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  • Cgil: in Regione litigano sui gadget, mentre i lavoratori affondano

    Cgil: in Regione litigano sui gadget, mentre i lavoratori affondano

    Ho letto con attenzione l’articolo/denuncia che la vostra redazione ha realizzato sulla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori della ristorazione a Cosenza dal titolo “Cucine da incubo”. Un caso non isolato, quello dello sfruttamento sul lavoro, come giustamente si afferma nell’articolo, che è solo un esempio delle condizioni miserabili nelle quali si vive quotidianamente in Calabria.

    Denunce che la Filcams Cgil porta avanti da anni e che ha richiamato, da ultimo, meno di un mese fa nell’iniziativa realizzata a Pizzo dal titolo “Idee e proposte per una terra accogliente ed un lavoro di qualità”.

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    La cucina di un ristorante italiano

    La retorica delle imprese

    Sono rimasto colpito, non particolarmente, dal fatto che anche il vostro giornale ha usato il classico schema per denunciare una situazione che viviamo ogni giorno, nella quale proviamo a tutelare e difendere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori; ispettorato del lavoro che diventa oggetto di accusa (quando dovrebbe essere noto che la riforma dell’ispettorato e le politiche di austerity sulla pubblica amministrazione partono da lontano, qualcuno ricorderà la retorica tutta liberale delle imprese che non decollano perché strozzate dal cappio dei controlli) anche quando gli organici sono stati ridotti all’osso; il sindacato, come sempre, assente. Assente dal racconto che si fa della nostra società, assente dal dibattito politico, nei tavoli istituzionali che contano e dove si fanno le scelte, specie nel settore del Turismo e della ristorazione in Calabria.

    Mentre in Cittadella si azzuffano per i gadget 

    Mentre i vertici della Regione litigano su gadget e marketing, la condizione di chi lavora sta sempre di più peggiorando ed il caso da voi sollevato è solo la punta dell’iceberg di una deregulation che ormai è diventata sistema. Ed in questa condizione il sindacato agisce provando a rappresentare e tutelare lavoratrici e lavoratori con fatica quotidianamente.

    Il sindacato non è assente

    Si può essere d’accordo o meno con il pensiero delle organizzazioni sindacali, criticarne l’azione ma è ingeneroso affermare che siamo assenti. Nei luoghi di lavoro, troppi pochi ancora, dove le lavoratrici ed i lavoratori scelgono di essere rappresentati dal sindacato il mondo del lavoro è più tutelato e i diritti vengono rispettati, non automaticamente ma attraverso un lavoro faticoso portato avanti spesso in solitudine. Solitudine ed isolamento che le aziende fanno subire ai rappresentanti sindacali, a lavoratori e lavoratrici cioè che con coraggio scelgono di esporsi e di farsi portavoce dei propri colleghi. Sono loro a pagare il prezzo più alto in termini di minacce, ricatti, discredito, umiliazioni continue. Per loro, più che per funzionari e dirigenti come me, chiedo maggiore rispetto ed attenzione anche da parte di chi, come la stampa, svolge una funzione fondamentale per la tenuta della democrazia in questo nostro Paese.

    Si corre il rischio di penalizzare i più deboli

    Articoli, come il vostro, nel denunciare situazioni di degrado, nella nobile intenzione di tutelare i più deboli, rischiano di penalizzarli maggiormente perché si da l’idea che lavoratori e lavoratori siano abbandonati al proprio destino e siano destinati ad essere soli e senza una possibilità di riscatto; così si fa il gioco di chi sfrutta e agisce violando ogni elementare normativa legislativa e contrattuale.  Grave e colpevole sarebbe stata l’assenza di un sindacato chiamato dai lavoratori per essere rappresentati e tutelati; in questo caso nessun contatto, nessun SOS è stato lanciato, se non attraverso la denuncia pubblica.

    Politica e istituzioni assenti, non i sindacati

    Viviamo in una condizione per la quale, anzi, paradossalmente ed in molti casi, sono i lavoratori stessi che ci chiedono di allontanarci, quando con la nostra iniziativa cerchiamo di avvicinarli e li invitiamo a farsi rappresentare per tutelare i loro diritti e la loro condizione; lo fanno per paura, innanzitutto, più che per sfiducia, perché preoccupati di perdere quel poco che si riesce a portare a casa attraverso il proprio lavoro.

    Chi è assente, nonostante le denunce quotidiane che il sindacato continua a lanciare è la Politica, sono le Istituzioni che hanno smesso di occuparsi delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Basta guardarsi le rassegne stampe e le nostre posizioni nel momento in cui la Regione Calabria, dentro la Pandemia, elargiva ristori, indennizzi e finanziamenti a pioggia senza verificare se quelle imprese rispettassero le leggi e i contratti nazionali.

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    Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo (foto Alfonso Bombini)

    Orsomarso invita a parlare le aziende, non i sindacati

    Quando, come nel caso raccontato dal vostro articolo, un’impresa ruba i soldi ai lavoratori per risparmiare sulle tasse crea un danno non solo al singolo ma all’intera collettività, perché quelle tasse dovrebbero servire a finanziare ed a migliorare i servizi pubblici, le pensioni e i sostegni per chi un lavoro non ce l’ha. Più povero è il lavoro e più povera è la condizione generale della società. Ma di questo pare importi poco a coloro che indirizzano e gestiscono la spesa pubblica, impegnati più a costruire alleanze e consenso. Basti pensare che agli Stati Generali del Turismo (la ristorazione fa parte di questo settore) richiesti fortemente dal sindacato, l’assessore regionale al ramo ha invitato a parlare solo i rappresentanti delle aziende e con questi intende decidere le politiche del settore e la distribuzione delle risorse.

    La necessità della denuncia

    In questo contesto il sindacato prova ad agire e dice ai lavoratori ed alle lavoratrici di Cosenza e della Calabria, noi ci siamo, incontriamoci. Perché supponiamo sia meno complicato lanciare una denuncia pubblica, a volto coperto e senza esporsi, che costruire le condizioni che permettano a tutti i lavoratori di rapportarsi con la propria impresa a testa alta ed esponendosi in prima persona. Ma se la denuncia deve servire a qualcosa, a cambiare radicalmente cioè, la condizione di chi lavora nel rispetto delle leggi e dei diritti contrattuali conquistati  a fatica, grazie al sindacato, la rappresentanza è l’unica via maestra; quella  che guida il nostro agire quotidiano dentro e fuori i luoghi di lavoro, affinché situazione di degrado e sfruttamento come quella da voi raccontata non debbano esistere. Noi ci siamo, vogliamo esserci, di questo vi chiedo di tenerne conto.

    Giuseppe Valentino

    Segretario generale Filcams-Cgil Calabria

  • Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Un giro del mondo e tanti guai, tra l’amore e l’anarchia. Li ha vissuti Giacomo Bottino, un operaio nato a Paola nel 1897 e poi emigrato, giovanissimo, a San Paolo del Brasile.
    Sulle rotte dell’emigrazione transoceanica, Giacomo incontra la sua prima, grande passione: la politica.
    A inizio XX secolo, essere socialisti non è facile. Ma essere anarchici può essere peggio: significa fare concorrenza a sinistra ai compagni dell’Internazionale, già in fase di divisione tra socialismo e comunismo. E significa, ovviamente, finire nel mirino delle autorità quasi in completo isolamento politico.
    Che è poi quel che accade a Bottino.

    Stuccatore a Formia

    In Brasile Bottino non ha solo conosciuto l’anarchismo, ma ha anche imparato un mestiere: fa lo stuccatore ed è abbastanza apprezzato.
    Nel 1921 si trova a Formia, dove si divide tra il lavoro e l’attività politica. E dove non ci mette molto a farsi schedare.

    Una copia d’epoca di Umanità Nova

    Infatti, Giacomo si dedica a un’intensa propaganda tra i muratori e i ferrovieri, in maggioranza comunisti, ai quali distribuisce Umanità Nova, la mitica rivista fondata e diretta da Errico Malatesta, dapprima a Milano e poi a Roma, dove il giornale e il suo fondatore sono costretti a trasferirsi perché i fascisti ne avevano incendiato la sede per rappresaglia in seguito alla strage dell’hotel Diana, attribuita agli anarchici.
    Bottino frequenta Malatesta e proprio a casa del guru dell’Internazionale Anarchica conosce l’altra sua grande passione: Ida Scarselli.

    Una famiglia pericolosa votata all’anarchia

    Bella, alta mora e un po’ robusta (e, aggiungerà qualche anno dopo un anonimo verbale di polizia, «dall’aria simpatica») Ida è coetanea di Giacomo.
    Ma in quanto a passione anarchica sembra tre volte più anziana: fa parte di una famiglia toscana di sette fratelli (oltre a lei, Oscar, Ferruccio, Egisto, Tito, Leda e Ines), tutti anarchici e tutti pericolosi.

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    Ida Scarselli

    Il 28 febbraio 1921 gli Scarselli si fanno (a dir poco…) notare a Certaldo, in provincia di Firenze, dove partecipano a un durissimo scontro di piazza con le Forse dell’ordine e i fascisti, giunti a dare manforte.
    Ferruccio, il fratello maggiore, resta ucciso. Oscar, affetto da una vistosa zoppia, si dà alla macchia e fonda un suo gruppo: la Banda dello Zoppo. Poi scappa all’estero, gira mezza Europa e alla fine si rifugia in Urss, assieme a suo fratello Tito.
    Egisto passa guai peggiori: arrestato subito dopo i disordini, si becca vent’anni di condanna. Ida, invece, viene arrestata e processata a Roma. Ma sarà assolta nel 1925 per insufficienza di prove.

