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  • Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    «C’è una identità che scalpita per essere rappresentata, che ha bisogno di un portavoce, di un ambasciatore, di un condottiero», dice con convinzione Olimpia Affuso, sociologa dell’Unical e vice coordinatrice del corso di studio di Media e società digitale, fornendo una spiegazione possibile all’impazzimento collettivo verso Dario Brunori.
    È pressoché sicuro che il cantautore cosentino non si senta un condottiero, eppure durante l’ultima edizione del Festival della canzone ha incarnato la rappresentazione di un territorio e di una cultura anticamente relegati alla pena del silenzio o, peggio, incatenata ai ceppi di una narrazione nefasta.

    I commenti social

     

    Brunori Sas e la nuova narrazione della Calabria

    Per una manciata di giorni questa narrazione si è spezzata e al suo posto sono emerse dolcezze e poesia e appresso a loro un inatteso orgoglio. Ma le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano e per muoversi con disinvoltura dentro l’articolata fenomenologia brunoriana c’era bisogno di uno sguardo in grado di cogliere le sfumature psico-sociali.

    Paola Bisciglia, psicologa e psicoterapeuta, Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes e la già citata Olimpia Affuso, sono stati i compagni di un viaggio dentro un fenomeno collettivo fatto di entusiasmo, rivendicazione e senso di appartenenza, tutti sentimenti che hanno trovato in Brunori Sas il riferimento. E considerata la veemenza fideistica che a un certo punto ha invaso i social, c’è il rischio che possa vagamente avverarsi la profezia espressa con la consueta intelligente autoironia dallo stesso Dario: quella di immaginarsi come una Madonna portata a spalla e con i devoti che attaccano banconote al suo mantello, come ancora avviene durante certe processioni nei nostri paesi.

    Cultura alta e cultura pop

    Questo richiamo divertito a una religiosità devozionale ancora viva in Calabria non è stato il solo riferimento a radici culturali profonde, come quando sapientemente, nel corso di una intervista, ha spiegato l’affascino e i riti magico-religiosi per neutralizzarlo, citando, senza citarlo davvero, De Martino. Sud e magia sul palco dell’Ariston, un passaggio tra cultura alta e quella pop, che ha suscitato non solo il sorriso, ma la rivendicazione orgogliosa «di una storia di cui ci vergogniamo», dice Paola Bisciglia, spiegando che la parola necessaria a comprendere alcune cose è proprio questa: la vergogna da cui vogliamo riscattarci.

    «Si ha l’impressione che i calabresi detestino la Calabria e invece la amano, ma se ne vergognano», continua la psicologa. Poi arriva Brunori, che con la sua autenticità parla a una platea nazionale raccontando della scirubetta, «che per noi è come una cosa intima, solo nostra, e lui lo fa sfidando e vincendo quel senso di pudore che noi abbiamo per le cose che consideriamo private e da non esporre, come il dialetto, l’inflessione cosentina che Dario ha disinvoltamente esibita, la perifericità dei luoghi. In sintesi, ha ridefinito in positivo i limiti».

    La psicologa avverte che tutto questo è avvenuto senza strategia, ma con assoluta autenticità e ha fatto scattare la dinamica dell’immedesimazione. Dario «è diventato uno di noi ed è forte la voglia di riconoscersi in lui». Brunori insomma ci dice che non dobbiamo nasconderci, che possiamo parlare di noi, di come siamo davvero, che possiamo rivendicare la nostra indolenza mediterranea, che il nostro ni sicca è espressione del pensiero meridiano fiero e alto. È repulsione infastidita dell’urgenza imposta dalla post modernità, noi che manco abbiamo avuto la modernità.

    Brunori a Sanremo

    Brunori Ipertesto, segno della contemporaneità

    «Lui ha una caratteristica tipica della contemporaneità: è un ipertesto – dice Olimpia Affuso – dove si collegano testi, codici culturali diversi, parole, immagini e anche tecnologie della narrazione differenti ma con un intento unitario. E questo oggi è la chiave del successo».
    Parini invece osserva il fenomeno da un punto di vista diverso. Per lui Brunori è espressione di una storia solida, capace di rappresentare «una cultura un poco blasé, disincantata, che potrebbe essere la cifra di una certa cosentinità colta, ironica, spesso antagonista, ma non certamente pensiero subalterno. Anzi, si tratta di una cultura forte». Da questo punto di vista il cantautore per Parini «rinverdisce un orgoglio che già c’era e che aveva le sue radici in una città che è stata – e, in parte, è ancora rispetto ad altre aree della regione – colta, moderna, intellettuale».

    La Pizzica e la Tarantella

    L’essere blasé però non aiuta a cambiare le cose: altrove la Pizzica è diventata identità culturale, mentre noi consideriamo la tarantella un ballo tamarro.
    È mancato fin qui il salto per capovolgere il paradigma. La politica non sembra interessata a una operazione di rivendicazione orgogliosa, tocca quindi alla cultura cercare di fare il passo.

    Il sociologo Franco cassano

    «In Puglia c’era un gioco di squadra tra Vendola e Franco Cassano, tra la visione  politica e le aule universitarie», aggiunge Olimpia Affuso, ricordando come Sergio Bisciglia, docente di Sociologia urbana, abbia sottolineato che lo sviluppo turistico della Puglia sia passato dalle università. Il confronto tra la Puglia di Vendola e la Calabria di Occhiuto sembra piuttosto audace ed è vero, come avverte Parini, che tra qualche tempo l’eco sanremese si sarà stemperato, «ma intanto abbiamo trovato un ambasciatore che ha nazionalizzato la Calabria».

    Brunori e la potenza della bellezza

    Di tutto questo adesso resta «la potenzialità politica della bellezza», come conclude Affuso e che è stata rappresentata dall’arte di Dario Brunori.
    Dobbiamo trovare l’intelligenza per trasformare questa bellezza in azione. Ma più di tutto ce la dobbiamo meritare.

