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  • Se non ti chiami Noto, Abramo o Speziali a Catanzaro non conti nulla

    Se non ti chiami Noto, Abramo o Speziali a Catanzaro non conti nulla

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    A Catanzaro se non ti chiami Noto, Abramo, Speziali, giusto per citare i big, ben difficilmente farai strada nei posti che contano. Il capoluogo è il regno di poche potentissime famiglie che fanno il bello e il cattivo tempo nella politica e nella pubblica amministrazione senza avere di fatto mai incontrato sulla loro strada una vera opposizione politica e sociale.

    Il ponte Morandi a Catanzaro

    Catanzaro: il capoluogo senza una stazione

    Il dibattito politico catanzarese è fatto di beghe interne, di trasversalismi che durano lo spazio di un mattino e che interessano solo i protagonisti. La borghesia cittadina ha legami storicamente molto forti con il potere e con gli inquilini che si sono succeduti a Palazzo de Nobili, tant’è che a nessuno di loro è mai stato chiesto conto del declino vissuto dal capoluogo di regione che, a poco più di un mese dalle elezioni comunali, non ha più una stazione ferroviaria o un’autostazione degna di questo nome e sono quasi quarant’anni che nel cuore pulsante della movida di Lido non si riesce a realizzare un vero porto turistico.

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    Sergio Abramo, sindaco di Catanzaro e presidente dell’omonima provincia

    Catanzaro aspetta le elezioni comunali del 12 giugno

    Catanzaro vive un declino che interessa tutti i comparti della vita cittadina; anche il glorioso passato calcistico delle Aquile è solo uno sbiadito ricordo.
    La destra catanzarese ha “campato politicamente per anni” con la realizzazione di un Parco pubblico che per quanto utile e ben fatto, non può far dimenticare le gravi mancanze in tema di politiche del lavoro, infrastrutture, viabilità, commercio e sicurezza.
    Ora partiti e movimenti più o meno civici stanno scaldando i motori in vista delle elezioni amministrative previste per il prossimo 12 giugno insieme ai cinque referendum sulla giustizia che hanno ottenuto il disco verde da parte della Corte costituzionale.

    Arrivato quasi al termine del suo quarto mandato, non sarà presente in questa tornata l’attuale sindaco Sergio Abramo. In attesa dei sondaggi ufficiali, il centrodestra dopo anni di dominio non sembrerebbe essere più certo della vittoria. Nonostante la discesa in campo dell’avvocato Antonello Talerico, Forza Italia e Lega sosterranno la corsa del docente universitario Valerio Donato, che ha già incassato il sostegno di Italia viva e Udc.

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    Rino Colace

    Niente accordo per i meloniani di FdI. Prima sembravano aver virato sull’assessore regionale alle Risorse umane, Filippo Pietropaolo. Poi c’è stata la carta Wanda Ferro sul tavolo, e pare che all’uscente Abramo l’idea non dispiacesse. Infine la scelta è caduta su Rino Colace: medico al Mater Domini, ex presidente del Consiglio comunale ed ex amministratore unico dell’Amc, la società di mobilità cittadina. Nella prima dichiarazione pubblica ha parlato subito di «rigenerazione della classe amministrativa cittadina».

    Per bocca del coordinatore calabrese Maurizio D’Ettore rivendica autonomia anche Coraggio Italia: «Ove possibile – ha detto – presenteremo nostre liste anche con il simbolo del partito». La sinistra schiera invece un altro avvocato, Francesco Di Lieto, sostenuto anche dalla lista di Carlo Tansi, Tesoro Calabria.

    Vincenzo Speziali

    Speziali boccia Donato

    Il Partito democratico ha scelto di appoggiare la corsa a sindaco di Nicola Fiorita, con il Movimento 5 stelle a comporre l’area civica della coalizione.
    In questo momento il quadretto elettorale di Catanzaro è questo, ma non è detto che sia destinato a rimanere così fino alla fine. «Donato? Amabile persona e valevole cattedratico ma la politica è un’altra cosa». Le parole sono di Vincenzo Speziali, membro della direzione nazionale Udc e fresco dimissionario dal ruolo di commissario cittadino dello Scudocrociato che ha preso molto male il diktat romano di confluire sul professore dell’Unicz. «Dobbiamo cercare una figura di centrodestra perché ci sono». Chi? Abramo, («è stimatissimo, persino da Salvini») e poi «c’è sempre Tallini».

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    Valerio Donato, prof all’Università di Catanzaro e candidato a sindaco

    Centrodestra e centrosinistra: l’unità da trovare

    Come è facile intuire, l’unità del centrodestra non è ancora cosa fatta. Ma se Sparta piange, Atene non ride. Così il centrosinistra riunitosi intorno al docente leader del movimento Cambiavento, Nicola Fiorita, se da una parte si trova a dovere affrontare la corazzata dell’alfiere Donato («un gattopardo alla testa di una gigantesca opera di trasformismo») dall’altra deve fare i conti con i mal di pancia di una parte della coalizione che non ha mai digerito l’accordo col Movimento 5 Stelle e il superamento delle primarie di coalizione che in un primo momento erano state proposte dal Pd.

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    Nicola Fiorita, prof universitario e candidato a sindaco del centrosinistra

    Un esempio, uno dei più rumorosi, è la fuoriuscita del socialista Fabio Guerriero in polemica con i vertici nazionali Democrat e la decisione di schierarsi al fianco di Donato.
    Insomma, la partita si preannuncia aperta e agguerrita anche in vista delle politiche del prossimo anno e della necessità di rilanciare la città capoluogo di regione che, a detta di tutte le forze in campo, ha bisogno di un definitivo rilancio politico e amministrativo.

    Michele Urso

  • Alta velocità e Sa-Rc: Cosenza riparta dal sogno di Mancini

    Alta velocità e Sa-Rc: Cosenza riparta dal sogno di Mancini

    A proposito dell’impegno profuso da Giacomo Mancini per la sua città, vorrei ricordare che se la sede centrale dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria è a Cosenza, e non a Reggio Calabria né a Salerno, lo si deve a lui.
    Col senno di poi, può sembrare scontato aver collocato la sede centrale degli uffici dell’autostrada nel capoluogo geograficamente eccentrico di una delle più estese province meridionali. Eppure nel 1968 scontato non lo era affatto.

    Il sogno di Mancini

    La scelta di Giacomo Mancini di assegnare a Cosenza la sede centrale dell’autostrada aveva un significato che va oltre la tecnica dei trasporti, investe la politica e appartiene alla cultura urbanistica. Giacomo era un convinto anche se “inquieto” meridionalista, la sua scelta mirava alto. Aveva un preciso obiettivo strategico: dare alla Calabria un’amministrazione baricentrica, riconquistare per la sua città il ruolo di capitale non solo della Calabria Citeriore ma di tutta la Regione.

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    Giacomo Mancini negli anni d’oro del Psi

    La sede dell’autostrada era il passo successivo a quello fondamentale del tracciato dell’autostrada passante per Cosenza. Connettere la città con un’autostrada significava proiettarla a diventare il futuro capoluogo della Regione prima della insana disputa tra Catanzaro e Reggio finita, come si sa, con la separazione fisica della Giunta dal Consiglio, a tutto svantaggio dell’efficienza amministrativa.