    Propaganda e anarchia: il primo guaio di Giacomo

    Con questo popò d’esempio, Giacomo non ci mette molto a ficcarsi nel suo primo guaio serio.
    Nel 1922 si trasferisce a Roma per stare vicino a Ida.
    Il 24 aprile di quell’anno, Bottino si fa beccare dalla Polizia mentre volantina tra i soldati per incitarli alla diserzione. Viene arrestato e finisce sotto processo per propaganda sovversiva. Lo salva l’insufficienza di prove.
    Ma i problemi veri sono solo all’inizio.

    Una lettera maledetta

    Il 27 novembre 1926 la censura intercetta una lettera indirizzata a Giacomo, che nel frattempo convive a Roma con Ida.
    Gliel’ha spedita suo cognato Oscar dal Belgio e sembra scritta apposta per far infuriare i fascisti: dentro c’è tutto quello che un fuoriuscito può pensare del duce.

    Errico Malatesta, il guru dell’Internazionale anarchica

    Le autorità iniziano a scavare nelle vite di Giacomo e Ida e trovano abbastanza elementi per considerarli non più dei “semplici” antifascisti, ma addirittura dei cospiratori.
    A questo punto scatta il confino di pubblica sicurezza. Per sottrarvisi, Giacomo scappa a Messina. Ma la fuga dura poco, perché i carabinieri lo beccano il 13 febbraio 1927.
    A questo punto il confino a Lipari dovrebbe essere una certezza, per lui.
    Ma il regime la pensa diversamente: la pratica di Giacomo e Ida è passata, nel frattempo, al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

    La galera e il confino 

    I due anarchici non sono più un affare delle prefetture, ma sono diventati di competenza dell’Ovra, la famigerata polizia fascista, che li ritiene parte del Soccorso Rosso internazionale, dopo aver scoperto le attività di Ida in favore dei detenuti politici.
    Giacomo è rispedito a Roma il 20 marzo 1927 e subisce un processo per direttissima assieme alla sua compagna.
    La condanna, inevitabile, è una mazzata per entrambi: tre anni di carcere, tre di sorveglianza e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici a lui; due anni e mezzo di carcere, tre di sorveglianza più l’interdizione a lei.
    Ma l’amore vince ancora su tutto. E stavolta, galeotto è proprio il fascismo.

    Il matrimonio e il ritorno in Calabria

    Giacomo esce di galera il 19 marzo 1930, ma le autorità lo trattengono e lo spediscono al confino a Ponza. Qui ritrova Ida e, finalmente, la sposa Scontata del tutto la pena, Giacomo fa ritorno in Calabria nel ’32, dove porta con sé Ida e i loro tre figli.
    Dapprima la famiglia Bottino si stabilisce a Paola, dove Giacomo chiede, invano, alla Questura di Cosenza un passaporto verso il Brasile, per sé, per la moglie e per una figlia.
    Poi la coppia si trasferisce nel capoluogo, dove lui lavora come stuccatore nel cantiere del Palazzo degli Uffici.

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    La Scarselli e Bottino (a destra)

    Li raggiunge il cognato Egisto, nel frattempo uscito di galera grazie all’amnistia concessa dal regime per celebrare il suo decennale. Giacomo, con tre figli a carico, si dà la classica calmata e lavora duro. Anche Egisto si dà da fare come muratore nel medesimo cantiere del cognato. Tuttavia, non perde la passione politica e il vizio della propaganda. Resiste finché può a Cosenza e poi prova a scappare all’estero. Ma la polizia di confine lo ferma il 18 febbraio 1938 a Ventimiglia, assieme a un antifascista cosentino: Edoardo Vencia di Pedace.

    Nel Brasile dei golpisti

    La fine della guerra e del fascismo non significa la pace per la famiglia Bottino. Evidentemente, l’Italia di Mario Scelba, per anarchici come loro, non è più sicura di quella del ventennio.
    Il 19 gennaio 1947 Giacomo, Ida e i tre figli si trasferiscono in Brasile, per la precisione a Niteròi, una città costiera dello Stato di Rio de Janeiro.

    Il visto di residenza brasiliano di Ida Scarselli

    L’approdo in America Latina è la classica brace dopo la padella: nel 1964 i militari cacciano con un golpe il presidente João Goulart e instaurano la dittatura che durerà per i ventun anni successivi.

    Fine della storia

    Da questo momento in poi, Giacomo, di cui sono note anche in Brasile le simpatie politiche, finisce nel mirino della polizia e subisce le angherie di un vicino di casa, evidentemente legato al regime.
    Quest’ultimo minaccia Giacomo più volte e lo denuncia ai militari. Non pago, arriva a sparare all’italiano e lo uccide. È il 14 settembre 1970.
    Ida muore il 22 ottobre 1989, a novantadue anni suonati. E vanta un primato singolare: è stata la prima donna condannata da un Tribunale fascista. Per questo merito, lo Stato italiano le ha riconosciuto la pensione e la reversibilità di Giacomo.

  • Inchieste e politica: tra assoluzioni e “patenti” di perseguitati

    Inchieste e politica: tra assoluzioni e “patenti” di perseguitati

    L’ultimo caso è quello di Sandro Principe e di tutti gli altri imputati politici dell’inchiesta “Sistema Rende”. Un flop clamoroso che riapre l’eterna disputa tra garantismo e pugno duro. Soprattutto quando nelle inchieste giudiziarie finiscono sindaci, consiglieri comunali o regionali, persino parlamentari.

    Un Principe senza più trono

    Per decenni uomo forte della politica di Rende, per anni sindaco, Sandro Principe, già deputato socialista, coinvolto nell’inchiesta della Dda di Catanzaro denominata, appunto, “Sistema Rende”. Siamo nel 2016 quando quel terremoto scuote la politica cosentina. Oltre a Principe, coinvolto anche un altro ex sindaco, Umberto Bernaudo, nonché gli assessori Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi. Tutti accusati, a vario titolo, di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso.

    Principe e Manna nel loro più celebre duello televisivo, divenuto di culto a Cosenza e Rende

    Quell’inchiesta, di fatto, chiuse una lunga, quasi infinita, stagione politica di centrosinistra a Rende, considerata da sempre una roccaforte socialista, aprendo le porte all’era del centrodestra di Marcello Manna, peraltro oggi invischiato nella brutta storia di presunta corruzione giudiziaria con il giudice Marco Petrini.

    Quanto all’inchiesta “Sistema Rende”, invece, proprio un paio di giorni fa, il Tribunale di Cosenza ha assolto tutti gli imputati di quel clamoroso caso giudiziario. La parte politica, accusata di essere in combutta con la ‘ndrangheta, ottiene l’assoluzione in blocco con la formula “per non aver commesso il fatto”. Per Principe, la Procura aveva chiesto 9 anni di reclusione e via via a scendere condanne per tutti gli altri.

    L’eterna lotta tra garantisti e “manettari”

    Un caso del genere ha fatto, ovviamente, ritornare in auge la disputa tra le posizioni più oltranziste nella lotta alla ‘ndrangheta e alle sue collusioni con i “colletti bianchi” e quell’ala che, da sempre, spinge per una visione più garantista delle cose. E che, anzi, invoca riforme strutturali della magistratura e dell’intero sistema giustizia.

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    Enza Bruno Bossio (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Tra queste, una delle posizioni più note è quella di Enza Bruno Bossio, parlamentare del Pd e moglie dell’ex vicepresidente della Giunta Regionale, Nicola Adamo. Nel congratularsi con Principe per la vittoria giudiziaria, Bruno Bossio non manca di rilanciare uno dei suoi cavalli di battaglia: «Anche questa vicenda ci insegna quanto sia utile, urgente e necessaria una profonda rivisitazione del potere giudiziario e del sistema della giustizia. A quante sofferenze, a quante ingiuste detenzioni dobbiamo ancora assistere?», si chiede.

    L’assoluzione di Mimmo Tallini

    Temi che, evidentemente, sfondano portoni aperti in Forza Italia. Appartiene ormai al mito la lotta di Silvio Berlusconi contro le “toghe rosse”. Posizioni rimbalzata nelle ultime ore con la pesante richiesta di condanna nei confronti dell’ex premier per il caso Ruby Ter. Ma, ancor prima (e, ovviamente, con le dovute proporzioni) per il caso di Mimmo Tallini.

    Quella di Principe, infatti, è solo l’ultima delle assoluzioni che le cronache definiscono “clamorosa”. A metà febbraio, l’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, Mimmo Tallini, è stato assolto nel processo “Farmabusiness” dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso.

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    Domenico Tallini (Forza Italia) ai tempi in cui presiedeva il Consiglio regionale

    Dopo essere scattata la custodia cautelare, la Dda di Catanzaro aveva portato a processo Tallini e chiesto una condanna a 7 anni e 8 mesi di reclusione nel processo incentrato sui presunti illeciti nella vendita all’ingrosso di farmaci di cui si sarebbe resa responsabile la cosca di ‘ndrangheta dei Grande Aracri di Cutro. Ma Tallini è stato assolto “perché il fatto non sussiste”.

    Se cittadinanza e politica abdicano alla magistratura

    Eterna lotta tra garantismo e giustizialismo. Ma anche una eterna deresponsabilizzazione di politica e cittadinanza che, ormai da decenni, tanto a livello locale, quanto a livello nazionale hanno scelto di delegare scelte e comportamenti da assumere alla magistratura, conferendole ruolo e importanza che la Costituzione non le assegna.