     

  • Grande città, grande bottino

    Grande città, grande bottino

    Ci avviamo rapidamente verso il referendum più farlocco della storia dei referendum, costruito apposta da chi vuole che prevalga il Sì disinnescando ogni remota possibilità che le cose vadano diversamente dai loro desideri. Senza il quorum, levato per eliminare le conseguenze di una scarsa adesione al voto, che comunque è solo consultivo quindi privo di un autentico potere decisionale, ci chiamano a decidere se unire il capoluogo a Rende e Castrolibero dando vita alla grande Cosenza. I cosentini, dentro questa visione sbagliata, potrebbero dare sfogo al loro ancestrale campanilismo e cedere alla tentazione  di scrivere Sì, mentre i cittadini di Rende e Castrolibero sembrano comprensibilmente piuttosto resistenti a questa idea di allargamento che sa di conquista. A vincere alla fine sarà solo quella casta che vuole famelicamente allagare il territorio da controllare. Si tratta di un grumo di potere trasversale e da parecchio egemone in città e nella Regione, responsabile, in maniera diretta o indiretta, di alcune delle maggiori sciagure toccate in sorte ai Calabresi, dallo sfacelo della Sanità, al dissesto del Comune di Cosenza, all’impoverimento materiale e immateriale della popolazione.

    I miti della modernità e del progresso

    Le facce e i nomi sono lì da un tempo così lungo che potrebbe dare l’illusione dell’eternità. Attorno a loro ci sono vecchi vassalli e nuovi sacerdoti chiamati a magnificare le gesta e le idee di chi sta al comando. Nemmeno le parole d’ordine da usare contro chi prova a spiegare le ragioni del No sono particolarmente innovative, infatti il processo di unificazione viene maldestramente annunciato come un ineludibile passo verso la modernità, una tappa dell’urgente progresso che condurrebbe nella direzione della buona amministrazione dei territori. Concetti espressi da chi ha governato e governa da tempo e che fanno accapponare la pelle. Eppure le idee di città “grande”, di metropoli, come luoghi ottimi dell’abitare sono declinate da tempo, lasciando lo spazio alla salvaguardia del “piccolo”, della città maggiormente a dimensione di cittadini, con servizi rapidamente fruibili  e spazi goduti. I cosentini che non vedono l’ora di votare Sì commetterebbero un errore a immaginare un potenziamento della loro città. Cosenza a seguito della unificazione dei comuni rischia di essere destinata a una marginalità tale da condannarla a un ruolo infimo.

     Cosenza  e il rischio di diventare periferia

    A causa della necessità di rendere maggiormente baricentrica la nuova creatura urbana, Cosenza potrebbe perdere molti dei servizi fondamentali e anche le residue realtà economiche migrerebbero verso territori maggiormente attraenti e vantaggiosi, accelerando lo spopolamento del capoluogo. Non c’è chi non veda come Rende appaia da subito il luogo dove si concentreranno le attenzioni della speculazione edilizia, anche se già adesso sono numerosissime le abitazioni vuote. Dietro la potente volontà del Sì manca tuttavia una rigorosa programmazione, dentro le 481 pagine dello studio di fattibilità – leggerle tutte è una sfida titanica – ci sono solo buone intenzioni senza il sostegno di dati reali, tanto che al confronto la Città del Sole di Campanella sembra meno utopica e comunque sarebbe più bella. E nemmeno i conti degli ipotetici vantaggi economici sembrano avere concretezza reale, ma piuttosto l’evanescenza del desiderio. La percezione dominante è che andranno a votare in pochi e che di misura prevarrà il Sì.

    Una nuova città fatta per i cittadini, non per la speculazione.

    A questo punto sarà necessario che si avvii un ragionamento su come i cittadini possano davvero esercitare una qualche forma reale di potere, oltre quello mistificatorio e privo di valore del referendum. Costruire una città nuova, fatta da persone e non solo palazzi, magari prendendo in prestito l’idea di diverse municipalità, non esattamente forme di decentramento, ma di governo diretto di aree più piccole dentro un macro territorio.  Le città o sono lo spazio dei cittadini, oppure sono il luogo del mercato. Nel primo caso vincono le persone, nel secondo vince il saccheggio.

  • Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Cosenza era diversa, molto. Corso Mazzini era ancora attraversato dalle macchine, c’era la Standa, il bar Manna e il bar Gatto, la coraggiosa esperienza del Giornale di Calabria provava a rompere il monopolio della Gazzetta,  lo spazio davanti Palazzo degli Uffici era pieno di eskimo e sciarpe rosse e a un certo punto della sera si decideva di andare al cinema, all’Italia. Il biglietto costava 500 lire e il cinema cambiava programmazione ogni giorno. Era il 1975 e a Palazzo dei Bruzi sedeva un socialista, si chiamava Battista Iacino, ma per tutti era Pino, al punto che in tanti erano persuasi si chiamasse Giuseppe.

    Pino Iacino e la giunta rossa

    Governava la città con una giunta di sinistra, la sola della storia non breve di Cosenza. Allora le giunte nascevano dentro i consigli comunali, la legge che avrebbe consentito ai cittadini di scegliere direttamente il sindaco sarebbe arrivata molti anni dopo ed erano gli equilibri tra i partiti a livello nazionale e quelli tra i potentati della città a decidere quali maggioranze avrebbero dato vita a una giunta. Per una alchimia che mai più si sarebbe ripetuta il Psi si unì al Pci, tirando dentro Psdi e Pdup e Cosenza ebbe la sua prima giunta rossa.

    La Cultura a un intellettuale comunista

    L’Assessorato alla cultura con Pino Iacino sindaco andò a Giorgio Manacorda, intellettuale comunista, docente universitario. Sono gli anni in cui il cinema Italia rinasce e nella sua sala, sotto la gestione pubblica, vengono proiettati film e registi che mai sarebbero giunti a Cosenza:  Jodorowski, Arrabal, il cinema francese, Pasolini. È in quella sala che la mia generazione ha visto la fantasmagorica esplosione del finale di Zabriskie Point. Ma sono gli anni in cui il Rendano splende per la proposta culturale e per essere diventato teatro di tradizione, mentre nel salotto buono della città il Living Theatre porta lo scandalo dell’immaginario e sotto un tendone da circo muove i primi passi la Tenda di Giangurgolo, da cui sarebbe nato il Teatro dell’Acquario. Su Corso Telesio intanto apriva la prima libreria Feltrinelli.

    La città ai cittadini mentre tutto sta cambiando

    È la prima volta che l’idea che i cittadini possano abitare davvero la casa municipale si fa avanti. Sarà ripresa senza troppa fortuna anni dopo da un gruppo di matti che daranno vita a Ciroma. Quella è stata probabilmente la migliore Cosenza di sempre, ma stava già cambiando. Come in un film di mafia nel 1977 viene assassinato Luigi Palermo, capo incontrastato della malavita non ancora organizzata e la città precipita in una guerra sanguinosa, sul piano politico si annunciano gli anni di piombo.

