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  • Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

    Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

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    Chi non gli vuol bene (o è deluso) rimprovera due cose all’ex sindaco Mario Occhiuto: essersi concentrato sul voluttuario e il dissesto del Comune di Cosenza.
    Quest’ultimo non è colpa sua. O, almeno, non lo è del tutto. Gli si può rimproverare di non aver tenuto i conti sotto il livello di guardia, tanto più che lo Stato aveva iniziato a sforbiciare le sue rimesse dal 2011.
    Gli emblemi del voluttuario by Occhiuto restano le luminarie con cui ha tentato di abbellire, non sempre riuscendoci, varie zone della città.

    Parliamo dei famosi “cerchi” e dei santini di un improbabile Re Alarico che hanno troneggiato per anni, a costi non proprio leggerissimi.
    «Archite’ ricogliati ssì circhi», rappavano alcuni anni fa Zabatta e Solfamì, i re mascherati dell’hip pop satirico cosentino.
    Ora che i circhi non ci sono più (anche se Franz Caruso li ha rimessi in giro), è doverosa una riflessione: il dissesto di Cosenza non è colpa delle luci. Ma a Cosenza c’è stato un sindaco che ha messo il Comune in crisi per altre luci: Francesco Martire.

    Cosenza verso il dissesto: il primo grande debito

    Francesco Martire non era un archistar ma aveva lo stesso il pallino delle opere pubbliche.
    Esponente della sinistra storica, già deputato per tre legislature a partire dal 1865, aveva promosso la realizzazione della ferrovia Sibari-Sila.
    Nel 1876 Martire diventa sindaco di Cosenza, dove fa ricostruire il ponte Alarico e, appunto, realizza l’illuminazione a gas.

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    Il vecchio ponte Alarico (1883) in ferro, sostituito dall’attuale dopo la Seconda Guerra mondiale

    Per una città come Cosenza, il gasometro è la classica manna. Ma anche uno sproposito: costa un milione di lire dell’epoca, oltre venti milioni di euro attuali.
    Infatti, la Cosenza dell’ultimo quarto del XIX secolo conta circa ventimila abitanti e il suo bilancio è al massimo di duecentomila lire. Quindi s’impone il mutuo. Martire lo contrae a nome del municipio col banchiere napoletano Gaetano Anaclerio.

    Il contratto è un capestro: per garantirlo, il Comune emette 3.036 obbligazioni da cinquecento lire l’una, da rimborsarsi entro cinquant’anni. Più gli interessi ed eventuali penali. C’è chi mugugna. Ma tant’è: nella Cosenza di allora, chi non è d’accordo salta, più che in quella di oggi.
    È il caso di Antonio Coiz, il preside del Telesio, trasferito in Puglia qualche mese prima del prestito. Martire è intoccabilissimo, perché protetto da tutti. Dalla sua sinistra e dagli avversari.

    Inciucio d’epoca tra destra e sinistra

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    Luigi Miceli

    Alle spalle di Martire c’è Luigi Miceli, esponente della sinistra radicale, che fa la guerra al destrorso Francesco Muzzillo.

    Muzzillo sulle prime la spunta: la sua lista vince le elezioni del 1876. Ma Miceli, parlamentare di lungo corso ed esponente della Cosenza che conta, preme per lo sconfitto. All’epoca i pastrocchi non sono un problema, visto che il sindaco è nominato dal re su proposta del Consiglio comunale.
    Quindi Martire diventa sindaco. Ma, per tenersi la poltrona, ricorre a un espediente oggi molto in uso nei paesi dell’Europa orientale: riempie la giunta di avversari.

    Dissesto: la massoneria scende in campo a Cosenza

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    Pietro De Roberto

    Passano gli anni e le cose cambiano. Cambia anche il debito, che triplica per colpa delle clausole firmate da Martire e, va da sé, dell’insolvenza del Comune.
    Cambia anche la posizione di Miceli, bollito da anni di potere e insidiato dalla massoneria.
    Miceli, nel 1888, è ministro dei Lavori pubblici nel governo di Francesco Crispi. A Cosenza le logge “Bruzia”, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e “Telesio” gli fanno la guerra.
    Allo scopo, i grembiulini preparano un trappolone: un incontro pubblico presso il teatro Garibaldi, promosso dal settimanale La lotta. Lo scopo del meeting è apparentemente innocuo: la richiesta di un reggimento del Regio esercito in città. Ma il dibattito diventa una requisitoria contro Miceli, che, nonostante il suo consistentissimo seguito politico, subisce una bella botta.

    A.A.A. sindaco cercasi

    Cosenza, che non ha un sindaco da tre anni ed è amministrata dal facente funzioni Giuseppe Compagna, va alle elezioni nel novembre 1888. Con una novità: il re non nomina più i sindaci, che sono eletti direttamente dai Consigli.
    Le elezioni sono tipicamente cosentine: venti liste per un totale di settantuno candidati. Con gli occhi di oggi, non sembrano grandi numeri. Ma per una città di poco più di ventimila abitanti in cui ha diritto al voto il quindici per cento circa dei residenti è tantissimo.

    Vince la lista sponsorizzata dalla loggia “Bruzia”, che si aggiudica sedici consiglieri su trenta. Ma è una vittoria parziale, perché arriva la parte più difficile: fare il sindaco.
    Le finanze di Cosenza sono vergognose: tre milioni di debito, saldato in minima parte (il Comune ha rimborsato solo duecentoventi obbligazioni). Più che un sindaco, in questa situazione, occorre un eroe.
    Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico e ricco possidente di Carolei, rifiuta la poltrona offertagli dalla “Bruzia”.

    Alimena sindaco

    Al suo posto accetta Bernardino Alimena, figlio del patriota Francesco e professore universitario a Napoli.
    Alimena sembra l’uomo giusto al posto giusto: giurista di prima grandezza (tra le varie, è l’avversario più accreditato del criminologo Cesare Lombroso) ha il prestigio necessario per dare lustro alla città e ottenere credito politico a Roma.

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    Bernardino Alimena

    Il  prof si dà subito da fare: denuncia il debito alla cittadinanza, inizia a tagliare i conti e, soprattutto, dà la caccia agli evasori, che anche allora non sono pochi.
    Come sempre, il rigore comporta l’impopolarità: gli elettori si ribellano e la giunta, piena di massoni, perde pezzi. E perde pezzi anche la loggia “De Roberto”: piuttosto che vedersela con gli elettori arrabbiati, i grembiulini si mettono in sonno.
    A fianco di Alimena resta il solo De Roberto, che muore nel 1890. Per il professore la situazione diventa critica: rimpasta due volte la giunta pur di restare in sella, ma niente da fare. È costretto a dimettersi appena sei mesi dopo la nomina.

    Dissesto, luminarie e lampioni

    In tutto questo, resta una domanda: come presero i cosentini di allora l’innovazione del gasometro? Secondo le cronache dell’epoca, malissimo: i rapporti di polizia giudiziaria riferiscono di lampioni presi a sassate in alcune zone. In particolare, nel rione Sant’Agostino, zona storica delle “lucciole”, e nel quartiere Santa Lucia, dove le professioniste dell’amore avevano iniziato a trasferirsi. Segno che, per certe attività, il buio fosse più gradito.

    Il debito, invece, è estinto nel 1924. Ma più per merito dello Stato, che ha nazionalizzato il sistema bancario, che del Comune.
    Nessuno, invece, ha danneggiato le luminarie di Occhiuto, che in compenso non hanno provocato il dissesto di Cosenza pur offrendo il loro modesto contributo alla causa.
    Ma questa storia ha un’unica morale, che vale oggi come a fine Ottocento: per chiarire i conti pubblici, non c’è luce che basti.

  • Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    L’incubo lavorativo, che per i 250 dipendenti delle Terme Luigiane dura ormai da 6 anni, continua. Si sono avvicendati ben 4 presidenti di Regione e sono stati sottoscritti accordi alla Cittadella e in Prefettura. Ma gli stabilimenti si ritrovano ancora una volta chiusi. Eppure la stagione, «se solo si volesse, potrebbe ripartire domani mattina». Il “Comitato dei Lavoratori Terme Luigiane” ne è convinto ma è costretto a osservare come «centinaia di interrogazioni, denunce e istanze promosse da lavoratori, cittadini e da ogni parte politica» non abbiano risolto concretamente un problema «che sta diventando lo specchio di una Calabria che non funziona e che costringe i padri di famiglia, con immensa rassegnazione, a fare le valigie pensando a quanto il buon Dio abbia dato a questa terra e a come noi Calabresi siamo incapaci di mettere a frutto tali doni».

    Acque (e dignità) in mare

    Questo è esattamente ciò che sta accadendo alle Terme Luigiane: «Una realtà perfettamente funzionante da una parte e, dall’altra, qualcuno dotato delle giuste coperture, che ha scelto in maniera arbitraria di distruggere tutto nel tentativo di portare a compimento disegni a noi ignoti, sversando nel mare le preziose acque termali e la nostra dignità di lavoratori». Alla Sateca, «che ha da sempre gestito le Terme Luigiane, garantendoci – proseguono i lavoratori – occupazione stabile e correttamente remunerata, è stata tolta l’acqua termale contro ogni legge e contro ogni sentenza giudiziaria, preferendo il nulla a un qualcosa che funzionava e che ha dato la possibilità ad intere famiglie per intere generazioni di mantenere un livello di vita più che dignitoso e soddisfacente».

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    Terme Luigiane, l’aiuto di sindacato e chiesa

    Oggi i lavoratori si ritrovano «costretti a spezzare i sogni» dei loro figli e «nella condizione di non sapere cosa portare in tavola». Tra le istituzioni «che ci sono state sempre vicine (di fatto le uniche)», i dipendenti della struttura annoverano «la Cisl con Gerardo Calabria, che ha dall’inizio combattuto con noi questa battaglia e, nelle persone di Monsignor Leonardo Bonanno e di don Massimo Aloia, la Chiesa che ha provveduto a pagarci le bollette, a farci la spesa alimentare e, soprattutto, a manifestarci costantemente vicinanza e condivisione quotidiana delle nostre angosce».