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    La cittadinanza, spesso incapace di esprimere un voto libero, coraggioso e indipendente, si fa scudo tramite la magistratura e tramite figure iconiche come Nicola Gratteri, per deresponsabilizzarsi, per avere con manette e condanne quella “pulizia” che potrebbe promuovere nella cabina elettorale.

    La classe dirigente, incapace di emendarsi, che tiene nei propri ranghi soggetti politicamente impresentabili, emarginandoli (magari temporaneamente) solo quando hanno le manette ai polsi, senza effettuare una selezione e, men che meno, un ricambio.

    Lo spauracchio della giustizia

    Emblematico, in tal senso, quanto accaduto alcuni anni fa a Cosenza, allorquando 17 consiglieri comunali firmarono le dimissioni dal notaio, paventando imminenti problemi giudiziari per l’allora sindaco Mario Occhiuto. Misure restrittive che, come la storia ha dimostrato, non sono mai arrivate. E con l’ex sindaco del capoluogo bruzio che, al momento, è uscito indenne praticamente da tutte le inchieste penali a suo carico.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    La giustizia, quindi, come (spesso becera) arma di contesa politica. Speculare a quanto accaduto a Cosenza il caso del grande “nemico” di Occhiuto, l’ex governatore Mario Oliverio, ancora oggi imputato e scaricato dal Partito Democratico dopo i primi coinvolgimenti in inchieste giudiziarie.

    Il caso Caridi

    Quello tra ‘ndrangheta e politica è un rapporto inscindibile. La storia lo dimostra chiaramente. E, però, le assoluzioni di politici si moltiplicano. Nel luglio 2021, un altro episodio eclatante. L’assoluzione dell’ex senatore Antonio Caridi, nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato a Reggio Calabria contro la masso-‘ndrangheta.

    Antonio Caridi in Senato

    Caridi era accusato di essere lo strumento attraverso cui la componente occulta della criminalità calabrese avrebbe infiltrato le istituzioni, da quelle locali fino al Senato della Repubblica, appunto. A suo carico, diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia e anche le immagini che lo ritraevano entrare nella casa storica della cosca Pelle a Bovalino.

    Ma è stato assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste” dopo essersi consegnato nel carcere romano di Rebibbia a seguito del voto favorevole di Palazzo Madama sulla sua carcerazione. Poi un anno e mezzo di detenzione in carcere, il lungo processo, con la richiesta di condanna a 20 anni di reclusione e l’assoluzione, per ora di primo grado.

    Femia e Cherubino, assolti dopo anni di detenzione

    Ma i due casi più inquietanti arrivano entrambi dalla Locride. Il primo riguarda l’ex sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, Rocco Femia, arrestato dalla Polizia di Stato nel maggio 2011, con l’operazione “Circolo Formato”. Secondo l’accusa, Femia sarebbe stato il candidato sindaco sponsorizzato dai Mazzaferro nelle elezioni del 2008. È stato assolto nel marzo 2021, dopo aver trascorso cinque degli ultimi dieci anni in carcere.

    Rocco Femia

    Poco più di un anno dopo, il 6 aprile scorso, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex consigliere regionale Cosimo Cherubino nell’ambito del processo “Falsa politica” nato da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria contro la cosca Commisso di Siderno. Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d’appello lo hanno assolto “perché il fatto non sussiste”.

    Cosimo Cherubino

    I simboli che cadono

    Indagini spesso svolte in maniera approssimativa che portano a clamorosi errori giudiziari o, possibilità altrettanto grave, consegnano “patenti” di perseguitati a chi, forse, non la meriterebbe. Così, quindi, viene meno agli occhi di tanti la fiducia nella magistratura, per anni considerata l’unico argine allo strapotere delle cosche. A proposito di simboli che cadono.

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    Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena

    Casi a parte sono quelli di due sindaci icone di lotte molto sentite in Calabria. Il primo è quello di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. Il suo processo d’appello è iniziato da pochi giorno dopo la dura condanna di primo grado, che ha suscitato sdegno e indignazione a livello nazionale.

    E, infine, la vicenda di Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, ritenuta una delle roccaforti della ‘ndrangheta. Per anni, Girasole verrà considerata un simbolo della politica che lotta contro la criminalità organizzata. Poi gli arresti domiciliari proprio con l’accusa infamante di connivenza con le ‘ndrine. Girasole verrà assolta definitivamente dalla Cassazione, dopo il ricorso presentato dalla magistratura inquirente, che ha insistito sebbene fosse stata già assolta sia in primo che in secondo grado.

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    Carolina Girasole
  • Occhiuto diffamò Marisa Manzini? Pronto lo scudo dell’immunità

    Occhiuto diffamò Marisa Manzini? Pronto lo scudo dell’immunità

    Le sorti di questa storia – che sarebbe tutta calabrese – si decidono a Montecitorio. Perché se una presunta diffamazione la commette un comune mortale deve andare a difendersi in Tribunale. Se il denunciato è invece un deputato o un senatore allora può scattare lo scudo parlamentare. Anche se l’accusato deputato non lo è più, ma lo era all’epoca dei fatti. Proprio come Roberto Occhiuto.

    Manzini va in Tribunale, ma Occhiuto e Mulè chiedono lo stop

    Il presidente della Regione è uno dei protagonisti della vicenda. L’altro è l’attuale sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, all’epoca portavoce di Forza Italia alla Camera. A portare in Tribunale – o meglio, a provare a farlo – Mulè e Occhiuto è Marisa Manzini, già procuratrice aggiunta a Cosenza. Il suo atto di citazione risale al 3 dicembre 2019 e il procedimento è attualmente pendente al Tribunale civile di Salerno. Solo che ora della questione si sta occupando la Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio. Perché Occhiuto e Mulè hanno chiesto che la Camera «voglia domandare la sospensione del procedimento».

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    Marisa Manzini

    Occhiuto e Mulè si rivolgono alla Giunta dopo il no del giudice

    Il nocciolo della vicenda riguarda l’articolo 68 della Costituzione: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Il giudice di Salerno a gennaio ha rigettato la richiesta avanzata al Tribunale da Occhiuto e Mulè. I quali invece chiedono che venga loro applicata questa prerogativa costituzionale. E di fronte al diniego ora si sono rivolti alla Giunta della Camera richiamando la possibilità (prevista dalla legge 140/2003) che sia direttamente Montecitorio a chiedere al giudice la sospensione.

    I presunti rapporti tra Manzini, Morra e un maresciallo

    Secondo quanto riportato oggi in un breve articolo sul settimanale cartaceo di Tpi, la Camera sarebbe pronta «a salvarli». Con la motivazione che l’asserita diffamazione sarebbe avvenuta in una conferenza stampa che si è tenuta a Montecitorio. Proprio questa circostanza potrebbe garantire a Occhiuto e Mulè «l’ombrello dell’immunità». I fatti risalgono al 13 maggio 2019. Quando dalla sala stampa di Montecitorio e dalla web-tv della Camera i due deputati, affiancati dalla compianta Jole Santelli, parlarono dei rapporti tra il senatore M5S Nicola Morra, Manzini e un maresciallo della Guardia di finanza.

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    Il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra

    L’intercettazione a casa Morra

    L’argomento è tutto cosentino e risale al febbraio del 2018. Ovvero una conversazione con l’ex segretario dell’allora sindaco Mario Occhiuto che Morra avrebbe registrato, a casa sua, portando poi alla Gdf il dvd con l’intercettazione. Ne sarebbe scaturita un’indagine che avrebbe coinvolto il fratello dell’attuale presidente della Regione, poi però assolto dalle accuse che riguardavano alcuni rimborsi per viaggi istituzionali (qui il Quotidiano del Sud fornisce i dettagli della vicenda processuale).

    Occhiuto su Manzini consulente dell’Antimafia

    Nella conferenza stampa romana da cui è scaturita l’azione legale di Manzini proprio Occhiuto (Roberto), secondo la magistrata, avrebbe avuto «il ruolo centrale». In particolare nel sottolineare i tempi insolitamente rapidi con cui Gdf e Procura avevano dato seguito all’iniziativa di Morra. I forzisti accusano: «Il maresciallo a cui ha consegnato il dvd e il pm che ne ha disposto la trascrizione (il riferimento è proprio a Manzini, ndr) sono diventati consulenti dell’Antimafia». Che non all’epoca dei fatti, ma poco dopo e ancora oggi, è presieduta da Morra.

    La sala stampa e l’attività parlamentare

     

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    La conferenza stampa tenuta alla Camera da Santelli, Mulè e Occhiuto

    Nel resoconto della Giunta si legge che un deputato del Pd (Alfredo Bazoli) ha sottolineato «l’esigenza di soffermarsi sulla possibilità o meno di qualificare gli interventi svolti durante la conferenza stampa medesima come attività parlamentare tipica».Il presidente dell’organismo, di FdI, pur «senza volere anticipare l’esame dei profili giuridici o il giudizio nel merito del caso in esame», ha fatto notare che «una conferenza stampa svolta all’interno di una sede istituzionale su temi di rilevanza politica dovrebbe essere comunque qualificata come espressione di attività parlamentare eseguita intra moenia». Non sorprende che si sia detto d’accordo sul punto Carlo Sarro di Forza Italia, che ha richiamato anche il fatto che la conferenza stampa sia stata affiancata da un’interpellanza parlamentare.

    Un lieto fine per Occhiuto e Mulè?