    Ma in quella fase storica nulla avrebbe fermato il lavoro della giunta rossa e del suo sindaco, che ressero a tutto malgrado in consiglio avessero una maggioranza risicata.  Cosenza conoscerà con Pino Iacino il suo punto più alto di crescita urbana, civile e culturale e quella esperienza finirà nel 1980. Dopo torneranno le camarille, gli accordi, le alleanze strumentali al saccheggio. Oggi Pino Iacino non c’è più, quella sua Cosenza è scomparsa da un pezzo.

  • Elezioni europee: la marea nera che non c’è stata

    Elezioni europee: la marea nera che non c’è stata

    Nelle elezioni europee delle scorse settimane si è indubbiamente registrato, in diversi paesi, un successo delle formazioni di destra, ma siamo anche sicuri che l’8 e il 9 giugno scorsi si sia realizzata in Italia una grande avanzata delle destre e che, di conseguenza, il governo Meloni nel suo insieme, cioè nella somma dei voti dei partiti che lo compongono, abbia conquistato maggiori consensi rispetto alle elezioni precedenti? La risposta a questa domanda è di capitale importanza in questo particolare momento della vita democratica, in quanto è proprio sul presupposto di un trionfale consenso ricevuto a sostegno delle proprie strategie che poggia l’offensiva, da parte delle forze di governo, a sostegno di due importantissime leggi di riforma (quella sul premierato e quella sull’autonomia differenziata), attualmente in via di approvazione.

    La Costituzione modificata

    Queste due riforme modificano in profondità la Costituzione scritta (con riferimento ai poteri del Presidente del Consiglio e, di conseguenza, all’intero sistema di equilibrio tra i poteri che i Padri Costituenti hanno posto a caposaldo della nostra democrazia) e la Costituzione materiale (nella parte che, richiamando la Costituzione scritta, garantisce attraverso le leggi normali la redistribuzione delle risorse tra le aree più sviluppate e quelle meno sviluppate dell’Italia e, di conseguenza, in nome del diritto alla salute, la parità di trattamento per ogni cittadino italiano, veneto o calabrese, nell’essenziale settore dei servizi socio-sanitari). La risposta corretta alla domanda posta ha a che fare con la legittimità sostanziale che deriva (o meno) a un governo e a un progetto di riforma di rilievo costituzionale dal consenso popolare fornito dagli elettori, cioè dal popolo sovrano. Riguarda quindi la lettura completa e corretta, anziché parziale, incompleta e in definitiva fuorviante, dei risultati elettorali.

    I dati elettorali interpretati male

    La distorsione nella lettura del dato elettorale, nel caso di queste elezioni, riguarda: a) la correlazione evidente, eppure omessa o sottovalutata, tra il partito del non voto (che nel 2024 ha superato il 51% dell’elettorato complessivo) ed il voto espresso a favore dei partiti di maggioranza e di opposizione; b) la comparazione con i risultati delle elezioni precedenti. In entrambi i casi, possiamo facilmente constatare che i commenti hanno ignorato il quadro complessivo, che risulta dal confronto tra voto e non voto e tra elezioni successive, supponendo erroneamente il trionfo elettorale di Meloni & C in queste elezioni, mentre le cose sono andate in maniera completamente differente, in quanto queste forze hanno subito un evidente arretramento. Punto a): gli astensionisti, quando superano un certo numero (o, come oggi, diventano addirittura maggioranza assoluta) decidono indirettamente chi vince e chi perde, perché modificano di fatto le regole abituali del gioco elettorale. Infatti, diamo solitamente per scontato che, in una democrazia, i vincitori e gli sconfitti in una competizione elettorale siano l’espressione del popolo sovrano che, a larga maggioranza, esprime le sue scelte tra le liste in competizione.

    Se a votare ci va un minoranza

    Cosa accade, viceversa, quando a votare è soltanto una minoranza degli aventi diritto? Facciamo un esempio per intenderci: può accadere che, pur con una percentuale di consensi assai bassa (magari uguale al 10-12% dell’intero elettorato), un leader che sappia compattare al suo fianco alcune altre liste capaci di ottenere nel loro insieme più o meno la stessa percentuale di consensi (diciamo un 10-12% all’incirca, così da raggiungere insieme un 20-24% sul totale del corpo elettorale), abbia comunque più consensi di una opposizione divisa (non si dimentichi il peso derivante dalla capacità di saper utilizzare al meglio le tecniche di calcolo elettorale nella formazione delle liste, come pure il peso delle schede bianche e nulle), raggiunga così la maggioranza relativa, conquisti in tal modo la forza per governare lecitamente, pur rappresentando nei fatti, con la sua intera coalizione, la miseria di 1 cittadino su 5 o poco più. Guarda caso, l’insieme delle formazioni riconducibili all’attuale governo (FdI, FI, Lega) ha raggiunto pochi giorni fa solo il 22% dei consensi dell’elettorato italiano, che è composto da 51 milioni di cittadini. Rappresenta, pertanto, 11 dei 51 milioni di italiani chiamati alle urne. Si obietterà: ma l’8 e il 9 giugno si è votato per l’Europa, che c’entra con il governo? C’entra moltissimo, perché la Premier ha personalizzato e “nazionalizzato” tantissimo la campagna elettorale, appunto sottolineando che era a caccia dei consensi necessari per portare a compimento le sue riforme. E cosa ci dice la comparazione tra il recente voto europeo con i risultati dei partiti di centro-destra nelle elezioni politiche del 2022 e in quelle europee del 2019? Si tratta di elezioni molto differenti tra di loro per vari motivi, quindi la comparazione ha un valore solo indicativo, ma è comunque assai utile.

    I dati a confronto

    Veniamo ai dati: nelle europee del 2019 i partiti italiani di centro destra (CD) ottennero, nel loro insieme, 13 milioni e 225 mila suffragi (votò il 54,5% dell’elettorato; il CD ottenne il 49,4% dei votanti effettivi e quasi il 25% dell’elettorato completo; si registrò l’exploit di Salvini e della Lega, che superò il 34,2% dei consensi, mentre FdI ottenne il 6,4%). Nelle politiche del 2022 la stessa coalizione ottenne nel complesso 12 milioni e 300 mila suffragi (votò il 63,9% degli aventi diritto; il CD ottenne il consenso del 44% dei votanti, pari al 27% dell’elettorato totale, si realizzò l’exploit di Fratelli d’Italia, che raggiunse il 26%, e il flop della Lega, con l’8,8%). Nelle europee del 2024 le stesse forze politiche, complessivamente, hanno ottenuto 11 milioni di voti (1 milione e 300 mila voti in meno rispetto al 2022, oltre 2 milioni di consensi in meno rispetto al 2019), pari al 47% dei votanti e al 22,7% dell’elettorato totale; FdI è risultato il partito più votato, con il 28,8% dei consensi espressi, pari al 13% dell’elettorato intero. Questi sono i numeri reali: altro che avanzata! Nel trionfo dell’astensionismo, il centro destra contiene le perdite restando unito e redistribuendo i voti in diminuzione soprattutto al suo interno; il centro sinistra, viceversa, perde voti e si divide autolesionisticamente. Il popolo rinuncia in maggioranza ad esercitare il suo potere sovrano, l’elettorato latita, la democrazia si dimezza.

