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  • Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    Palamara, de Magistris, Morra: il trio anti massomafia ne ha per tutti

    «Chi doveva guardarmi le spalle mi ha accoltellato», dice un Luigi de Magistris particolarmente carico.
    «Già, perché il sistema, come ho detto più volte e infine scritto nel mio libro, ha avuto i suoi anticorpi», gli fa eco Luca Palamara.
    Un incontro tra ex: colleghi e nemici, in entrambi i casi come magistrati. Anche a Cosenza, la sera del 27 aprile, si ripete il copione già visto più volte in tv, quando Lobby & Logge, l’ultimo libro scritto da Palamara assieme ad Alessandro Sallusti, teneva banco nel dibattito pubblico.

    C’eravamo tanto odiati

    Già: c’è voluta la brutta guerra tra Russia e Ucraina per frenare l’impatto mediatico di Lobby & Logge. Ma ciò non toglie che i miasmi del pentolone scoperchiato dall’ex capo dell’Anm continuino ad attirare attenzione.
    Calati nel contesto calabrese, poi, sollevano polemiche e stimolano riflessioni sul filo del non detto.
    «Mi fa piacere che oggi Palamara riconosca la gravità di ciò che mi è accaduto», incalza de Magistris, che ha partecipato al dibattito più come ex sostituto procuratore di Catanzaro che come ex sindaco di Napoli ed ex candidato a governatore della Calabria.
    «Io cerco di raccontare con onestà quel che ho visto e ho vissuto». Ribadisce Palamara. E prosegue: «All’epoca di Why Not trovai eccessivo il decreto di perquisizione di Gigi, che sembrava fatto apposta per essere pubblicato sui giornali». È l’onore delle armi, che tra l’altro Palamara ha reso in più occasioni al suo interlocutore.

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    Luigi De Magistris a Cosenza durante la campagna elettorale per le Regionali 2021 (foto Alfonso Bombini)

    Morra, il terzo incomodo

    Nel dibattito di Cosenza, moderato dal giornalista e scrittore Arcangelo Badolati, c’è un terzo incomodo: l’ex grillino Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia.
    Morra calabresizza ancora di più, se possibile, l’argomento e lancia alcune bordate. Innanzitutto, a proposito delle toghe nostrane borderline: «Si parlava di quindici magistrati di Catanzaro nell’occhio del ciclone. Ora, tranne Marco Petrini, tutti gli altri mi pare siano al loro posto». L’affaire Petrini diventa la scusa per un altro affondo: «Ricordo a me stesso che Marcello Manna è stato interdetto, per questa vicenda, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno. E trovo gravissimo che i sindaci calabresi abbiano eletto Manna, nonostante questa situazione, presidente dell’Anci regionale».

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    Il giudice Marco Petrini

    Guai ’i nott e altre storiacce

    Qualche buontempone ha napoletanizzato Why not, l’ex inchiesta monstre di de Magistris, in Guai ’i nott, guai di notte. E i guai erano belli grossi. A Palamara, che ha argomentato sul lobbismo in magistratura, l’ex sindaco di Napoli ha raccontato una storia concreta. La sua.
    «Mastella, il ministro della Giustizia, mi fece trasferire perché indagavo il suo presidente del Consiglio. Ma neppure nell’Italia fascista, una storia così». Il sottinteso dell’ex pm è chiaro: conflitto d’interesse.
    E ancora: «Finché indagavo solo personaggi vicino al centrodestra, ricevevo qualche applauso dall’altra parte. Poi, quando ho ampliato le inchieste, le cose sono cambiate».
    Una conferma in più a quanto sostenuto da Palamara, che in varie occasioni ha graticolato l’ex presidente Napolitano, accusato di essere il protettore delle trame delle lobbies in toga.

    A proposito di logge

    A ciascuno la sua loggia, rigorosamente deviata. Per Palamara è la famigerata loggia Ungheria, per de Magistris fu la loggia di San Marino, che emerse sulla stampa quando Why not era nel vivo.
    Le espressioni “massoneria deviata” e “massomafia” riecheggiano nella sala a più riprese, più attraverso de Magistris e Morra che tramite Palamara, che in maniera più pragmatica parla di lobbismo. In realtà, forse, si dovrebbe parlare di cricche o di grumi di potere. Ma, a proposito di grembiuli, emerge un nome: Giancarlo Pittelli, ex big di Forza Italia, che fu l’inizio della fine di Gigi magistrato.
    «Il mio procuratore capo mi tolse l’inchiesta quando arrivai a Pittelli, che era vicinissimo a lui e a sua moglie». Insomma, la complessità calabrese fa passare in secondo piano i racconti da brivido di Palamara.

    L’affaire Gratteri

    Le domande su Nicola Gratteri, l’idolo dell’anti ’ndrangheta, di solito sono scontate. Quella rivolta da Badolati a Palamara lo è di meno: «Secondo lei Nicola Gratteri riuscirà a diventare capo della Direzione nazionale antimafia?». La risposta è in tema col dibattito: «La vedo davvero difficile, perché Gratteri è fuori dalle correnti».

    Palamara, Morra, Badolati e de Magistris durante la presentazione del libro

    Palamara, de Magistris, Morra e i fantasmi eccellenti

    «Quando si muore, in Italia si diventa eroi», dice con amara retorica de Magistris.
    «Se avessi fatto le tue inchieste nel ’92, l’esito sarebbe stato diverso, forse peggiore», commenta sinistro Palamara.
    Morra aggiunge il ricordo di Falcone e Borsellino, diventati eroi solo dopo gli “attentatuni”. Prima, invece, erano nel mirino di tanti, a partire dai loro colleghi: «Le loro carriere e inchieste furono ostacolate proprio dal Csm», chiosa il presidente della Commissione antimafia.
    Il riferimento, scontatissimo, va al trentennale imminente delle stragi del ’92 in cui morirono i protagonisti del maxiprocesso.
    Una volta le toghe dovevano essere rosse. Oggi non basta più: devono essere rosso sangue.

    Il pubblico cosentino presente all’incontro
  • Umberto De Rose, il volto grigio del potere

    Umberto De Rose, il volto grigio del potere

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    Oggi è difficile dire che fine farà Umberto De Rose, il tipografo passato alla storia per la vicenda del Cinghiale.
    Non ha più giornali da stampare, anche perché l’informazione su carta stampata è morta. Inoltre, gli equilibri di potere del vecchio centrodestra, che ne avevano propiziato l’ascesa, non esistono più.

    Un colore esprime la sua parabola: il grigio. È il colore dei notabili di seconda fila, che fanno carriera a prescindere dalla loro modestia e grazie alle cordate di cui fanno parte.
    Ogni cosa ha un prezzo e De Rose, con le gaffe per conto terzi e le rogne giudiziarie, ha pagato il suo.

    Il tabloid come destino

    «De Rose non è un editore ma stampa il giornale che leggi», recitava un paginone autocelebrativo apparso più volte fino al 2010 su tutti i giornali usciti dalle sue rotative e poi ripetuto da mega manifesti affissi nelle zone principali della regione.
    Umberto De Rose ha stampato praticamente tutti i giornali della Calabria tranne due: La Gazzetta del Sud e Il domani della Calabria. E tutti i giornali stampati da lui avevano una caratteristica: il formato tabloid, che, come sanno gli addetti ai lavori, era il formato tipico dei giornali scandalistici, a partire dal Sun.

    Nel caso di De Rose questo formato era obbligato perché il suo stabilimento di Montalto Uffugo non era attrezzato per produrre il “lenzuolo”, cioè lo standard dei giornali “seri”.
    La famiglia Dodaro si è sottratta al monopolio di De Rose e, dal 2004, ha stampato Il Quotidiano della Calabria (poi del Sud), con mezzi propri. Tutti gli altri, invece, hanno avuto a che fare con lui. E sono falliti tutti, uno dopo l’altro.

    La strage di carta

    Delle due l’una: o Umberto De Rose è cattivo oppure porta sfiga. Probabilmente nessuna delle due: è solo un tipografo che ha continuato a stampare, a caro prezzo, nel momento storico in cui i nuovi media minacciavano l’informazione cartacea, già declinata da un pezzo.
    Fatto sta che tutti i giornali stampati da lui hanno chiuso grazie ai debiti vantati dal tipografo.

    Un’eccezione vistosa al diritto fallimentare, secondo il quale i crediti dei lavoratori dovrebbero precedere quelli dei fornitori. In Calabria non è così: le maestranze dell’editoria periodica, numerose e malpagate, sono venute dopo le esigenze di una stamperia che, secondo i canoni industriali, è un’azienda di medie dimensioni. Ciononostante, De Rose, è diventato prima presidente regionale di Confindustria poi di Fincalabra.

    Umberto De Rose e il Cinghiale

    Umberto De Rose non è stato condannato, ma il suo numero telefonico notturno con Alfredo Citrigno resta un esempio di trash da manuale.
    A partire dal linguaggio colorito, per finire con le argomentazioni, in apparenza minacciose. E poi la perla di comicità involontaria e amara: il nomignolo appiccicato quasi per caso a Tonino Gentile (e per estensione a tutta la famiglia): il Cinghiale.
    In realtà, De Rose usava la metafora del cinghiale («’u cinghiale quann’è feritu mina ad ammazza’»), ogni tre per due.