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    Don Massimo Aloia, parrocco delle Terme Luigiane

    Finora solo buone intenzioni

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto il 15 dicembre 2021 ha ricevuto il sindacato Cisl e una delegazione di lavoratori «garantendo discontinuità con la precedente linea politica e assicurando che entro la fine dell’anno avrebbe risolto la situazione affinché si potesse iniziare a programmare la prossima stagione termale». Il 26 marzo 2022 lo stesso Occhiuto in un video messaggio ha comunicato l’intenzione della Regione di acquisire tramite Fincalabra le Terme Luigiane al fine di superare lo stallo e consentire la ripartenza dell’attività. «Cosa sia successo nel frattempo – afferma il Comitato – noi lavoratori non lo sappiamo e, tutto sommato, ci interessa poco. Quello che rileviamo con sconforto è che alla data di oggi nulla di fatto è cambiato e le prospettive di ripartire per la prossima stagione sono ormai estremamente ridotte».

    le Terme Luigiane e le riunioni che non risolvono

    Da quello che la Cisl comunica ai lavoratori e dalle informazioni che loro stessi riescono ad avere pare che continuino le interlocuzioni e le riunioni tecniche. Ma le soluzioni sembrano ancora lontane. «Ciò di cui né noi 250 lavoratori, né i 22.000 curandi, né le migliaia di assidui frequentatori delle Terme Luigiane riescono a capacitarsi – fanno notare ancora i dipendenti – è il motivo per cui le Terme Luigiane siano chiuse. Secondo la sentenza del Tar dell’8 novembre 2021, l’attività della Sateca sarebbe dovuta continuare senza soluzione di continuità e questo è stato impedito con la forza da parte delle due amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e di Acquappesa e con la complicità della Regione Calabria che, in quanto proprietaria delle acque, avrebbe avuto l’obbligo, sia morale che istituzionale, di impedire un simile scempio e di assicurare il diritto a tutti i cittadini di curarsi».

    La politica «cieca» e il bene comune

    I dipendenti della struttura ribadiscono dunque come non sia accettabile «che in una terra assetata di lavoro come la nostra ci troviamo ancora una volta davanti a chi il lavoro potrebbe garantircelo immediatamente e questo viene impedito da una politica cieca ed egoista, incurante del bene comune e, soprattutto, indifferente a quanto sancito dalla magistratura».

    L’ennesimo appello a Occhiuto per riaprire le Terme Luigiane

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il Comitato lancia dunque un ennesimo appello a Occhiuto: «Ripristini immediatamente una situazione di legalità, nella quale si dia immediata esecuzione alla sentenza del Tar, nella quale chi ha distrutto le Terme Luigiane venga punito e chi ci ha garantito da sempre giusti diritti abbia la possibilità di continuare a farlo. Presidente, faccia riaprire l’acqua, come è giusto che sia, e ci ridia la dignità e il futuro che meritiamo. La Sua sensibilità, la Sua cultura e formazione politica e il Suo ruolo Le consentono di trovare una “soluzione ponte” immediata che dia finalmente respiro a noi lavoratori e alle migliaia di curandi che aspettano con ansia una data di riapertura».

  • Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
    La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Mancini lascia la segreteria del Psi

    Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
    Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.

    Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
    Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
    Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.

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    Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini

    Il Candido: storia di un giornale “contro”

    Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.

    Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.

    Giacomo Mancini: il superministro calabrese

    Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
    I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.

    Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.

    Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista

    Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
    Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
    Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.

    Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behind italiana.
    Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.

    Il fascista e i servizi segreti

    Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
    Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.

    Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».

    Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.

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    Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido

    La campagna stampa di Pisanò contro Mancini

    L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
    L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.

    Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
    La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.

    Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista

    Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
    Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
    Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».

    Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
    Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».

    I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.

    In galera

    Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
    Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).

    Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
    La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
    Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.

    Pisanò anticipa Tangentopoli

    Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
    Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
    L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
    Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.

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    Eugenio Cefis

    Gli utilizzatori

    In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
    Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.

    Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.

    Compagni coltelli

    Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
    Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.

    Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candido andò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
    Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    Fine della storia

    L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
    L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…

  • Viscomi come Renzi? Entopan, un business di sinistra

    Viscomi come Renzi? Entopan, un business di sinistra

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    Porte girevoli, conflitti di interesse e lobbying. Sono tutte questioni che tengono banco nel dibattito pubblico di questi mesi, soprattutto a seguito delle attività extraparlamentari del leader di Italia Viva e senatore Matteo Renzi. In particolare, destò molto scalpore la nomina dell’ex presidente del Consiglio nel Cda della Delimobil, società di car sharing operante in Russia, partecipata dalla banca statale Vtb. Certo, appena scoppiato il conflitto in Ucraina, Renzi lasciò quel Cda, ma l’assenza di una regolamentazione di queste attività per i parlamentari continua ad essere evidenziata dagli addetti ai lavori e non solo.

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    Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi

    Lobby e silenzi

    Manca prima di tutto una legge sulle lobby. In Calabria ne venne approvata una nel 2016, ma non è mai stata applicata. Per i deputati della Repubblica, invece, il 12 aprile 2016 è stato approvato dalla Giunta per il Regolamento un codice di condotta che dispone “Qualora un deputato assuma una carica o un ufficio successivamente alla proclamazione, deve renderne dichiarazione (al Presidente della Camera, ndr) entro il termine di trenta giorni”. In caso di violazione di quanto disposto, è previsto che ve ne venga dato annuncio in Assemblea con conseguente pubblicazione della violazione sul sito web della Camera dei Deputati. Insomma, un corpus normativo molto flebile, a fronte di situazioni che possono essere più che rilevanti.

    Il Viscomi dimezzato: parlamentare e lobbista

    Antonio Viscomi, deputato del Pd ed ex vicepresidente della Regione Calabria rappresenta un caso emblematico. Possiede dal 31 marzo (deposito atto il 20 aprile) di quest’anno 50mila euro di quote della Entopan Innovation srl, società di progettazione, sviluppo, gestione e startup di interventi di innovazione tecnologica. Di questa società, dal novembre 2019 è anche consigliere di amministrazione, così come lo è dal gennaio 2020 di un’altra società che partecipa con quote alla prima, la Entopan srl.

    Dall’ottobre 2019 al gennaio 2020, Viscomi è stato anche nel Cda di Ehic srl; inoltre, dall’ottobre 2019 al marzo 2022 è stato nel Cda di Harmonic Innovation Hub srl; dall’ottobre 2021 al marzo 2022, poi, è stato presidente del Cda di Harmonic Innovation Research srl, tutte società “satelliti” di Entopan. Tra le dichiarazioni sulle cariche ricoperte sul sito della Camera, però, tutte queste cariche non risultano contenute in atti pubblicati ed è ipotizzabile, quindi, che Antonio Viscomi non abbia provveduto a dichiararle come previsto dalla citata normativa parlamentare.

    Entrambe le società in cui Viscomi ha attualmente cariche del Cda (Entopan e Entopan Innovation) si occupano, tra le altre cose, di instaurazione di regolari rapporti di collaborazione con Università e/o centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari. Tra le attività svolte, risulta anche lo svolgimento di attività di reti di relazioni, lobbying e marketing. Si legge nelle relative visure camerali, che le attività della società “si rivolgono alle imprese, agli enti, ai territori, alle comunità ed alle competenze che intervengono nelle diverse fasi che compongono l’intera filiera della ricerca e dell’innovazione”.

    I potenziali conflitti d’interesse di Viscomi

    Un business redditizio perché a fine 2020 Entopan Innovation srl, con un capitale sociale di oltre 4 milioni e 300 mila euro, ha fatturato 1milione e 971mila euro, mentre la Entopan srl, con un capitale sociale di 380mila euro, a dicembre 2019 aveva un fatturato di 1milione e 652mila euro.
    Certo, nel 2021 Entopan Innovation ha avuto il ruolo di advisor nell’ingresso di Cdp Ventura Capital Sgr spa (Fondo Nazionale Innovazione) – società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti partecipata al 70% dalle società pubbliche Cdp Equity e al 30% da Invitalia – nella società calabrese Altilia srl, con un investimento di quasi 3 milioni di euro nel campo dell’intelligenza artificiale.

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    La sede di Cassa Depositi e Prestiti

    Nello stesso anno, la Entopan Innovation ha ricevuto un affidamento diretto dal Ministero della Cultura (a guida dell’esponente Pd, Dario Franceschini), per un importo certamente più modesto, 2800 euro oltre Iva. In entrambi i casi, però, la presenza del parlamentare Pd Antonio Viscomi nel Consiglio di Amministrazione della società, pare rappresentare un elemento di forte conflitto di interesse.

    Gli amici di sinistra…

    Viscomi non è l’unica presenza politica in questa galassia societaria. Già, perché presidente di Entopan srl è Francesco Cicione, molto vicino all’ex sottosegretario e deputato verdiniano Pino Galati. Cicione è stato vicesindaco di Lamezia Terme nella giunta di centrosinistra di Gianni Speranza dal 2008 al 2014. «Fare impresa è fare politica, e fare impresa così come la facciamo è la più alta forma di Carità» ha dichiarato il fondatore di Entopan Francesco Cicione in una intervista. «Operiamo in favore di imprese, start-up, spin-off, territori e comunità, accompagnando i processi lungo l’intera filiera dell’innovazione».

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    L’ex sottosegretario Pino Galati

    Con lui tra gli amministratori di Entopan, oltre alla moglie, Brunella Chiodo, c’è un altro innesto della citata Giunta Speranza, l’ex assessora Giuseppina Crimi, che è stata anche consigliera comunale a Lamezia dal 2002 al 2014. Nel Cda, inoltre, risulta anche lo stesso ex Sindaco Gianni Speranza.
    Tra gli “advisoring” della società, invece, è presente l’ex parlamentare dei Ds, Nuccio Iovene.

    …e i “Calabresi nel mondo”

    Gli ex assessori comunali di Lamezia, Cicione e Crimi, sono stati al centro del polverone sulla Fondazione “Calabresi nel Mondo”, sul quale pende ancora il processo di primo grado a carico dell’ex Presidente, appunto l’ex deputato Pino Galati, per la presunta gestione illecita e clientelare delle assunzioni.
    Oltre alle assunzioni di Crimi (che ne portò alle dimissioni da assessora comunale) e Cicione, risultavano anche quelle del cognato di quest’ultimo, Paolo Strangis e dei rappresentanti di Arci, Gennaro Di Cello e Francesco Falvo D’urso, oggi rispettivamente vicepresidente e graphic designer di Entopan srl.
    Nell’elenco degli assunti c’era anche Giandomenico Ferrise, figlio di Aldo Ferrise, anche lui assessore comunale a Lamezia Terme nella Giunta Speranza e oggi socio di Entopan Innovation srl.

    «Prima di entrare in Entopan conosceva già Francesco Cicione con cui condivideva valori ed alcune esperienze lavorative. Fondamentale, per la sua scelta di diventare socio di Entopan, è stata la collaborazione comune ad un progetto del 2012: Calabresi nel mondo. Lì è maturata la consapevolezza di avere un bagaglio condiviso di esperienze e valori e la voglia di iniziare insieme un percorso professionale» viene raccontato su Gennaro Di Cello su Effedi.