    Legittimità a governare e legittimità a cambiare le regole della democrazia

    In conclusione: il governo Meloni ha pieni e legittimi titoli per governare e proporre riforme, in questa grave crisi della democrazia? Senza dubbio, sì. Gode di un consenso elettorale così ampio da fornirle la legittimità popolare necessaria per cambiare le regole costituzionali? Senza dubbio, no. Anzi, si intravede una pericolosa distorsione del principio democratico: la legittimità popolare scarseggia ed a questo problema radicale, invece che con il buongoverno e con il recupero del popolo sovrano alla partecipazione, si vuole rispondere rendendo il potere politico più autoreferenziale, lontano, verticistico.

    Antonio Costabile

    Università della Calabria

  • Onda nera e astensionismo, l’Unical interroga il voto

    Onda nera e astensionismo, l’Unical interroga il voto

    C’è un fantasma che si aggira per l’Italia e pure in Europa. Dovrebbe spaventare parecchio, ma nessuno pare curarsene davvero. Tranquilli, non è il comunismo, si chiama astensionismo. L’allarme emerge dall’ormai consueto appuntamento con l’analisi del voto che viene puntuale dopo le elezioni dalle aule del Dipartimento di Scienze politiche e Sociali dell’Unical.
    Si tratta di un incontro ormai consolidato, che fornisce una interpretazione dei flussi elettorali, della mobilità del voto, di chi ha vinto o perso e perché. Anche questa volta a presentare il quadro delle cose sono stati sociologi e politologi, che assieme hanno fornito uno sguardo su come sono andate le cose, con particolare attenzione alla Calabria.

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    L’analisi del voto all’Unical. Da sinistra i docenti del dipartimento di Sociologia Giorgio Giraudo, Roberto De Luca, Antonello Costabile, Valeria Tarditi e Piero Fantozzi

    Le Europee 2024 secondo l’Unical

    I numeri parlano, ma serve saperli ascoltare. Per farlo occorre sensibilità sociologica e dimestichezza con i mutamenti sociali, ma poi è necessario anche il coraggio di dire cose che non consolano affatto. Del resto Antonello Costabile, sociologo della politica, lo dice quasi in premessa: «Se cercate consolazione non siete nel posto giusto, qui facciamo altro». Infatti il docente pone subito sul piatto la questione, «perché di astensionismo si parla per tre giorni, poi basta», invece è il solo punto su cui varrebbe la pena di soffermarsi.
    La ragione per la quale la politica è distratta è semplice e inquietante al tempo stesso. Si chiama “razionalità limitata” ed è un meccanismo banale che si basa sull’opportunismo politico. I leader infatti pensano che se si può vincere mobilitando una parte residuale di elettorato, perché mai impegnarsi nel cercare di coinvolgere l’altra parte della popolazione e rischiare di perdere? Il ragionamento non fa una piega, ma nasconde un rischio, quello del dileguarsi della legittimità popolare.

    Un passaggio d’epoca

    Costabile è impietoso e spiega come per la prima volta nella storia di questo Paese sia andato alle urne meno della metà degli elettori. Una contrazione che, spiegano dall’Unical, per quanto riguarda le Europee 2024 è impressionante. «Noi eravamo il Paese più europeista, nel 79 votò l’85% dell’elettorato, nel corso di quaranta anni siamo arrivati al 49%». Gli altri Paesi europei hanno pure conosciuto contrazioni della partecipazione, ma di grado inferiore e altalenante. Questa separazione dal voto, particolarmente evidente in Italia, porta un rischio grave, perché la partecipazione è l’architettura della democrazia e venendo meno la prima, si indebolisce la seconda.

    Siamo davanti a «un vero passaggio d’epoca» e dopo l’estinzione dei partiti di massa che avevano tenuto assieme un Paese che è sempre stato duale, oggi sembra venire a mancare un collante sociale e nazionale. Il futuro che ci aspetta non sembra essere rassicurante, anche perché «il 49% dei votanti è un dato che tiene conto del fatto che si sono svolte anche elezioni di tipo amministrativo, normalmente assai sentite», quindi, avvisa il docente, il dato vero sarebbe stato anche inferiore.

    Vincono i leader e i catalizzatori di consenso

    Nello specifico i flussi elettorali delle Europee 2024 vengono illustrati da Roberto De Luca, docente di Sociologia dei fenomeni politici all’Unical, che spiega come Forza Italia sia stata premiata in Calabria sulla spinta del presidente della Regione, mentre Alleanza Verdi e Sinistra si siano avvantaggiati dalla figura carismatica di Mimmo Lucano. E’ il potere della capacità dei singoli di attrarre consensi, come accade nel piccolo ma significativo paesello di San Pietro in Amantea, dove il sindaco che prima era leghista ora è meloniano, trascina fino al 50% per cento dei votanti verso Fratelli d’Italia.

    Dall’Italia all’Europa, l’avanzata della “zona nera”

    Da San Pietro fino a Strasburgo, lo sguardo si allarga ed è il docente di Organizzazione politica europea Giorgio Giraudo a spiegarci che oltre alla “zona nera”, rappresentata dalle destre emergenti, c’è complessivamente il rischio di uno spostamento conservatore  dell’equilibrio politico e il docente ipotizza che il Ppe faccia propria una vecchia abitudine tutta italiana, quella «della politica dei due forni, appoggiandosi, a seconda dei casi, un po’ al progressisti e un po’ agli ultraconservatori». In ogni caso si profila una politica europea molto condizionata dai vari e diversi interessi nazionalistici.

    Europee 2024, le conclusioni dell’Unical

    Dentro questo quadro, la chiave strategica per acquisire il consenso è stata la comunicazione, tutta giocata sulla personalizzazione delle leadership, come ha spiegato Valeria Tarditi, sociologa della comunicazione politica. La destra, secondo la docente, ha puntato su parole che sottolineavano l’antagonismo tra l’Europa dei burocrati e quella dei popoli, mentre la sinistra ha abbandonato l’euro entusiasmo, seducendo così una parte dell’elettorato più radicale.