    Sul punto possiamo essere garantisti, anche più dei magistrati che hanno assolto lo stampatore dall’accusa di violenza privata nei confronti di Citrigno jr, all’epoca editore de L’Ora della Calabria. Le sue metafore, in apparenza sinistre, le sue esortazioni tamarre («L’ha cacciata ’sta cazz’i notizia?») erano un’espressione genuina di antropologia calabrese del potere.
    De Rose, amico della famiglia Citrigno, ma anche dei Gentile, è un uomo a cavallo di più ambienti e mondi. Vive dei loro equilibri e cerca di mantenerli, perché ne teme i contraccolpi.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    In principio fu la Provincia

    Nel resto d’Italia, la carta stampata perde colpi dall’inizio del millennio, quando l’informazione inizia a spostarsi sulla rete. In Calabria, escono giornali su giornali, che si contendono circa 40mila lettori.
    Ma i giornali significano potere e comunicazione per i notabili. E per De Rose che, stampandoli, mette a disposizione delle piattaforme.
    È il caso della Provincia Cosentina, fondata da Piero Citrigno nel ’99, poi ceduta al costruttore Rolando Manna a inizio millennio, infine collassata nel 2008 tra le mani di una società di giornalisti. Il colpo finale è stato il grosso debito col tipografo.

    Piero Citrigno

    Calabria Ora e figli

    Storia simile per Calabria Ora, fondata sempre da Citrigno assieme all’imprenditore Fausto Aquino. Questo giornale, se possibile ha avuto una storia più travagliata: cinque direttori in otto anni di vita, due cambi di società e una tragedia (il suicidio di Alessandro Bozzo). Infine lo scandalo delle rotative bloccate per non far uscire la “cazz’i notizia”, relativa alla presunta inchiesta su Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino.

    Alla fine della giostra, Citrigno è rimasto col cerino in mano: una condanna per bancarotta fraudolenta e una per violenza privata. Alla maggior parte dei giornalisti, rimasti a spasso, sono rimaste le vertenze e le querele. Il motivo della chiusura? Gli 800mila euro di debiti nei confronti di De Rose.

    Morto un giornale se ne stampano altri due

    A questo punto, lo stampatore dovrebbe essere fuori gioco. Invece no: dalle ceneri de L’Ora della Calabria nascono Il Garantista e La Provincia di Cosenza.
    Il primo, fondato da Piero Sansonetti, ex direttore dell’Ora, dura 18 mesi, grazie anche ai contributi statali per l’editoria. Inizialmente non è un tabloid perché è stampato fuori regione da un tipografo meno caro ma più preciso. Poi arriva la crisi e finisce nelle rotative di Umberto De Rose. Il quale mette benzina: circa 300mila euro che servono a pagare la previdenza. Ma si rifà alla grande: ne incassa 500mila, tolti dal finanziamento pubblico. Poi il giornale chiude e ai giornalisti restano solo gli ammortizzatori.

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    Piero Sansonetti

    Peggio ancora per La Provincia di Cosenza, fondata da un gruppo di ex redattori dell’Ora e poi passata di mano in mano e da una redazione all’altra. Fino alla chiusura, in cui hanno avuto un ruolo principale i crediti di De Rose.
    Non finisce qui: nel frattempo (2016) dalle ceneri de Il Garantista nasce Cronache di Calabria, affidato a una vecchia gloria come Paolo Guzzanti. Inutile dire che il destino è il medesimo. I tramiti di queste iniziative sono due pubblicitari, Francesco Armentano e Ivan Greco, già sodali di Citrigno e uomini di fiducia di De Rose. A loro si deve il paradosso curioso per cui, mentre altrove i giornali, anche gloriosi, chiudono i battenti in Calabria le rotative continuano a girare alla grande.

    Umberto De Rose e Fincalabra

    Durante l’era Scopelliti, Umberto De Rose raggiunge il massimo e porta all’incasso l’impegno politico del decennio precedente, nel quale si era candidato a sindaco in quota Forza Italia (quindi Gentile) contro Eva Catizone.
    Con lo scandalo di Calabria Ora (se preferite, Oragate, o Il Cinghiale) arriva la prima gomitata seria all’immagine pubblica del Nostro. In questa vicenda c’è chi, con una certa malignità, fa brutti paragoni in famiglia. Cioè tra Umberto e suo papà Tanino, tra l’altro notabile di prima grandezza della massoneria cosentina, considerato un galantuomo vecchia maniera.
    Ma questi sono dettagli rispetto ad altre faccende, decisamente più serie.

    Una di queste è il processo per le consulenze in Fincalabra. Al riguardo, riemerge il cognome dei Gentile, associato ad Andrea e sua sorella Lory. Per i contratti di collaborazione a favore dei due, De Rose finisce nel mirino della Corte dei Conti e della magistratura penale. Mentre la posizione di Andrea viene stralciata quasi subito, Lo stampatore passa i guai per il contratto di Lory e di altre due persone: il Tribunale di Catanzaro gli infligge un anno e otto mesi nel 2017. La Corte d’Appello azzera la condanna due anni dopo.
    Resta a suo carico la responsabilità contabile per danno erariale, stabilita dalla Corte dei Conti.

    Fine della storia?

    Il grigio è definitivamente stinto nelle carte bollate e nei debiti (altrui). E la parabola di De Rose è in calo. Già, lui non è mai stato un editore. E in compenso non stampa più, perché nessuno legge quasi più i vecchi giornali.
    Tutti gli imperi si logorano e i castelli crollano. Ma quelli di carta lo fanno per primi.

  • Riportiamo il municipio nei centri storici a Cosenza e Rende

    Riportiamo il municipio nei centri storici a Cosenza e Rende

    Sfiorando il tema conservazione/innovazione, ovvero vecchio/nuovo, sottopongo all’attenzione dei lettori e degli amministratori di Cosenza e di Rende due significativi episodi urbani e una proposta per arricchire il dibattito ammesso da Francesco Pellegrini sul quotidiano on line I Calabresi per contribuire alla costruzione dell’auspicata città Cosenza-Rende (asse centrale della metropoli circolare ambita da Massimo Veltri?).

    Da corso Telesio a piazza dei Bruzi

    Il primo episodio urbano riguarda Cosenza, il capoluogo della sua provincia “recondito, raccolto e tranquillo al di là del Busento” quando, nel dopo guerra, seguendo il piano delineato un po’ di anni prima dall’architetto Gualano, si stava separando dalla “nuova” città di valle.
    Attraversando il ponte S.Domenico sul Busento, si raggiungeva, e si raggiunge tutt’ora, il rione del Carmine, dove nel 1950, di fronte al termine della statale 19, ovvero all’inizio di corso Mazzini, si stava realizzando la sede del “nuovo” Municipio di Cosenza.

    La Casa delle Culture, sede storica del municipio di Cosenza prima del trasferimento in piazza dei Bruzi

    Il nuovo Municipio era in posizione di cerniera tra il “vecchio” e il “nuovo” e non ci si preoccupava allora, non si era consapevoli, degli effetti che avrebbe provocato il trasferimento del Municipio dalla città collinare a quella di valle. Sottrarre una funzione urbana così vitale come era allora il Municipio spostandolo dalla Cosenza “vecchia” alla parte “nuova”, significava togliere centralità alla parte “vecchia”, declassarla e destinarla all’abbandono. Oggi lo sappiamo con certezza, il trasferimento dal “vecchio” al “nuovo” è la negazione dell’innovazione nella conservazione.

    Il bis di cinquant’anni dopo

    Il secondo episodio urbano riguarda Rende. All’inizio del secondo millennio, cinquant’anni dopo Cosenza, l’Amministrazione di Rende costruiva in valle, in adiacenza della “nuova” Chiesa, il “nuovo” Municipio della città in posizione centrale rispetto alla “nuova” Rende, rendendo un servizio utile e necessario ai “nuovi” cittadini. Ovviamente il “nuovo” Municipio di Rende ha avuto l’effetto di declassare il “vecchio” borgo dove nel castello aragonese si era innovato, ampliato e conservato nei decenni il Municipio “vecchio”, reso più facilmente accessibile da una scala mobile vanto della stessa Amministrazione.

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    La sede del Comune di Rende

    Sottrarre una funzione urbana ancora vitale dal centro storico di Rende rinunciare alla conservazione/innovazione del Municipio è un comportamento diverso dal precedente. Tuttavia i tempi cambiano e molti rendesi hanno scelto la residenza “nuova”, anziché innovare le residenze “vecchie”. Si sa le scelte dei residenti mutano di continuo e l’attività lavorativa da casa potrebbe favorire il ritorno dei residenti nel “vecchio” borgo.

    Cosenza e Rende tra il vecchio e il nuovo

    Oggi le nuove tecnologie hanno ridotto di molto la forza urbana vitale dei Municipi. In molte città i Municipi si moltiplicano per offrire servizi vicino ai cittadini. Potrebbe essere molto significativo, in entrambi i casi di Cosenza e di Rende, riportare il municipio, o parte di esso, nel “vecchio”, senza rinunciare al “nuovo”.

    Il castello di Rende ospitava il municipio

    Sarebbe un segnale di riscatto per tutti i centri storici della Calabria. Un’azione in contemporanea delle due amministrazioni potrebbe alimentare l’anelito verso la omogenea e unitaria città Cosenza–Rende. Un’esemplare doppia dimostrazione del valore che oggi ha per i centri storici il binomio conservazione/innovazione.

    Empio Malara
    architetto

  • Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

    Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

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    Oggi è consigliere comunale di Napoli, ma Antonio Bassolino ne è stato sindaco per due mandati consecutivi. Deputato alla Camera per due legislature nel gruppo PCI-PDS, poi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel primo governo D’Alema, presidente della Regione Campania per due mandati di fila. Già esponente del PCI, del PDS e dei DS, è stato tra i fondatori del Partito Democratico, che ha in seguito abbandonato nel 2017.