    La galassia societaria di Entopan

    Ricapitoliamo: Entopan srl è socia di Entopan Innovation srl (delle quali Antonio Viscomi è componente di Cda). In quest’ultima risultano anche soci oltre, appunto, al parlamentare Viscomi e all’ex sindaco Speranza e i suoi ex assessori Ferrise, Crimi e Cicione, anche la direttrice reggente dell’autorità regionale dei trasporti della Calabria, Filomena Tiziana Corallini, il costruttore Angelo Ferraro, vicepresidente della squadra di calcio Lamezia F.C. e già presidente dei “galatiani” di Alternativa Popolare di Lamezia Terme, l’ex Co.co.co. regionale Vera Tomaino, la cooperativa sociale Inrete (che ha il vicepresidente di Entopan come residente ed il già citato Francesco Falvo D’Urso nel Cda) e l’ex Prorettore dell’Unical, Luigino Filice.

    Abbiamo anche la società, iscritta nel registro delle imprese come startup innovativa, Harmonic Innovation srl. «La società ha per oggetto e con carattere prevalente la ricerca di base e pre competitiva, la progettazione, la prototipazione e lo sviluppo di concept e processi edilizi, tipologici ed architettonici, ad alto tasso di innovazione tecnologica, strategica e sociale». «La società, inoltre, potrà realizzare e commercializzare in proprio eventuali interventi immobiliari complessi finalizzati alla valorizzazione della ricerca sviluppata», si legge nella visura camerale.

    Le partecipazioni societarie

    Le partecipazioni societarie sono, tra le principali, quelle di Entopan srl per 155mila euro, la 2Effe Holding s.r.l. per 117mila euro (del citato Angelo Ferraro, col parente Antonio), 66mila euro di Valerio Barberis, assessore comunale del Pd di Prato (e nome papabile quale futuro Sindaco) e 17mila della Seshat s.r.l. che ha come amministratore unico Pietro Grandinetti, direttore tecnico della Ferraro spa.

    Harmonic Innovation hub srl, anch’essa registrata come startup innovativa, ha un capitale sociale più ingente, di quasi 2 milioni di euro. Entopan srl partecipa con quasi 1milione e 300mila euro, 255mila la 2Effe Holding s.r.l. dei Ferraro e 200mila l’ex parlamentare del Pdl, Santo Versace. Presidente del consiglio di amministrazione è un altro ex sindaco di Lamezia Terme, Pasqualino Scaramuzzino (il cui Consiglio venne sciolto per infiltrazioni mafiose), già candidato con “Forza Azzurri” alle ultime elezioni regionali.

    Insomma, tra partecipazioni, incarichi ed esponenti pubblici, la galassia di Entopan risulta un incubatore (redditizio) non solo di start-up, ma anche di interessi che certamente metteranno (almeno) in imbarazzo Antonio Viscomi, quale deputato in carica e membro della commissione Lavoro. Oltre che come esponente di quel Partito Democratico che nei mesi ha criticato Matteo Renzi a tutto tondo per i suoi affari extraparlamentari.

  • Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

    Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

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    Quando si vuol dare un esempio di cultura pop, si fa ricorso alla maglietta con il volto di Che Guevara. Per dire che tutti la indossano, senza sapere niente di preciso sulle vicende del mitico personaggio effigiato. L’industria culturale fagocita ogni evento, pure il più tragico, se lo ritiene funzionale alla sua incessante attività.
    Anche la Shoah non è sfuggita a questo destino, lo dimostrano innumerevoli film, docufilm, libri, spettacoli teatrali e convegni sfornati, in ogni angolo del pianeta, per narrarla a ogni sensibilità, a un pubblico sempre più vasto e vario. Con contorno di libri che analizzano il fenomeno: Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (Il Nuovo Melangolo 2016). Ci sembra di conoscere meglio eventi così tragici, proprio perché vengono manipolati e commercializzati.

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    Quel che resta del campo di Ferramonti

    Ferramonti e cultura pop

    E in Calabria come va con questo tipo di pop? In Calabria abbiamo Ferramonti.
    Nel 1982 Gaetano Cingari pubblica la Storia della Calabria dall’Unità a oggi (Laterza), che si chiude con una panoramica sugli anni Sessanta e la rivolta di Reggio Calabria del 1970. Scorrendo l’indice dei luoghi citati nel volume, tra Feroleto e Ferruzzano, non c’è Ferramonti.
    Oggi certamente tutti sanno che a Ferramonti, nel comune di Tarsia, in provincia di Cosenza, sorse, tra il 1940 e il 1943, il più grande campo di internamento fascista, costruito in vista della guerra, per rinchiudervi gli ebrei stranieri presenti in Italia.

    Sarebbe più corretto dire che tanti hanno un’idea, magari confusa, dell’esistenza di questo luogo e di quello che è accaduto in Italia, dal 1938 in poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali. Confondendo fascismo e nazismo, discriminazione e sterminio, razzismo e antisemitismo. Come avviene quando un fenomeno diventa popolare, pop, come le magliette con la faccia di Che Guevara. Dunque il campo di Ferramonti in questi quarant’anni è entrato a far parte della cultura pop.

    Ferramonti: il caso editoriale di Capogreco

    Ma cerchiamo di andare con ordine: la storia di Ferramonti e dei suoi internati è stata ricostruita, per la prima volta in un saggio organico, da Carlo Spartaco Capogreco: Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, edito a Firenze, da La Giuntina, nel 1987. La pubblicazione di questo studio segna un punto di svolta. E a questo libro fanno riferimento tutti gli altri venuti dopo, sull’internamento fascista e sul carattere repressivo, autoritario, di questo regime, sugli strumenti che mette in atto per schiacciare ogni opposizione, dal confino ai campi.

    Sono trascorsi trentacinque anni dalla sua pubblicazione, in questo periodo sono accadute molte cose che sono riconducibili al caso editoriale rappresentato da Ferramonti, al dibattito sviluppatosi successivamente. Dopo Ferramonti Capogreco ha pubblicato molti altri contributi, frutto di anni di ricerche, e ha portato avanti delle iniziative che hanno inciso sul dibattito politico e culturale.

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    Carlo Spartaco Capogreco, storico e presidente della Fondazione Ferramonti

    Gli alleati liberano Ferramonti

    Capogreco insiste, in ogni suo intervento, sulla questione che il campo di Ferramonti va inquadrato nell’ambito di un regime, un lungo periodo che va dal 1922 alle date cruciali, fatidiche, del 25 luglio 1943, e poi dell’8 settembre 1943. Il campo di Ferramonti viene liberato dagli Alleati nel settembre 1943, ma verrà utilizzato anche dopo, ad esempio da gruppi di ebrei in attesa di partire per la Palestina, dove sorgerà lo stato d’Israele. A ottobre del 1943 i tedeschi a Roma rastrellano oltre mille ebrei nel ghetto, e conducono operazioni simili nella parte d’Italia che controllano, assieme ai fascisti della Repubblica di Salò, ma intanto Ferramonti e i suoi internati sono al sicuro, nella parte d’Italia occupata dagli Alleati.

    La memoria pop della grande tragedia

    Difficile riassumere questi trentacinque anni: Capogreco ha dato vita, nel 1988, alla Fondazione Ferramonti, che ha svolto un ruolo importante sui temi della memoria, con una serie di convegni e di iniziative di ampio respiro, come il convegno del 24 e 25 aprile 1995, I luoghi della memoria: un contributo essenziale al dibattito pubblico, da allora sempre vivo in Italia, sul modo di intendere la memoria e la salvaguardia dei luoghi legati a questo tema.

    Alcuni di questi campi o edifici utilizzati per l’internamento sono stati riconsiderati, recuperati, salvaguardati. In qualche caso sono diventati oggetto di periodici pellegrinaggi. Una forma nuova di turismo culturale. Il recupero della memoria si attua anche attraverso tali forme di fruizione. Con l’inevitabile considerazione che il turismo di massa dei tempi nostri non è il Grand Tour dei ricchi europei del Settecento e dell’Ottocento. Dunque le comitive in magliette sgargianti e lattine al seguito, in marcia attraverso i campi di internamento trasformati in musei, suscitano a volte dei dubbi sul modo in cui viene intesa e consumata la memoria nella nostra società.

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    Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici

    Una miniera inesauribile di storie 

    La documentazione cartacea, fotografica, memorialistica ed epistolare è imponente, sia quella custodita negli archivi di Stato, sia quella raccolta negli istituti di storia della Resistenza e nelle fondazioni, nei musei della memoria.
    Da ogni parte del mondo, gli internati di Ferramonti hanno inviato o consegnato a Capogreco molte testimonianze e dati relativi al periodo di internamento. Una miniera inesauribile di storie e di piste di ricerca. Un materiale che potrebbe facilitare un recupero memoriale, in Calabria, nei piccoli comuni isolati, ritenuti dal regime fascista terra ideale per confinarvi oppositori e persone da controllare, su cui ci sarebbe tanto da raccontare.

    Ad esempio, Capogreco ha seguito a lungo le tracce di Ernst Bernhard, medico e psichiatra tedesco di fama internazionale, di famiglia ebraica, internato a Ferramonti, rilasciato dal campo per intervento di un influente accademico italiano, suo amico, e inviato per alcuni mesi in “internamento libero” – così lo chiamavano i fantasiosi burocrati del tempo – nel comune di Lago, a 30 chilometri da Cosenza. Unica traccia, una cartolina postale inviata dallo stesso Bernhard, dove si vede la casa che gli era stata assegnata. La casa non c’è più, ma potrebbero emergere altri documenti su questi mesi.

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    Internati a Ferramonti

    Il Giorno della memoria

    Un altro esempio, il giovane studioso di musicologia Raffaele Deluca di recente ha pubblicato un volume dedicato ai musicisti e compositori internati a Ferramonti e negli altri campi fascisti: Tradotti agli estremi confini. Musicisti ebrei internati nell’Italia fascista, Mimesis, 2019. Un lavoro che aiuta a comprendere le infinite possibilità di ricerca offerte da questi archivi.
    Nel frattempo sono accadute tante altre cose, ad esempio la Legge 211 del 20 luglio 2000, istitutiva in Italia del Giorno della Memoria. Dopo venti anni si sta discutendo apertamente e senza remore dei rischi connessi a queste celebrazioni. Potrebbero rivelarsi controproducenti rispetto agli intenti dei promotori della legge. Vedi la questione del pop.

    Ferramonti non era governato da italiani bonari

    Per quanto riguarda Ferramonti e gli altri campi fascisti, si è ingenerata qualche confusione rispetto alla macchina di distruzione allestita dalla Germania nazista. Sono due sistemi diversi, nati per scopi diversi. Almeno fino all’8 settembre 1943 e alla divisione dell’Italia, da una parte l’esercito tedesco, dall’altra gli Alleati.
    Quindi bisogna studiare la storia, prima di avventurarsi a discettare di campi e di antisemitismo. Per non incorrere nella grossolana semplificazione che capita ancora di ascoltare, che vuole presentare Ferramonti come un luogo fuori dal tempo, allestito e governato da italiani bonari, paciosi, contrapposto ad altri luoghi più inquietanti, gestiti da tedeschi cattivi.