    L’orientamento del centrodestra è, ovviamente, abbastanza chiaro. Non è un dettaglio che dei 21 componenti della Giunta per le autorizzazioni, 11 facciano riferimento a partiti del centrodestra (Fi, Lega, FdI e Coraggio Italia), 8 al centrosinistra (Pd, M5S e LeU) e 2 sono di Italia Viva. L’organismo ha rinviato la trattazione della vicenda a un ulteriore esame. Ma il finale della storia sembra abbastanza scontato.

  • Figoli e il voto a Cirò: «Su di me solo illazioni»

    Figoli e il voto a Cirò: «Su di me solo illazioni»

    Nel servizio giornalistico dal titolo “Vuoi i voti della ‘ndrangheta? E a Cirò cala il silenzio” a firma di Alessia Bausone, leggo quanto segue:
    Oggi si vocifera con insistenza di un suo ritorno a Cirò nella qualità di vicesindaco della futura amministrazione Sculco. Ma solo se il cugino presente in lista, Andrea Grisafi, fosse il più votato tra i candidati. Certamente godrà dell’appoggio del responsabile dell’ufficio finanziario del Comune, lo zio di Dell’Aquila (fratello della madre), Natalino Figoli, recentemente finito nell’occhio del ciclone per presunte irregolarità nel concorso per gli autisti dello scuolabus e, prima ancora, per le tasse universitarie pagate dal Comune (circostanza citata nel decreto di scioglimento). Presente in lista anche una giovane parente del consigliere regionale del M5S, Francesco Afflitto, Martina Virardi con sostegno (almeno virtuale, con “like” social) dell’ex maresciallo dei carabinieri di Cirò, Diego Annibale, a processo per rivelazione di segreto d’ufficio proprio a favore del citato Figoli.

    Non ho subito alcuna condanna penale o civile in riferimento ai fatti elencati ed essendo la responsabilità penale del tutto personale non esiste alcuna ragione per essere coinvolto in fatti di cui sono totalmente estraneo e ignaro.
    Non si capisce inoltre che cosa possa comprovare la segnalata parentela con il figlio di mia sorella con il quale non ho nessun rapporto di lavoro o di relazioni, se non il fatto di essere mio nipote.

    Smentisco che il soggetto citato possa “godere dell’appoggio del responsabile dell’ufficio finanziario del Comune” come erroneamente e falsamente sostenuto, istillando nel lettore il dubbio che il sottoscritto possa compiere atti contrari al normale svolgimento delle proprie mansioni.
    Il tutto è frutto di illazioni e di conclusioni personali della giornalista, con approvazione del direttore responsabile, che non sono provate da nulla e di fatto diffamano la mia reputazione.

    Pertanto valuterò di rivolgermi alle Autorità precostituite a difesa e a tutela della mia onorabilità. Segnalerò inoltre all’Ordine dei Giornalisti Nazionale la condotta priva di ogni deontologia professionale della giornalista citata che mira non a informare il lettore ma a screditare ad arte e mestiere persone, come il sottoscritto.

    Cordialmente,

    Natalino Figoli

     

    *****

    La replica di Alessia Bausone a Natalino Figoli

    L’articolo, come chiunque può appurare dalle frasi che Figoli stesso cita, non gli attribuisce «alcuna condanna penale o civile in riferimento ai fatti elencati», per usare la sua espressione. Né tantomeno instilla dubbi su «atti contrari al normale svolgimento delle proprie mansioni»: dare il proprio eventuale sostegno elettorale a un parente – o avere un nipote – non sarebbe certo reato e sfugge in che modo ciò possa ledere l’immagine di Figoli.

    Ritengo sia curioso l’invio di una richiesta di rettifica proveniente non dalla mail personale dell’interessato ma dalla mail della ragioneria del Comune di Cirò, essendo, in quest’ultimo caso, tra l’altro, obbligatoria per legge (ex art. 53, comma 5 del DPR 445/2000) la protocollazione in digitale di tutte le comunicazioni in uscita, cosa non avvenuta.
    Nel merito, invito il diretto interessato ad una rilettura attenta del servizio giornalistico, che tocca, solo di sfuggita, le simpatie politiche di Figoli, platealmente manifestate nel profilo social Facebook che ha deciso di chiudere dopo la pubblicazione di questo articolo.

    Per meglio precisare fatti afferenti lo stesso Figoli, l’ex comandante dei carabinieri Diego Annibale, citato nel pezzo, risulta rinviato a giudizio per aver rilevato (sempre nell’ipotesi accusatoria al vaglio del Tribunale) informazioni secretate su un procedimento di riabilitazione ex art. 178 c.p. (cioè di “pulitura” del casellario giudiziario a seguito di condanna definitiva o decreto penale di condanna) promosso dallo stesso Figoli a suo favore.

    Inoltre, nella relazione prefettizia (redatta ai sensi dell’art. 143, comma 3, del D.lgs 267/2000 del 6 agosto 2013) in cui emerge la questione delle tasse universitarie pagate dal Comune, si legge chiaramente, anche, che nel 1999 è stata applicata su richiesta delle parti, nei confronti di Figoli, «la pena di reclusione di anni 1 e mesi 10, oltre alla sanzione pecuniaria, tra l’altro per i reati di ricettazione e soppressione di atti veri».
    Inoltre, nel predetto atto, si legge che Figoli, come specificato in relazioni di servizio dell’Arma dei Carabinieri, «è stato notato nel periodo che va dal 1992 al 1995 con esponenti al vertice della cosca cirotana» e che «a prescindere dall’esito giudiziario» questi  incontri hanno «una precisa significatività».

    Certa di aver fatto una operazione di ulteriore chiarezza a favore del pubblico e dello stesso Figoli, continuo con serenità la mia attività di inchiesta.

    Alessia Bausone

  • Istituzioni a porte girevoli, il caso Lamezia: più commissari che sindaci

    Istituzioni a porte girevoli, il caso Lamezia: più commissari che sindaci

    I sindaci, grazie anche ad una legge elettorale diretta che consente agli elettori di personalizzare la scelta, sono i parafulmini di tutte le problematiche di una città. Ma le istituzioni all’interno dello scacchiere politico cittadino giocano di fatto un ruolo ben più importante. L’autorevolezza di un vescovo, l’efficienza di un procuratore della Repubblica e dei dirigenti dei Carabinieri e della Polizia, rappresentano il vero valore aggiunto di una città “ordinata”.

    Il dato storico, fin dalla creazione di Lamezia

    Lamezia Terme è un caso significativo di questo assunto, non fosse altro per il fatto che già la sua stessa legge istitutiva venne favorita nell’approvazione dall’amicizia dell’allora vescovo Luisi con Aldo Moro (cit. storico Vincenzo Villella). Le istituzioni sottoposte ad un turn-over incessante, al di là dei meriti di chi occupa certe postazioni essenziali, sono un dato storico che comporta solo effetti negativi. Vediamo.

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    Una veduta di Lamezia (alla pagina Facebook Città di Lamezia Terme)

    Il recente addio del vescovo

    Dopo quasi tre anni, il vescovo della Diocesi di Lamezia Terme, Giuseppe Schillaci, ha lasciato la città e la comunità religiosa fino ad oggi rappresentata. Arrivato a Lamezia il 6 luglio del 2019, succedendo a Luigi Antonio Cantafora, il 23 aprile ’22 ha salutato tutti per la nuova destinazione di Nicosia. Il suo predecessore Cantafora ha prestato servizio dal 24 gennaio 2004 al 3 maggio 2019. È l’ennesimo turn over di cui fa esperienza Lamezia, una città difficile la cui caratteristica peculiare comincia ad essere questo fenomeno, il continuo avvicendamento nei posti chiave. Sembra quasi che quando qualcuno cominci a capire la città ed entrare dentro le sue problematiche debba o voglia cambiare sede.

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    Mons. Giuseppe Schillaci

    Dai commissari-burocrati al caos Sacal

    In una città sciolta tre volte e alla quale il Ministero degli Interni ha mandato spesso, è ormai storia non cronaca, commissari-burocrati non adeguati (almeno quanto i commissari calabresi alla sanità), il turn over sembra non finire mai. Le istituzioni soffrono di una “conversazione continuamente interrotta” perché gli attori attorno al tavolo cambiano di continuo. La stessa Sacal, l’ente che gestisce gli aeroporti di Lamezia Terme, Reggio Calabria e Crotone, negli ultimi due anni ha avvertito scosse nella governance e l’ultimo manager Giulio De Metrio si è appena dimesso. Nominato nel luglio 2020, era stato scelto dall’allora presidente della Regione, Jole Santelli, puntando su una figura esterna alla Calabria. Con l’arrivo del nuovo presidente Roberto Occhiuto e i nuovi indirizzi nella gestione della società aeroportuale, però, al posto di De Metrio è stato scelto un nuovo manager, Mario Franchini.

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    Gli avvicendamenti nelle forze dell’ordine

    Il Tenente Col. Sergio Molinari a settembre 2020 ha assunto il comando del Gruppo Carabinieri di Lamezia Terme subentrando al Ten. Col. Massimo Ribaudo, che si era insediato a fine agosto 2017. A settembre 2020 ha lasciato la città per altro incarico anche il 32enne Pietro Tribuzio, comandante della Compagnia dei Carabinieri di Lamezia, in città dal settembre 2016. Lo ha sostituito il Maggiore Christian Bruccia, di origini toscane. Un anno dopo, il 24 settembre 2021, viene presentato il maggiore Giuseppe Merola, nuovo comandante del Nucleo investigativo di Lamezia Terme. Il primo dirigente del Commissariato di Polizia di Lamezia Antonino Cannarella arriva l’1 luglio 2021 succedendo al primo dirigente Raffaele Pelliccia designato alla direzione del Commissariato di P.S. di Nola (NA).