    Viviamo tempi drammatici. Da due mesi, nel cuore dell’Europa è tornata la guerra, con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Cosa cambierà questo terribile conflitto nelle relazioni internazionali e nelle nostre vite?

    «L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è un fatto molto grave. Bisogna sempre usare un linguaggio di verità: siamo di fronte all’aggressione di un paese libero e sovrano da parte di un altro. Bisogna fare ogni sforzo perché si ponga fine al conflitto armato e si affermi la strada del negoziato e della pace. Più forte deve dunque essere il ruolo dell’Europa che proprio in questa tempesta ha di fronte a se stessa il compito di ripensare e rilanciare il suo ruolo e di cominciare finalmente a dare vita ad una propria e comune politica estera e di difesa».

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Con la pandemia l’Europa ha impresso un passo di accelerazione, con la decisione di varare un programma di rilancio con risorse comuni, anche indebitandosi sul mercato finanziario. Stiamo cogliendo questa opportunità, come europei, come italiani e come meridionali?

    «Sulla pandemia l’Europa è riuscita ad andare oltre le politiche di austerità degli anni scorsi e a varare impegnativi programmi di investimenti sul terreno dello sviluppo e nel campo sociale. È un passo in avanti, ed ognuno deve fare la sua parte. Per un paese come il nostro, in particolare per il Mezzogiorno, è una grande opportunità. La sfida è tutta aperta ed è in corso. Dalla capacità delle istituzioni, delle forze politiche e sociali di saperne essere all’altezza dipende in gran parte il futuro del nostro paese».

    Ma il PNRR riesce a cogliere e ad esprimere tutte le esigenze di trasformazione che sono necessarie per il rilancio delle regioni meridionali?

    «È necessario considerare il PNRR assieme alle altre risorse europee e alle nostre scelte nazionali. Questo vale soprattutto per il nostro Sud. Saper utilizzare tutte le risorse disponibili è fondamentale anche per creare un ambiente favorevole all’attrazione e all’impegno di capitali imprenditoriali privati. Sono dunque indispensabili una piena collaborazione tra tutte le istituzioni nazionali, regionali e comunali e, aggiungo, un clima che consenta la nascita di un patto sociale e per lo sviluppo con le forze produttive e sindacali».

     

    Nella politica nazionale si sta manifestando quella maturità necessaria per comprendere che senza la ripresa del Mezzogiorno non potrà ripartire l’economia del nostro Paese?

    «Soltanto in parte, ed invece è proprio questa la questione fondamentale. È nel Mezzogiorno la principale chiave di volta per consentire a tutto il paese di fare il salto necessario valorizzando tante potenzialità ancora inespresse. È nel Nord che deve davvero e fino in fondo maturare questa convinzione: mai come ora è nei prossimi anni il destino del paese è legato da un filo unitario. Spetta poi a noi meridionali far crescere questa consapevolezza con l’esempio di buone pratiche istituzionali ed amministrative e stare attenti a non far diffondere illusioni sudiste perché noi abbiamo di sogno di un Nord forte così come il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte di quello di oggi».

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    Sono passati tre quarti di secolo dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Quanto hanno pesato nei decenni recenti la fine dell’intervento straordinario nel Sud e l’arretramento della industria pubblica nel ripiegamento delle regioni meridionali?

    «La Cassa per il Mezzogiorno ha avuto fasi diverse. All’inizio – e per tutto un periodo – è stata una scelta significativa, il tentativo di portare anche in Italia il meglio delle teorie e delle esperienze anglosassoni in materia di paesi in via di sviluppo.
    Fu così che si realizzarono interventi di rilievo nelle campagne e in molte città meridionali. E fu così che via via si affermava anche una industria pubblica. Poi però da fattore positivo la Cassa è andata via via cambiando negativamente nella sua funzione fino alla sua crisi e alla sua scomparsa.
    Resta oggi il tema di un necessario coordinamento tra il livello nazionale delle politiche per il Mezzogiorno e le istituzioni meridionali per superare il doppio rischio del centralismo e del localismo».

    Nel Mezzogiorno, ma ormai nell’intero Paese e nel mondo, si sono radicate le forze della criminalità organizzata, che hanno impresso il marchio del proprio potere economico e sociale nei nostri territori. Come possiamo tornare a combattere con decisione le forze criminali che condizionano ed inquinano anche la politica nei territori?

    «La mafia, la ‘ndrangheta e la camorra sono il nostro principale nemico, un nemico interno, che vive in mezzo a noi. Queste potenze criminali vivono dentro l’economia e la società e cercano sempre di penetrare nella vita delle istituzioni e dello Stato. È dunque su tutti i terreni che dobbiamo condurre questa battaglia: su quello politico-istituzionale e su quello culturale e civile. Una grande prova viene oggi dal PNRR e dagli altri finanziamenti: impedire alla mafia e alla camorra di metterci sopra le mani è determinante per costruire un nuovo futuro per le nostre terre».

    Quanto pesa nel malfunzionamento delle istituzioni un federalismo sbilenco che ha indebolito il governo centrale senza rafforzare quelli territoriali? Come si esce da questa frammentazione? Quanto può danneggiare il Mezzogiorno questa architettura istituzionale?

    «Durante la pandemia si è prodotto uno sbilanciamento nei rapporti tra le istituzioni: il governo nazionale e i comuni hanno deciso di non utilizzare pienamente i loro poteri e le Regioni hanno visto accrescere le loro responsabilità e funzioni.
    Si è trattato in gran parte di scelte che si sono rese necessarie per contrastare la diffusione e la pericolosità del Covid. Ora è tempo di ripristinare giusti rapporti tra le principali istituzioni (governo, regioni, comuni) e di puntare soprattutto sulla doverosa sinergia tra i poteri della Repubblica».

  • Bruno Gualtieri e la multiutility: il commissario regionale che ce l’aveva con la Regione

    Bruno Gualtieri e la multiutility: il commissario regionale che ce l’aveva con la Regione

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    Dopo aver consolidato i pieni poteri in sanità e deminolizzato la Film Commission, Roberto Occhiuto ha portato a casa anche il risultato dell’agognata multiutility. La nuova Autorità regionale acqua-rifiuti è stata affidata, per ora, a un commissario straordinario. Scelto non certo con gli stessi criteri adottati per la nomina del supertecnico Mauro Dolce in Giunta e dei superconsulenti in quota Bertolaso Agostino Miozzo ed Ettore Figliolia.

    Il commissario Gualtieri

    Occhiuto aveva annunciato un tecnico calabrese e, in barba ai nuovismi a cui lui stesso ci aveva abituato, stavolta ha optato per un usato sicuro. Si tratta di Bruno Gualtieri, volto ben noto in Regione che, a quanto si apprende, si dovrà occupare prevalentemente di rifiuti, almeno per qualche mese, con l’obiettivo dichiarato di evitare di ritrovarsi di nuovo con la spazzatura per strada in estate. E con quello, meno ostentato, di mettere uno sull’altro più mattoncini possibile per il raddoppio del termovalorizzatore e la realizzazione del rigassificatore, entrambi a Gioia Tauro.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Pare che a breve arrivi la nomina anche di un direttore generale che, nelle intenzioni di Occhiuto, si orienterà più verso il servizio idrico e l’affidamento al soggetto gestore – sarebbe in dirittura d’arrivo la trattativa per acquisire le azioni di Sorical – da chiudere entro il 30 giugno per non perdere fondi Ue. Le due figure – commissario e dg – probabilmente dunque coesisteranno per qualche tempo. E il commissario si sostituirà agli altri organi (Consiglio direttivo dei sindaci e revisori dei conti) quando sarà necessario. Fino alla loro costituzione, però, resterà in carica Gualtieri.

    L’Ato di Catanzaro e gli altri incarichi

    Ma chi è il superburocrate a cui il Duca Conte ha dato le chiavi della Megaditta acqua-rifiuti? Partiamo dall’incarico più recente, quello di dirigente del settore Igiene ambientale del Comune capoluogo e di direttore dell’Ato di Catanzaro. Si tratta dell’Ambito territoriale che in Calabria ha fatto più passi avanti verso una gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti, ma nei corridoi della Cittadella qualche maligno mormora che il compito di Gualtieri non sia stato poi così difficile, visto che nel Catanzarese si è ritrovato con gli impianti di Alli e Lamezia funzionanti e con ancora spazio a disposizione nella discarica lametina.

    Ma Gualtieri è stato lontano dalla Regione solo per qualche anno. Ha infatti cominciato a bazzicare quegli uffici già nel 1995. Ingegnere, dopo la gavetta degli anni ’80 nell’Ufficio tecnico del suo paese, San Lorenzo, e nelle Commissioni edilizie di altri Comuni della provincia di Reggio, e dopo aver fatto il docente nelle scuole superiori, è stato membro della Commissione urbanistica regionale e poi dell’Autorità regionale ambientale. Quindi consulente dell’Assessorato regionale all’Ambiente dal ‘96 al ‘99 (giunte Nisticò-Caligiuri di centrodestra e Meduri di centrosinistra) e poi dirigente di diversi settori regionali dal 2001 al 2004, nonché del dipartimento Lavori Pubblici fino al 2005.