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    Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti

    La parziale distruzione del campo per fare spazio all’autostrada

    Parlare di Ferramonti significa ricordare la parziale distruzione di ciò che rimaneva del perimetro del campo. Anche a causa dei lavori di ampliamento dell’autostrada che lo costeggia. Una volta tanto non è una vicenda calabrese; in ogni parte d’Italia molti luoghi di confino e di internamento sono stati cancellati, per l’incuria, per fare spazio a speculazioni edilizie, per semplice indifferenza. Capogreco ne ha raccolto le tracce ne I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2004. Un repertorio di luoghi di oppressione e di violenza, le cui vicende sono spesso ignote anche alle persone che vivono accanto a questi siti storici.

    Il prefetto che fa lezioni di storia

    Intanto la cultura pop fiorisce pure da noi, al Sud. Mi sono trovato in uno dei tanti convegni per il Giorno della Memoria, qualche anno fa, dove il prefetto, proprio Sua Eccellenza il Prefetto, come si scriveva una volta, ha dominato la scena. Prima ha scoperto una targa, distribuendo riconoscimenti di Giusto d’Israele a destra e a manca, con buona pace dell’istituzione israeliana a ciò deputata.

    Poi, davanti a una platea di eleganti signore, come si usa nel Sud, ha preso in mano il microfono e si è lanciato in una lezione di storia (ormai è assodato che chiunque può parlare di Shoah) che ha fatto rizzare i capelli in testa agli storici presenti, esautorati d’autorità, come solo un prefetto sa fare. Poi il prefetto, sazio, ha ceduto il microfono a un giovane sacerdote, che si è lanciato a sua volta in un intervento dai toni transreligiosi, ecumenici, buddistici-panteistici. Solo dopo è stato il turno di un rabbino, scovato sempre dal prefetto. Un autentico rabbino che, a onor del vero, almeno ha fatto un intervento da rabbino. Fine del convegno. Molti complimenti al prefetto da parte delle eleganti signore presenti.

    E Capogreco? Continua a fare ricerca (insegna Storia contemporanea all’Università della Calabria), e a relazionarsi, attraverso i suoi libri, con gli studiosi di ogni parte del mondo, sui temi dell’internamento e della memoria. Cercando di sfuggire agli agguati del pop.

  • Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

    Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

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    Tra le tante voci del Pnrr dedicate ai trasporti, ci sono i treni ad idrogeno. Sei regioni italiane saranno le prime che nei prossimi anni sperimenteranno i treni che emettono acqua nel trasporto locale, sulle tratte non elettrificate. Lombardia, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Umbria e Calabria potranno accedere ad un finanziamento di 300 milioni complessivi dedicato a questo esperimento.

    Queste regioni riceveranno le prime tranche nel 2023. Oltre all’acquisto dei treni, il piano è di installare 9 stazioni di rifornimento su 6 linee ferroviarie entro il 2026. Per la Calabria, il tratto interessato è Cosenza-Catanzaro.

    I finanziamenti europei saranno fondamentali per ammodernare il disastrato trasporto locale, che negli ultimi anni ha subito cali drastici nell’offerta e nel traffico ferroviari. Secondo il rapporto Pendolaria 2022 di Legambiente, in 10 anni l’offerta di treni si è ridotta di un quarto. Per non toccare il tema dell’alta velocità, dove regna la confusione.

    La Regione, inoltre, ha bisogno di liberarsi il prima possibile dei vecchi treni diesel. L’età media delle locomotive locali è di 21,3 anni. L’82,1% dei treni calabresi ha più di 15 anni.

    I treni a idrogeno sono una delle soluzioni messe in campo per gli anni a venire. In particolare, potrebbero essere una risposta per le tratte in cui è particolarmente complicato o costoso elettrificare le strutture esistenti. Ma ci sono molti fattori da considerare.

    50 sfumature di idrogeno

    Partiamo dalla base: l’idrogeno può essere usato come combustibile ecologico. Non emette anidride carbonica, ma vapore acqueo. Croce e delizia dell’idrogeno stanno nella sua produzione. L’elemento chimico più abbondante nell’universo, infatti, è poco presente in natura nella sua forma pura, la molecola H2. Di solito, lo si trova in forma combinata, cioè attaccato ad altri elementi, come nell’acqua.

    Per ottenerlo, bisogna separarlo dagli altri. Un processo che richiede molta energia. Ed è proprio qui che sta il problema. Ci sono molti modi per ottenere l’idrogeno, ma quello largamente più diffuso e conveniente è quello più inquinante. La maggior parte dell’idrogeno nel mondo viene ottenuto separandolo dal gas. L’idrogeno grigio, infatti, produce più gas serra delle combustioni del diesel.

    idrogeno-treni-pro-contro-nuova-tecnologia-greenOgni tanto, nei dibattiti politici si sente nominare l’idrogeno blu. È quello che viene prodotto da fonti fossili, ma per il quale la CO₂ viene catturata e stoccata.

    La versione più ecologica è l’idrogeno verde. Questo si genera tramite l’elettrolisi: in parole povere, si utilizza l’elettricità per separare l’idrogeno dall’acqua. Se questa elettricità viene prodotta da fonti rinnovabili, l’impatto sull’ecosistema diventa praticamente zero.
    L’idrogeno ha un altro grande vantaggio: può essere stoccato sottoterra quasi dappertutto.

    Il Coradia iLint

    Il primo treno ad idrogeno al mondo lo abbiamo visto sfrecciare già a partire dal 2018 tra le rotaie della bassa Sassonia, in Germania. Il mezzo, però, è stato creato da una società francese. Il Coradia iLint è stato progettato a partire dal 2014 dalla multinazionale francese Alstrom, una delle più grandi aziende produttrici di treni sul mercato europeo. La conosciamo bene anche in Italia: tra le tante cose, fornisce i treni elettrici POP, dedicati al trasporto regionale, e il Pendolino.

    Nell’iLint, i serbatoi di idrogeno sono posti sul tetto. Una cellula combustibile fa combinare l’idrogeno con l’ossigeno dell’aria, generando l’elettricità di cui si servirà il treno per muoversi. Una batteria in litio, invece, permette di conservare l’energia durante le frenate e di aumentare la potenza quando è necessario.

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    Il Coradia iLint

    Secondo i produttori, il calo delle emissioni sarebbe significativo. Per ogni treno ad idrogeno, si risparmierebbero 700 tonnellate di CO₂ l’anno, l’equivalente di quanto emesso da 400 auto.

    Nel 2023 lo vedremo anche in Italia: 6 modelli di questo convoglio sono stati comprati per la tratta Brescia-Iseo-Edolo. Trenord e Fnm vogliono sostituire l’intera flotta di mezzi diesel entro il 2025.

    I problemi dell’idrogeno

    L’ostacolo più grosso, al momento, è quello più banale: il costo. L’idrogeno verde è ancora molto lontano dall’essere competitivo, non solo rispetto alle altre fonti rinnovabili, ma rispetto ai diversi tipi di idrogeno.
    Un chilo idrogeno verde costa tra i 4 e gli 8 dollari, ben più del doppio rispetto a quello grigio (1,5 dollari). Quello blu si attesta sui 3,5 dollari. L’UE, però, prevede che entro il 2030 il prezzo di quello verde scenda a livello molto più competitivi e scenda quasi agli 1,5 dollari del grigio.

    Serviranno grossi investimenti iniziali, prima di arrivare a questo obiettivo. Soprattutto perché costano molto anche gli elettrolizzatori, le macchine che permettono la scissione tra acqua e idrogeno. Per farlo, l’Unione sta investendo 470 miliardi di euro nelle installazioni in tutti i paesi membri.

    costi-idrogenoSul fronte italiano, bisognerà trovare un modo di favorire al massimo l’utilizzo dell’idrogeno verde, a discapito degli altri. Una garanzia che ancora non abbiamo, come sottolinea Pendolaria 2022: «Se ha senso sperimentare questa soluzione su alcune linee dove l’elettrificazione è costosa e complessa, sarebbe bene aspettare i risultati prima di scegliere di farla diventare un’alternativa all’elettrificazione per il potenziamento dei collegamenti sulle linee ancora sprovviste».

    Rischiamo di cadere nella Maladaptation, uno dei problemi della transizione ecologica messi in un luce dall’Ipcc in uno dei suoi ultimi rapporti. È il paradosso delle buone intenzioni. Implementare male una soluzione ambientale rischia di fare più danni del previsto. Come piantare gli alberi sbagliati nel posto sbagliato, ad esempio.
    L’idrogeno, se prodotto da fonti fossili, non può essere considerato una soluzione ambientale. E rischia di pestare i piedi all’elettrico.

    L’idrogeno a Gioia Tauro?

    In Italia, l’obiettivo dichiarato dalla Strategia Nazionale Idrogeno è far arrivare al 2% la penetrazione dell’H2 nella domanda energetica finale. Entro il 2050, questa percentuale deve arrivare al 20%. Per ottenere questo risultato, bisognerà spingere sulla creazione delle Hydrogen valley, cioè gli hub in cui si concentra sia la produzione sia il consumo dell’idrogeno in un certo territorio.

    Tornando ai trasporti in Calabria, anche Ferrovie della Calabria si è mossa verso la transizione all’idrogeno. A maggio 2021, ha stretto un accordo con il Dimeg, il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical per realizzare una centrale di produzione di idrogeno verde a Vaglio Lise, nei pressi della stazione di Cosenza.

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    Il porto di Gioia Tauro

    La Alstom, inoltre, sta già lavorando con la Regione per il trasporto ferroviario locale. E, durante il Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai, ha manifestato il suo interesse nell’investire nel porto di Gioia Tauro.

    «Potremmo sviluppare un concetto sinergico con il porto di Gioia Tauro per quanto riguarda l’idrogeno. La produzione di idrogeno potrebbe essere un’idea molto interessante, a partire dall’eolico e dal solare» ha detto l’ad di Alstom Michele Viale, collegato al Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai.