    L’Alta velocità sul Tirreno

    Se si volesse continuare ad operare per dare a Cosenza un ruolo regionale importante, se si volesse continuare il percorso avviato da Giacomo di potenziare il ruolo urbano di Cosenza bisognerebbe impegnarsi politicamente e culturalmente perché la linea dell’Alta Velocità Salerno–Reggio Calabria passi da Cosenza come previsto sia dalla proposta formulata dal gruppo degli ordinari dei trasporti delle Università della Sicilia e della Calabria e sia dalla linea AV/AC proposta dalle Ferrovie dello Stato nell’aprile del 2021 (Praia-Tarsia-Cosenza-Lamezia-Reggio Calabria).

    Sostiene infatti il professore Francesco Russo che per avere un’Alta Velocità ragguardevole la linea tirrenica è inadeguata, meglio è ipotizzare una linea «che si sviluppi in prossimità dell’autostrada» come indicato per il tratto Cosenza-Lamezia nei lotti funzionali della proposta linea AV/AC Salerno-Reggio Calabria delle Ferrovie dello Stato per la Calabria.

    Una linea metropolitana

    Dotare la città Cosenza-Rende di una stazione dell’Alta Velocità, anche se in Comune di Montalto Uffugo, per garantire non solo un interscambio prezioso Montalto–Paola ma anche recuperare il raccordo diretto con l’Università, significherebbe trasformare la linea ferroviaria esistente Cosenza Casali-Quattromiglia in una linea metropolitana che dalla futura stazione di Montalto Uffugo-Università della Calabria, raggiunga, con diverse fermate (Quattromiglia, Campagnano, nuova stazione di Cosenza, vecchia stazione di Cosenza) la stazione di Cosenza Casali.

    L’Università della Calabria

    L’Alta velocità meglio dell’autostrada per Cosenza

    Si darebbe così a Cosenza una infrastruttura territoriale e metropolitana più importante dell’autostrada del sole. Sarebbe anche un modo concreto di onorare la memoria di Giacomo Mancini. Sostenere il contributo tecnico dato dalle università di Sicilia e di Calabria al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), pretendere al più presto la realizzazione della proposta delle Ferrovie dello Stato del 2021 consentirebbe di rivalutare la città di Cosenza-Rende, di connetterla rapidamente con l’aeroporto di Lamezia Terme e con le altre città della Calabria, delle Regioni confinanti con la sua provincia, e con le altre città d’Italia.

    Empio Malara
    Architetto

  • Luxuria: essere trans non è un oltraggio alla Madonna di Capocolonna

    Luxuria: essere trans non è un oltraggio alla Madonna di Capocolonna

    Vladimir Luxuria, opinionista televisiva e attivista Lgbt. Domani riceverà una targa nell’ambito del Premio giornalistico sportivo “Franco Razionale” di Crotone, giunto alla XV edizione e promosso dall’associazione “Forza Crotone Alè”.
    Si parlerà di violenza di genere e di omofobia, in concomitanza, però, con la festa della Madonna di Capocolonna. Questa coincidenza ha generato uno sciame di polemiche che tengono banco da giorni nella città pitagorica. Ne abbiamo parlato direttamente con lei in una intervista esclusiva a I Calabresi.

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    L’ex coordinatore provinciale della Lega a Crotone, Giancarlo Cerrelli

    Vladimir Luxuria, la tua presenza a Crotone sta destando scalpore. L’ex coordinatore provinciale della Lega, Giancarlo Cerrelli, ha parlato di oltraggio alla festa della Madonna di Capocolonna. 

    «Ma per carità. Veramente si attaccano a queste cose? Io non ho parole. Non hanno altro di cui occuparsi? Ma beati loro. Io sono cattolica, cosa c’entra tutto questo? Mi sento offesa come credente. Come si fa a pensare che la presenza di una persona trans sia un oltraggio alla Madonna? Forse è un oltraggio dire queste parole. Chi decide chi è degno di essere credente o meno? Tra l’altro voglio ricordare che poche settimane fa io ho parlato dentro una Basilica sul tema della transessualità. Alla Basilica di San Giovanni Maggiore, invitata dal sacerdote don Salvatore, ho parlato di Chiesa inclusiva. Ricordo anche che il 22 febbraio, come tutte le Candelore, vado al Santuario di Montevergine, dove vengo sempre accolta dall’Abate, per devozione a Mamma Schiavona, la Madonna di Montevergine. Se vuole posso fornire io qualche altro pretesto per attaccarmi, ma questo è quello più assurdo. Non escludo che domani io possa pregare al Duomo di Crotone».

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    Vincenzo Voce, sindaco di Crotone

    A Crotone un anno e mezzo fa il Consiglio comunale approvò una mozione contro il Ddl Zan, il sindaco fece dietrofront. E oggi cosa si aspetta Vladimir Luxuria?

    «Sinceramente non so quanta possibilità abbia il Ddl Zan di essere approvato. L’importante è che se ne parli. Mi piacerebbe che questo tema si sganciasse da ideologie di partito. L’importante, per me, è che si consideri il contrasto alla violenza fisica e verbale per orientamento sessuale o identità di genere qualcosa che riguarda tutti. E se un consigliere comunale di Crotone che ha votato una mozione contro il Ddl Zan un giorno dovesse avere un amico, un parente, un nipote che torna a casa in lacrime per una offesa subita per il suo orientamento sessuale o con un occhio livido perché gay, lesbica o trans? Forse questo consigliere comunale si pentirebbe per il voto che ha espresso. Mi auguro che su questo tema si possa trovare una convergenza ampia, bipartisan.»

    Intanto la legge regionale calabrese contro l’omofobia è stata affossata dal Pd. Quanta omofobia c’è anche a sinistra?

    «Purtroppo c’è. È vero che la maggior parte delle volte le aperture vengono sempre dalla sinistra. Però, quelle che da noi sono le eccezioni rispetto a certi atteggiamenti, in altri ambiti come in Fdi e Lega, sono la maggioranza. A destra le eccezioni, invece, sono quelle che si distinguono favorevolmente».

    A proposito di destra. Ricorda il volantino della Lega a Crotone nel 2019 sul ruolo della donna «sottomessa all’uomo, buona solo per fare la madre e non adatta a fare la rivoluzione». 

    «Che anno era? 2019 avanti Cristo o dopo Cristo? Le donne non sono adatte a fare le rivoluzioni, sono obbligate! C’è ancora questo retaggio maschilista preistorico, da uomo delle caverne, come nelle vignette dove l’uomo trascina per i capelli la donna nella grotta. Bisogna andare molto oltre».

    Hai sostenuto il referendum costituzionale del 2016. Pensi che senza il bicameralismo attuale sarebbe stato più facile approvare le leggi sui diritti, dal Ddl Zan alla legge sul doppio cognome?

    «Ero favorevole per una questione proprio di praticità. Avendo fatto anche la parlamentare conosco le lungaggini. Questi passaggi continui portano veramente a tempi lunghissimi. Si parla tanto dei tempi della giustizia, ma bisognerebbe parlare anche dei tempi per le approvazioni delle leggi. A volte capita anche che, cambiando la legislatura, occorra rifare tutto da capo. I tempi sono davvero troppo lunghi».