    La società separata dalla politica

    Su tutto resta pesante come un macigno la considerazione finale di Piero Fantozzi, storica voce della sociologia dell’Unical, che vede come lo «sfilacciamento del legame tra società e politica» sia innegabile e  pure lo siano le spinte all’utilitarismo contro il senso di solidarismo.

  • Aspromonte, dall’Unesco semaforo giallo per il geoparco?

    Aspromonte, dall’Unesco semaforo giallo per il geoparco?

    Le note vicende che hanno portato al commissariamento dell’Ente Parco Aspromonte continuano a produrre effetti negativi. Sì, perché nel trentennale dell’istituzione dell’Ente e nell’anno in cui l’Aspromonte attende la verifica dei commissari UNESCO per la conferma dello status di Geoparco Globale, la macchina è completamente inceppata.
    Quella verifica, originariamente prevista per lo scorso aprile, è slittata al prossimo luglio.

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    Una volpe in Aspromonte

    Aspromonte Geoparco UNESCO: dalle origini ad oggi

    L’ingresso del Parco Aspromonte come Geoparco nella rete mondiale dell’Unesco risale al 21 aprile 2021. La procedura, avviata anni addietro, era risultata vincente in tempi record rispetto a candidature che attendono ancora un semaforo verde. Nel 2018, dopo un lungo lavoro preparatorio coordinato da una struttura amministrativa che ancora funzionava, durante l’Ottava Conferenza Internazionale dei Geoparchi Mondiali tenutasi a Madonna di Campiglio, l’UNESCO aveva presentato una relazione in cui venivano evidenziate delle criticità da sanare. Nel 2021, infine, l’acquisizione dello status di Geoparco.

    Rosolino Cirrincione, oggi direttore del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania ha collaborato al dossier di candidatura. Cirrincione racconta che dal 2021 non ha avuto più alcuna notizia. L’Ente Parco lo ha però sollecitato, di recente, a supervisionare la bozza di relazione in preparazione per la visita dell’UNESCO del prossimo luglio. Una richiesta all’ultimo minuto che l’accademico non pare aver affatto gradito.

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    Il professor Rosolino Cirrincione, ordinario di Petrografia e Petrologia a Catania

    Certo, diverse attività sono state svolte per adempiere alle procedure che riguardano la vita dei Geoparchi: formazione nelle scuole, produzione di materiale di comunicazione, inaugurazione e apertura di una sede specifica del Geoparco a Bova. Molto altro, però, sembra mancare.
    L’Ente Parco non ha all’interno del suo staff un geologo, nonostante l’UNESCO ne suggerisca l’assunzione da anni. Chi si è occupato della candidatura del 2018, la geologa Serena Palermiti, ha collaborato come esterna con incarichi diretti. Terminati quelli, anche lei non ha più avuto dall’Aspromonte alcuna notizia sul Geoparco UNESCO.

    Arrivano i commissari e non c’è nessuno

    Le attività di cooperazione e trasferimento delle conoscenze con gli altri Geoparchi – precedentemente in capo a Silvia Lottero, la funzionaria che firmò la stabilizzazione illegittima degli LSU/LPU poi accusata di danno erariale – sembrano essere state molto lacunose. Così come lo è il lavoro sulla metodologia di monitoraggio delle presenze per l’implementazione delle visite turistiche.
    Quello che i commissari UNESCO troveranno in Aspromonte al momento di valutare il Geoparco sarà dunque non solo un lavoro fatto a metà, ma una ridotta capacità amministrativa dell’Ente. E la capacità amministrativa è  tra i principali capisaldi della verifica, assieme al coinvolgimento delle comunità del territorio. Le stesse, cioè, che da anni lamentano di non essere ascoltate dall’Ente.

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    Due esemplari di coturnice nel territorio del Parco

    Dallo stesso Parco arrivano ammissioni che non lasciano dubbi. L’attuale responsabile del dossier Geoparco è Giorgio Cotroneo. In carica dallo scorso febbraio dopo l’insediamento del commissario straordinario Renato Carullo, imputa inefficienze e ritardi alla drammatica situazione della pianta organica e al malgoverno degli ultimi anni.
    Lo stesso Carullo, poi, è ancora più netto: «Siamo in ritardo su tutto. La situazione è quella che è: contenziosi interni ed esterni, procedimenti disciplinari, indagini della magistratura. Dieci giorni dopo il mio insediamento (14 febbraio 2024 ndr) ho inviato una relazione al Ministero descrivendo lo stato in cui versa l’ente e la mia difficoltà a mandarlo avanti con una pianta organica praticamente inesistente. Nonostante sia per me un campo nuovissimo, ho accelerato tutti i processi in essere. Ho bisogno che l’Ente abbia un governo che funzioni. A luglio avremo in Aspromonte la delegazione UNESCO per la verifica delle condizioni che garantiscono lo status di Geoparco, ma ci hanno già anticipato in via informale che conferiranno il bollino giallo: meglio il semaforo giallo che quello rosso».

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    Pietra Cappa

    Stop al Geoparco UNESCO: cosa perderebbe l’Aspromonte

    Il segretariato dell’UNESCO, nonostante i solleciti via mail di questa redazione, non ci ha dato conferme a riguardo. Se ci troveremo di fronte a un semaforo giallo si tratterà di un alert. E non è detto che l’ammonizione si trasformi in un’espulsione. Ma il rischio è di azzerare un riconoscimento che, se a regime, rappresenterebbe un’opportunità per tutti i territori del Parco: creerebbe flussi turistici focalizzati sul geoturismo, stimolerebbe la creazione di imprese locali innovative, anche legate alla formazione di settore, e attiverebbe nuovi investimenti, generando processi di sviluppo.

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    Un ciclista in Aspromonte

    In tutto questo anche se il nuovo PIAO (Piano integrato delle Attività e Organizzazione) è stato approvato d’urgenza sulla scorta della programmazione lasciata dal direttore Putortì andato in pensione, gli investimenti sono fermi.
    Il Parco Aspromonte è l’unico tra quelli calabresi a non avere ancora firmato la convenzione con la Regione sulla ciclovia dei parchi, anche se il commissario garantisce che la questione è in via di definizione.