    Risultati «brillanti» ma poco tempo

    A quest’ultimo, che era arrivato a Lamezia da Catanzaro a fine gennaio 2020, il Questore, ha spiegato la stampa, “nel corso di una sobria cerimonia di commiato ha dato atto dei brillanti risultati ottenuti dall’Ufficio nel corso della sua, ancorché breve, permanenza, grazie anche al lavoro egregio svolto da tutto il personale che ha saputo dirigere con dedizione e competenza”. Il 25 settembre 2018 dopo oltre cinque anni alla guida del gruppo della Guardia di Finanza di Lamezia Terme, il tenente colonnello Fabio Bianco ha passato il testimone al tenente colonnello Clemente Crisci. Ad ottobre 2020 il tenente colonnello Luca Pirrera diventa il nuovo comandante del gruppo Guardia di Finanza di Lamezia Terme. Subentra al tenente colonnello Giuseppe Micelli, il quale prosegue nell’incarico di comandante del gruppo tutela entrate del nucleo di polizia economico-finanziaria di Catanzaro.

    Tutti amano Lamezia. Ma da lontano

    Il 13 dicembre 2016 Salvatore Maria Curcio, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catanzaro, diventa il nuovo Procuratore Facente Funzione presso la Procura di Lamezia, e il 28 giugno del 2017 diventerà il nuovo Procuratore della Repubblica. “Una decisione veramente sofferta per me ma avvenuta per fare spazio alla mia famiglia che troverò a Bologna”. A dirlo un commosso Domenico Prestinenzi nella sua breve cerimonia di commiato, che dopo quattro anni si congeda dalla Procura e dal Tribunale lametino. Al suo posto, sin quando non sarà nominato il sostituto, andrà Luigi Maffia. Prestinenzi ha svolto il suo ruolo a Lamezia dal 2012 ed era subentrato a Salvatore Vitello andato prima a ricoprire il ruolo di vice capo di Gabinetto del Ministro della Giustizia e poi il ruolo di Procuratore di Siena. Alla guida della procura lametina per tre anni, dal 2009 al 2012, poi vice capo gabinetto al Ministero della Giustizia, poi Procuratore capo a Siena, Salvatore Vitello si sente legato da un vincolo d’affetto alla città di Lamezia, “una città che sente come sua”. Tutti amano Lamezia, ma da lontano.

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    Il procuratore Curcio durante una conferenza stampa con i vertici della Guardia di finanza (foto da Lameziainforma.it)

    A Lamezia più commissari che sindaci

    Intanto la commissione toponomastica insediata dal consiglio comunale, oltre a decidere a chi intitolare la sala consiliare, che oggi si tiene in quella che de facto è la Sala Giorgio Napolitano, dal nome del Presidente che la inaugurò, potrebbe già pensare a come ricordare i nomi dei commissari prefettizi che hanno governato la città tra uno scioglimento e un altro. Dotati di poteri incontrollati essi hanno di fatto amministrato la città, sorta il 4 gennaio 1968, molto più in profondità dei 19 sindaci eletti dal popolo. In tutto sono stati 28, eccoli:

    • Gaetano Fusco e Treno Di Mauro dal 15/11/1968 al 9/10/1970
    • Orfeo Capilupi, Giuseppe Malena, Rocco Carotenuto, Giovanni Lombardo,
      Lucio Messina, dal 30/9/1991 al 21/11/1993
    • Raffaele Milizia, dall’ 8/7/1974 al 1/8/1975
    • Giovanni Manganaro, dal 20/12/1980 al 22/4/1982
    • Corrado Perricone, dal 3/12/1985 all’11/9/1986
    • Sebastiano Cento, Benito Greco, Pietro Lisi, Massimo Nicolò, Dino Mazzorana,
      dal 20/2/2001 al 13/5/2001
    • Sebastiano Cento, Concetta Malacaria, Elena Scalfaro, Giorgio Criscuolo, Paolo
      Pirrone, Mario Tafaro, Giorgio Bartoli, dal 5/11/2002 al 4/4/2005
    • Francesco Alecci, Maria Grazia Colosimo, Desiree D’Ovidio, Rosario Fusaro, dal
      24/11/2017 al 15/10/2021
    • Giuseppe Priolo, Luigi Guerrieri, Antonio Calenda, dal 16/12/2020 sino al 15/10/21

    La contesa milionaria tra il Comune e Noto

    Basti pensare alla vicenda Icom. Solo nel maggio 2017 con la sentenza della Corte di Cassazione, favorevole per il Comune di Lamezia, si concluse definitivamente la spinosa vicenda contro la società di Floriano Noto sulla mancata realizzazione dell’Outlet Center in via del Progresso, denominato “Borgo Antico”. Una vicenda sorta nei due anni e mezzo tra il 2002 e il 2005 (in cui il team commissariale Criscuolo ed altri aveva amministrato la città) e sfociata nella sentenza di primo grado del dicembre 2013. Conteneva una condanna del Comune di Lamezia a un risarcimento ultramilionario che avrebbe letteralmente decretato il fallimento economico della città, sventato in extremis dal sindaco Speranza. Una storia davvero incredibile riassumibile in poche parole: il terreno oggetto del contenzioso fu venduto dal vecchio proprietario per 50mila euro, ma lo stesso appezzamento venne riacquistato solo un mese dopo dall’ing. Noto per la cifra di 4 milioni e 800 mila. Il terreno era agricolo, per il Prg vigente, non edificabile o lottizzabile, inutilizzabile per altre destinazioni, come mai acquistò così tanto valore in poco tempo?

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    L’ex sindaco di Lamezia, Gianni Speranza

    La lotta in difesa del Tribunale

    L’unica eccezione positiva in questo quadro di turn over incessante è rappresentato da Giovanni Garofalo, il nuovo presidente del Tribunale di Lamezia Terme dal luglio 2021, che ha occupato il posto lasciato nel settembre 2020 da Bruno Brattoli andato in pensione e che era arrivato, da Roma, il 19 settembre 2012. Brattoli è stato alla guida del Tribunale per otto anni e si era insediato nel Palazzo di giustizia lametino in un periodo non facile, perché “si lottava” contro la sua paventata chiusura. L’allora presidente plaudì la forza dimostrata dai lametini, interni o esterni al Tribunale, che ne scongiuravano la chiusura con proteste, sit-in e flash mob. Prima di tutti il futuro sindaco avvocato Paolo Mascaro. Prima di Garofalo a ricoprire le funzioni di presidente f.f. è stata la dottoressa Emma Sonni. Il nuovo presidente Gianni Garofalo proviene dal Tribunale di Cosenza ma ha fatto il giudice al Tribunale lametino dal maggio 1991 all’aprile 2000. La cerimonia di insediamento è avvenuta nell’aula intitolata a Giulio Sandro Garofalo, padre del nuovo presidente.

    https://www.ansa.it/calabria/notizie/2021/07/07/giustiziagianni-garofalo-nuovo-presidente-tribunale-lamezia_898d5cfa-a75a-4216-8530-b8f5a877f31c.html

    L’alternanza tra Mascaro e… Mascaro

    Se l’avvicendamento nei posti chiave delle istituzioni è una costante lametina, non può sorprendere per niente la vicenda Mascaro, il sindaco che i lametini hanno eletto già due volte, nel 2015 e nel 2019, e che però sta amministrando alternandosi con i commissari prefettizi che nominano. Anche al Comune le porte sono girevoli, si entra e si esce come nelle commedie di Georges Feydeau. La prima volta vinse il 31 maggio 2015 sul medico Tommaso Sonni, con oltre 16mila voti e quasi il 60% delle preferenze. Ma già due anni dopo, il 22 novembre 2017, arrivò il definitivo scioglimento dell’Ente per presunte infiltrazioni mafiose emerse in seguito all’operazione antindrangheta “Crisalide” contro le cosche Cerra-TorcasioGualtieri.

    L’onta del commissariamento

    Sarebbe bastato (adoperando il senno di poi) che nel giugno 2017 (senza aspettare novembre), allorché arrivò la commissione d’accesso al Comune, il sindaco Mascaro si fosse dimesso, obtorto collo e per protesta, per evitare alla città la lunga litania dei commissari. Nel giro di pochi mesi sarebbero state indette nuove elezioni, Mascaro si sarebbe presentato di nuovo e avrebbe ancora vinto facile magari lamentando il solito complotto. Invece no. Prima subisce l’onta (lui e la città) del terzo scioglimento per mafia, e poi comincia a chiedere ragione per via giudiziaria. Tutto lecito ma a spese di una città che resta attonita a guardare.

    Il record di entrate e uscite dal Comune

    Una prima vittoria di Pirro l’assapora quando il Tar del Lazio il 22 febbraio 2019 annulla lo scioglimento del Comune. “Riscattato l’onore di una città”, esulta su Facebook il sindaco. “Merito di una magistratura che ha combattuto e combatte la criminalità debellandola e sconfiggendola, di una comunità che ha contrastato e contrasta quotidianamente il malaffare, di tante donne e uomini liberi che dedicano e sacrificano, con coraggio e passione, la loro vita per il territorio che amano”. Ma tutto passa perché l’11 aprile la sospensiva accolta dal Consiglio di Stato presentata dall’Avvocatura contro la sentenza del Tar lo costringerà a lasciare per una seconda volta la guida della città. Insomma, una pratica che Mascaro già nel 2017 poteva definire con una dignitosa ritirata “tattica”, pur gridando ai quattro venti la sua estraneità alle vicende accusatorie, si trascina, ai danni della città, sino a metà ottobre 2021. Con un record di entrate e uscite dal Comune per quattro volte in meno di sei anni. Può un’amministrazione comunale calabrese sopravvivere ad un turn-over (o ad uno choc-stress) come questo?