  • Aspromonte, il paradiso può attendere

    Aspromonte, il paradiso può attendere

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    A distanza di quasi un anno dagli incendi che hanno saccheggiato l’Aspromonte al ritmo di un paio di focolai al giorno, si va avanti a vista, confidando anche nelle statistiche che segnano sempre un intervallo di una manciata di anni tra un disastro e l’altro. Quattro morti, settemila ettari di area protetta andati in fumo, decine di sentieri cancellati dalle fiamme e intrappolati dalle frane che ne sono figlie, e un paio di paesi che hanno seriamente rischiato di essere devastati dai roghi: l’estate del 2021 verrà ricordata come l’estate della devastazione. Devastazione che ha avuto il suo epicentro nella provincia di Reggio e che ha visto il Parco nazionale d’Aspromonte pagare un prezzo altissimo al tavolo dei piromani che per quasi un mese hanno messo a ferro e fuoco uno dei polmoni verdi della Calabria.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte (foto 2021)

    Cronologia di un disastro

    Una ventina di giorni, quelli compresi tra il 29 luglio e il 17 agosto: sono queste le date che segnano il passo degli incendi e che registrano almeno un nuovo fronte di fuoco. Fronti che, a leggere i primi dati raccolti attraverso il sistema Copernicusil programma satellitare di osservazione della Terra coordinato e gestito dall’Unione Europea – sono scoppiati praticamente in contemporanea a distanza di decine di chilometri l’uno dall’altro. I primi episodi, sporadici, si registrano nei primi giorni di luglio a monte di Mammola e San Luca. Ma è con la fine del mese che le cose precipitano.

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    In rosso le zone interessante dagli incendi nel 2021 in Aspromonte

    Il 29 il fuoco attacca l’entroterra di Gerace mangiandosi quasi 10 ettari di foreste. Poi, in un’escalation tremenda dove è difficile non individuare la mano dell’uomo, le fiamme aggrediscono i territori di Condofuri, di nuovo San Luca, Mammola e Oppido. Quindi si allungano fino ai confini estremi di Reggio. Ancora poche ore, e nella notte tra il 4 e il 5 agosto le fiamme prendono piede nell’area di San Lorenzo. Dalle campagne del piccolo paesino dell’Aspromonte grecanico i roghi scendono e risalgono i costoni della montagna portando devastazione e morte in tutta l’area. Minacciano da vicino anche l’abitato di Roccaforte del Greco e quello di Bagaladi.

    Non c’è pace fino a settembre

    All’alba di ferragosto, quando il fronte ha ormai distrutto quasi ogni cosa gli si parasse davanti spostandosi più a sud verso la diga del Menta, si conteranno più di 6mila ettari di boschi, in area sottoposta a tutela, completamente distrutti. E mentre le fiamme corrodono i boschi secolari di “pino calabro”, i nuovi fuochi continuano ad aggredire le ricchezze del parco.

    Il 5 è la volta di Oppido. Poi il sette di nuovo a San Luca in quello che, probabilmente, è il fronte (850 ettari andati in fumo) che ha minacciato da vicino le foreste vetuste di Faggi, a quota 1200 metri di altezza: l’Unesco le aveva dichiarate patrimonio dell’Umanità appena una manciata di mesi prima. E ancora Martone, Cittanova e Grotteria il dieci agosto e di nuovo San Luca – il paese che presenta la maggiore estensione territoriale in tutta la provincia – Canolo e Mammola in un inferno di fuoco che s’interromperà solo nei primi giorni di settembre.

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    I sentieri distrutti dalle fiamme nel 2021 in Aspromonte

    Paradiso perduto

    Sono le guide ufficiali del Parco a certificare lo stato di devastazione causato dagli incendi. Loro lo studio che compara i dati Copernicus con le carte che mappano la biodiversità vegetale presente sul territorio. E sono sempre loro a battere la montagna annotando nuove frane sui percorsi noti e a toccare con mano l’entità del disastro.

    Sono stati i boschi più pregiati a pagare il prezzo più alto dell’estate degli incendi, soprattutto nella zona compresa tra i centri di Bagaladi, San Lorenzo e Roccaforte del Greco. Qui, il report stilato dalle guide del Parco, certifica come siano oltre 1700 gli ettari di “pino calabro” – uno degli alberi che maggiormente caratterizza la vegetazione autoctona e le cui foreste erano vecchie di secoli – andati completamente perduti. Un patrimonio inestimabile a cui si devono aggiungere le foreste di faggi, castagni e lecci (circa 550 ettari) e quelle venute fuori dal rimboschimento di conifere e ormai evaporate (quasi mille ettari).

    Animali e sentieri 

    E ancora boschi di ginestre, pascoli e decine di fondi coltivati a uliveto. Per non dire degli animali. Tassi, faine, scoiattoli e martore che non hanno trovato scampo come cinghiali, volpi e lepri. Confusi dal fumo e circondati dalle fiamme, sulle loro carcasse hanno banchettato per giorni corvi e cornacchie.

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    Mucche in quel che resta dei pascoli dopo l’incendio di agosto 2021

    Nel lungo elenco dei danni ancora in corso di realizzazione sono finite anche le aziende e le associazioni che il parco d’Aspromonte lo vivono e lo fanno vivere ai turisti. Sono decine i chilometri di sentieri e stradine interessate dagli incendi su tutti i versanti della montagna, che fanno parte dei consueti percorsi turistici. Dal sentiero “Italia” nel tratto che collega Reggio a Gambarie e poi più a nord in quello che collega Montalto – la cima più importante d’Aspromonte – con San Luca. E, ancora, i percorsi che scavalcano le vette e collegano Bova nell’area grecanica con Delianuova sul versante tirrenico e tra Samo e il cuore della montagna.

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    La moria delle Api a causa degli incendi in Aspromonte (foto 2021)

    Aspettando Godot

    Se la reale portata degli incendi non è ancora del tutto chiara, buona parte del problema viene dai comuni (37 in tutto) che ne compongono il cuore. Spetta a loro il compito di censire dettagliatamente i confini dei roghi che hanno interessato i rispettivi territori. È un lavoro che andrebbe eseguito nelle immediatezze degli eventi. Serve, infatti, per avere una visione chiara delle aeree in cui intervenire e la priorità degli interventi da mettere in campo oltre che a progettare un adeguato piano di difesa. Nessuno (o quasi) dei centri del Parco ha ancora consegnato le planimetrie dei censimenti. Così nei giorni scorsi gli uffici amministrativi dell’Ente sono stati costretti a inviare una comunicazione ufficiale a ogni comune nel tentativo di capire quanto fatto finora.

    E sono sempre i comuni a dovere garantire la pulizia dei fondi – soprattutto quelli nelle immediate vicinanze dei centri abitati – in modo da creare delle zone taglia fuoco in grado di proteggerli. Anche in questo caso la situazione attuale registra un preoccupante ritardo, nonostante la scorsa estate le fiamme siano arrivate a toccare le prime case di Grotteria e di San Giovanni di Gerace.

    I cittadini si improvvisano pompieri d’Aspromonte

    In quell’occasione furono anche gli abitanti dei due piccoli centri a dare una mano alle squadre antincendio: incuranti delle ordinanze sindacali che disponevano l’evacuazione decine di semplici cittadini si diedero da fare con pale, rastrelli e sifoni da giardino per domare le fiamme che avevano attaccato la rupe su cui si affacciano il comune di Grotteria e la chiesa di San Domenico, da cui un drappello di fedeli aveva “evacuato” per precauzione la statua del Santo protettore. L’incendio che lambiva l’abitato ebbe anche la conseguenza di “dirottare” l’unico canadair presente in quei giorni sulla montagna che, come ordine di servizio, deve dare priorità ai centri abitati.

    Soldi e bandi pubblici dove sono finiti?

    Da una parte i comuni, a loro difesa, mettono sul piatto una pianta organica ridotta all’osso, che dilata i tempi e complica le cose. Dall’altra provano a battere cassa, indicando i costi pesanti dell’affidamento a società esterne per il censimento degli incendi passati.

    Eppure di soldi legati ai bandi pubblici ne sono girati. E ne continuano a girare. Soldi, come quelli del bando “Clima 2021” che hanno preso varie strade, previste dai bandi ma solo “adiacenti” a quelle che ci si immaginerebbe dopo il disastro dell’anno scorso. Quello che i fuochi del 2021 hanno mostrato è infatti la drammatica carenza di strutture, mezzi adeguati e uomini preparati ad affrontare eventi così imponenti.

    Sono circa una quindicina, ad esempio, i punti di rifornimento di acqua a cui possono accedere i mezzi antincendio impegnati sul territorio. Punti disseminati a macchia di leopardo dentro i confini del parco – tra reti idriche, piccoli laghetti e, sparute, vasche antincendio – ma che sono risultati decisamente insufficienti alla prova dei fatti.

    Solo un milione su 4 per le vasche antincendio

    Degli oltre 4 milioni di euro garantiti dal ministero della Transizione ecologica e veicolati attraverso il Parco nazionale, però, solo uno dei nove progetti finanziati prevede la costruzione di una vasca antincendio. Succede nel comune di Cosoleto, che ha chiesto e ottenuto 200mila euro per allestirne una a cui possano “abbeverarsi” i mezzi spegni fuoco.

    Il resto dei soldi è andato invece, legittimamente, per la ristrutturazione e l’efficientamento energetico dei municipi di Bova, Gallicianò e Cinquefrondi. Mentre a Cittanova serviranno per la ristrutturazione dell’ostello della gioventù e per la costruzione di un vivaio forestale. Questione di priorità, anche alla luce del fatto che quello degli accessi all’acqua durante gli incendi è stato uno dei problemi maggiori riscontrati la scorsa estate per gli interventi da terra.

    In ballo ci sono poi i finanziamenti per altre vasche. Attendono il via libera per il progetto definitivo i comuni di San Luca, Oppido, San Giorgio Morgeto e Mammola. Ma i tempi sono quelli della burocrazia calabrese. Toccherà incrociare le dita.

    I fantasmi dell’Afor sull’Aspromonte

    Sul campo però, oltre ai vigili del fuoco e alle associazioni, a cui come da piano Aib è andata la gestione di 15 delle 16 zone in cui è stato diviso il territorio protetto (una resta invece di competenza dello Stato e viene gestita direttamente dal reparto dei carabinieri per la biodiversità), vanno le squadre di Calabria Verde.

    Una settantina quelle disponibili in tutta la provincia. Sono formate per lo più da gruppi di 3-5 persone, ma alcune sono più numerose. Oltre a tenere a bada le fiamme dovrebbero anche garantire la manutenzione delle strade e la ripulitura del sottobosco in Aspromonte.

    Passati i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor, però, i numeri degli addetti sul campo sono crollati drasticamente. Tenere a bada i 67mila ettari dell’Aspromonte è semplicemente impossibile. Un problema, quello della scarsità d’organico, che si riflette anche sui tempi di intervento. Capita che i mezzi antincendio, privi degli operai che conoscono la montagna, si perdano tra le mille stradine sterrate del territorio.

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    Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte nel 2021

    Gara deserta

    E se gli uomini mancano, lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda i mezzi. Sei le autobotti di Calabria Verde in provincia, due delle quali stanziate fuori dai confini del Parco. Dal 2018 avrebbero dovuto aggiungersene altre fra le 10 messe in cantiere dalla società regionale. Peccato che le gare – subissate da richieste di chiarimenti sul bando da parte dei concorrenti – continuino ad andare deserte da quattro anni.