    Il problema è politico

    «Vedo tutte le potenzialità inespresse che ci sono, ma la struttura deve essere messa nelle condizioni di operare. Senza dipendenti è come se avessi le mani legate» continua, che sottolinea come si trovi a governare «per la prima volta un ente senza Direttore».
    Carullo aveva anche proposto una delibera per avviare le procedure con cui individuare la terna per la nomina del nuovo direttore da parte del ministro. Il Ministero dell’Ambiente l’ha annullata, però, perché la nomina del Direttore dovrebbe arrivare su impulso del Consiglio direttivo e del presidente. Che, dopo il commissariamento, non esistono più. Occorrerebbe, quindi, fare pressione sul Ministro affinché ricostituisca quel Consiglio direttivo.
    Come sempre, il problema è politico.

    Leo Autelitano

    Secondo Carullo, l’ex presidente Autelitano, convocato con due pec, non si sarebbe presentato per le consegne dei dossier aperti. Autelitano a sua volta, in una conferenza stampa con accanto il senatore Giuseppe Auddino (M5S), ha denunciato il carattere «trasgressivo, punitivo ed elusivo del decreto di commissariamento», imputandolo a oscure manovre di una certa parte politica. Come a dire: politica per politica, ognuno schiera le armi che ha. Ha poi negato di aver ricevuto la convocazione. Sarebbe potuta essere l’occasione per chiarire la situazione del Geoparco.

    Le decisioni dei tribunali

    In tutta questa matassa, le uniche certezze al momento sono due decisioni dei giudici. La prima è quella del Tar che rigetta la richiesta di sospensiva in via cautelare del provvedimento di commissariamento dell’ente.
    La seconda è la bocciatura del ricorso presentato da Maria Concetta Clelia Iannolo contro l’Ente per il reintegro completo in ruolo.
    E con la polemica che non accenna a smorzarsi, a perdere sono sempre cittadini, comunità e territori.

  • Con segni e parole, il racconto di un tempo vissuto… “In Bilico”

    Con segni e parole, il racconto di un tempo vissuto… “In Bilico”

    Il potere dei segni e la potenza delle parole. Se coniugate, queste due cose diventano capaci di raccontare storie, stati d’animo, persone e momenti. Insomma, la vita stessa.
    Si corre il rischio di scoprire che il senso profondo di questi tempi è lo stare in “bilico”, come con spietata precisione dice il titolo del libro di Aldo Presta, designer e progettista della comunicazione, e Silvia Vizzardelli, docente di Estetica presso l’Unical, edito da LetteraVentidue.

    In bilico tra i disegni di Presta e le parole di Vizzardelli

    Restiamo sospesi in attesa di eventi, ma più di tutto in allarme, perché questo presente che viviamo e il futuro che si annuncia non ci piacciono per nulla. Questa è la suggestione che viene dai disegni di Presta, tratti semplici eppure densi di significati, capaci di evocare la sospensione, l’attesa, i desideri incompiuti eppure ancora tenacemente coltivati.
    Le parole che sceglie Vizzardelli invece ci introducono in un viaggio attraverso Barthes, Derrida, Foucault. Disegni che danno forma a pensieri, parole scritte che offrono un modo per impadronirsene.  Entrambi i linguaggi vengono a dirci che se il presente non ci aggrada e il tempo che si annuncia ci spaventa almeno un poco allora ci restano poche opportunità: scappare via oppure affrontare i mostri.

    La copertina del libro di Presta e Vizzardelli

    Il difficile equilibrio degli acrobati

    Il sentirsi in “bilico”, come coraggiosi acrobati, di cui parla il libro è forse anche questo: il sentire forte la tentazione di mollare ogni cosa, ma rimanere lo stesso, per tigna, per tenacia, perché è giusto contrastare il declino di una società di cui per forza siamo parte. I disegni di Presta, accompagnati dalle parole di Vizzardelli, raccontano questo: il sentirsi fuori posto in un mondo in cui pare che l’egemonia culturale, come l’avrebbe chiamata il vecchio sardo, sia rappresentata dal pensiero mancato, dall’arretramento delle idee, dalla solitudine nella folla, dalla povertà nell’abbondanza, ma forse soprattutto da una attesa insoddisfatta.
    Solo a un distratto potrebbe sfuggire il senso politico che si disvela pagina dopo pagina, rivelando “l’inappartenenza” ad un mondo fatto ad ogni costo di identità forzate, di certezze inviolabili, di elusione della complessità, di separazioni tra il “noi” e gli “altri”, di mancanza di senso di solidarietà, di progetti condivisi, di comunità.

    Vivere come isole distanti

    I temi sono la dissoluzione della politica come antica pratica collettiva, l’assenza di senso, la perdita dell’idea di bene comune, le domande mancate, la guerra e il clima, il vivere come isole distanti. Il mondo che si palesa attraverso i segni e le parole degli autori è un universo lontano dai libri che abbiamo amato leggere, diverso dal mondo che consideriamo giusto. Per questo gli autori e non solo loro restano, appunto, in bilico, sospesi tra l’impegno cui sono/siamo chiamati e la rinuncia che ci tenta. Stanchi disertori di questo tempo carico di menzogna, ma anche soldatini coraggiosi ancora nella trincea della costruzione di un mondo diverso.
    È tempo di scegliere, sapendo però che il destino di alcuni è quello di essere sempre fuori posto.

  • Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Ci sono libri che sono figli di altri libri. Ripercorrono uguali sentieri, ma con occhi nuovi, perché le cose cambiano e anche in fretta. È il caso de La partecipazione politica (Il Mulino), l’ultimo lavoro di Francesco Raniolo.
    Con autoironia l’autore avverte che è come il «tornare sul luogo del misfatto» dopo circa vent’anni dalla prima edizione. Vent’anni sono ere geologiche per chi osserva i mutamenti politici e Raniolo – che insegna Scienze politiche all’Unical ed è coordinatore del dottorato in Politica, cultura e sviluppo – è tornato a rivolgere lo sguardo verso i modi che caratterizzano la partecipazione politica. «Il tempo che separa i due libri accompagna un ciclo di vita», spiega Raniolo e in questo non breve periodo è accaduto di tutto. In Scienze politiche si chiamano “giunture critiche”, o semplicemente crisi.

    I tempi cambiano

    Ma il punto è che in certe fasi storiche si presentano in forma multipla, quasi uno sciame. Sono chiamate poli-crisi. Si tratta di fenomeni complessi che attraversano le società generando incertezza. Sono rappresentate da mutamenti profondi, crisi economiche innanzitutto, migrazioni di massa, guerre e terrorismo internazionale, perfino una pandemia. Tutto ciò non poteva non riflettersi su forme e intensità della partecipazione e sulla qualità della democrazia. Questa è rappresentata dall’esistenza di spazi di dibattito, talvolta di conflitto, che ne costituiscono una componente cruciale. In sintesi, sono le distinte “arene” all’interno delle quali viene esercitata la democrazia. Per questo osservare come queste arene siano cambiate è fondamentale.