    Mascaro festeggia la seconda vittoria elettorale nel dicembre del 2019

    La seconda vittoria e il “complotto”

    Il “complotto” contro Lamezia, secondo i sostenitori del sindaco, fa registrare la seconda tappa in data 25 novembre 2019. Quando l’avvocato Mascaro batte l’amico Ruggero Pegna con quasi il 70% delle preferenze. È la sua seconda vittoria dopo quella del 2015. A dicembre dello stesso anno i lametini dunque vedono tornare il sindaco per la terza volta in poco più di quattro anni a palazzo Madamme.

    Il nuovo stop e a Lamezia tornano i commissari

    Ma non è ancora finita perché passa un anno e il 16 dicembre del 2020 il Comune viene nuovamente commissariato. Il Tar dispone infatti la ripetizione del voto in sole 4 sezioni. Allora, mentre si discutevano confusamente i problemi di convalida di qualche consigliere comunale per pregresse posizioni debitorie nei confronti del Comune, nessuno credeva che il ricorso presentato dagli oppositori Massimo Cristiano e Silvio Zizza (M5S) per il riconteggio dei voti potesse essere accolto. E invece le vicende di una scheda ballerina fanno ottenere dal Tar la sentenza che sancisce (sia pure in modo parziale) il riconteggio dei voti in 4 sezioni (su 78). Una sentenza, quella del Tar, confermata a maggio 2021 dal Consiglio di Stato (a cui si era rivolto solo Zizza).

    Quattro volte sindaco in meno di sei anni

    Niente che in pratica possa sovvertire la vittoria del sindaco Mascaro. Ma è una ulteriore perdita di tempo per consentire il mini turno elettorale, dove si recano a votare (il 3 e 4 ottobre 2021) 1.113 elettori su 2.255 aventi diritto. Trecento giorni dopo lo scioglimento disposto dal Tar per brogli elettorali in 4 sezioni, l’avvocato Paolo Mascaro torna sindaco. È la quarta volta in meno di sei anni, un record. Nel bilancio di fine mandato, il commissario Giuseppe Priolo passando a lui le consegne, ha messo in risalto le “potenzialità di una grande città come Lamezia che per la posizione che occupa e per le infrastrutture dovrebbe essere la capitale della Calabria“. Bontà sua.

    Francesco Scoppetta
    Scrittore ed ex dirigente scolastico

  • Incompiute di Cosenza, dieci tappe nella città in sospeso

    Incompiute di Cosenza, dieci tappe nella città in sospeso

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    Il pubblico arranca, il privato avanza. Da un lato cantieri che si trascinano da anni, dall’altro micro e macro colate di cemento che coprono fazzoletti anche minuscoli in centro città: è il caso della palazzina incastonata sul lato nord di piazza Bilotti o della mega-struttura sanitaria per ora segnalata solo dalla maxi-gru visibile tra via Alimena e l’isola pedonale all’incrocio di via Miceli.

    La struttura sanitaria privata che sta nascendo nel cuore di Cosenza

    Cosenza e le incompiute: il non finito bruzio

    Nel frattempo, di alcune incompiute non resta neanche la prima pietra, ma solo gli annunci a mezzo stampa: ricordate l’Ecovillaggio? Avrebbe dovuto trasformare il campo rom in una sorta di cittadella campanelliana. Un milione di euro (da fondi Pisu) destinato al “villaggio creativo” nell’ex mercato ortofrutticolo di Vaglio Lise («spazi e strutture attrezzate per favorire la nascita di un mercatino per la vendita di prodotti realizzati dai rom e per fornire occasioni di socializzazione, incontro e valorizzazione della loro cultura» si leggeva nelle cronache del 2011, anno 1 dell’EO, l’Era Occhiuto), con il vicino campo sosta e i box già in uso ai grossisti da convertire in alloggi da 40 metri quadri «con zona living, due camere da letto, bagno», ambienti «all’esterno colorati e con temi diversi per caratterizzarli» e la luce che «arriverà anche dall’alto». Wow.

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    Ombre di tutte le età si intrattengono tra tetti in eternit e box colorati nel Villaggio Rom progettato dal Comune

    Fanta-urbanistica. Undici anni dopo, nella città sospesa dove l’unica opera sbloccata – ammesso che di opera si possa parlare – è il tratto di via Roma riaperto al traffico tra le due scuole, il “non finito” bruzio parla di promesse, polemiche e fallimenti. Piccola ricognizione.

    1. Viale Mancini

    La madre di tutte le incompiute. In principio – dopo i tagli del nastro del sindaco eponimo – fu la voragine che si spalancò il 1° aprile 2005. E non era uno scherzo, anzi poteva scapparci il morto. Ne seguì un’inchiesta giudiziaria, poi il rifacimento e la riapertura, il tira e molla politico tra livelli istituzionali (Comune-Regione-Ue) sulla nuova destinazione d’uso con tanto di derby tra i due Mario O. (Occhiuto e Oliverio), la riduzione della carreggiata a favore di pista ciclabile durante il primo lockdown e l’ennesimo cantiere aperto – quasi per ripicca – a poche settimane dal voto che avrebbe incoronato Franz Caruso sindaco.

    Il tutto mentre continua ad aggirarsi lo spettro della metro leggera, argomento per tutte le stagioni elettorali come il nuovo ospedale, la corte d’appello e lo svincolo autostradale a Sud; e la nuova giunta annuncia come imminente – un po’ come la campagna di rifacimento del manto stradale che stiamo ancora aspettando – la ripresa dei lavori del parco del benessere intanto intitolato a Jole Santelli.

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    Il cantiere della metropolitana leggera su viale Mancini a Cosenza (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi

    Livelli toponomastici che si stratificano, proprio come i rifiuti nelle aree transennate, rischi che pedoni e bikers corrono proprio per via dei pali arrugginiti che puntellano le reti di plastica arancione, cestini praticamente assenti e un senso di sospensione riassumibile nei semafori che lampeggiano da 5 anni nonostante le auto arrivino dal senso opposto. Soprattutto: il traffico già congestionato dal dimezzamento della carreggiata è aumentato dopo la riduzione a una sola corsia. Mentre la bretella che costeggia via Popilia resta un miraggio.

    2. La bretella che non c’è

    Ad osservare il rendering del Parco Urbano, che prevede la chiusura totale e definitiva del tratto di viale Mancini che va dai Due Fiumi alla sopraelevata, appare chiaro che si renderà vitale, più che consigliata, la bretella che correrà a est, parallela a via Popilia (da via Giovanbattista Lupia alla rotatoria del ponte di Calatrava), una volta venuta meno la principale via di accesso al centro città.
    Era il 2018 quando il Comitato Cs Viabilità Sicura raccolse migliaia di firme per sollecitare i lavori. Da allora solo annunci. E, ancora di più, imprecazioni degli automobilisti impelagati nel traffico, con disagi – anche filmati e rilanciati sui social – di ambulanze in file impossibili da “stappare”.

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    Il paradosso di via Buffone (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi

    Nell’Accordo di Programma tra la Regione Calabria e il Comune di Cosenza fu prevista la realizzazione della viabilità alternativa (più un’ovovia nel centro storico). Ma la realtà parla di una discarica, sottoposta anche a sequestro. E di situazioni kafkiane come alcune traverse pronte, con tanto di segnaletica, ma inutilizzabili (vedi via Pierino Buffone): conducono a una strada che non c’è! Nel frattempo l’erba si fa largo sull’asfalto nuovo e già invecchiato.

    3. Piazza Bilotti

    Non è una installazione-impacchettamento alla Christo, eppure anche di arte si tratta visto che i Filosofi guerrieri di Giuseppe Gallo – dopo la vetrina nazionale della copertina de La Lettura del Corriere della Sera – sono costretti all’interno di un recinto di transenne. In origine si fantasticò di un intervento legato anche alla riqualificazione di piazza Autolinee (un futuribile sottopassaggio pedonale avrebbe dovuto portare all’autostazione…) e l’allora sindaco Mario Occhiuto rivelò di propendere per un tappeto verde piuttosto che per l’ammasso di laterizi attualmente visibile: le cose sono infatti andate diversamente.

    Sculture e transenne a piazza Bilotti (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi

    Passati dieci anni, la vicenda giudiziaria del sequestro per motivi di sicurezza, dopo l’inchiesta che ha coinvolto la ditta esecutrice dei lavori e gli strascichi anche politici incombenti sulle due giunte Occhiuto, riduce la piazza più grande della città a non-luogo, o meglio luogo a metà: struttura dimezzata anche sotto il livello stradale, tra un Museo Multimediale chiuso e il McDonald’s e il parcheggio riaperti. Anche in questo caso, una bella sintesi per chi s’interroga sui motivi della prevalenza del privato sul pubblico.