    L’ultima è stata dichiarata «infruttuosa» lo scorso 14 aprile e ha costretto Calabria Verde a virare verso un “procedura negoziata”. Con un tetto massimo di poco più di 200mila euro, dovrà rimpolpare il parco automezzi con cinque nuove autobotti da prendere con il principio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Tempi previsti: 120 giorni dalla stipula del contratto. Speriamo che i piromani aspettino.

  • Zona grigia, il grande alibi in Calabria per non combattere la ‘ndrangheta

    Zona grigia, il grande alibi in Calabria per non combattere la ‘ndrangheta

    Lamezia Terme ha conosciuto nel 1991, nel 2002 e nel 2017 tre scioglimenti del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. In una intervista del 2013 l’allora procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli ebbe a dire che «Lamezia è una città dove il legame tra la ‘ndrangheta e alcuni settori della società civile è talmente radicato che non viene percepito come una devianza sociale perché è digerito nello stomaco della città».

    Il caso Lamezia

    Sia come sia, subito dopo ognuno dei tre scioglimenti alcuni commenti paventavano complotti: «Il consiglio comunale di Lamezia Terme andava sciolto per presunte infiltrazioni mafiose? È l’interrogativo che si pongono in molti dopo aver letto con attenzione e scrupolosità la relazione del ministro dell’Interno… Sono in molti a domandarsi: perché sciogliere il consiglio comunale eletto nel 2015 a guida Mascaro e non quello eletto nel 2010 a guida Speranza? (…) Semplice: Speranza non poteva essere sciolto, “nonostante molti degli attuali amministratori hanno fatto parte, a diverso titolo, della compagine eletta nel 2010″, in quanto esponente politico del centrosinistra, area politica alla quale apparteneva e appartiene l’attuale Ministro dell’Interno», scriveva lameziaoggi.it.

    L’ex sindaco di Lamezia, Gianni Speranza

    Il Consiglio di Stato (settembre 2019) sciogliendo l’amministrazione Mascaro ha lasciato ai posteri questa analisi generale: «Il contributo determinante della mafia nel condizionare il voto popolare è tale da inficiare irrimediabilmente il funzionamento del consiglio comunale per un suo vizio genetico, essendo difficilmente credibile, secondo la logica della probabilità cruciale, che un consiglio comunale i cui componenti siano eletti in parte con l’appoggio della mafia, per una singolare eterogenesi dei fini, possa e voglia adoperarsi realmente e comunque effettivamente, non solo per mero perbenismo legalitario, per il ripristino di una effettiva legalità sul territorio e per la riaffermazione del potere statuale contro l’intimidazione, l’infiltrazione e il sopruso di un ordinamento delinquenziale, come quello mafioso, ad esso avverso per definizione».

    Il sindaco di Lamezia, Paolo Mascaro

    Mafia e zona grigia

    Il primo omicidio importante della storia criminale lametina avvenne nel 1970. Il boss locale Luciano Mercuri venne ucciso da un suo affiliato, Tonino De Sensi. Quella data fu l’inizio di una nuova era per la ‘ndrangheta locale che con la droga fece il salto di qualità. Eppure per decine di anni soltanto una minoranza intellettuale ripeteva che a Lamezia la mafia esistesse. La maggioranza dei notabili e dei politici si ostinava a considerare soltanto l’esistenza di «quattro delinquenti» e non della mafia. Così come oggi il mainstream insiste molto sulla presenza a Lamezia della cosiddetta “zona grigia”, una sorta di cuscinetto (o mondo di mezzo) che si frapporrebbe tra le cosche e la società civile e le imprese.

    Stereotipi e cliché

    Come da anni sta dimostrando nei suoi studi un valente studioso lametino, Vittorio Mete, «a causa della loro natura segreta e illegale, le mafie sono difficilmente (e comunque problematicamente) esplorabili sul piano empirico». Inoltre l’immagine pubblica delle mafie vive su stereotipi e cliché che creano una diffusa banalizzazione. Banalizzando non si riesce né a distinguere le differenze tra i diversi gruppi mafiosi né quelle «tra i singoli mafiosi, ai quali sono indistintamente attribuiti i medesimi tratti: il carisma individuale, il coraggio, lo sprezzo del pericolo, il fiuto per gli affari, l’elevato tenore di vita e altro ancora».

    Ci rendiamo conto che le “mafie regionali” sono diverse tra loro. Ma, per restare a Lamezia, non si distinguono tra di loro le varie cosche egemoni che pur presentano enormi differenze, ad esempio in termini di ricchezza, potenza militare, contatti politici, inserimento nei circuiti internazionali della droga. Una grande varietà e mutevolezza sparisce dunque nelle rappresentazioni dell’opinione pubblica e anche di molti studiosi.

    Tre tipi di imprenditori

    Nella relazione della Dia sul primo semestre 2018 si leggeva che Lamezia «convenzionalmente è ripartita in tre aree, rispettivamente di competenza dei clan Iannazzo, Cerra-Torcasio-Gualtieri e Giampà (cui si affiancano compagini di minor rilievo)». Se dovessimo descrivere i rapporti tra queste cosche e il mondo imprenditoriale lametino è utile ricorrere ai tre tipi principali di imprenditori, a loro volta articolati in sotto-tipi, che studiosi come Mete o Sciarrone hanno delineato.

    I subordinati

    Il primo di questi tre tipi di imprenditori presente a Lamezia è definito “subordinato”: essi sono assoggettati alla mafia «attraverso un rapporto fondato sull’intimidazione o sulla pura coercizione. Le attività di questi soggetti sono sottoposte al controllo dei mafiosi mediante il meccanismo della estorsione protezione». A loro volta, gli imprenditori subordinati possono articolarsi in due categorie: gli “oppressi” e i “dipendenti”. Gli oppressi sono coloro i quali pagano la protezione mafiosa in cambio della garanzia di poter semplicemente continuare a svolgere la propria attività. I dipendenti, invece, «non solo devono pagare la protezione ai mafiosi come fanno gli oppressi, ma devono ottenere la loro autorizzazione per poter svolgere la propria attività. Questi soggetti svolgono, infatti, la propria attività in settori in cui si concentrano gran parte degli interessi mafiosi della zona, come i lavori pubblici. Per poter operare in questi settori è necessario ottenere il “permesso” della mafia.

    I collusi

    Nella seconda categoria sono ricompresi i “collusi”. Tali soggetti sono dotati di risorse diverse e più ampie rispetto ai subordinati. Ciò gli consente di istituire “con i mafiosi un accordo attivo, dal quale derivano obblighi reciproci di collaborazione, scambio e lealtà». Anche i collusi possono articolarsi in due sottocategorie: da un lato ci sono gli imprenditori “strumentali”, che sono dotati di ingenti risorse di tipo economico, tecnico, politico o di altro tipo ancora; dall’altro ci sono gli imprenditori “clienti”, che instaurano con i mafiosi rapporti di scambio e collaborazione più duraturi e stabili nel tempo.

    Un esempio di imprenditori strumentali è dato dalle grandi imprese nazionali che operano nel campo delle opere pubbliche e che si aggiudicano appalti in terre di mafia. Uno per tutti, i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (Mete, 2011). Rimanendo sull’esempio di questa stessa grande opera, possono invece considerarsi imprenditori clienti le imprese locali legate alle mafie che lavorano in subappalto.

    I mafiosi

    Infine, una terza categoria di imprenditori è costituita dagli imprenditori mafiosi propriamente detti. In questo caso, si tratta di persone appartenenti ai gruppi criminali che operano nei mercati legali, sia per guadagnare “legalmente” sfruttando il potere che gli deriva dalla loro posizione, sia come attività di copertura volta al reimpiego di denaro proveniente dai traffici illegali.

    Com’è agevole dedurre da queste brevi note, il rapporto tra mafiosi e imprenditori può andare dalla coercizione alla collaborazione attiva. «Tale collaborazione dà generalmente luogo a giochi a somma positiva, cioè interazioni in grado di produrre un’utilità per tutti coloro che prendono parte al gioco».

    Zona grigia? Fuorviante

    Ora, considerando i molteplici rapporti tra imprese e liberi professionisti da una parte e le cosche operanti nel lametino dall’altra, la prima categoria (i subordinati) e la seconda (i collusi) ci dimostrano che è ormai fuorviante continuare a parlare di “zona grigia”. I subordinati (oppressi o dipendenti che siano) coltivano solo la speranza di mantenere buoni rapporti per poter stare sul mercato; i collusi al contrario instaurano interazioni che dovrebbero essere reciprocamente vantaggiose o complementari con le cosche.

    Mentre i subordinati non hanno alcun spazio di autonomia, i collusi svolgono attività autonoma che deve incastrarsi (come la chiave in una serratura) con l’interesse concreto del mafioso di riferimento. Si tratta di raggiungere «un compromesso fra partner che hanno utilità e convenienze differenti, ma complementari». Ora, sia una impresa di qualsiasi dimensione che un qualsivoglia libero professionista (medico, ingegnere, avvocato, commercialista…) intendono ottenere un vantaggio economico entrando in relazione con la cosca mafiosa. Il reddito del professionista e il profitto dell’imprenditore aumentano grazie a questo accomodamento o incastro con il mafioso.

    Comanda sempre la mafia?

    Il pezzo mancante di questo ragionamento (che mira a confutare la diffusa convinzione che a Lamezia o in altre città calabresi esista una zona grigia) è il seguente. In questi accordi collusivi non sempre i mafiosi sono i soggetti dominanti. Se ci sono imprenditori dotati di grandi risorse, o professionisti di grande prestigio, lo spazio di azione dei mafiosi infatti si riduce sensibilmente. Le interazioni tra mafia e imprenditoria sono così varie per cui il ruolo dei mafiosi cambia a seconda dell’attività.

    Gli appalti (e i subappalti) per le opere pubbliche possono essere appannaggio di imprese mafiose o di grandi imprese che trattano, con esiti variabili e incerti, con i mafiosi. Un supermercato, per fare un altro esempio, può essere taglieggiato dai mafiosi o può essere di loro proprietà. Se la “zona grigia” è definita (Rocco Sciarrone, 2011) «un’area relazionale fitta, che si colloca a cavallo tra legalità e illegalità… i professionisti, industriali, pubblici ufficiali e membri della cosiddetta società civile che senza dubbio sono collusi con le organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta, non sono i servitori del potere mafioso ma sono i mandanti delle loro azioni e influenze illecite, perché i loro interessi economici e di potere, spesso coincidono con quelli dei clan».

    A Lamezia, così come in altre realtà calabresi, si continua a parlare di “zona grigia” dimenticando del tutto «la parte di società che è compenetrata o collusa con la ‘ndrangheta… che spesso rappresenta la parte più produttiva di essa, almeno nel meridione: il risultato è che qui al Sud si è creato un mercato drogato, con meccanismi particolari e difficilissimi da analizzare e sconfiggere, che rappresenta una parte assai considerevole dell’intera economia dell’area».