    La discarica di Alli

    Gualtieri e quell’altro commissario

    Nel suo curriculum ci sono pure degli incarichi che hanno senza dubbio aumentato la sua esperienza. Ma i cui risultati, con gli occhi di oggi, sono piuttosto discutibili. Dal 1998 al 2005 Gualtieri è stato infatti dirigente presso l’Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza ambientale. Un commissariamento per cui, stando alle risultanze della Commissione parlamentare di inchiesta che se n’è occupata, in 13 anni le spese sono «lievitate a ben oltre il miliardo di euro, a fronte degli insufficienti risultati ottenuti».

    Nei primi anni 2000 risulta aver coordinato molte direzioni dei lavori, effettuato collaudi e partecipato a riunioni al Ministero dell’Ambiente per conto del Commissario. Nel 2002 ha partecipato alla redazione del Piano regionale per l’individuazione definitiva delle discariche di servizio agli impianti e per la progressiva riduzione del numero di discariche di prima categoria esistenti nel territorio della regione. Tra il 2010 e il 2011 ha coordinato il Settore Tecnico dell’Ufficio del Commissario. Quanti obiettivi abbia raggiunto in queste vesti non spetta ai non addetti ai lavori stabilirlo. Però è un fatto che ancora oggi in Calabria ci si ritrovi con la metà dei rifiuti che continua ad andare in discarica. E con montagne di soldi pubblici sborsati per portarli fuori regione e addirittura fino in Svezia.

    Ni all’accentramento

    Quel che è certo è che il neo commissario dell’Authority cambierà ora linea rispetto agli ultimi anni passati all’Ato di Catanzaro. Da quella postazione ha infatti condotto una discreta “guerra” contro la Regione accentratrice, accusandola addirittura di aver adottato atti illegittimi nel «maldestro tentativo di invadere un ambito proprio degli Ato» provinciali. Lo si legge in una sua comunicazione del febbraio del 2020 relativa ad alcune disposizioni della Regione sui flussi di Css destinati al termovalorizzatore di Gioia Tauro.

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    La sede della Giunta regionale a Germaneto

    Lo stesso Ato di Catanzaro, inoltre, a dicembre del 2021 ha ottenuto dal Tar l’annullamento di un’ordinanza del presidente della Regione (risalente alla reggenza Spirlì) che voleva far portare a Lamezia gli scarti dei rifiuti prodotti da altri territori. Ora che la governance del settore è stata accentrata in un unico Ato regionale, seguendo un percorso inverso rispetto a quello rivendicato anche da Gualtieri negli ultimi anni, certi contenziosi non avranno più ragion d’essere.

    E il Gualtieri che dal centro di Catanzaro tuonava verso la Cittadella di Germaneto ora dovrà tenere a bada da commissario le rivendicazioni di tutti i territori. Soprattutto quelle che già arrivano dalla Piana: il consiglio della Città metropolitana di Reggio ha approvato due mozioni contro il raddoppio e il rigassificatore a Gioia – si paventa un ricorso alla Consulta contro la norma che ha istituito l’Authority – votate anche dal leader del centrodestra reggino Antonino Minicuci.

  • Un sindaco di nome Wanda: Meloni spinge per mollare Valerio Donato

    Un sindaco di nome Wanda: Meloni spinge per mollare Valerio Donato

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    Mors tua vita mea: è stata questa, probabilmente, la sintesi della telefonata intercorsa ieri sera tra l’aspirante sindaco di Catanzaro, Valerio Donato, e Wanda Ferro, che è stata il suo sponsor occulto fin dall’inizio della candidatura (unitamente agli imprenditori Giuseppe Gatto e Giuseppe Grillo).

    Il tentativo della deputata e commissaria regionale di Fratelli D’Italia di far digerire a Giorgia Meloni il fronte arcobaleno che si sarebbe formato attorno al docente dell’Università di Catanzaro non è andato a buon fine. Niente matrimonio politico tra Lega e Fi con esponenti storici della sinistra catanzarese, l’ex governatore Agazio Loiero e l’ex candidata regionale Amalia Bruni.

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    Valerio Donato, prof all’Università di Catanzaro e candidato a sindaco

    D’altronde, il paragone tra Donato e Draghi utilizzato da qualcuno per giustificare la fuoriuscita dal centrosinistra “classico”, non può certo essere utilizzato come carta da giocare sul tavolo dei sovranisti. Fdi è in maniera netta all’opposizione del Governo romano, con continue fibrillazioni all’interno del centrodestra. E in Calabria la linea pare debba essere la stessa.

    Lo chiamavano “Gaffeur”

    Non hanno aiutato nemmeno le continue uscite mediatiche di Donato. In primis quella – attribuita ad una nota stampa a firma del suo comitato promotore – sul trasferimento del Consiglio regionale a Catanzaro, con tanto di uscita piccata degli esponenti reggini di Forza Italia e Lega che, in teoria e fino all’imminente vertice nazionale del centrodestra, sono i principali alleati del fronte simil civico donatiano.

    Ciccio Cannizzaro, deputato e responsabile nazionale di Forza Italia per il Meridione, ha definito la proposta di Donato «grottesca». Le dichiarazioni del professore? «Sicuramente rilasciate dopo un’allegra serata con gli amici», con argomenti «di becero populismo per tentare di strappare qualche voto». Non ci è andato più leggero il leghista Giuseppe Gelardi, che ha parlato di una «boutade non certo degna di un candidato sindaco».

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    Ciccio “Profumo” Cannizzaro

    Salvini? Non sul palco, ma con le liste

    Durante un confronto televisivo con gli altri candidati, poi, Valerio Donato si è lasciato sfuggire questa frase: «Se dovesse venire Salvini farà la sua attività politica, ma non potrà vedere a fianco di Salvini la mia persona». Insomma, niente comizio congiunto su un palco, ma ben due liste, allestite dal presidente del Consiglio regionale Filippo Mancuso (Alleanza per Catanzaro e Prima Catanzaro) pronte a foraggiare Donato in termini di consensi.

    L’evidente contraddizione ha mandato in escandescenze il leader leghista. Uno che tre anni fa a Lamezia Terme, città del suo unico (e oggi molto silente sulle amministrative del capoluogo) deputato Domenico Furgiuele, non esitò a ritirare la lista per delle dichiarazioni dell’allora candidato sindaco Ruggero Pegna proprio contro Salvini.

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    Domenico Furgiuele

    In tutto questo marasma è intervenuto in maniera tranchant un rappresentante di un partito semi-alleato del fronte donatiano, il commissario cittadino dell’Udc con delega (di Lorenzo Cesa) alla presentazione della lista Vincenzo Speziali. Per lui «Il professor Donato confermerebbe anche un’altra sua pecca, oltre al berlinguerismo e al relativo moralismo, ammantato dalla cattedraticità, ovvero di essere un noto gaffeur».

    Palermo e Catanzaro

    Le dinamiche nazionali, checché ne dicano i feticisti del civismo catanzarese, incidono eccome. Ecco perché, nonostante il passo in avanti di Lega, Forza Italia, Italia al Centro e Udc (almeno in parte) a favore di Valerio Donato, Wanda Ferro è rimasta in un imbarazzato silenzio. Si è lasciata scappare a inizio mese solo un sibillino «l’importante è mai con il M5S e con il Pd». Senza pensare, però, che mezzo Pd era già dentro le liste del docente, comunicati stampa alla mano. E che c’era dentro pure Italia Viva, altro elemento di mugugni interni alla coalizione.

    Da due mesi, invece, a Palermo i meloniani hanno candidato come sindaca la loro deputata, Carolina Varchi. La sua candidatura in solitaria ha ricevuto il placet dei vertici nazionali, in primis del responsabile organizzativo (che già si occupò delle liste regionali in Calabria) Giovanni Donzelli. La Varchi, giusto qualche giorno fa, ha dichiarato: «Stiamo valutando tutte le opzioni per tenere compatto il centrodestra, che è il nostro perimetro. Evidentemente la nostra storia rende non percorribile la strada di una campagna elettorale in compagnia degli esponenti di Italia Viva».

    Telefono bollente

    Già, perché il tavolo nazionale del centrodestra ‘rianimato’ da Berlusconi è chiamato a risolvere le spaccature sui territori. Ma difficilmente la Meloni – a differenza di un Salvini in affanno, che arriva a tollerare di essere preso a pesci in faccia in diretta tv da un ‘suo’ candidato in un capoluogo di Regione – digerirà la candidatura di Valerio Donato, nonostante le sollecitazioni. E le telefonate roventi di questi giorni tra il cognato di Giorgia Meloni, il deputato Francesco Lollobrigida, Wanda Ferro e Fausto Orsomarso, lo dimostrano.

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    La leader nazionale di FdI, Giorgia Meloni

    Ecco perché anche a Catanzaro, fino a una determinazione del tavolo nazionale di centrodestra dal quale dovrebbe spuntare un nome unitario (e nuovo?) sia a Catanzaro che a Palermo, il diktat della Meloni alla Ferro rimane quello di correre da soli con un proprio candidato.

    Wanda si “nasconde” dietro Pietropaolo

    A differenza di Palermo, però, su Catanzaro non c’è stata la discesa in campo del deputato del luogo che, nel caso della Calabria, è anche commissario regionale. Wanda Ferro ha deciso di trincerarsi dietro il nome di Filippo Pietropaolo, il “suo” candidato (e di Michele Traversa) alle elezioni regionali, non eletto e poi ripescato come assessore regionale al Personale della Giunta Occhiuto.

