alla norma del codice allora vigente, che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come dire: una sorta di autorizzazione al legislatore ordinario a perpetrare discriminazioni della donna che infarcivano il codice sopravvissuto al fascismo, facendo prevalere il bene dell’unità familiare, costi quel che costi alla felicità delle persone, sulla parità di diritti e doveri dei coniugi.
Per non parlare poi del discrimine tra famiglia fondata sul matrimonio e convivenze di fatto (che ha trovato un accomodamento con la legge sulle unioni civili nel 2016), tra figli legittimi e naturali (equiparati solo nel 2012), ed ancora tra matrimonio e unioni civili (per le quali il legislatore che le ha istituite nel 2016 si è preoccupato di marcare la differenza con il matrimonio escludendole dal dovere di fedeltà).
Tante norme immutate
A fronte delle riforme alle quali si è fatto cenno, che sono intervenute in questi ottanta anni, la maggior parte delle norme del codice sono rimaste immutate. Ciò riguarda interamente il diritto delle successioni, quasi integralmente il diritto di proprietà e gli altri diritti reali, l’impianto del diritto delle obbligazioni e del contratto in generale. Tante innovazioni sono state apportate, senza modificare le norme del codice, attraverso la legislazione speciale, per cui si è formata una normativa parallela che ha disciplinato settori come, ad esempio, il diritto delle assicurazioni ed i contratti dei consumatori, introducendo principi e regole divergenti da quelle codicistiche.
Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti
Un settore che soffre in particolar modo del mancato adeguamento del testo normativo al mutamento della realtà economica e sociale è quello della responsabilità civile. In esso, ma non è il solo, al legislatore si è sostituita la magistratura che, assolvendo ad una funzione di supplenza, non sempre virtuosa, ha iniziato persino a ”creare” norme non scritte nella legge.
La cosiddetta giurisprudenza creativa è oramai una realtà ineludibile, frutto di carenze imputabili ad un legislatore sempre più distratto e sempre meno tempestivo nel cogliere i mutamenti della società e le esigenze di regolazione di fenomeni nuovi (si pensi all’impatto che stanno determinato nella vita di tutti noi le nuove tecnologie e le intelligenze artificiali). Fenomeni che non possono trovare adeguata disciplina in un codice civile che, al netto delle riforme parziali intervenute, è in gran parte rimasto immutato in questi ottanta anni. Un codice prodotto dal fascismo, costituzionalizzato alla meno peggio, sempre meno pronto a garantire la certezza del diritto, vecchio di ottanta anni. E li dimostra tutti.
Vincenzo Ferrari Avvocato e Professore di Diritto Privato nell’Università della Calabria
Tra i tanti misteri del delitto Moro e dell’agguato di via Fani, quello che riguarda Giustino De Vuono resta uno dei più inquietanti, forse anche perché apre piste mai esplorate fino in fondo. Queste piste potrebbero portare oltre le dinamiche tipiche dell’eversione, soprattutto rossa, e al di fuori dei centri nevralgici, le grandi aree industriali, in cui operavano i gruppi di terroristi.
Potrebbero portare, rispettivamente, alla criminalità organizzata (e a certi settori deviati dello Stato) e alla Calabria.
Il rapimento di Aldo Moro: troppa potenza per dei dilettanti
Il commento più forte sull’agguato di via Fani proviene da un calabrese famoso, di cui è innegabile l’elevato spessore politico e culturale: Franco Piperno.
L’ex leader di Potere Operaio parlò di “geometrica potenza” a proposito dell’azione con cui il gruppo di fuoco delle Brigate rosse sterminò la scorta di Aldo Moro senza fare neppure un graffio all’illustre prigioniero.
De Vuono (a sinistra) e Nirta (a destra) a via Fani
Su quest’agguato restano importanti alcune dichiarazioni di Alberto Franceschini, fondatore e leader storico delle Br, che a suo giudizio non potevano avere la preparazione militare idonea per mettere a segno un “colpo” come quello del 16 marzo 1978. Gli unici a loro agio con le armi, secondo Franceschini, sarebbero stati Mario Moretti e Valerio Morucci. Ma le perizie su via Fani parlano chiaro: per far fuori i cinque uomini della scorta furono sparati circa 91 proiettili da tre armi diverse. Oltre 40 di questi colpi, tutti andati a segno, proverrebbero da una sola arma. Troppo, anche per persone addestrate.
La foto segnaletica di Giustino De Vuono
Dopo poche ore, le forze dell’ordine fanno girare alcune foto segnaletiche. Una di queste riguarda Giustino De Vuono, detto “lo Scannato” o “lo Scotennato”.
E questa foto ha un riscontro importante in un’altra foto, presa a via Fani proprio la stessa mattina dell’agguato: vi sono ritratte due persone, una identificata in Antonio Nirta, boss di San Luca in Aspromonte. L’altra ricorda De Vuono.