    Né mondo di mezzo né zona grigia

    I mafiosi non chiedono gentilmente, impongono, e come spiegò Puzo ne Il Padrino, «fanno offerte che non si possono rifiutare». Se questo è vero, è chiaro che il commerciante che paga il pizzo per ottenere la pace e tutti coloro che per quieto vivere accettano le richieste mafiose non stanno in un virtuale mondo di mezzo ma si schierano dalla parte della mafia.

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    Marlon Brando nel film Il Padrino, ispirato al romanzo di Mario Puzo

    La cosa è molto evidente, basta seguire la cronaca dei giornali, tra i cosiddetti liberi professionisti. Non ci sono tra di loro collusi ma professionisti che si mettono a disposizione oppure che non lo sono. La stessa cosa avviene con gli imprenditori e i politici. Ci sono aziende che chiudono se non hanno clienti, altre che senza clienti sopravvivono perché rientrano nelle aziende controllate dalla mafia; ci sono politici votati su imposizione dei mafiosi e altri no, e così via.

    Da una parte o dall’altra

    Alla società civile deve diventar chiaro che in Calabria la guerra ognuno, qualsiasi lavoro faccia, la combatte in uno schieramento legale oppure nell’Antistato, magari per paura, furbizia, accondiscendenza, pigrizia, avidità, qualsiasi sia la motivazione della scelta.
    Prendiamo il caso di Clarastella Vicari Aversa, l’architetta che con la sua denuncia ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha condotto una battaglia in solitudine sostanzialmente per 14 anni, attraverso ricorsi amministrativi, tutti accolti al Tar e al Consiglio di Stato, una quarantina. L’Università disattendeva tutto ciò che disponeva la giurisprudenza amministrativa.

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    Clarastella Vicari Aversa

    La sua battaglia dimostra che i metodi mafiosi non li adoperano soltanto quelli con la coppola che definiamo criminalità organizzata. Dimostra che in Calabria, nonostante sentenze della magistratura per ripristinare il diritto, la sopraffazione, la prepotenza e il potere vengono esercitati in maniera spietata in qualsiasi settore. Lo stesso conclamato disprezzo per la meritocrazia, che osserviamo negli atenei così come nelle scuole e nell’amministrazione pubblica, dimostra come clientelismo e nepotismo, favoritismo e ricatto non siano fenomeni diversi da quelli che adopera chi chiede il pizzo o fa pagare tassi usurai, o concede un fido in banca.

    Una società dove le persone perbene, le imprese sane, i professionisti non corrotti, sono costretti a lottare per decenni per non soccombere, significa che la questione “mafiosa” va raccontata in un altro modo. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, è il caso di ricordarlo talvolta a noi calabresi.

    Francesco Scoppetta
    Scrittore ed ex dirigente scolastico

  • Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

    Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

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    L’armatore Mario Mattioli inizia a lavorare nei primi ’80 nelle aziende di famiglia legate al Gruppo Cafiero Mattioli, dove ricopre numerosi incarichi, fino all’attuale presidenza di Ca.Fi.Ma. Cafiero Mattioli Finanziaria Spa.

    Per venti anni è stato membro del Consiglio confederale e del Comitato esecutivo di Confitarma-Confederazione Italiana Armatori.

    Dall’11 ottobre 2017 è presidente di Confitarma. Inoltre, è stato presidente di Assorimorchiatori. È inoltre vicepresidente dell’Accademia italiana della Marina mercantile, vicepresidente dell’Unione industriali Napoli con delega per la Formazione e il Centro studi.

    Siamo bombardati dalle notizie di guerra in Ucraina. Che caratteristiche presenta questo conflitto, visto dal mare? Come cambierà le nostre vite?

    «Le notizie che arrivano dai teatri di guerra sono sempre raccapriccianti. E guardare a questo conflitto dal mare non tranquillizza. La guerra in Ucraina e le relative sanzioni che Usa ed Europa stanno imponendo alla Russia aumenteranno la pressione sul commercio globale. L’interruzione dei traffici marittimi in queste aree si ripercuote sulle catene logistiche internazionali, con gravi conseguenze per vasti settori dell’industria che dipendono da tutte le importazioni e non solo da gas e petrolio».

    La guerra evidenzia la necessità di una transizione energetica più accelerata rispetto a quanto credevamo necessario. Quale contributo può dare l’economia marittima al ridisegno del sistema energetico nazionale?

    «La guerra ha imposto l’attuazione repentina della transizione energetica. Tuttavia, questa transizione è in corso da tempo nei trasporti marittimi. I dati dimostrano quanto lo shipping mondiale sia impegnato nella decarbonizzazione. In particolare a raggiungere la riduzione di Co2 decisa dall’Imo, che prevede entro il 2050 la riduzione del 50% delle emissioni rispetto al 2008. Serve, però, un’azione condivisa a livello internazionale, per evitare che interventi di diversa tipologia (e quindi con diversi impatti) adottati dai singoli Paesi danneggino la competitività.

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    Un’immagine della guerra in Ucraina

    Per lo shipping la partita si giocherà con l’individuazione di fonti del nuovo green fuel a cominciare dallo sviluppo delle reti di distribuzione e rifornimento. Ma per rendere concreta la transizione ecologica occorrono ricerca e sviluppo, strumenti finanziari adeguati e, soprattutto, occorre sapere che i tempi non sono così immediati come invece appare dai tanti slogan sul tema.

    La transizione è ineludibile, ma il governo ci deve sostenere. Le azioni e le proposte che potrebbero dare slancio al nostro Paese partono da un assunto semplice, che gli armatori ribadiscono con forza: rimettere il mare al centro. Confitarma si prepara così alle numerose sfide del settore, specie quelle che ci impegneranno nella rotta verso l’impatto zero».

    La globalizzazione è sorta dall’economia marittima e dalle rotte transcontinentali, che hanno generato il decentramento produttivo spinto. Sarà così anche nei prossimi decenni, oppure assisteremo a un ripiegamento della globalizzazione su scala macro regionale?

     «Il trasporto marittimo ha dato prova del suo ruolo strategico di garanzia alla continuità delle catene di approvvigionamento globale durante la pandemia. Anche di recente, ha consentito il regolare flusso delle merci e dell’energia da cui dipendiamo. Basti pensare che in Italia, in pieno lockdown (cioè nel 2020) il Covid ha colpito più il fatturato delle aziende con una flessione media del 20/25%, che la consistenza della flotta di bandiera che mantiene la sua posizione nella graduatoria mondiale con circa 14,5 milioni di gt. Quindi non credo che assisteremo ad una totale “regionalizzazione” della globalizzazione. Credo, tuttavia, che per alcune commodity strategiche i singoli Stati cercheranno di dipendere sempre meno dall’estero».

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    La nave Sky Lady del Gruppo Cafiero Mattioli

    Quale politica marittima dovrebbe esprimere l’Europa per essere attore delle trasformazioni globali? Quale sarebbe il ruolo del Mediterraneo in questo scenario?

     «Credo che Draghi nella sua recente visita al Parlamento abbia spiegato benissimo cosa è la politica europea del futuro. Innanzitutto, occorre maggiore attenzione al Mediterraneo, data la sua funzione di ponte verso l’Africa e il Medio Oriente. Non possiamo guardare al Mediterraneo solo come a un confine, su cui ergere barriere. Sul Mediterraneo si affacciano molti Paesi giovani, pronti a infondere il proprio entusiasmo nel rapporto con l’Europa. L’Ue deve costruire con i Paesi mediterranei, come dice Draghi, “un reale partenariato non solo economico, ma anche politico e sociale. Il Mediterraneo deve essere un polo di pace, di prosperità, di progresso”. Soprattutto nella politica energetica, i paesi del Mediterraneo possono giocare un ruolo fondamentale per il futuro dell’Europa. Specie se si considerano la posizione strategica del Mezzogiorno e la sua esigenza di sviluppo. Ciò è tanto più valido a seguito della guerra in Ucraina, che ha mostrato la forte dipendenza di molti paesi dalla Russia. In primis l’Italia, che importa circa il 40% del gas naturale dalla Russia».

    Joe Biden ha emanato a fine febbraio un ordine presidenziale con cui ha invitato le istituzioni di governo a regolamentare l’eccessivo potere di mercato delle tre grandi Alleanze nel settore del trasporto dei containers. L’Europa, invece, consente sino al 2024, grazie alla regola di eccezione (exemption rule), non solo la legittimità delle tre Alleanze, ma anche un carico fiscale molto vantaggioso, con un onere pari al 7%. Perché questa asimmetria forte tra il regolatore americano ed il regolatore europeo?

     «Purtroppo, lo scenario dei mercati mondiali è stato sconvolto dalla pandemia, iniziata circa due anni fa. Sono molte le situazioni critiche venutesi a creare, come dimostra la congestione nel porto di Shanghai, che ripropone problematiche vissute nel marzo 2021. Mi riferisco all’incidente della Ever Given nel Canale di Suez, che portò alla ribalta l’importanza del settore marittimo nei rifornimenti e la complessità delle catene di approvvigionamento globali.

    Siamo di fronte ad eventi inaspettati che incidono su un sistema equilibrato su cui tutti facevamo affidamento, e che sono strettamente connessi al rialzo dei prezzi di varie commodity e ai colli di bottiglia in alcune catene globali.

    Joe Biden, il presidente Usa

    Inoltre, la grave situazione dell’Ucraina innesca, oltre alle devastanti conseguenze umanitarie, ulteriori tensioni con evidenti impatti sull’attività economica mondiale, al momento ancora difficili da quantificare. L’aumento del costo del trasporto nel settore dei contenitori incide anche sull’inflazione: è chiaro che la legge del mercato determina situazioni in cui c’è chi guadagna e chi perde. Di fatto, le decisioni di Usa o Ue sono decisioni politiche. L’auspicio è che non si creino nuove problematiche per la logistica, già fortemente colpita dagli eventi straordinari degli ultimi anni».

    Quale impatto avrà il Pnrr sul mondo marittimo, nazionale ed europeo? C’è una visione per gestire le transizioni imminenti, oppure ci portiamo ancora dietro i fardelli del passato senza riuscire a determinare la necessaria discontinuità?

     «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione irripetibile di rinascita e crescita del sistema economico nazionale ma necessita di una strategia orientata verso il mare che assicuri lo sviluppo di un sistema di collegamenti adeguato, con particolare attenzione alla transizione ecologica e digitale. Numerosi nostri partner europei, attraverso i fondi stanziati dal Next Generation Eu, investono risorse pubbliche per sostenere gli ulteriori importanti passi che le aziende del settore marittimo saranno chiamate ad effettuare sulla via della transizione ecologica.