    Piccolo particolare: dei circa 4500 voti raccolti, soltanto 716 sono stati presi nella città di Catanzaro, a fronte dei quasi 1700 del consigliere eletto, Antonio Montuoro (che di candidarsi non ci pensa nemmeno). Pietropaolo, inoltre, nel 2014 quale candidato regionale del Pdl prese poco più di 800 voti a sostegno dell’allora candidata presidente, Wanda Ferro. Non è, quindi, da considerarsi un candidato forte.

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    Filippo Pietropaolo, neo assessore regionale nonostante la sconfitta elettorale

    C’è da dire, però, che quello che tutti i sondaggi danno come primo partito italiano, con percentuali oltre il 21%, non si può certamente permettere di ottenere percentuali da prefisso telefonico sbagliando candidato in un capoluogo di Regione che esprime un deputato-commissario regionale del partito.

    Ecco perché Wanda è in un cul-de-sac: da sponsor (più o meno) occulto dell’ex Pd Valerio Donato, può diventare (glielo si sta chiedendo in queste ore) la candidata probabilmente di una buona parte del centrodestra, che ritroverebbe unità attorno alla sua figura grazie ai tavoli romani. In ballo c’è la credibilità (e la faccia) di Giorgia Meloni al Sud e la candidatura in Parlamento della Ferro, di Orsomarso e della combriccola sovranista nostrana. Insomma, la Meloni è stata chiara: non si gioca a fare le comparse.

    “Venti da sud” vola via?

    Un santino di Venti da Sud a sostegno di Donato

    La lista civica Venti da sud, stilata dal consigliere regionale di Fratelli d’Italia  Antonio Montuoro, intanto ha partecipato pochi giorni fa alla riunione della coalizione di Valerio Donato. Alcuni candidati, inoltre, hanno già fatto circolare il loro santino con la scritta “Donato Sindaco”. Un passo affrettato oppure un calcolo per andare verso una Forza Italia che senza Mimmo Tallini a Catanzaro è un contenitore tutto da riempire? Lo vedremo.

    È un fatto che all’interno del gruppo di Montuoro sono presenti i consiglieri comunali uscenti Roberta Gallo, sua portaborse in Regione (e già portaborse del portavoce di Mimmo Tallini nel 2020), Emanuele Ciciarello, la cui moglie Lucia Arturi è anch’essa sua portaborse in Regione, Antonio Angotti, la cui sorella è suo componente interno di struttura. Oltre a loro c’è anche Luigi Levato, già capogruppo di Forza Italia a Catanzaro, eletto nel 2017 con circa 1.300 preferenze personali.

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    Giuseppe Mangialavori e Silvio Berlusconi

    Insomma, un team di portatori di consenso di tutto rispetto (che Pietropaolo, Ferro e Traversa non hanno). E che, però, come si è detto, potrebbe tornare alla “casa madre” e non soggiacere alla disciplina di partito. Lo stesso Montuoro è stato vicepresidente della Provincia in quota Forza Italia.

    Quindi, non sorprenderebbe tale decisione che, certamente, porterebbe Wanda Ferro a scegliere tra la fedeltà romana al partito che l’ha eletta nel 2018 (con la “spintarella”, di recente pubblicamente vantata, del senatore Giuseppe Mangialavori) e lo stantio trasversalismo furbetto catanzarese dal quale è gemmata la candidatura di Valerio Donato.

  • Mancini Stecchino e l’Occhiuto smemorato

    Mancini Stecchino e l’Occhiuto smemorato

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    «Non gli somiglia per niente». Da ieri mattina Cosenza su Facebook sembra il remake di Johnny Stecchino. La statua in onore di Giacomo Mancini ha messo in pausa per qualche ora virologi ed esperti di geopolitica: largo alla critica d’arte. Impietosa, come spesso l’expertise di settore non riesce ad essere.

    «Era più alto», «Ha un’espressione troppo severa», «Dà le spalle al Comune e al centro storico dove abitava»: «Guarda verso Rende»: sono solo alcune delle invettive all’indirizzo del monumento in onore del Vecchio Leone. Che comunque, già beatificato in vita, da ieri si è trasformato in feticcio di culto (laico, ma non troppo) con cosentini in fila per farsi un selfie “insieme” al metallico politico defunto, bello o brutto che sia. L’amore è cieco.

    Il bue e l’asino

    Degna di nota la stoccata dell’ex sindaco Mario Occhiuto al suo successore Franz Caruso. «In epoca contemporanea, tranne che nei regimi, si fa poco uso di busti e statue celebrative», ha malignato l’architetto tra una bordata alla nuova amministrazione e un ricordo – nell’attesa di eventuali sculture postume in suo onore – autocelebrativo.

    Un po’ come vedere Filini contestare un congiuntivo fuori posto al proprio interlocutore: l’aver fatto pagare al Comune, quando a Palazzo dei Bruzi comandava Occhiuto medesimo, decine e decine di migliaia di euro per una statua celebrativa di Alarico – sulla cui figura quegli odiatori degli storici sono concordi: pare proprio aver fatto meno di Mancini per la città – diventa trascurabile dettaglio nel sempre fecondo dibattito politico nostrano.

    Nuove e vecchie colonne

    Le polemiche estetiche sulla statua, però, hanno ceduto presto il passo ad altre questioni. Già stamane il dibattito si è spostato sulla via del socialismo. Che con la politica c’entra poco, trattandosi dei 50 metri di strada riaperta davanti alle scuole “Pizzuti” e “Zumbini” dal sindaco fedele al garofano rosso. Non ci voleva Nostradamus per immaginare che con la riapertura dei due istituti dopo la pausa per la Fiera di San Giuseppe/Francesco sarebbero tornate le auto incolonnate. C’erano anche prima con la piazzetta demolita e prima ancora che quest’ultima venisse realizzata. Ma la rete si è ritrovata invasa da istantanee sul consueto traffico quasi fossimo di fronte a una sorpresa epocale.

    Auto incolonnate alle 8.30 di stamattina nel tratto che ospitava piazza Rodotà prima della riapertura

    Simboli di Cosenza

    Un monumentino, a questo punto, lo meriterebbe forse anche il Genitore Ignoto, il primo ad essersi fermato in barba ai divieti nel rinnovato tratto per far scendere i pargoli evitando loro la fatica di un metro a piedi in più. Un simbolo di Cosenza anche lui, a suo modo. Quasi quanto Mancini e il gusto per la polemica.

  • Il partigiano della Sila che liberò Tirana

    Il partigiano della Sila che liberò Tirana

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    Se nessuno può cancellare le responsabilità dell’Italia fascista per la sua entrata in guerra nel 1940, nessuno può consentire che scenda l’oblio sul contributo eroico che, dopo l’8 settembre 1943, giorno della resa del Regio Esercito agli Alleati anglo-americani, i soldati italiani diedero alla liberazione di gran parte dei Paesi balcanici (Jugoslavia, Albania, Grecia) dalla occupazione nazista. A serbarne memoria concorre la vicenda di Giovanni Laurito, roglianese, nato un secolo fa (9 febbraio 1922) nella frazione silana di Saliano, combattente partigiano in Albania, che non volle arrendersi ai tedeschi e che, anzi, li combatté associandosi alle formazioni della Resistenza di quel Paese, dov’era giunto come militare di leva in forza alle truppe di invasione coloniale.

    Cent’anni da romanzo

    Un centenario, una vita da romanzo. Uno di quegli eroi, sin qui, anonimi che pure testimoniano i drammi della Seconda guerra mondiale e che, con aurea iscrizione, meritano di entrare negli annali con la forza del loro passato. Del partigiano Laurito non è solo la vicenda bellica del soldato a suscitare interesse e ammirazione, ma è anche la storia singolare dell’uomo, il vissuto del suo personale dopoguerra, che, dalla condizione di analfabeta e di autodidatta, lo portò, grazie alla sua alfieriana (nel senso del volli, e sempre volli, e fortissimamente volli) tenacia, alla irrefrenabile passione per la lettura, con risultati sorprendenti.

    Le rappresaglie dei nazisti

    Soldati del Reich in Grecia

    Tra l’8 settembre del 1943 e l’estate dell’anno successivo le truppe hitleriane, che avevano fiancheggiato quelle italiane di occupazione, in Albania, come in Jugoslavia e in Grecia, nella frustrazione della loro sconfitta, oramai ineluttabile, e della rottura dell’alleanza da parte dell’Italia, oramai irreversibile, scatenarono inaudite violenze contro le popolazioni locali e feroci rappresaglie contro i militari italiani in totale sbandamento. Che, pur decimati da deportazioni e da eccidi, come quello di Cefalonia, non mancarono di reagire.

    Partigiani all’estero

    Il loro coraggio, spinto in ardite controffensive, valse a indebolire le forze tedesche. In Grecia, tra i furiosi combattimenti ingaggiati tra ex alleati nelle isole dell’Egeo, a Corfù, a Cefalonia, i resti della Divisione Pinerolo, in azione nella Tessaglia, si unirono alle formazioni partigiane dell’Elas. Nel Montenegro, quelli delle Divisioni Venezia e Taurianense alimentarono le brigate della Divisione Garibaldi, che recarono un poderoso contributo alla guerra di liberazione.

    A Belgrado, si stagliò il valore dei battaglioni partigiani Garibaldi e Matteotti, nuclei della Divisione Italia, che, a fianco degli eserciti jugoslavo e russo, diede riconosciuto vigore alle operazioni in Slavonia fino al maggio del 1945 e alla liberazione di quelle terre. Dappertutto, fu versato sangue italiano. Come in Albania, dove le Divisioni Firenze, Arezzo e Perugia e i cavalleggeri della Monferrato sostennero aspri combattimenti contro i tedeschi per poi dar vita alla Divisione Antonio Gramsci, fornendo alla insurrezione albanese determinanti rinforzi.