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    Vladimir Luxuria in prima linea nel sostegno al Ddl Zan

    Ti manca il Parlamento? Ci torneresti?

    «Ci sono momenti in cui desidererei essere lì a dire la mia o a proporre delle leggi, ma penso si possa fare politica in tanti modi. Anche parlando di un tema importante come l’omofobia e lo sport a Crotone. Penso sia molto importante.»

  • Il Pd chiede un consiglio regionale con il vescovo Savino

    Il Pd chiede un consiglio regionale con il vescovo Savino

    Il capogruppo del Pd Bevacqua: «Le parole di Monsignor Savino scuotono le coscienze e devono provocare una nuova consapevolezza»

    «Le parole usate dal vescovo Francesco Savino nell’intervista rilasciata a I Calabresi scuotono le coscienze dei calabresi e devono portare la società e la politica ad interrogarsi».
    A sostenerlo è il capogruppo del Pd in Consiglio regionale Domenico Bevacqua. «Come non dare ragione al presule di Cassano quando identifica la Calabria, come la Regione dalle belle possibilità che restano sempre inespresse, quando si interroga sul ruolo della massonerie deviate, sul rapporto tra Istituzioni e politica, sulla libertà del voto o sulle logiche che fin qui hanno strangolato la sanità mettendo a repentaglio lo stesso diritto alla salute dei cittadini?».

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    Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio

    «Ma la critica di Monsignor Savino è ancora più apprezzabile – spiega Bevacqua – perché non si ferma soltanto alla parte distruttiva e all’elenco delle tante piaghe che affliggono la nostra Regione, ma formula interrogativi sui quali tutti siamo chiamati a riflettere. Davanti ad uno scenario del genere – si chiede il presule – com’è possibile che il popolo calabrese non abbia la forza e il coraggio per indignarsi? E perché poi questa indignazione non trova sbocco in una proposta politica che trovi successivo consenso?».

    «Si tratta di interrogativi di non poco conto – dice ancora il presidente del gruppo dem a palazzo Campanella – che vanno alla radice dei problemi che da decenni insistono sul nostro territorio. Serve una presa di coscienza da parte della politica, dei partiti, delle associazioni e dei cittadini. Un nuovo grado di consapevolezza che sappia provocare indignazione e la sappia poi incanalare in azioni e proposte in grado di elaborare soluzioni e scardinare gli apparati di potere e tutte le incrostazioni di cui parla Savino».

    «Non è certo un percorso facile – conclude Domenico Bevacqua – ma deve essere intrapreso senza alcun tipo di titubanza. È l’unica strada per provare a cambiare davvero le cose e fare in modo che Istituzioni, partiti e cittadini tornino a confrontarsi e reinventino luoghi di elaborazione politica. Come capogruppo del Pd sento il dovere di inviare un ringraziamento a Monsignor Savino e come partito faremo in modo di avviare fin da subito un percorso di riflessione sui tanti spunti che ha fornito a tutta la Calabria. Intanto, alla prossima Conferenza dei capigruppo chiederò che si convochi una seduta di Consiglio ad hoc invitando Monsignor Savino a prendere parte ai lavori».

  • Il lungo addio: l’agonia delle ludoteche di quartiere

    Il lungo addio: l’agonia delle ludoteche di quartiere

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    A Serra Spiga, in via Popilia e nel centro storico non si ode più il festoso vociare dei laboratori creativi per bambini. Dopo 25 anni di attività, dal 31 dicembre 2021, sono chiuse le ludoteche. Palazzo dei Bruzi tace. La priorità è rimettere in ordine il traffico sconquassato dal precedente sindaco archistar. I diritti sociali possono attendere. Prosciugate le casse, nel bilancio comunale gli unici soldi che non finiranno mai sono quelli destinati a coprire gli stipendi di consulenti e assessori.

    Le ludoteche e il sogno di Mancini

    C’erano una volta le ludoteche di quartiere. Le aprì il sindaco Giacomo Mancini, quando ancora le amministrazioni comunali offrivano spazi e momenti di gioco, ascolto, doposcuola e vacanza ai figli dei più poveri. C’è stato un tempo in cui Cosenza nei servizi delicati pareva una delle città all’avanguardia nel meridione. Erano ancora servizi gratuiti, il Comune li finanziava e non scaricava sul buon cuore del volontariato le attività che in una società cosiddetta “civile” dovrebbero essere di competenza delle istituzioni.

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    Bimbi delle ludoteche alla Villa Vecchia di Cosenza

    Alla fine degli anni novanta il vecchio sindaco socialista volle pure che la Biblioteca dei ragazzi sorgesse proprio sotto le finestre della sua stanza a Palazzo dei Bruzi. Sapeva che presidiare con la cultura i quartieri popolari è un investimento sociale, un modo per arginare la solitudine infantile che alleva criminalità. Per Mancini quello era il biglietto da visita di Cosenza. Il municipio, così, da burocratico scatolone di cemento diveniva luogo propulsore di cittadinanza.

    E lo chiamano centro “sinistra”

    Poi, negli anni zero, venne la giunta Perugini e la chiuse, la biblioteca. In generale, badò soprattutto a rieducare la popolazione alla fruizione dei servizi a pagamento. Tagliò le residue spese del welfare locale, motivando questa scelta con la più classica delle lamentazioni: «I soldi sono finiti». E immolò tutto sull’altare della privatizzazione, osannando il project financing di cui ancora oggi si fatica a intravedere il costrutto. Dagli stadi di calcio alla sanità, dalle infrastrutture ai servizi, fiumi di denaro pubblico finiscono nelle casse dei privati che fingono di investire risorse e si appropriano di spazi comuni.

    Un altro nevralgico polo aggregativo per minori, la Città dei ragazzi, fu in parte riconvertito. Per assegnarlo, la giunta Pd concepì una gara d’appalto ai livelli del ponte sullo stretto di Messina. I nuovi aspiranti gestori si videro costretti a costituirsi nientemeno che in Associazione Temporanea d’Impresa. Nel decennio successivo, l’amministrazione Occhiuto la riconcesse alle associazioni Teca, Don Bosco e Cooperativa delle donne, costrette spesso a sopperire con fondi propri alle deficienze istituzionali.

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    Cosenza, l’ingresso della Città dei ragazzi (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Due anni fa, gliela riaffidò con inedita solerzia: le associazioni si erano procurate da sole i fondi per mettere in funzione e potenziare la struttura, avendo vinto un bando promosso dalla fondazione Con i bambini per fronteggiare la povertà educativa. Chissà se gli Occhiutos erano già consapevoli che di lì a poco i due terzi dell’area della Città dei ragazzi avrebbero ospitato alcune delle scuole cittadine sballottate dalla pandemia.

    Ludoteche e istituzioni: distrazione o indifferenza?

    E se in questi ultimi venti anni la Città dei ragazzi ha vissuto fasi convulse e discontinuità, negli altri quartieri le ludoteche erano riuscite comunque a sopravvivere, pur tra i tagli dei fondi, le temporanee sospensioni e i sacrifici dei loro operatori. Ma da cinque mesi non esistono più.
    «Ancor prima della scadenza dell’affidamento, lo scorso dicembre, abbiamo scritto al sindaco, tramite pec, per chiedere un incontro sulla questione, ma siamo ancora in attesa di essere convocati. Abbiamo scritto anche alla consigliera che ha la delega sull’educazione, ma anche in questo caso non abbiamo avuto risposta», denuncia Mimma Ciambrone, due lauree, una in Storia ed una in Scienze dell’educazione; operatrice storica e socia della Cooperativa delle donne, lavora nei quartieri dal 1997.