    4. La piscina fantasma

    Doveva essere il progetto di punta del fu Parco fluviale poi ribattezzato con grandeur parigina Lungofiume boulevard – eventificio per due consiliature poi riconvertito a luogo di land art – infine Parco acquatico, quasi una risposta del capoluogo all’opera rendese. Invece sulla piscina coperta da 25 x 12,5 metri – inaugurata nella primavera 2011 e mai entrata in funzione – a inizio 2021 è stata anche aperta un’inchiesta dalla Procura di Cosenza: sei indagati tra tecnici comunali e rappresentanti della ditta appaltatrice (con la quale, nel 2017, Palazzo dei Bruzi ha rescisso il contratto stipulato 8 anni prima), ipotizzati i reati di truffa, falso e frode nelle pubbliche forniture.

    Per la struttura sportiva negata a una città che ne avrebbe bisogno una sorte più nebulosa dei Bocs Art, musealizzati nel complesso monumentale di San Domenico: come per il Mab, grande battage mediatico e innegabile seguito anche per queste strutture poste lungo l’agonizzante parco fluviale del Crati. Poi il nulla.

    5. Cupole geodetiche

    Il fantomatico quartiere fieristico è un altro tormentone, anzi manco quello. È uscito dai radar della politica da tempo. Le cupole geodetiche di viale Magna Grecia, sempre rileggendo il libro dei sogni del neosindaco Occhiuto 2011, rientravano nel progetto più complessivo della “porta dello sport e dell’expo” (il 2015 e le fascinazioni di Milano erano dietro l’angolo). L’idea era di eliminare le cupole per sostituirle con un unico spazio espositivo, «una struttura ovoidale, piuttosto avveniristica e realizzati con materiali dall’effetto rifrangente».

    Le cupole geodetiche poco prima della loro rimozione (foto Camillo Giuliani) – I Calabresi

    Di ovoidale si è potuto ammirare soltanto un cesso troneggiante nella variegata munnizza che colpiva il viandante avventuratosi sulla pista ciclabile e pedonale che unisce Cosenza e Castrolibero. Le tende sfondate delle cupole che negli anni ’80 ospitavano esposizioni e feste dell’Unità come simbolo della grande area urbana, altro refrain da campagna elettorale. Un monumento alla grande bruttezza.

    6. La città dei sottopassi

    Quando vuoi stupire o non sai come uscirne, tira fuori un sottopasso e il tuo interlocutore ne sarà spiazzato. La “porta commerciale” favoleggiata nell’area di via Popilia all’altezza di Vaglio Lise – che prevedeva l’interramento della strada statale 107 Silana Crotonese a favore di un’enorme piazza con verde attrezzato – avrebbe dovuto saldare la già agonizzante stazione e i quartieri popolari portando nuove attività commerciali, una sorta di quartiere fieristico bis per il quale venivano sventolati 100 milioni di euro già pronti. In dieci anni lo scalo ferroviario si è ulteriormente depotenziato a favore di Paola. L’unico intervento degno di nota è – manco a dirlo – un ennesimo polo della grande distribuzione (non proprio piccolo commercio di prossimità) subito dopo i palazzoni ex Carime e Provincia tirati periodicamente in ballo per il fantomatico nuovo ospedale.

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    La stazione di Vaglio Lise a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2022)

    È un intervento strutturale piuttosto imponente per il quale si confida nell’intervento finanziario, attraverso risorse europee, della Regione. La sottopassaggite – branca dell’annuncite che colpisce indistintamente la classe politica locale – si manifestò poco prima del decennio occhiutiano anche dalle parti di viale Trieste (avrebbe dovuto snellire il traffico in zona ospedale) e, da ultimo, è tornata alla grande tra chi suggeriva un piano B alla spianata di via Misasi/largo Rodotà.
    Il tutto ha un sapore ancora più paradossale se si pensa che, a fronte di tutti questi non-sottopassi, c’è un ponte facile facile che potrebbe unire i due viali di Cosenza e Rende intitolati ai rispettivi ras socialisti: ma in questo caso, a parte recentissimi ulteriori sviluppi, non siamo neanche agli annunci.

    7. Museo di Alarico

    Nel “triangolo delle meraviglie” Ponte di Calatrava/Planetario/ Museo di Alarico, l’ex Hotel Jolly poi sede dell’Aterp è senza dubbio il manufatto messo peggio. Sulla confluenza, appena sopra la statua a cavallo con la quale Cosenza si presenta, per dirne una, agli automobilisti nella cartellonistica autostradale, questa sorta di castello dell’Innominato bombardato giace sventrato da anni.

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    I ruderi dell’ex hotel Jolly, abbattuto per far posto al museo dedicato ad Alarico (foto Camillo Giuliani)

    Per quanto era flessuoso e sinuoso il rendering propalato dall’amministrazione precedente, tanto spigoloso e urticante risulta la realtà di questo ex palazzone senape famoso per non essere dotato di balconi, in pieno stile brutalista. La vista su corso Plebiscito si è liberata a favore della chiesa di San Francesco di Paola dopo l’abbattimento dei sei piani. Ma la struttura museale su un piano o poco più che tutti aspetta(va)no sembra davvero lontana da arrivare.

    8. Planetario

    Tra le incompiute è la più compiuta: alla vigilia della pandemia veleggiava sull’onda dell’entusiasmo. Le domeniche di febbraio 2020 di divulgazione e intrattenimento con la collaborazione di studiosi dell’Unical raccolsero molto favore. Poi lo stop brusco, ancora più doloroso vista la partenza alquanto problematica. Da allora, iniziative sempre meritevoli e per ora estemporanee ma sempre seguite. La speranza è quella di orari definitivi e cartelloni meglio strutturati (e magari la possibilità di pagamenti digitalizzati).

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    Rifiuti davanti al planetario di Cosenza (foto Alfonso Bombini 2022)

    9. Biblioteca Civica

    Lo stallo di una delle più importanti istituzioni culturali del meridione è tra i cavalli di battaglia de iCalabresi. Se i tormenti del presente e ai dubbi sul futuro c’è poco da aggiungere.

    L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Ma forse giova qui riportare una nota trionfalistica di qualche anno fa: «Rassicurazioni e rinnovata fiducia. È ciò che Mario Occhiuto ha trasmesso personalmente ai dipendenti della Biblioteca Civica, storica istituzione culturale cosentina, attraverso la visita che, da neo presidente della Provincia, ha voluto compiere fra le prime uscite pubbliche proprio nel prestigioso edificio adiacente il teatro Rendano. La crisi che ormai da tempo ha colpito l’Ente gestito sia dal Comune che dalla Provincia, rientra nei primissimi punti dell’agenda che attende Occhiuto negli uffici di piazza XV Marzo. Lo aveva anticipato già prima dell’elezione il presidente, e oggi ha voluto ribadirlo direttamente ai dipendenti che subito dopo l’incontro hanno rimosso gli striscioni di protesta posti all’esterno. Mario Occhiuto, che ricopre il duplice ruolo di sindaco della città e massimo rappresentante della Provincia, ha dichiarato che affronterà i problemi in seno ai locali ricchi di un patrimonio vasto (come i manuali antichi di valore inestimabile) con un progetto di rilancio delle attività che potrebbe essere eventualmente legato a una modifica dello Statuto, necessario alla nuova vita della Biblioteca Civica». Era il 21 ottobre 2014. I commenti li lasciamo ai lettori.

    10. Le incompiute culturali

    A proposito di incompiute culturali, più nella gestione che nella struttura, lo stallo dei teatri storici cittadini risiede tutto tra il Morelli e l’Italia-Tieri, laddove almeno il Rendano ha una stagione, per quanto mainstream.
    Qui un’analisi ampia e dall’interno: dall’esterno basti dire che, dalle sponde opposte del Busento, i due teatri dirimpettai si guardano e aspettano Godot. Un po’ come tutta la città.

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    L’ingresso del Cinema-Teatro Tieri è da tempo rifugio per chi non ha un tetto
  • Crotone: la città dell’eterna crisi idrica

    Crotone: la città dell’eterna crisi idrica

    Crotone è rimasta per qualche giorno senz’acqua, per l’ennesima volta. È una storia che si ripete quasi all’infinito. Un tubo si rompe, si grida allo scandalo, si chiedono tavoli tecnici, si parla di soluzioni definitive. E poi si rimane fermi, fino alla prossima emergenza.
    Questa volta, la rottura dell’adduzione principale, che collega la vasca di Calusia con il potabilizzatore, è avvenuta nel momento peggiore possibile. I rubinetti della città sono rimasti senza acqua durante i giorni della festa della madonna di Capocolonna. Un danno d’immagine ed economico, viste le difficoltà delle attività commerciali.

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    La sacra effige della Madonna di Capo Colonna in processione (foto pagina facebook Santuari Italiani)

    Il permesso della Procura per riparare la perdita

    Da 12 al 14 maggio, buona parte della città non ha ricevuto niente, oppure ha visto il servizio funzionare ad intermittenza. A rallentare ancora di più il tutto, il fatto che è servito il via libera della Procura per riparare la perdita: la tubazione, in località Margherita, si trovava in un’area sottoposta a sequestro.
    Per mettere una pezza, la Sorical ha attivato un piano di emergenza. La società ha attivato una condotta di emergenza per prendere l’acqua grezza dal bacino Sant’Anna. Una mossa insufficiente: i livelli del bacino non possono garantire la copertura di tutta la città. infatti, fin da subito il commissario della società, Cataldo Calabretta, ha avvisato che il servizio non sarebbe stato ripristinato completamente.