    La Divisione Garibaldi in Montenegro

    La liberazione dell’Albania

    Tirana, 17 novembre: la parata nel giorno della liberazione

    Nell’agosto del 1944, l’anonimo soldato di Saliano, con l’esercito in rotta, fu tra quelli che rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi, rischiando così, se non la fucilazione, la deportazione nell’orrore dei lager nazisti. Con altri riuscì a sfuggire alla cattura e a rifugiarsi nelle boscaglie a monte del fiume Erzen, nei pressi di Tirana, sino a raggiungere il comando clandestino della Gramsci, chiedendo d’essere aggregato e di combattere dalla parte dell’Esercito albanese di Liberazione nazionale. Inquadrato come partigiano, non si tirò indietro dalle tempeste di fuoco fino al vittorioso epilogo. Il successivo 17 novembre, a conclusione delle ultime tre settimane di continui, durissimi combattimenti, Tirana fu definitivamente liberata.

    Un sagrestano comunista

    Tornato in patria, riconosciuto ufficialmente come “Partigiano per gli Italiani” combattente all’estero dal ministero dell’Assistenza postbellica (con nota del 16 ottobre 1948 inviata al Comitato provinciale dell’Anpi di Cosenza), il reduce di guerra (ri)costruì la sua vita, con l’aiuto del parroco, che lo applicò come sagrestano nella chiesa della Madonna del Rosario. Si iscrisse al Partito comunista (Pci).

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    La lettera che certifica l’impegno da partigiano di Laurito in Albania

    Lettere al partito

    Si dedicò, febbrilmente, alla sua istruzione, divorando libri e giornali. Prediligeva testi di storia e filosofia, saggi di politica, biografie e autobiografie delle personalità storiche che maggiormente lo affascinavano. Maturò, via via, la sua acerba confessione politica di puro comunista sino a farne un credo integralista, una fideistica ragione di vita.

    La esprimeva in fluviali lettere, indirizzate ai leader del Pci, un po’ per complimentarsi quando sentiva di farlo, un po’ per dispensare consigli e proposte, molto per richiamarli alla coerenza con i dettami del marxismo. Non pare ricevesse risposte, ma lui si sentiva appagato per il semplice fatto di aver detto la sua e di avere assolto i canoni della sua ortodossia.

    La biblioteca di un ex analfabeta

    Di frequente, nei pomeriggi d’estate, i paesani lo vedevano seduto sui gradini esterni all’ombra di qualche casa, al centro del borgo, con la testa china, concentrato nella lettura e pronto a compulsare uno dei vocabolari della sua ricca collezione, alla quale non mancavano dizionari dei sinonimi e contrari.

    Alcuni libri della biblioteca personale di Giovanni Laurito

    Nella biblioteca domestica dell’anziano partigiano tuttora campeggiano, tra i tanti altri, libri su Marx, su Lenin e sulla Rivoluzione d’ottobre, sul Risorgimento e, persino, un testo della Costituzione cinese; scritti di Rousseau (Origini della disuguaglianza), Stuart Mill (“Saggi sulla religione”), Antonio Labriola (“Lettere a Engels”), Antonio Gramsci (“Americanismo e fordismo”), Aleksandr Sergeevic Puskin (“Storia di Pugaciov”); Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene”), Giuseppe Garibaldi (“Lettere”).

    Non mancano ritagli di giornale, tra i tanti, tutti significativi dei suoi interessi e della sua sensibilità politica: “La discussa eredità di Mao” (L’Unità, 23 settembre 1979); “Tartassati da uno Stato spendaccione” (Gazzetta del Sud, 14 febbraio 1988); “La ritardata notifica di provvedimenti cautelari provocherà l’esodo dei boss del maxiprocesso” (Gazzetta del sud, 3 giugno 1988).

    Il compleanno di Giovanni Laurito festeggiato con gli altri ospiti della casa di riposo di Malito

    Piuttosto restìo a raccontare il suo passato, Laurito ha dovuto compiere cent’anni (festeggiatissimi nella casa di riposo di Malito, dove da anni si trova), perché venisse fuori la trama d’una esistenza, la sua, votata alla più ferma aderenza alle proprie idee e battagliata, su più fronti, sempre in lotta di liberazione, prima, dalla tirannia, poi, dalla ignoranza. Del Partito comunista continua a sentirsi «militante e portabandiera». Nella sua quadratura culturale, gli viene facile conciliare cattolicesimo e marxismo, con radicale persuasione. «La mia idea – taglia corto – è stata ed è questa. Non la cambio proprio ora, no!».

  • Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

    Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

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    Si potrebbe parafrasare la lapide posta 75 anni prima su un lato dell’ingresso del Teatro Rendano, modificandone i versi di Giovanni Bovio – ispirati alla celebrazione della Breccia di Porta Pia – e rendendoli così: “Questa data politica dice finito il nazifascismo negli ordinamenti civili. Il dì che lo dirà finito moralmente sarà la data umana”. Dico questo dal momento che in questo 25 aprile, dopo quasi 80 anni, sembra ahimè piuttosto evidente che la fine morale non è ancora avvenuta. E non parlo tanto delle recrudescenze, non parlo solo di certe nostalgie estremistiche. Parlo di qualcosa di ben più generale, di altrettanto preoccupante, e soprattutto strisciante: di quella sorta di metastasi culturale che, senza neppure sgomitare tanto, si fa strada per inerzia e con molta comodità. Potrei chiamarla semplicemente ignoranza ma credo sia qualcosa di diverso.

    Il 25 aprile inconsapevole

    Il 25 aprile (giusto, desiderato, ottenuto, sofferto e quindi sacrosanto) è diventato per troppi un espediente per la celebrazione tout court. Vero è che non c’è da stupirsi molto, in un Paese che – se pur formalmente a maggioranza cattolica, e talvolta profondamente osservante – festeggia pure le ricorrenze religiose con ben scarsa consapevolezza di cosa si celi dietro una precisa data. Ma quando si parla di date civili, appunto, il problema potrebbe e dovrebbe irritare di più.
    Era il 2015 quando Ballarò mandava in onda questo servizio, a dir poco mortificante:

    Giovani e meno giovani assolutamente ignari di cosa sia la Liberazione, di quando abbia avuto luogo, e da cosa ci abbia liberato.

    Nei giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio di ogni anno, definibili bassa marea dialettica, il già dilagante analfabetismo funzionale sui social dà un’accelerata alle proprie rotative, in cui troppi ripetono a vanvera le stesse due o tre nozioncine imparate – se va benissimo – su qualche bignamino. Il problema risiede anche – non solo – nel fatto che gli accadimenti vengono spesso raccontati male, forse pure in buona fede, in un guazzabuglio di concetti e in un affastellamento di micro-periodi storici che si susseguono e si accavallano l’uno all’altro in una narrazione approssimativa.

    Le bombe alleate

    Voglio fare un esempio, o più d’uno. E comincerei da questa foto cosentina. È la foto che ormai funge da testimonianza dei tragici bombardamenti che colpirono Cosenza il 12 aprile 1943. Bene: questa fotografia dovrebbe considerarsi un simbolo sì, ma non una testimonianza, in quanto col 12 aprile non ha nulla a che vedere.
    Per fatto personale: questa istantanea fotografa infatti il momento forse più tragico nella storia del mio ramo paterno, ovvero l’istante esatto in cui una bomba colpisce il palazzo di famiglia in cui in tre piani e mezzo vivevano i miei nonni, la mia bisnonna con altri tre figli, altra nuora e un nipotino (fortunatamente tutti già al riparo nella località in cui erano sfollati per precauzione). È la nuvoletta più a sinistra nella foto, a mezza altezza, ad indicare il preciso momento in cui tutto un patrimonio familiare, morale e simbolico, non solo materiale, va letteralmente – è il caso di dirlo – in fumo.

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    Cosenza sotto i bombardamenti di fine estate 1943

    Ma non è il 12 aprile: dalla documentazione relativa ai Danni Bellici, redatta dal Genio Civile e oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Cosenza, il quartiere delle Paparelle – o, meglio, via Alfonso Salfi – risulterebbe essere stato bombardato il 28 agosto. Mia nonna ricordava invece la mattina dello stesso 8 settembre, in extremis, ma l’ultimo bombardamento su Cosenza risale in verità al 7 settembre (per la cronaca, Cosenza è stata bombardata – oltre all’ormai arcinota data del 12 aprile e alle altre due appena dette – anche il 6 e il 31 agosto, nonché il 3 e il 4 settembre).

    Liberata e stuprata

    Ora, facciamo due più due: considerato il tenore delle risposte date dai passanti nel servizio del link qui sopra, quanti saprebbero dire chi ha sganciato quelle bombe? Non molti, temo. A futura memoria è forse bene ricordarlo: i bombardamenti del ’43 su Cosenza (e purtroppo non solo su Cosenza) furono opera degli Alleati angloamericani. E ciò va detto per chiarezza storica, e poi per un altro motivo: per tenere sempre a mente il fatto che nessuna Liberazione è priva di costi, nessuna è candida e senza macchia.