    Attività in una delle ludoteche di quartiere chiude dal 31 dicembre scorso

    «Sospendere i servizi a metà anno scolastico – spiega Ciambrone – rappresenta un danno irreparabile per molti bambini e bambine. Li seguiamo quotidianamente. Nelle ludoteche comunali, oltre i servizi ludici ed educativi, monitoriamo il percorso scolastico dei nostri bambini, sostenendoli con l’attività di doposcuola, in stretta relazione con le scuole di riferimento. Si tratta di colmare gap formativi importanti, cercando anche di sperimentare metodologie di apprendimento innovative ed efficaci al fine di scongiurare il rischio di dispersione scolastica. Ora più che mai, dopo le conseguenze devastanti dell’emergenza sanitaria, sia dal punto di vista della socialità che degli apprendimenti, sarebbe stato importante investire sui servizi che nei territori contrastano la povertà educativa».

    Sensibilità cercasi

    La disattenzione parte da lontano e non è una questione riferibile solo al presente. Negli anni sono stati svuotati i capitoli di bilancio destinati ai servizi educativi tutti, e non solo alle ludoteche.

    «Noi abbiamo la convinzione – prosegue l’operatrice – che una città che non investe sui cittadini più giovani difficilmente possa investire sul presente e sul futuro delle comunità. I bambini e le bambine sono un parametro di riferimento ineludibile per misurare l’efficacia delle politiche educative e sociali. La questione infatti è soprattutto politica. C’è la necessità di sedersi attorno a tavoli in cui si possa discutere in modo autentico delle politiche educative e sociali. Le amministrazioni devono sentirsi in dovere di co-programmare e co-progettare con il terzo settore e con l’intera comunità educante. Solo così possono essere superati gli ostacoli, anche di natura economica, che rischiano di invalidare percorsi virtuosi per la nostra collettività».

    Meron Mulugeta, mamma di bimbi utenti delle ludoteche

    «Diversamente, il tutto rischia di tradursi – continua – in una erogazione sterile e a singhiozzo di servizi che non vengono messi a sistema e che non producono benessere per i territori. A cosa e a chi serve, ad esempio, aprire le ludoteche sei mesi all’anno? I servizi educativi hanno bisogno di continuità. L’interlocuzione con chi governa la città è fondamentale, dobbiamo superare questo anno zero in cui chi governa non ha forse nemmeno piena contezza dell’importanza di alcuni servizi educativi».

    Perdere il lavoro, dopo 25 anni di strada

    Nella cooperativa e presso le ludoteche comunali operano 15 educatori. Al momento i contratti sono tutti sospesi. «Questo – conclude Ciambrone – è un fatto gravissimo. Ma non solo dal punto di vista occupazionale. Il problema è anche qui politico. Noi non ci sentiamo solo un posto di lavoro che si perde. Ci sentiamo depositarie di competenze educative precise che intendiamo mettere a disposizione della comunità in cui viviamo. In questi 25 anni siamo entrate, con cura e delicatezza, nella vita di migliaia di famiglie, cercando di lavorare sulle risorse insite nei territori, cercando di fare emergere processi di empowerment indispensabili per maturare cambiamenti reali nei contesti di riferimento. Per questo noi non ci percepiamo come un semplice problema occupazionale. Ci sentiamo soggetti autorevoli per poter dare vita a percorsi virtuosi e non più procrastinabili di co-costruzione di politiche educative efficaci».
    Per lunedì mattina alle 10 è previsto un presidio di protesta ai piedi del municipio per ottenere le risposte non ancora arrivate. Sarà la volta buona?

  • Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

    Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

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    Marco Esposito è giornalista professionista di lungo corso. Già redattore economico di Milano Finanza e in forza a La Voce di Indro Montanelli, passa nel 1995 a Repubblica. Quindi, nel 2000, approda a Il Mattino di Napoli, dove guida la redazione economica.

    Insignito nel 2008 col premio Sele d’Oro per gli articoli sul federalismo fiscale, Esposito diventa nel 2009 responsabile delle Politiche per il Mezzogiorno di Italia dei valori. Entra nella giunta De Magistris nel 2011 come assessore alle attività produttive e vi resta fino al 2013, quando viene eletto segretario di Unione Mediterranea.

    Eposito torna al giornalismo nel 2015 e prosegue le inchieste sul federalismo fiscale. Nel 2018 pubblica con Rubbettino Zero al Sud. Due anni dopo esce per Piemme (Mondadori) Fake Sud. con prefazione di Alessandro Barbero.

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    La copertina di Fake Sud di Marco Esposito

    Il Piano nazionale ripresa e resilienza riprende due scenari: uno riguarda il “prima” dell’invasione russa, l’altro, ovviamente, il “dopo”. Cosa è cambiato? Quali saranno gli aspetti che dovranno essere manutenuti?

    «Il Pnrr è una risposta collettiva dei Paesi dell’Ue alla pandemia. Non era mai accaduto che si facesse debito comune. Forse un giorno scopriremo che questa reazione imprevista ha mandato all’aria i piani di chi, dall’esterno e dall’interno, puntava a destabilizzare l’Ue. Mi auguro che l’invasione russa e lo scontro sul gas portino una continuità strategica: solo le risposte collettive possono essere efficaci, appunto».

    Il Piano sembra rivolto essenzialmente al passato, ma pare privo di una visione strategica che proietti l’Italia, ed il Mezzogiorno in particolare, verso il futuro. Come si può correggere questa impostazione?

    «Un Paese sano ha grandi sogni e risorse per forza di cose limitate. I primi indicano la direzione di marcia e i secondi dettano in concreto i tempi di realizzazione. L’Italia però era, da tempo, un Paese malato, privo di sogni e quindi di grandi progetti. Così, lo ha denunciato il Parlamento europeo, nel Pnrr ci siamo impegnati soprattutto a “reimpacchettare” (non a caso, si è usato il termine “repackaging”) vecchi progetti, senza reale valore aggiunto. Correggere in corsa è difficile. Però credo che la crisi internazionale aperta dalla Russia spingerà l’Europa a rivedere il Pnrr, dilatandone i tempi rispetto al termine del 30 giugno 2026 e accelerando sull’innovazione energetica e digitale, con un occhio particolare alla sfida della comunicazione globale. Il Mezzogiorno italiano può essere protagonista in entrambi campi».

    Una metafora per il Sud: gli spagnoli sottomettono gli Incas
    Si parla del Mezzogiorno per conservarlo in naftalina. Il comportamento è simile a quello degli Spagnoli con gli Incas: chincaglieria in cambio le risorse del territorio. Stavolta lo specchietto per le allodole è nella riserva del 40% dei fondi. Come si può ribaltare questo apparecchio francamente irritante?