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    Francesco Raniolo

    Raniolo dedica grande attenzione a questi spazi, sia istituzionali che collegati alla società civile o ai media, ma presenti pure nelle pieghe della comunità e nei movimenti di protesta, essendosi questi rivelati incubatrici di mutamenti e innovazioni.
    Nei territori spesso troviamo aggregazioni di persone, accomunate da interessi condivisi e da valori, che hanno dato vita a pratiche sociali tese a creare beni comuni e a sviluppare reti di solidarietà. Le riflessioni del docente riportano alla mente il ruolo solidale svolto, ad esempio a Cosenza nel corso della pandemia, da realtà come La Terra di Piero, che ha provato a soddisfare i bisogni essenziali affrontando fragilità sociali diffuse in molti quartieri della città. Si è trattato di un ruolo di supplenza, laddove le istituzioni e la politica erano distratte o semplicemente non efficaci.

    Raniolo e i partiti di oggi

    In realtà i movimenti e le esperienze che da lì scaturiscono dovrebbero spingere i partiti a «rinnovarsi, nel tentativo di ricucire quel patto mitico che dovrebbe legarli ai cittadini, che restano le molecole della Polis».
    Il libro di Raniolo significativamente ripropone i passaggi chiave che potrebbero riattivare la partecipazione e cioè l’allargamento decisionale sulla scelta dei leader e delle linee programmatiche, lo spazio al pluralismo delle voci protagoniste del dibattito, la presenza diffusa di reti che collegano i partiti al contesto, la capacità inclusiva delle pratiche politiche.

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    Elettori del Pd alle primarie del 2023

    Nel meraviglioso mondo della teoria questi passaggi dovrebbero funzionare, ma calati nel terribile mondo reale non tanto. Per esempio, si pensi all’incapacità dei partiti di trasmettere le domande e sfide che giungono dalla società . Per Raniolo l’esempio probabilmente più significativo riguarda l’esperienza delle primarie, «che non hanno retto al tempo e ai conflitti interni, finendo per essere neutralizzate, riassorbite dalla competizione tra leader».
    Altre forme di inclusione che hanno visto il fallimento sono le famose “parlamentarie”, del M5S, esperienza tutt’altro che inclusiva che si costruiva sull’inganno della Rete come nuovo e prefetto luogo della democrazia. Oggi le forme di inclusione sperimentate si sono rivelate modi per legittimare i leader e non per allargare la base partecipativa, perché sono prevalse le logiche funzionali a dinamiche di potere e di autoreferenzialità.

    Il fantasma della partecipazione politica

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    La copertina della nuova edizione de “La partecipazione politica”

    Ma cosa sono oggi i partiti? Quanto resta attuale la definizione offerta da Maurice Duverger che li immaginava come comunità? Raniolo sa bene che dai tempi in cui scriveva l’intellettuale francese ogni cosa è diversa. Tuttavia resta dell’opinione che «i partiti non possono rinunciare tanto facilmente ad essere comunità di destino, un equivalente laico dell’esperienza religiosa».
    Tra i cambiamenti intervenuti c’è stata la scomparsa dei luoghi tradizionali di confronto e la presunzione, da parte dei partiti, di sostituirli efficacemente con i media che rimbalzano la figura dei leader. L’effetto è stato una ulteriore atomizzazione dell’elettorato, cui oggi viene fornita l’illusione della partecipazione stando comodamente seduti sul divano guardando la televisione o chattando sui social. Forme di esperienza solitaria, che sembrano dare ragione alla Thatcher quando affermava che non esiste la società, ma solo individui.

    La democrazia se la passa male

    Questa deriva assunta dai partiti rappresenta una più marcata separazione tra essi e i cittadini ed è l’opposto di quanto necessario alla vivificazione del rito della partecipazione. Una delle conseguenze di questa atomizzazione è il sopraggiungere di una fragilità sociale sulla quale si avventano con successo forme di populismo.
    «Il populismo in passato ha avuto un ruolo importante nel percorso graduale e contorto (perché implicava anche tappe autoritarie come in America Latina) verso la democratizzazione delle società – spiega Raniolo – ma oggi riflette un malessere profondo della democrazia. Una tappa nel processo di de-democratizzazione o di deterioramento della qualità democratica».

    Raniolo e i populismi

    Il populismo di oggi ha anche diverse facce. «Una – spiega ancora Raniolo – è quella che possiamo definire includente o rivendicativa, volta all’allargamento dei diritti, l’altra più rischiosa è quella che chiamiamo identitaria o escludente».
    Accanto al populismo che vuole espandere democrazia autentica e diritti c’è un populismo sovranista. Risponde al disagio sociale e alle paure individuali generate dalle crisi promettendo di serrare i ranghi e maggiormente si offre non solo all’identificazione con un leader (in alcuni paesi manifestamente autoritario, si pensi all’Ungheria di Orbán), ma anche al trasferimento di delusioni e paure su capri espiatori interni o esterni.

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    Il primo ministro ungherese Viktor Orbán

    Questi sentieri conducono verso democrazie illiberali e irresponsabili. Ma sono purtroppo i sentieri più facili e perciò più seducenti, perché le sfide che attendono le democrazie sono cruciali e riguardano l’attuale frammentazione del tessuto sociale, la radicalizzazione delle domande, ma anche le forme del comunicare che con il web scivolano facilmente nella manipolazione dell’informazione, fino a quello che nel libro viene indicato come “totalitarismo digitale”.
    La posta in gioco è altissima e non pare che le leadership dei partiti siano attrezzate ad affrontarla nel modo più giusto. Forse abbiamo bisogno di un nuovo protagonismo dei cittadini.

  • Primo Maggio, la festa del precario

    Primo Maggio, la festa del precario

    Il Primo Maggio è un rito stanco, cui il tempo, la modernità e diverse scelte politiche hanno sottratto senso. Semplicemente il lavoro, per come intere generazioni hanno imparato a concepirlo, non c’è più.
    Lo hanno sostituito forme di impiego precarie e sottoposte a forme di sfruttamento rapaci e del tutto legalizzate da una legislazione sedotta dal mito della flessibilità. In pratica, ci hanno raccontato che per avere lavoro occorreva stimolare la crescita, ma per avere la crescita dovevamo rassegnarci a rinunciare a qualche diritto.
    Oggi siamo rimasti senza diritti, la crescita c’è stata, ma il prezzo pagato è stato altissimo.