Giustino De Vuono, da legionario a killer
Il motivo per cui gli inquirenti sospettano di De Vuono in relazione ad Aldo Moro è un altro. Nato a Scigliano, a circa 40 km da Cosenza nel 1940, Giustino De Vuono è il figlio irrequieto di un barbiere.
Così irrequieto che a un certo punto lascia il paese per arruolarsi nella Legione straniera. Fa ritorno, così raccontano i suoi compaesani quattro anni dopo. È sempre irrequieto, ma è più forte e determinato. Soprattutto, ora spara da Dio.
Uno così, in Calabria può avere molte opportunità. Soprattutto come killer.
Giustino De Vuono legionario
Infatti, De Vuono partecipa a rapine, rapimenti ed estorsioni. Ed entra ed esce di galera. Ma anche dall’Italia: si reca spesso in Sudamerica, dove fa la spola tra Uruguay e Brasile. La sua specialità, secondo gli esperti e i testimoni dell’epoca, sono le armi automatiche, che maneggia con gran precisione. Una precisione che gli consente di “firmare” i suoi delitti con una raggiera di colpi attorno al cuore delle vittime.
Questa “firma” sarebbe apparsa anche sul cadavere di Moro. E avrebbe consentito a don Cesare Curioni, l’ispettore dei cappellani penitenziari che seguiva la trattativa per liberare Moro su incarico di papa Paolo VI, di riconoscere De Vuono come killer.
Questo stando alla testimonianza di don Fabio Fabbri, il vice di don Curioni, riportata da Giovanni Fasanella nel suo Il puzzle Moro (Chiarelettere 2018).
Il sequestro e la pista calabrese
Ma dove porta questa pista? Alle agenzie specializzate in contractors? Alla criminalità organizzata? O a entrambe? Di sicuro arriva in Calabria, come dichiarò durante il processo per il delitto Pecorelli nel 1997 l’ex deputato siciliano Benito Cazora, incaricato dai vertici della Dc di avviare dei contatti informali con la malavita calabrese, molto attiva a Roma negli anni ’70. Cazora dichiarò ai magistrati di Perugia che un calabrese, conosciuto come Rocco, avrebbe indicato al questore di Roma il rifugio di via Gradoli.
Lo stesso Rocco, inoltre, avrebbe offerto il suo aiuto proprio a Cazora. Questa testimonianza riporta a De Vuono, che sarebbe stato identificato da alcune persone proprio a via Gradoli, travestito da uomo delle pulizie…
Ma per conto di chi avrebbe agito De Vuono, di cui non risultano grandi passioni politiche, se non una generica simpatia per l’eversione di sinistra?
Mino Pecorelli
Ad ogni buon conto, l’ipotesi De Vuono è presa sul serio anche da Mino Pecorelli, che scrisse in un celebre articolo del suo settimanale Op a gennaio 1979: «Posso solo dire che il legionario si chiama De e il macellaio si chiama Maurizio». Dove Maurizio è il nome di battaglia con cui Mario Moretti era conosciuto nelle Br.
Inutile dire che Pecorelli, ammazzato due mesi dopo il suo articolo sibillino, esibiva una conoscenza dei fatti superiore a quella degli altri giornalisti (tra l’altro, gli si attribuisce la conoscenza della versione completa del memoriale di Moro) che tutt’oggi risulta stupefacente e indicativa dei suoi rapporti col mondo dei servizi…
De Vuono dal Sud America a via Fani per Aldo Moro?
L’unico punto debole di questa ricostruzione, comunque suggestiva, proviene da un rapporto del Sismi, secondo cui l’ex legionario De Vuono all’epoca del sequestro di Aldo Moro si trovava in Sudamerica. Questo rapporto è confermato dalla polizia del Paraguay, che lo considera presente sia nel proprio Paese sia in Brasile.
Tuttavia, ciò non avrebbe impedito al supercecchino di spostarsi, anche in incognito, e di essere a Roma nei momenti clou del sequestro: cioè l’agguato di via Fani e l’uccisione dello statista, della quale si autoaccusò Moretti.
La scena dell’agguato di via Fani
La fine misteriosa di Giustino De Vuono
De Vuono sparì dall’Italia e fu arrestato nel 1983 in Svizzera, dove si trovava sotto falsa identità. Avrebbe passato i successivi dieci anni in galera a Caserta, dove sarebbe morto nel 1994. Il condizionale è quasi un obbligo, perché della sua tomba a Caserta non si trovò traccia. Ma, dato curioso, la sepoltura è stata trovata a Scigliano, senza che sia emersa la documentazione relativa allo spostamento della salma.
È l’ultimo mistero di un tiratore formidabile…
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