    «Prodi diceva che la regola europea del 3% per il deficit era stupida come lo sono tutte le regole rigide. Anche il 40% è stupido. Tuttavia credo che l’assenza di una soglia avrebbe portato risultati peggiori. Il punto è che a noi meridionali non dovrebbe importare di “quanti soldi” arrivano. Invece  dovremmo pretendere uguali diritti di cittadinanza: asili nido, tempo pieno a scuola, trasporti, sanità, assistenza sociale. Questi diritti non possono mutare in base alla residenza. Nel 2022 abbiamo assegnato un fabbisogno standard per i servizi di istruzione pubblica del 4,9% del totale nazionale al Comune di Milano e del 2,1% al Comune di Napoli, ma Napoli non è meno della metà di Milano e i suoi studenti non dovrebbero avere “per legge” meno diritto al tempo pieno o al trasporto scolastico. Per cambiare questo stato di cose dovremmo indignarci. Lo abbiamo fatto, nel 2018, contro gli zeri per gli asili nido e nel giro di un anno quegli zeri li hanno dovuti cancellare».

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    Asili nido: uno dei problemi del Sud secondo Esposito
    La formula magica, è: i bandi “competitivi”. Ma come si possono mettere a gara tra le istituzioni i diritti dei cittadini? Dove si è smarrito il senso della nostra Costituzione?

    «La logica dei diritti messi a bando tra territori è agghiacciante. Chi vorrebbe vivere in un paese che mette a bando i Pronto soccorso e poi trovarsi in un posto che ne resta privo perché magari l’Azienda sanitaria locale non si è attivata? E allora come si può accettare di costruire un asilo nido o una palestra scolastica in base all’abilità del Comune di presentare la domanda? Non capire la differenza tra il bando (necessario) per stabilire quale impresa debba costruire l’asilo nido e il bando (insensato) per decidere in quale posto è utile aprire il servizio è segno di pochezza di tutta la classe dirigente. Al riguardo, non ho visto finora una reazione sufficiente da parte di sindacati, associazioni di genitori e quella che definiamo “società civile”».

    Nella esecuzione degli investimenti del Pnrr si ripresentano i nodi mai risolti di un federalismo sgangherato. Quanto sta pagando il Mezzogiorno questa struttura istituzionale neofeudale che proprio al Sud dà il peggio?

    «Il Sud paga da sempre l’incapacità di fare squadra. Il federalismo, per quanto sgangherato, può essere governato se gli enti locali con interessi simili – Regioni, Città metropolitane, Comuni – comprendono l’importanza di operare insieme. Lo fanno con efficacia – è noto – tre Regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che nella loro storia non hanno mai avuto un identico indirizzo politico. Le regioni del Mezzogiorno non lo hanno fatto mai, neppure quando tutti i presidenti appartenevano al medesimo partito. Michele Emiliano, presidente della Puglia, mi raccontò che in occasione di una Fiera del Levante aveva invitato tutti i colleghi meridionali per aprire un ragionamento comune. Ma dalla sede romana del Pd arrivarono telefonate ai singoli presidenti per invitarli a disertare».

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    Michele Emiliano, il presidente della Puglia
    Non esiste un Mezzogiorno: ce ne sono tanti, con problemi convergenti ma con un tasso di complessità spesso differente. Come può il Pnrr affrontare questo mezzogiorno “plurale”?

    «Questa storia dei tanti Sud, devo dire, non mi ha mai convinto. E’ ovvio che il Meridione non è tutto uguale. Forse è tutta uguale la Lombardia? O la Baviera? Il punto è che in statistiche fondamentali come il tasso di occupazione nella fascia di età 20-64 anni su 286 regioni europee le ultime quattro sono Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Ciò vuol dire che non in Italia ma in Europa c’è un gigantesco problema che riguarda un territorio che ha quasi il doppio degli abitanti della Svezia».

    Il Mezzogiorno vive un declino demografico accelerato, dovuto al calo della natalità, alla ripresa dell’emigrazione dei giovani e alla scarsa attrattività verso gli immigrati. Il Pnrr affronta questo problema che potrebbe cambiare radicalmente, tra qualche decennio, il panorama sociale dei territori meridionali?

    «Il Pnrr non solo non affronta il problema ma, addirittura, in alcuni bandi si dà per scontato che il declino demografico debba continuare. E si prende come riferimento non la popolazione del 2021 o, al limite, quella stimata al 2026 ma addirittura quella prevista dall’Istat per il 2035 nell’ipotesi che i flussi migratori restino stabili. Il che avverrebbe se il Pnrr non incidesse per nulla sulle opportunità a disposizione nei diversi territori. Ciò vuol dire che il Piano postula il suo fallimento. Detto questo, occorre capire che quella demografica è “la” sfida dell’intera Europa e la si vince se le nostre università diverranno attrattive per giovani di tutto il mondo. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, c’è stato il problema delle centinaia di studenti universitari indiani che dovevano lasciare le università di quel Paese. Il Mezzogiorno vincerà la sua sfida quando i giovani di qualsiasi paese del mondo penseranno che non c’è nulla di meglio per il proprio futuro di trascorrere gli anni di formazione in atenei prestigiosi e pronti ad accoglierli: Napoli, Bari, Cosenza, Palermo e così via».

    L’Università della Calabria
    Le organizzazioni criminali condizionano da sempre il funzionamento delle società meridionali. Quanto è elevato il rischio che questi soggetti si impadroniscano delle leve che governano gli investimenti del Pnrr per consolidare il loro potere?

    «L’interesse di organizzazioni criminali a intercettare flussi di risorse pubbliche non è un rischio ma una certezza. E non solo al Sud, come dimostrano le inchieste su appalti pilotati, dal Terzo Valico al Mose. L’attenzione quindi deve essere alta, senza però spingerci nell’errore di affondare Venezia perché qualcuno ha rubato sul Mose».

    Nella governance del Pnrr non pare emergere una piattaforma di comando e controllo in grado di contrastare l’inerzia di cui il Mezzogiorno è storicamente prigioniero. Potrebbe valere la pena di attivare la regola dei poteri sostitutivi quando emergono lentezze e ritardi delle istituzioni locali?

    «Se mettiamo al centro i cittadini, la risposta è ovvia. La Consulta è stata chiara nel chiedere allo Stato di definire i livelli essenziali delle prestazioni prima di attuare il Pnrr e la Costituzione lo è altrettanto nell’assegnare allo Stato poteri sostitutivi qualora i Lep non siano garantiti n tutto il territorio nazionale. Purtroppo la governance del Pnrr prevede poteri sostitutivi per l’ente locale che si assicura un progetto ma poi stenta a realizzarlo, non per l’ente locale che non si attiva affatto. Si può cambiare questa linea di marcia? Certo. Se ci convinciamo che è il tempo dell’ambizione, non della pigrizia».

  • Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Francesco Savino è il vescovo di Cassano, territorio ricco, con una antica radice cattolica, ma anche tormentato dalla presenza di una potente criminalità organizzata. Ed è l’uomo mandato da Papa Francesco nella Chiesa calabrese.

    La voce pacata e lo sguardo mite non devono ingannare: Savino viene dalle lotte di Libera contro le mafie, è delegato presso la conferenza episcopale della Chiesa calabrese ai temi della Salute. E sa che qui è troppo spesso un diritto negato, assieme al lavoro e alla dignità.