    A pensarci bene, la questione non è poi tanto diversa da analoghe situazioni odierne, in cui alcuni protagonisti vengono stigmatizzati per la loro discutibile “esportazione di democrazia” in Paesi già piagati da questioni tutte loro. Ed è quindi giustissimo, credo, che assieme alla celebrazione si affianchi anche un momento di orgoglio di segno diverso: Italia liberata, sì, ma pure stuprata purché si liberasse.

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    Militari marocchini inquadrati nell’esercito francese, accampati nei pressi di Monte Cassino

    Le marocchinate

    Stuprata, dicevo: giusto per ricordare quanto a troppe donne (e non solo) sia costata la Liberazione per mano di alcuni ‘lealissimi’ alleati (e sempre al netto dei ‘misericordiosi’ bombardamenti tattici), basterebbe pensare al capitolo dolorosissimo, e ancora di dominio meno pubblico di quanto dovrebbe essere, delle marocchinate, ovvero le violenze perpetrate dai goumiers nel Lazio (ma anche in Toscana, Sicilia, e probabilmente anche in altri luoghi in cui si preferì per vergogna insabbiare anche il dolore delle vittime e dei sopravvissuti). Immaginatevelo voi, un esercito di 120.000 uomini – nordafricani in forza all’esercito francese – colpevoli di oltre 7.000 stupri ai danni di donne, bambine, vecchi e vecchie.

    Sono convinto che, se certi eventi storici fossero meglio conosciuti, quantomeno il giudizio di non poche donne sulla Liberazione sarebbe meno entusiasta. Vittorio De Sica nel film La Ciociara ne dipinse il quadro tragico, e ancora di più Curzio Malaparte nello scabroso e magnifico romanzo La Pelle. Sono gli stessi goumiers della pagina in cui trattano con alcune mamme napoletane intorno al prezzo dei bambini offerti sul libero mercato dei vicoli.

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    Manifesto della propaganda bellica contro i bombardamenti delle Nazioni Unite del 1943

    Gramsci, il partigiano postdatato

    Sempre nei giorni della ‘bassa marea’ dei luoghi comuni celebrativi e/o retorici, fa capolino, puntuale, una citazione gramsciana: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Tutto molto bello e condivisibile. Ma questa frase fu scritta dal Gramsci socialista e crociano del 1917 sul giornale La città futura, testata altrettanto socialista, in tutt’altro contesto e riferendosi alla Russia e a ben altro concetto di ‘partigiano’.

    È validissima lo stesso, per carità (e per fortuna) ma, diamine, questa frase fu scritta quando qui non solo non c’era ancora nessuna Resistenza né alcun partigiano. Quando non solo non c’era una dittatura, ma quando non esisteva nemmeno un partito fascista, nemmeno i primi fasci. E quando il giovane Mussolini era ancora direttore del Popolo d’Italia, col sottotitolo Quotidiano socialista. Socialista, appunto, al pari dello stesso Gramsci. Odio gli indifferenti anch’io, dunque. Ma certe volte c’è addirittura molta più indifferenza nella partecipazione acritica, inconsapevole. E un certo antifascismo autoincoronato – dico “un certo” – che pure esiste, mi pare vada in vacanza e ritorni a scadenze precise.

    Fascisti e antifascisti

    Altro esempio: a Bologna, per ricordare la caduta del governo fascista si mettono le corone ai caduti di un movimento nato successivamente e a quelli di un fatto precedente alla nascita del suddetto governo.
    Nel frattempo il piucchefascista Dino Grandi (due volte ministro, ambasciatore a Londra) concluse la sua carriera politica con l’ordine del giorno del 25 luglio 1943 che porta il suo nome, determinando per primo la caduta del regime fascista (e venendo perciò dagli stessi fascisti condannato a morte, pur riuscendo a scamparla). Ripudiato da gran parte della destra in quanto ‘traditore’ del fascismo, dalla sinistra in quanto ex fascista tra i primi e maggiori, il suo funerale passò in sordina e la sua tomba resta oggi pressoché dimenticata, con due fiori appena nel cimitero della stessa Bologna, dove all’ufficio informazioni vi chiedono se fosse un partigiano.

    Bisognerebbe domandarsi – e rispondersi correttamente – quanto merito abbia avuto lui, nella Liberazione dell’Italia dal Fascismo. Ecco, mettiamocelo in testa: senza il fascista Grandi, la Liberazione di due anni dopo ce la sognavamo, con e senza quella Resistenza che – come scrisse l’esule Mario Bergamo (mica uno qualunque) – «non deviò d’un centesimo (…) il corso della guerra. Giovò alla liberazione militare dell’Italia quanto il fuoriuscitismo alla sua liberazione civile».

    La Calabria e l’Italia dopo il 25 aprile

    E da noi, in Calabria? Poco e niente, siamo la Calabria di Michele Bianchi, da una parte, e del martire civile Francesco Misiano, dall’altra. Domandatevi chi meriterebbe d’essere conosciuto più e meglio. La prendo alla larga ma è un discorso molto, molto generale, che ha a che fare anche con i fallimenti dell’epurazione. Per farla molto breve: Churchill aveva ragione da vendere quando notava che l’Italia era passata dall’avere 45 milioni di fascisti ad avere il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani, pur non avendo mai contato 90 milioni di abitanti.

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    Il calabrese Francesco Misiano, deputato comunista. Malmenato ripetutamente dai fascisti, morto in Russia sotto le purghe staliniane, dimenticato in Italia dai comunisti di Togliatti

    Insomma, teniamocela strettissima, questa Liberazione. Ma teniamoci stretto anche il coraggio di chiederci se sulle sue braci – ché di braci si è comunque trattato, e non soltanto dei sorrisi e degli abbracci del 25 aprile 1945 – si sia riusciti a costruire l’Italia meritata e sperata e non invece qualcosa di maldestro, ancora diviso tra bianchi e neri, buoni e cattivi, e con la solita corsa all’oro di ogni tempo, le solite sperequazioni e gli stessi voltagabbana ai posti più o meno di comando.

    Guerra e pace

    Due ultime citazioni per concludere: ve lo ricordate quel film di Scola, C’eravamo tanto amati? La frase, in apertura, «finita la guerra, è scoppiato il dopoguerra» è di Suso Cecchi d’Amico (non di Flaiano – che si espresse, poi, in modo analogo – né di Scola, né degli sceneggiatori Age o Scarpelli). Vent’anni prima ne scrisse una simile proprio Mario Bergamo: «Il Fascismo ha perduto la guerra, l’Antifascismo ha perduto la pace». Intelligenti pauca.

    Cosenza, il quartiere delle Paparelle e di Colle Triglio negli anni ‘20/’30 del Novecento (da L.I. Fragale, Microstoria di Calabria Citeriore e di Cosenza, 2016)

     

  • Dopo Mancini il declino: Cosenza rischia il collasso

    Dopo Mancini il declino: Cosenza rischia il collasso

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    Il dibattito sull’area urbana (e, in prospettiva, sulla città unica) è un braccio di ferro tra gli opposti campanilismi di Cosenza e Rende.
    Le ultime puntate di questa contesa si sono concentrate sui rapporti tra i due territori, ciascuno dei quali ambisce alla centralità, o se si preferisce, supremazia.
    Ma questi rapporti sono l’esito di visioni politiche diverse: più territoriale quella di Rende, più evanescente quella di Cosenza, che sconta ancora il fatto di essere stata la sede del potere calabrese della Prima Repubblica.

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    Cecchino Principe, sindaco di Rende dal 1952 al 1980

    Rende: il paese diventa città

    Il paragone tra Cosenza e Rende è possibile solo a partire dal ’93, quando con l’elezione diretta dei sindaci e la fine della finanza derivata le amministrazioni locali si sganciano dai partiti.
    A rivedere le cose col senno del poi, balza agli occhi un paradosso: la dimensione paesana da cui è partita Rende si è rivelata alla fine un vantaggio, perché ha esemplificato tantissimo le dinamiche politiche.
    Ciò che non è avvenuto nella complicatissima Cosenza.

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    Sandro Principe

    Caos a Cosenza e “ordine” a Rende

    I numeri, come sempre, aiutano a chiarire: dal 1946 al 1993 il capoluogo ha avuto diciassette sindaci e due commissari prefettizi, per una durata media di poco meno di tre anni per primo cittadino.
    Al contrario di Cosenza, Rende ha avuto otto sindaci e nessun commissario.
    La statistica più impressionante riguarda Cecchino Principe, sindaco dal 1952 al 1980. Per restare nei paragoni, si pensi che Cosenza, nello stesso periodo, ha avuto sei sindaci, il più duraturo dei quali è stato Arnaldo Clausi Schettini.
    Con gli occhi di oggi, questa discrepanza sembra disordine (e spesso lo era). In realtà era il normale funzionamento di un’amministrazione comunale col vecchio sistema, in cui il sindaco era nominato dal consiglio comunale.
    Di più: mentre le città con demografia consistente e tradizioni politiche (e di potere), presentavano spettacoli simili a quello di Cosenza, i centri più piccoli, come Rende, appunto, avevano la classica figura del sindaco “a vita”, che riusciva a imporsi grazie alle liste civiche costruite su misura e a eventuali liste di partito più o meno compiacenti.