    Di fatto, a fronte di investimenti di decine di miliardi di euro che gli armatori italiani continuano a fare per mantenere e incrementare elevate performance, l’industria armatoriale non sembra essere percepita come risorsa prioritaria del Paese. Il Fondo complementare al Pnrr, che mira a rendere le nostre navi più green, stanzia circa 500 milioni di euro. Qualora fosse un primo passo per verso il rinnovo green della flotta italiana, la partenza è buona. Ricordo però che, al momento rimane esclusa da questa misura una quota molto rilevante di navi appartenenti ad imprese radicate in Italia. Perciò servono altre iniziative. Anche in questo caso, credo che siano importanti sbocchi per i numerosi progetti che interessano lo sviluppo del Mezzogiorno».

    Un cantiere navale in attività

    Negli ultimi anni, gli interessi armatoriali in Italia si sono disarticolati. Sono nate, oltre a Confitarma, nuove associazioni datoriali. Perché si è determinata questa frammentazione? C’è possibilità che la frattura nel tempo si componga?

    «L’esistenza di rappresentanze diverse per gli stessi interessi è sempre un errore, anche nel caso degli armatori. Questo è ancora più vero in fasi storiche complesse, come la pandemia. Infatti, le divisioni, da un lato indeboliscono la categoria e, all’altro, confondono il regolatore politico che spesso “decide di non decidere”. Ad esempio, durante l’emergenza le due associazioni armatoriali hanno chiesto alla politica le stesse cose ma, per differenziarsi, lo hanno fatto in modi diversi. Il risultato è stato nullo. L’unità avrebbe creato un beneficio maggiore per le aziende di entrambe le associazioni».

     

     

  • Catanzaro, per FdI un ex di centrosinistra vale l’altro

    Catanzaro, per FdI un ex di centrosinistra vale l’altro

    Le elezioni comunali di Catanzaro del 2022 saranno ricordate come quelle della liquefazione del centrodestra. Ex alleati ora in guerra tra loro, simboli di partito messi nel cassetto, consiglieri regionali che se la danno a gambe. Sta succedendo di tutto e da più parti viene indicata una sola e unica colpevole dello sfacelo del rassemblement della destra del capoluogo: la deputata e commissaria regionale di Fratelli D’Italia, Wanda Ferro.

    Grande promotrice (più o meno occulta) della candidatura a sindaco dell’ex Pd, Valerio Donato, ha dovuto fare dietrofront dopo aver mandato avanti Lega e Forza Italia. Il motivo? Le continue rivendicazioni del candidato sindaco come «uomo di sinistra», oltre che le gaffe televisive e politiche.

    Ferro e il jolly Colace: Fdi e il sindaco di Catanzaro

    Da settimane l’establishment romano del partito, dal capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida alla stessa leader Giorgia Meloni, pretendeva la discesa in campo della stessa Wanda Ferro. Lei, però, si è prima dileguata («Se mi candido Tallini mi impallina», andrebbe ripetendo a più riprese) e poi trincerata dietro l’assessore Filippo Pietropaolo, tornato a più miti consigli dopo l’altolà di Roberto Occhiuto sul ritiro delle deleghe assessorili in caso di candidatura.

    Risultato? Dopo qualche giorno di totonomi al ribasso, Wanda Ferro ha giocato il jolly: candida a sindaco il dirigente medico Rosario Colace. Eppure i maligni raccontano che quando Noi con l’Italia fece il nome di Colace al tavolo del centrodestra cittadino qualche mese fa la deputata Fdi scoppiò in una grassa risata. Ma si sa, in politica tutto è possibile.

    Meloni spernacchiata

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    Ciconte e Colace a braccetto

    Dopo il niet della Meloni sul candidato ex Pd Donato, FdI ha ufficializzato la candidatura di Colace, con tanto di lancio di agenzia di stampa. Eppure quest’ultimo alle comunali del 2017 ha promosso la lista “Alleanza Civica” (unitamente a Franco Granato, ex assessore della Giunta comunale di centrosinistra di Rosario Olivo) schierandosi a sostegno della candidatura a sindaco dell’allora consigliere regionale del Partito Democratico, Enzo Ciconte.

    «Con l’amico Ciconte nel momento in cui abbiamo condiviso il programma per la città, un programma che può dare a Catanzaro quella visione di insieme che è mancata in questi anni. Siamo in campo con una lista formata da persone in gran parte esordienti della politica, provenienti da mondi diversi ma unite dall’obiettivo di dare un futuro diverso a Catanzaro» dichiarò Colace in una conferenza stampa insieme al candidato sindaco di centrosinistra e alla presenza dell’allora presidente della Provincia del Pd, Enzo Bruno.

    Colace al tavolo con Ciconte in occasione della sua candidatura

    Chi c’era se lo ricorda: alla presentazione della lista di Colace a sostegno di Ciconte era presente il figlio piccolo di un candidato con una maglia con su scritto “Vota il mio papà”. Il candidato era Giorgio Arcuri, anche lui fino a ieri dato tra i papabili candidati di Fratelli D’Italia e candidato alle ultime regionali con Forza Azzurri.
    Alle amministrative del 2017 Arcuri ottenne 459 preferenze, mentre l’intera lista di Colace a sostegno del centrosinistra 1513, pari al 2,92%. Non elesse alcun consigliere, ma Colace venne eletto altrove: all’Ordine dei Medici, presieduto proprio dall’amico Ciconte.

    Colace: un democristiano di… Ferro per Fdi a Catanzaro

    Nel 2008 Wanda divenne presidente della Provincia di Catanzaro in una coalizione trainata dal Pdl. A candidarsi contro di lei, sotto il simbolo dello Scudocrociato, vi era proprio Rino Colace, al seguito di Franco Talarico che ottenne 803 preferenze e l’11,3% in uno dei collegi di Catanzaro.
    Colace, difatti, dell’Udc è stato segretario cittadino, salvo poi nel 2011 candidarsi al Comune con la lista “Scopelliti Presidente”. Presidente del Consiglio comunale nel 2005, è stato poi nominato amministratore unico dell’Amc, l’azienda dei trasporti del capoluogo.

    Dopo l’idillio di centrosinistra, è arrivata anche la nomina, giusto tre mesi fa, come coordinatore per la città di Catanzaro di “Noi con l’Italia”. Colace, però ha abbandonato il movimento dell’ex ministro Maurizio Lupi nelle ultime ore, proprio a seguito della designazione come candidato sindaco di FdI.

    Lo sgambetto di Montuoro

    Continua a dire di essere di Marcellinara e non di Catanzaro, nonostante abbia preso più del doppio dei voti di Filippo Pietropaolo nel capoluogo alle ultime regionali. Il consigliere regionale di Fdi, Antonio Montuoro nei giorni scorsi ha dichiarato che la lista civica che fa riferimento a lui, Venti da sud, già rodata con successo alle elezioni provinciali, non parteciperà alle elezioni comunali.

    Antonio Montuoro insieme a Sergio Abramo

    «Nei giorni scorsi ho riunito tutti i componenti del gruppo di riferimento, dopo un’analisi approfondita sulla situazione politica attuale, la maggioranza dei presenti si è determinata scegliendo di mantenere la caratterizzazione civica del proprio impegno, valutando ciascuno in autonomia con quale schieramento partecipare alla competizione elettorale, per offrire alla città il proprio impegno e le proprie competenze» ha dichiarato Montuoro.

    Tana libera tutti per i consiglieri comunali uscenti che lo sostengono? Non proprio. In realtà la lista “Venti da sud” avrebbe solo cambiato nome in “Progetto Catanzaro”, a sostegno di Valerio Donato e non al seguito di Fratelli D’Italia, come dimostrano i santini circolanti del consigliere comunale “montuoriano” e signore delle preferenze, Luigi Levato.

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    Un santino di Luigi Levato

    A sgamare ulteriormente la cosa è stato l’esponente del Nuovo Cdu, Vito Bordino, che ha dichiarato pubblicamente: «I rappresentanti di “Progetto Catanzaro” sono in buona parte componenti di Venti da Sud, sigla utilizzata alle Provinciali dall’area Montuoro, che hanno deciso di sostenere Valerio Donato».

    Tallini e il capolavoro di Wanda Ferro

    Insomma, un chiaro sgambetto a Wanda Ferro da parte di Montuoro con l’intento di attribuirle nel post-voto tutte le responsabilità politiche del flop annunciato, minandone la leadership regionale in vista delle politiche, trovando sponda anche negli altri consiglieri regionali di Fdi.
    Nelle more, è intervenuta la stilettata dell’ex presidente del Consiglio regionale e fresco esponente di ‘Noi con l’Italia’, Mimmo Tallini: «Non posso non sottolineare l’ambiguità della posizione di una parte di Fratelli D’Italia che si è “sdoppiata”, restando nel suo partito evidentemente per ragioni di convenienza, ma mandando i suoi grandi elettori ad ingrossare le fila delle liste di Donato. Un capolavoro di ambiguità e trasformismo a cui nessuno era mai arrivato».

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    Mimmo Tallini, ex presidente del Consiglio regionale

    I probabili candidati

    Le candidature in Fratelli D’Italia (la lista ufficiale), a meno di una settimana dal deposito delle liste, sono ancora in alto mare. Il tempo stringe, in attesa di sapere se si formerà la “strana coppia” politica con Coraggio Italia di Sergio Abramo (che Wanda nel 2017 era assolutamente ostile nel voler ricandidare, tant’è che non presentò una lista a suo sostegno), tra i candidati è presente Stefano Mellea, ex responsabile per la provincia di Catanzaro di Casa Pound.

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    Il candidato “daspato” Stefano Mellea

    Destinatario di Daspo, nel 2019 predicava l’uscita dall’Ue e dall’Euro. «L’unica cosa che dobbiamo dire a Bruxelles è addio. Ridateci i nostri soldi, il nostro oro e tenetevi immigrati, direttive gender e austerità» dichiarava pubblicamente tre anni fa.

    Domani si parte…

    Oltre a lui, dovrebbe essere della partita il commercialista Francesco Saverio Nitti, il cui nome compare nelle carte della ‘vicenda Copanello’ in quanto intercettato in talune conversazioni con l’ex parlamentare di Fdi, Giancarlo Pittelli. Nitti è stato anche di recente immortalato a cena con Wanda Ferro ed il deputato Andrea Delmastro a fine marzo, quanto ancora la deputata catanzarese cercava di convincere i vertici del suo Partito della bontà della “operazione Donato”.

    Insomma, dal cul-de-sac in cui è finita Wanda Ferro è difficile uscirne, con molti, dentro e fuori il suo Partito, che attendono gli esiti in termini di percentuali di quello che tutti i sondaggi indicano come il primo partito italiano, nella città della commissaria regionale. E non saranno in pochi in Fdi, in caso di flop, come già si è detto, a chiedere le sue dimissioni.