    Non fa giri di parole. Sa pure che i responsabili sono da cercare nei legami tra certa politica e il malaffare, nella presenza di poteri trasversali che si sono impossessati di ampie porzioni della vita pubblica. E sa anche che lo sguardo severo va rivolto anche dentro la Chiesa, troppe volte in silenzio quando avrebbe dovuto gridare.

    E così, partendo dal messaggio del pontefice, Savino traccia la rotta di una chiesa militante, dentro la moltitudine delle persone, immersa tra la gente, alla ricerca di una via di liberazione che non lasci escluso nessuno. Quando Savino pronuncia la parola “liberazione”, una suggestione latinoamericana sembra insinuarsi nel salone della Diocesi. E invece siamo a Cassano, in Calabria. Ma forse non è così differente.
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    Michele Giacomantonio e Claudio Dionesalvi

  • Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    A Carfizzi, appena 506 abitanti tra la Sila crotonese e la costa jonica, la storia, anche quella contemporanea, sfocia nella leggenda.
    A Carfizzi, che sorge su una collina a poco più di 500 metri sul livello del mare, c’è un’ulteriore altura, la Montagnella, in cui confluiscono tre sentieri, che partono dal centro del paesino e dalle vicine Pallagorio e San Nicola dell’Alto.

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    Bandiere rosse sventolano sulla Montagnella di Carfizzi negli anni ’70

    Sono tre comuni arbëreshë dalla demografia ridotta al minimo dall’emigrazione. E tuttavia, hanno una memoria importante.

    Carfizzi: avanguardia contadina

    Le comunità albanesi di Calabria hanno una vocazione particolare: essersi trovate in prima linea in tutte le grandi trasformazioni storiche. Fu così per il Risorgimento e per il fascismo. Ma anche per l’antifascismo.
    A riprova che nella Calabria contemporanea povera e arretrata ci fu sempre chi desiderò un futuro diverso. Ma gli arbëreshë, forse, lo desiderarono di più.
    Ed ecco che il primo maggio 1919 si svolse proprio sulla Montagnella di Carfizzi la prima lotta pubblica dei contadini, in perfetta sincronia con quanto avveniva al Nord in quegli stessi anni di crisi profonda e in anticipo o quasi sul resto del Mezzogiorno.

    Pasquale Tassone: il dottor Lavoro

    Si potrebbero riempire interi tomi sulle condizioni dei braccianti agricoli calabresi a cavallo tra XIX e XX secolo.
    Terribile ovunque, la vita dei contadini non proprietari era pessima nel Crotonese, dove il latifondo aveva resistito a tutti: francesi, Borbone e liberali.
    E c’era di peggio: il livello di vita dei minatori. La parola chiave di questa situazione, che rispecchiava alla perfezione gli schemi marxisti, è: sfruttamento.

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    L’urna di famiglia di Pasquale Tassone

    Erano senz’altro una forma di sfruttamento, a tratti odiosa, le 12 ore al giorno di lavoro nei campi di Carfizzi e Pallagorio e nelle zolfatare di San Nicola per compensi da fame.
    La prima protesta, pacifica, fu organizzata da Pasquale Tassone, medico e sottufficiale del Regio Esercito, fresco reduce della Grande Guerra e si svolse, appunto, il primo maggio del 1919.

    Tassone, di idee socialiste come molti esponenti della borghesia emergente dell’epoca, riuscì a organizzare i lavoratori per dare il via a una serie di manifestazioni dal forte simbolismo. L’unità tra operai e contadini, tanto predicata da Gramsci (un altro albanofono illustre), si realizzava anche nella Calabria profonda, in occasione del primo maggio.
    In perfetta coerenza con le proprie idee, il medico operaio divenne antifascista. E forse pagò con la vita la sua scelta e le sue lotte: morì per un colpo di fucile ricevuto in circostanze mai chiarite il 12 dicembre del 1935.

    Carfizzi e non solo: storia della manifestazione

    Il primo maggio “albanese” subì, va da sé, un’interruzione durante il Ventennio.
    Ma anche a questo riguardo, non mancano le leggende metropolitane: c’è chi sostiene che i braccianti e gli operai della zona abbiano continuato a celebrare di nascosto la festa dei lavoratori sulla Montagnella, magari approfittando della tolleranza dei notabili locali.

    Tuttavia, il primo maggio della Montagnella riprende alla grande solo a partire dal 1946, quando l’amministrazione dell’Amgot (il governo militare alleato), non proprio favorevole alle manifestazioni operaie, lascia il territorio alle contese tra la Dc e il Fronte popolare.

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    Contadini in marcia nel Crotonese

    La ripresa, raccontano le poche fonti d’epoca, avvenne in grande stile, con tre grossi cortei che invasero pacificamente la Montagnella per celebrare la prima vera Festa dei lavoratori del dopoguerra.

    Da allora in avanti, il copione di questo Primo maggio arbëresh è rimasto più o meno invariato: il raduno sulla cima dell’altura, l’immancabile comizio dei “forestieri”, cioè dei dirigenti sindacali della “triplice”, regionali e non solo, e poi la festa.
    Ma negli anni ’40 il clima era tutt’altro che allegro e il sindacato non era affatto “imborghesito”, come oggi.

    Disordini e tragedie: Giuditta Levato

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    Giuditta Levato

    La fine della guerra aveva riacceso le vecchie tensioni sociali, calmierate dal fascismo col classico “bastone e carota” tipico delle dittature.
    La legge Gullo, in particolare, aveva rilanciato le speranze dei braccianti di poter diventare proprietari, vivere del proprio e non più sotto padrone.
    La questione delle terre, irrisolta dai tempi delle Due Sicilie, riesplose con le occupazioni dei contadini.
    La morte tragica di Giuditta Levato, colpita a morte da una fucilata a Sellia Marina durante una protesta contro il barone Mazza, chiuse in maniera tragica il 1946.
    Ma il peggio doveva arrivare.

    Arresti e strage: Carfizzi e Melissa

    Nel 1949 la borghesia italiana tira un sospiro di sollievo: la Dc ha vinto le Politiche dell’anno prima e l’Italia resta a Ovest.
    Tuttavia, le tensioni restano altissime, in particolare sulle coste orientali della Calabria, dove si verifica un’imponente manifestazione di massa: circa 14mila contadini occupano le terre abbandonata o “usurpate” dai vecchi notabili, trasformatisi da feudatari in latifondisti.
    Più che rivoluzionaria, la pretesa dei braccianti è legalitaria: il rispetto delle norme della legge Gullo, su cui la Dc, all’epoca vicina ai terrieri, era piuttosto “tiepida”.

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    Il ricordo delle vittime della strage di Melissa

    In questo contesto, in cui la fobia anticomunista giustifica le strette autoritarie, sedici contadini di Carfizzi vengono arrestati. La loro colpa? Aver partecipato a una manifestazione per l’occupazione delle terre.
    Ma la tragedia vera e propria avviene a Melissa, per la precisione nel feudo Fragalà, di cui il maggiore proprietario è il barone Luigi Berlingieri.