    Qual è stata, allora, la differenza tra Rende e i tanti paesi della Corona? La leadership di Cecchino Principe fu costruita da due fattori: un ruolo forte in un partito, il Psi, centrale negli equilibri politici del Paese, e un forte consenso sul territorio,
    Lo stesso meccanismo si è ripetuto per Sandro Principe, sindaco dall’80 all’87, che addirittura stravince nell’85 con un consenso bulgaro.
    A differenza di Cosenza, dove i galli nel pollaio erano troppi, a Rende il Psi era egemone e i Principe lo controllavano in maniera ferrea. Questo ha consentito alla dinastia del Campagnano di puntellare senz’altro la propria leadership e il proprio potere, a dispetto della crescita demografica, ma anche di fare gli interessi del proprio territorio, trasformandolo da un paesone di circa 14mila e rotti abitanti in una cittadina che oggi è quasi il triplo.

    La lenta agonia di Cosenza

    Il paragone più serio tra i due sistemi politici si può fare dal ’93 a oggi. E purtroppo bastona Cosenza.
    Al riguardo, emerge un altro paradosso: il capoluogo arretra vistosamente nel momento in cui i sindaci, dotati di poteri maggiori grazie all’elezione diretta, avrebbero potuto invece rilanciare il territorio o, perlomeno, frenarne il declino.
    La storia della Cosenza della Seconda Repubblica è la storia di un’agonia prolungata, interrotta qui e lì da qualche sussulto. Rende ha continuato a capitalizzare il ruolo dell’Unical, soffiata da Cecchino a Piano Lago, e si è puntellata a nordest, in direzione della Valle del Crati e della Sibaritide.
    Il capoluogo, al contrario, ha perso un pezzo dopo l’altro. E, soprattutto, ha perso la cassa.

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    Giacomo Mancini durante la sua sindacatura

    Don Giacomo: dopo di lui il diluvio?

    Il vecchio Giacomo Mancini intuì per primo la fine dei partiti e comprese al volo il nuovo sistema elettorale. Vinse nel’93 e stravinse nel ’97.
    Nei suoi nove anni e rotti di sindacatura (e di vita), Mancini cantierò opere e progetti tali da impegnare la città per i cinquanta anni successivi. Alcune di queste iniziative sono state realizzate quindici anni dopo: è il caso del Ponte di Calatrava e del rifacimento di piazza Bilotti, che allora si chiamava ancora “Fera”.
    Altre, invece, sono finite in nulla, come la metro leggera. Altre ancora hanno avuto uno sviluppo problematico: è il caso di viale Parco.
    Con lui è iniziato anche lo stress delle casse comunali, trasformatosi prima in dissesto più o meno “mascherato” e poi in default.
    I debiti dell’era Mancini non sono solo finanziari: il ricorso alle cooperative “b” ha ingessato la pianta organica del Comune e creato meccanismi elettorali un po’ viziati che pesano tuttora.
    Il rilancio del centro storico, il tentativo di puntellare a sud l’area urbana e il risveglio culturale della città sono gli aspetti più significativi di quell’amministrazione.
    Che ha avuto un solo limite: la presunzione di immortalità del vecchio Giacomo, che ha attivato dinamiche che lui solo sapeva gestire.
    Voto 9. Al netto del campanilismo, 7.

    Eva Catizone, quando era sindaco di Cosenza

    Eva, l’erede senza qualità

    Erede o fantasma? Eva Catizone è diventata sindaca a trentotto anni in qualità di erede del vecchio Giacomo.
    Ha stravinto anche lei, sulla scia dei consensi (anche emotivi) maturati nel decennio d’oro.
    La sua sindacatura, durata poco meno di quattro anni, è stata la prosecuzione dell’era Mancini. Ma è stata una prosecuzione scialba, perché i partiti, nel frattempo, avevano ripreso il loro ruolo e perché le vicende private si sono incrociate con i doveri pubblici.
    È quasi superfluo ricordare la turbolenta relazione con Nicola Adamo, all’epoca leader dei Ds. Lo facciamo solo perché quella vicenda rimbalzò agli onori delle cronache nazionali.
    Tutto lascia pensare che Eva, troppo giovane e fino a quel momento blindatissima, sia stata sopraffatta da una situazione e da un ruolo più grandi (e gravi) di lei. Infatti, è finita defenestrata da un golpe di palazzo da Prima Repubblica, tra l’altro accompagnato da una tragedia.
    Ci si riferisce alla morte di Antonino Catera, il giornalista che seguì quell’ultimo Consiglio, di cui non riuscì a scrivere perché stroncato da un infarto. Di lei si ricordano il Museo all’aperto, i cordoli a corso d’Italia (oggi Fera) e il cambio di denominazione di piazza Fera in Bilotti. Troppo poco.
    Voto 4.

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    Salvatore Perugini diventò sindaco di Cosenza nel 2006

    Salvatore, il galantuomo immobile

    Non basta essere galantuomini, né basta lo spessore politico. Amministrare può essere davvero un inferno.
    La sindacatura di Salvatore Perugini resta una parentesi di Prima Repubblica nella storia recente di Cosenza. Vecchie liturgie, vecchi equilibri e vecchi ricatti.
    Eppure, la rottura con gli ambienti socialisti che rivendicavano l’eredità di Mancini poteva essere l’occasione buona per fare i conti col vecchio Leone. Soprattutto, per archiviare nostalgia e retorica, che già allora si facevano sentire.
    I retroscena dell’epoca raccontano di un Perugini che ha rifiutato l’ipotesi del dissesto, per cui già allora (2006) ci sarebbero stati gli estremi. E che ha amministrato cercando di sforbiciare le spese e di nascondere la polvere sotto i tappeti.
    Ostaggio di una maggioranza rissosa, in cui covavano gli oppositori più feroci (e sleali), Perugini ha navigato a vista, tra un rimpasto e l’altro e rincorrendo i consiglieri per non andar sotto.
    Nel frattempo, il centro storico è regredito, le opere pubbliche si sono bloccate e la demografia ha accelerato la discesa. Di più: viale Parco, fiore all’occhiello dell’urbanistica secondo Mancini, si crepa e finisce al centro di un’inchiesta giudiziaria.
    Arte della sopravvivenza e immobilismo più il mancato coraggio del parricidio.
    Voto: 5.

    Occhiuto 1: Cosenza tenta la rimonta

    Al collasso di Perugini è seguito il crollo del centrosinistra, dovuto soprattutto alla litigiosità interna.
    Mario Occhiuto batte Paolini al ballottaggio nel 2011 e diventa il primo sindaco di centrodestra. Sebbene alle sue spalle ci fossero, così sussurrano i maligni, alcuni notabili del Pd, in particolare Nicola Adamo.
    L’archistar, fratello maggiore dell’attuale presidente della Regione, cerca di darsi da fare per rilanciare la città. Abbellisce dove e come può, cerca di incentivare il terziario e di opporsi alle presunte “prepotenze” rendesi.
    A un certo punto, si oppone anche alla metro di superficie, finanziata poco prima della sua sindacatura. Apre cantieri e continua la pedonalizzazione del centro città.
    I risultati sono più formali che altro, ma riesce comunque a far vedere qualcosa. Ad esempio, l’avvio del cantiere di piazza Bilotti. Lo ferma un golpe di palazzo sei mesi prima della scadenza del suo mandato.
    Nel frattempo, è sopravvissuto alla rottura coi Gentile e alla crisi regionale del centrodestra.
    Voto: 6 meno.

    Occhiuto
    Mario Occhiuto è stato per due volte sindaco di Cosenza

    Occhiuto 2: la rivalsa mancata

    Nel 2016 Mario Occhiuto stravince in scioltezza contro un fronte avverso diviso e indeciso. Polverizza Paolini e Guccione e si insedia alla guida di una maggioranza più forte.
    Porta a termine piazza Bilotti e realizza il ponte di Calatrava. Ma sono i suoi unici successi seri. Nel frattempo, il bilancio collassa, e alcune opere mostrano le proprie inadeguatezze: è il caso del parcheggio di piazza Bilotti.
    Anche il maggior dialogo con Rende, propiziato da Marcello Manna, non dà i suoi frutti. Ma tant’è: Occhiuto termina il suo mandato tra chiacchiere e polemiche. La sua eredità, affidata a Francesco Caruso, non è accettata dai cosentini.
    Voto 5 meno.

    E Rende resiste

    Cosenza, in tutti questi anni, perde circa 20mila abitanti. Rende, invece, continua a tener botta. Meno convegni, meno lustrini, più opere: è il caso di viale Principe, realizzata durante l’era di Umberto Bernaudo. Oppure di via Rossini, completata nello stesso periodo dal nuovo municipio, che scende a valle l’amministrazione e puntella la città a nordest.
    Soprattutto, non c’è il collasso demografico del capoluogo, perché i residenti oscillano tra i 33mila e i 35mila. L’edilizia si ferma e alcune opere mostrano la corda. Ma l’assetto urbano regge e l’economia tiene. Tant’è che Marcello Manna, che pure aveva battuto lo schieramento principiano, parla con rispetto della tradizione riformista cittadina. Lo ha fatto anche di recente, cercando di arruolare la figura di Cecchino Principe per colpire Sandro.

    Miseria e nobiltà

    La nobile è decaduta e l’ancella le ha fatto le scarpe. Da centro, Cosenza è diventata periferia. Resta una città invecchiata e in spopolamento, incapace di tutelare anche le sue memorie perché nel frattempo l’anagrafe ha cancellato i grandi notabili che le tutelavano.
    Il declino è uguale per tutti, ma su alcuni grava di più. Inutile dare altre pagelle, perché scopriremmo che anche i sindaci di Rende non sono il massimo.
    Ma una cosa è non capitalizzare appieno le potenzialità acquisite negli anni, un’altra è disperdere un patrimonio, arte su cui la classe dirigente cosentina si è dimostrata imbattibile.