    Lavoro e flessibilità

    Del resto l’allarme era già giunto, quando Gorz avvisava che «Il sistema economico produce ricchezze sempre crescenti con una quantità decrescente di lavoro». In altre parole: oggi siamo capaci di produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri, ma con meno ore di lavoro e l’impegno di meno persone. Questa condizione, però, invece di liberarci dalla fatica ha aggiunto una sofferenza sociale diffusissima e straziante, perché all’idea di flessibilità lavorativa si è assommata la frustrazione della precarietà sociale: in una società in cui ci hanno insegnato che siamo quel che facciamo, essere disoccupati, non fare niente, corrisponde allo smarrimento del proprio status.

    Gli effetti della precarietà

    Ma non basta: la precarietà genera fragilità sociale e con essa la rassegnazione che viene dall’antipolitica, una forma di disinteresse che è tra le ragioni dell’astensionismo, vera minaccia per le democrazie liberali.
    La precarietà del lavoro non è solo fatica presente, ma anche minaccia futura. La società e le persone ne pagheranno il prezzo più tardi, quando dopo decenni di lavori a termine, sempre differenti, si scoprirà che avremo un numero grande di persone che non hanno potuto accumulare esperienze, competenze e saperi.

    Se il lavoro uccide

    Nell’immediato la precarietà si è trasformata spesso in tragedie sul lavoro, morti causate dalla necessità di massimizzare i profitti, dall’assenza di sicurezza e dalla vulnerabilità sociale dei lavoratori stessi.
    In alcuni casi i morti non erano nemmeno lavoratori, ma studenti macinati letteralmente nel meccanismo del perverso rapporto “Scuola–Lavoro”, ragazzi che invece di stare nelle aule erano in fabbrica a “imparare” la flessibilità, cioè ad essere sempre pronti a piegarsi ai tempi mutevoli della produzione.

    Reddito e lavoro

    Le responsabilità di tutto quanto non è solo della destra tradizionalmente neoliberista, ma pure delle forze riformiste. La seduzione ingannevole di una modernità veloce e luccicante le ha abbagliate e non hanno saputo immaginare una risposta diversa ai mutamenti che ci hanno travolto.
    Dentro questo discorso entra prepotente il tema del reddito separato dal lavoro, cui le forze politiche dovrebbero guardare senza moralismi. La redistribuzione della ricchezza in una società opulenta sarebbe una forma di giustizia sociale. Ma al di là di questo, molto più prosaicamente sarebbe uno strumento necessario per non fare appassire i consumi, altrimenti il giocattolo si rompe.
    Per il resto ci piace ancora pensare che la sola festa del lavoro sia quella del lavoro liberato.

  • Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Allarme siam fascisti! Perché quelli col fez e le camicie nere non ci sono più, è vero, ma hanno sembianze diverse e non per forza nuove, anzi continuano a puzzare di orrore.  Il Fascismo lo abbiamo inventato noi italiani e non ce ne siamo liberati mai. Un trauma culturale che non abbiamo affrontato, eluso con tenacia, raccontandoci le atrocità compiute dalle SS e tacendo quelle perpetrate dai repubblichini, ma ancora di più tacendo sui decenni durante i quali i diritti più semplici sono stati annichiliti da un regime crudele e assassino, funzionale a interessi complessi e noti.
    Oggi quella operazione di rimozione trova il suo culmine quando gli eredi di quel passato, sempre sentitisi estranei dentro una democrazia liberale, cercano l’affondo revisionista stando al governo e l’ipotesi di riforma sul premierato ne rappresenta l’ultimo sforzo in questo senso.

    Il fascismo eterno

    Il fascismo non c’è più, ma a dirlo sono solo i fascisti. Una specie di negazione di se stessi, di codardia fatta di equilibrismi linguistici: «Sono afascista», pare dicesse di sé Giuseppe Berto e da lì a scendere fino a Meloni, La Russa con il suo museo privato di reliquie del Ventennio, Lollobrigida, Sangiuliano e compagnia.
    Eppure le tentazioni autoritarie, repressive, censorie, perfino vendicative, restano palesi, quotidiane: studenti manganellati, presidi e docenti dissidenti intimiditi, pulsioni razziste liberate da ogni remora. Sì, il fascismo storico non c’è più, perché ogni cosa è cambiata, eppure sopravvive forte quello che Eco chiamava il “fascismo eterno”, fatto di sospetto verso la cultura, derisione rivolta agli atteggiamenti critici, populismo identitario come risposta all’insicurezza sociale generata dalle crisi.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Paura e capri espiatori

    L’orizzonte geopolitico di chi oggi governa il Paese è rappresentato dall’autoritarismo, che è sempre negazione dei diritti, come la libertà di espressione, dell’autodeterminazione delle donne, di una scuola e di una informazione libere. La destra cavalca il populismo, che ha assunto marcatamente caratteristiche di regressione democratica, perché reagisce alle crisi con risentimento, proponendo di arroccarsi come difesa dalla paura. E quest’ultima è sempre stata una condizione emotiva capace di mobilitare le masse attorno a leader carismatici e contro utili capri espiatori.

    Autorità e frustrazione

    La semplificazione delle questioni è ancora il motore dei fascismi e ha lo scopo di consumare la componente liberale delle democrazie. Su questo sono drammaticamente attuali le parole di Fromm, quando spiegava che nelle crisi prevalgono  la tentazione di identificarsi con figure autoritarie e la spinta a scaricare le proprie frustrazioni su gruppi minoritari.
    La cronaca di questi mesi ci restituisce proposte politiche contro l’aborto, contro i migranti, contro i diritti diffusi cui rinunciare in cambio di una effimera promessa identitaria.

    A scuola di Resistenza

    Il fascismo è ancora sempre questo: indifferenza verso le sofferenze sociali, veder annegare i migranti e sentirsi spiegare che era meglio se restavano a casa loro, incapacità di capire la complessità e risolvere il tutto individuando nemici. Il “me ne frego” delle camicie nere non è mai morto, per questo oggi è indispensabile non solo ricordare la Resistenza, ma fare Resistenza.
    I modi sono diversi, il più efficace resta quello che Gramsci suggeriva in una lettera destinata al figlio Delio, in cui parlava di scuola e della necessità di studiare la Storia. Serve per riconoscere e smascherare i mostri anche se certe volte sembrano sorridenti. Conoscere il fascismo in ogni sua forma.
    Buona Liberazione a tutti, non solo oggi.