    Ottobre di sangue

    Su questo feudo c’è una contesa antica. I napoleonici ne avevano assegnato metà al demanio. Tuttavia, gli ex feudatari avevano di fatto “usurpato” la parte pubblica, destinata ai contadini poveri. E questa situazione si era protratta fino alla legge Gullo.
    L’esplosione delle proteste spinge i dirigenti calabresi della Dc a chiedere aiuto a Roma, in particolare al Ministero dell’interno, presieduto da Mario Scelba, un duro animato da un anticomunismo a prova di bomba.
    Scelba invia i reparti della Celere, il corpo di polizia antiguerriglia di fresca costituzione. Uno di questi reparti si stabilisce proprio a Melissa, dove la tensione tra i contadini e il barone Berlingieri è alle stelle.

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    La storica prima pagina che il settimanale satirico Cuore dedicò alla morte dell’ex ministro Scelba

    Il 29 ottobre, la tragedia: i celerini caricano la folla dei manifestanti. E sparano ad altezza uomo: prima proiettili di legno, poi quelli veri.
    Nel parapiglia, restano colpiti 18 contadini. Due di loro muoiono sul colpo: sono il 30enne Francesco Nigro e il 15enne Giovanni Zito.
    Angelina Mauro, una ragazza di 23 anni, viene soccorsa. Ma inutilmente: morirà poco dopo per le ferite ricevute.

    Il primo maggio borghese

    In memoria di quella tragedia, a Carfizzi l’artista Antonio Cersosimo ha realizzato nel 1998 il “Monumento al I maggio” una scultura in marmo che svetta in cima alla Montagnella.
    I tempi sono cambiati per fortuna, e la miseria da cui sono scaturite quelle tragedie è un ricordo.

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    Il monumento sulla Montagnella

    La Montagnella del 2022, riprende dopo due anni di interruzione dovuta alla pandemia, con un tema antico: la sicurezza sul lavoro, affrontato da Angelo Sposato, segretario generale della Cgil Calabria, Santo Biondo, il suo omologo della Uil, Giuseppe De Tursi e Rossella Napolano, dirigenti della Cisl della Calabria centrale. A chiudere, il concerto di Eugenio Bennato, un habitué di queste iniziative.
    A 104 anni di distanza dalla prima Montagnella il lavoro resta un’emergenza, con ben altre tragedie.

  • Il limbo dei treni: il turismo lento salverà la Calabro-Lucana?

    Il limbo dei treni: il turismo lento salverà la Calabro-Lucana?

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    Fermi da più di dieci anni, i treni della vecchia Calabro-Lucana nella Piana di Gioia Tauro, sono rimasti a consumarsi in un angolo dismesso della linea a scartamento ridotto nella città del porto. Per quasi un secolo hanno garantito la mobilità tra il mare e l’entroterra. Sono stati a lungo unico, o quasi, mezzo di trasporto della zona. Ora stanno lì, vicino al terminal bus, abbandonati dal 2011 quando, con un fonogramma di dieci righe, la linea venne sospesa a tempo indeterminato. Vandalizzate dai soliti tag dozzinali e depredate di tutto, le carcasse rosse dall’inconfondibile stile retrò dei trenini che per decenni hanno portato su e giù per le campagne del reggino migliaia di cittadini, sono solo uno dei segni del declino senza ritorno del trasporto interno su rotaia.

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    Il rosso della ruggine ricopre treni e rilevato ferroviario nella vecchia Ferrovia Calabro-Lucana

    Il tracciato dimenticato delle ferrovie

    Due linee distinte, due tracciati diversi ma uniti nello stesso finale amaro. Una, la linea più antica, collegava la costa Viola con il versante tirrenico d’Aspromonte arrampicandosi sulla montagna fino al capolinea di Sinopoli. L’altra, la più importante, garantiva i collegamenti tra la città del porto e il ricco entroterra della Piana, fino a San Giorgio Morgeto e a Cinquefrondi: entrambe le linee, anche se chiuse in anni diversi, sono ormai solo un ricordo; con il materiale ferroviario – almeno quello che non è stato portato via dai tecnici di “Ferrovie della Calabria” – lasciato al suo destino in attesa di una riapertura che, visti i costi, non avverrà mai o di una riconversione del tracciato che per ora resta solo nelle idee innovative di qualche tesi d’architettura.

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    Vecchio casello ferroviario a Cinquefrondi

    Un patrimonio storico del trasporto pubblico

    Trentadue chilometri di tracciato, 13 fermate, una manciata di automotrici e un patrimonio di storia del trasporto pubblico che ha attraversato (quasi) tutto il secolo breve prima di naufragare sotto i colpi di una gestione diventata sempre meno redditizia. È entrata in funzione nel 1924 nel tratto tra Gioia e Cittanova, l’hanno ampliata fino a Cinquefrondi tre anni più tardi. La linea avrebbe dovuto originariamente “scavalcare” il passo della Limina e ricongiungersi a Mammola con il tratto di rotaie che arrivava fino allo Jonio. Ma il progetto presentava costi troppo elevati. Così fu accantonato definitivamente.

    Interi paesi uscirono dall’isolamento

    Nella Calabria del primo XX secolo però, quella trentina di chilometri di binari a scartamento ridotto, rappresentano un salto in avanti importante. Un intero territorio fatto di paesi densamente popolati, veniva finalmente interconnesso in maniera stabile, economica e comoda, con le stazioni a due passi dalle piazze principali dei centri. Un servizio ininterrotto (curato dalla società Calabro Lucane fino ai primi anni ’90 e poi da Ferrovie della Calabria) andato avanti fino al 2011. Poi è stato sospeso, dopo anni di agonia, con la giustificazione dei problemi di sicurezza. I limitati interventi di manutenzione sul tracciato e l’avanzata età del materiale rotabile, infatti, avevano costretto la linea a viaggiare a velocità estremamente ridotta. Elementi che hanno reso poco pratico il trenino, che ormai utilizzavano praticamente solo gli studenti.

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    Gli immancabili murales sulle pareti esterne dei caselli abbandonati

    Da quel giorno di 11 anni fa, poco o niente e cambiato. Nessuno, in Regione, si è mai preso la responsabilità di dismettere definitivamente la linea. Uno status di “sospensione” che, di fatto, ne impedisce ogni altro utilizzo. Ai limiti dettati dalle normative di sicurezza sui percorsi ferrati poi, dal 2019, si è aggiunto anche il vincolo della soprintendenza di Reggio che ha emesso un decreto di interesse culturale sulle linee Taurensi, in quanto memoria storica.

    Anche se di memoria, ormai, rischia di rimanerne poca. Smontato lo smontabile – le aste dei passaggi a livelli, i semafori – il resto del tracciato è rimasto abbandonato. I tecnici delle ferrovie si limitano a tagliare l’erba lungo i binari e nelle stazioni prima della stagione estiva. Nessuna manutenzione sui binari, sugli scambi o sui numerosi viadotti presenti sul tracciato. Nessun intervento nelle stazioni che cadono a pezzi (fatto salvo un piccolo recupero della piattaforma che “girava” i treni, nel capolinea di Cinquefrondi). Nessuna idea di riconversione all’orizzonte. E con il rischio sempre più concreto che episodi come quello di Sinopoli – quando gli Alvaro fecero costruire un edificio in muratura sui binari ancora caldi dal passaggio dell’ultima littorina – possano moltiplicarsi.

    Quattro ragazzini e un pallone lungo il vecchio tracciato delle Ferrovie calabro-lucane

    Il turismo green corre sui binari

    Per l’ex assessore regionale Catafalmo, storia di un anno fa, «la rimessa in esercizio della Gioia-Cinquefrondi non risulta sostenibile da un punto di vista economico e finanziario». A tenere “vivo” il vecchio tracciato ci pensano le associazioni di appassionati e escursionisti. Organizzano giornate di trekking lungo i binari, attraverso un percorso prezioso sotto gli ulivi giganteschi di questo pezzo di sud. E poi ci sono le idee e i progetti di tanti laureandi. Su quel tesoro fatto di stazioni e binari d’acciaio, hanno immaginato il futuro del territorio.

    Un futuro fatto di piste ciclabili e servizi integrati con i vecchi tracciati delle ferrovie dismesse in grado di catalizzare l’interesse di un turismo lento, che cerca attrazioni lontane dalle mete più frequentate. Le vecchie stazioni che diventano sale espositive e vetrine per i prodotti del territorio, le traversine in rovere che trovano nuova vita come pavimento esterno, persino le rotaie, smontate e riadattate per scale e recinzioni: le idee ci sono, il rischio è che restino chiuse nel cassetto.

  • Lega o Borboni? Col Pnrr serve un meridionalismo responsabile

    Lega o Borboni? Col Pnrr serve un meridionalismo responsabile

    Non è vero che il Parlamento non si occupi del Sud, non discuta della questione meridionale, non vari provvedimenti per le nostre regioni. Parlamento in quanto sede legislativa e di indirizzo per il governo, intendo, richiamando alla memoria mozioni che indicavano e impegnavano negli ultimi decenni l’Esecutivo verso politiche attive nel campo dell’occupazione, delle infrastrutture, del riequilibrio territoriale.

    Il Sud dai partiti di massa al Pnrr

    In molte di esse – spulciando gli archivi – tenere insieme nelle premesse motivi storici, antichi e recenti, condizioni locali e interrelati ai diversi contesti, indicare direzioni lungo le quali legiferare fa trasparire momenti di vera e propria sofferenza, paziente lavorio di mediazione e di equilibrio: malavita organizzata, ritardi strutturali, vocazioni locali, collegamenti, ambiente, energia… da dove partire, quali priorità elencare? Oggi con Il PNNR in fase di gestazione e una ripresa del dibattito sul federalismo asimmetrico è opportuno riprendere le fila di un discorso magari sopito ma sempre attuale.

    sud-ripresa-pnrr-non-basta-anche-italia-deve-fare-sua-parteUn tempo, quando c’erano i grandi partiti di massa, ideologizzati e a respiro nazionale, parlare e decidere per il Paese significava avere una visione unitaria. Comportava un patto di solidarietà e di politiche territoriali fra loro integrate e compatibili. Patto e politiche che avevano per subfondo due capisaldi: Nord produttore e Sud consumatore uno, l’altro era l’assistenza verso il Sud.

    Due corollari

    Mi si passerà lo schematismo anche brutale se si vuole, ma che può essere funzionale, nella sua icasticità, a introdurre una serie di corollari.
    Il primo è quello dei massicci esodi migratori di calabresi, lucani, siciliani… verso il triangolo industriale, per non dire verso il Nord Europa e le Americhe, dove furono parte ineludibile della possente crescita di quei territori.
    Il secondo corollario può sintetizzassi negli interventi mirati verso il Sud, primo fra tutti la Cassa per il Mezzogiorno. Cassa nata con l’esplicita missione di ammodernare le terre del Sud grazie a poderosi interventi di infrastrutturazione di carattere fisico, ma prodromici a insediamenti necessari alla crescita economica e nel contempo necessari a garantire standard di civiltà e modernità.

    Cosa fare del Sud col Pnrr

    Erano tempi in cui il dibattito fra le forze politiche si rifaceva, con Rossi Doria, alla polpa e all’osso, paradigmatici del puntare sull’industria o sull’agricoltura: un dualismo oggi superato da altre bipolarità, ben altre.
    Non può essere questa la sede idonea a tratteggiare i caratteri salienti di quella stagione, forse fin troppo drasticamente liquidata e indubbiamente portatrice di forti elementi di positività poi affogati nel clientelismo, nella spartizione partitica, nella incompletezza di opere al di fuori di un disegno organico che prefigurasse il refrain poi più volte recitato: Che farne, del Sud.

    Nei partiti, nel Pci in particolare, c’era la Commissione Mezzogiorno, struttura sempre guidata da prestigiosi rappresentanti di statura nazionale che fungeva da camera di compensazione e di sintesi, di valutazione, analisi e proposta, sempre e comunque dentro una cornice di respiro e di salvaguardia dell’unità nazionale.
    Con il nascere delle Regioni prima e della Unione Europea poi si assiste a un cambiamento di scenario, accompagnato da quel fenomeno che qualcuno chiosò: fine dell’intervento straordinario e assenza di interventi ordinari.

    Regioni, Lega Nord e nuovi scenari

    Le Regioni invece di configurarsi come elemento di sussidiarietà hanno via via accresciuto vizi di deficit di governo e contrapposizione geopolitica. La UE ha varato misure e risorse per le Aree in ritardo di sviluppo raramente recepite e fatte proprie dagli Stati membri, con i risaputi sprechi, fondi non spesi, occasioni perdute.

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    Matteo Salvini a Cosenza prima delle ultime elezioni regionali (foto Alfonso Bombini)

    Il nascere della Lega Nord, il pietismo e il neoborbonismo del Sud hanno costituito le pietre miliari dell’oggi. Pietre cui le sciagurate modifiche al Titolo V della Costituzione hanno posto il suggello, con le irricevibili proposte di federalismo sghembo buono solo a distruggere il Paese e a ingenerare darwinianamente distorsioni destrutturanti.

    Per un meridionalismo responsabile

    C’è un libro di qualche anno fa, scritto quando tranne Giuseppe Galasso e pochi altri tenevano faticosamente in alto la bandiera di un meridionalismo responsabile, non straccione né intriso di rimpianti rivendicazionisti. L’autore è Emanuele Felice, il titolo Perché il Sud è rimasto indietro. È di circa dieci anni fa e contiene analisi e ragionamenti tuttora non smentiti né smentibili. Affronta di petto la questione delle classi dirigenti. Tutte, non solo quelle politiche. Demolisce con scientificità di metodo qualsiasi tentazione neoborbonica, apre scenari improntati alla responsabilità e alla coesione territoriale.

    Oggi, in tempi di guerra, di Covid e di Pnnr, rispetto al quale ci si azzanna sulla quota del quaranta per cento da assicurare al Sud senza una cornice di riferimento geopolitico e progettuale di un’Europa alla ricerca di sé in un Mediterraneo baricentro di processi di pace e di crescita, potrebbe essere di qualche utilità ritornare a vecchie pagine. Quelle in cui si affermava che l’Italia sarà quello che il Sud sarà, depurandole, sia chiaro, di un’impostazione massicciamente agraria e ponendo il Sud, la Calabria, sul versante del terziario, meglio del terziario avanzato.

    Massimo Veltri
    Ex senatore della Repubblica e professore ordinario all’Unical