    Al momento, l’allarme è rientrato. Il guasto è stato riparato, ma il lavoro di manutenzione non è finito. Dal 25 al 28 maggio, Crotone rimarrà di nuovo senz’acqua. Il Corap è al lavoro per degli interventi di manutenzione straordinaria sulla condotta di adduzione.
    Le scuole di ogni grado rimarranno chiuse per 3 giorni. Per limitare i disagi, delle autobotti verranno piazzate in varie zone della città, per distribuire l’acqua agli abitanti. «Congesi prevede una serie di manovre da effettuare sui serbatoi cittadini per garantire, attraverso turnazioni, equamente il servizio idrico in tutti i quartieri della città», si legge nel comunicato del Comune.

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    Salvini e Cataldo Calabretta

    L’eterno ritorno dell’uguale

    Ad alimentare l’eterna crisi dell’acqua in città è la condizione pietosa delle tubature. Ciclicamente, le vecchie tubature di cemento armato si rompono. Il più delle volte, accade nei mesi di luglio e agosto.
    Negli ultimi anni, quasi ogni estate ci sono verificati dei guasti, sparsi in varie zone della città, o della provincia, come la rottura della conduttura a Belvedere Spinello, nel 2021. A maggio 2020 si ruppe una condotta gestita dal Corap, in località Iannello di Rocca di Neto. Il mese dopo, un altro guasto ad una tubatura Corap. E così, ogni volta.
    Le rotture tendono a concentrarsi sulla condotta di adduzione principale, che porta l’acqua del fiume Neto che si trova nella vasca di Calusia fino al potabilizzatore di Crotone, gestito dalla Sorical.

    Tre società per una condotta

    A complicare le cose è la gestione labirintica della fornitura d’acqua, che è di competenza regionale. L’impianto idrico è affidato a tre società: la Sorical, la Corap e il Consorzio di Bonifica Ionio Crotonese. Ogni volta che si verifica un guasto, la prima cosa da fare è capire di chi sia il tratto, e attivare chi di competenza.
    Il servizio integrato, invece, fa capo alla Congesi, il consorzio di 14 comuni della provincia crotonese.
    Questa frammentazione è uno dei motivi per cui il rinnovamento delle infrastrutture va a passo di lumaca. Gli accordi tra le parti sono sempre complicati, e i litigi sono frequenti, tra accuse di mancati pagamenti e di forniture mai ricevute.

    Ora che si fa?

    Nel frattempo, si cercano soluzioni per ovviare all’eterna crisi. Il sindaco della città Vincenzo Voce, lo scorso 18 maggio ha chiesto il ripristino del serbatoio di San Giorgio.
    L’impianto ha più di 20 anni: è stato costruito nel 2000, e non è mai stato attivato.

    «Il serbatoio non è stato mai messo in funzione e negli anni ha subito danneggiamenti, con l’asportazione di tutte le attrezzature elettromeccaniche, ed anche le condotte di alimentazione e di presa, essendo realizzate in acciaio e prive di protezione catodica, risultano in pessimo stato di conservazione», ha fatto sapere il sindaco Voce in una nota.
    Anche se il progetto dovesse andare in porto, la rimessa in funzione richiederà del tempo. Nei giorni scorsi, comunque, il sindaco ha chiesto un nuovo incontro a tutte le parti coinvolte, per trovare una soluzione condivisa. L’ennesima tavola rotonda.

    L’acqua potabile che finisce in mare

    La dispersione dell’acqua dovuta da un infrastruttura obsoleta è un problema che riguarda tutto il paese. Nel 2020, secondo i dati dell’Istat, il 36,2% dell’acqua immessa nella rete italiana è andata perduta, si tratta di 0,9 miliardi di metri cubi, una cifra che è difficile anche immaginare.
    Il problema è più accentuato a sud, e Crotone ne è uno degli esempi massimi. il presidente della Congesi, Claudio Lotti, nel 2021 si lamentava che la metà dell’acqua consegnata da Sorical si perdeva sotto terra.
    Senza contare che una buona porta dell’acqua viene persa a causa delle perdite delle tubature fatiscenti. Quando non finisce direttamente a mare.
    Proprio il Consorzio di Bonifica dello Ionio crotonese, ad agosto del 2021, ha denunciato un enorme spreco d’acqua. Secondo loro più di 200 milioni di litri cubi di acqua potabile all’anno finiscono per essere scaricati in mare.

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    Lungomare di Crotone (foto © Agostino Amato)

    «Un privato – spiega Claudio Lotti – viene legittimato a produrre energia e profitti con concessioni di uso di acqua pubblica e […], può tranquillamente sversare l’acqua a mare mentre, nei periodi di piena emergenza, pretende, dalla stessa Regione Calabria, quei rilasci in più che invece sono indispensabili per comuni ed imprese agricole e turistiche».
    L’attacco è rivolto alla A2A, la società idrica proprietaria delle centrali idroelettriche di Orichella, Timpagrande e Calusìa. Dall’azienda avevano fatto sapere che «quanto avviene alla risorsa idrica a valle dello scarico della centrale di Calusia non rientra nelle proprie prerogative di concessionaria né nelle proprie correlate responsabilità». Un rimpallo, che non aiuta di sicuro a mettere un freno allo spreco.

    Da ultimo, dobbiamo considerare la mancanza di piogge. Le province di Catanzaro e Crotone sono quelle dove la piovosità è stata più bassa negli ultimi anni. Un trend che rischia di aggravare una situazione che è già molto precaria.

    Se Crotone piange, la provincia non ride

    La malagestione delle condutture idriche è un male che infetta tutta la provincia di Crotone.
    La Sorical, lo scorso 18 maggio, ha chiesto ai sindaci di 15 comuni della zona di ridurre al massimo gli sprechi e di reprimere i furti d’acqua. Una richiesta quasi beffarda, per prepararsi ad un’estate che potrebbe essere problematica. A San Giorgio Albanese è stato sospeso il servizio di mensa scolastica per due giorni, per un guasto di una tubatura in località San Cosmo.
    Belvedere Spinello, Carfizzi, Casabona, Cirò, Cirò Marina, Crucoli, Melissa, Pallagorio, Rocca di Neto, San Nicola dell’Alto, Santa Severina, Savelli, Strongoli, Umbriatico e Verzino rischiano di subire interruzioni durante la stagione estiva.Alcuni centri stanno già vivendo le prime difficoltà.

    Molto spesso, a farsi sentire sono gli agricoltori, una delle categorie più colpite dalla mancanza d’acqua. Se manca l’acqua nei momenti sbagliati, i raccolti possono risentirne. Alcune colture possono andare perdute, vanificando mesi di lavoro.
    Lo scorso 20 aprile, gli agricoltori di Cutro ed Isola Capo Rizzuto si sono presentati in Regione, per parlare della mancanza d’acqua per i loro raccolti. A risentirne, sarebbero soprattutto le produzioni di finocchio e grano.

    L’estate scorsa, avevano scelto un metodo più vistoso. Il 27 agosto 2021, per esempio, è stata la volta dei trattori in autostrada. Una rappresentanza di questi agricoltori ha percorso le Statali 106 e 107 sui loro trattori, per protestare contro la A2A di fronte all’invaso di Calusia, nel comune di Crotonei. Una protesta simile l’avevano già portata avanti nel 2020.
    Nella storia dell’infinita crisi idrica crotonese, è difficile togliersi questa sensazione che tutto stia girando a vuoto.

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    Palazzine di edilizia popolare (Aterp) nella periferia di Crotone (foto © Agostino Amato)

     

  • Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi

    L’assoluzione, poi le lacrime di commozione dell’assolto più importante: Sandro Principe.
    Tutto questo, adesso, è cronaca che impazza per la rete e di cui si attendono approfondimenti già nelle prossime ore.
    Ma, alla fine di un’inchiesta cominciata nella prima metà del decennio scorso e di un processo di primo grado iniziato quattro anni fa, resta un dato: il “Sistema Rende” non esiste.
    Non, almeno, come lo aveva ipotizzato la Dda di Catanzaro.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende

    Non erano collusi con la ‘ndrangheta

    Secondo il collegio giudicante – presieduto da Stefania Antico e composto da Urania Granata e Iole Vigna – Principe, l’ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e l’ex assessore Pietro Paolo Ruffolo, non sono stati collusi con la ’ndrangheta cosentina, non hanno sollecitato voti né hanno fatto favori alle cosche. In termini giudiziari: il fatto non sussiste.
    Discorso più sfumato per Giuseppe Gagliardi, ex consigliere comunale di Rende ed ex assessore provinciale, finito a giudizio solo per corruzione elettorale e assolto anche lui.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Pietro Paolo Ruffolo, ex assessore del Comune di Rende

    Rende non è Gomorra

    Rende non è Gomorra, sebbene il processo Sistema Rende avesse già i suoi condannati, tutti attraverso il rito abbreviato.
    Si tratta di Adolfo D’Ambrosio e Michele Di Puppo, ritenuti affiliati al clan Lanzino-Rua (quattro anni e otto mesi a testa), dell’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli e di Marco Paolo Lento (due anni a testa).
    Rende non è Gomorra, tuttavia le cosche – e tutto il clima di veleni che ne accompagna la sola presenza – hanno pesato non poco nella vita (non solo politica) della città del Campagnano, ritenuta a lungo un modello civile e urbanistico.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Giuseppe Gagliardi, ex consigliere comunale a Rende ed ex assessore provinciale

    Sistema Rende

    I preliminari dell’inchiesta Sistema Rende sono iniziati nel 2012, subito dopo l’arresto di Ettore Lanzino, boss e “primula” delle cosche cosentine, beccato dai carabinieri del Ros proprio in un appartamento di Rende.
    L’arrivo della Commissione d’accesso antimafia in municipio fu questione di pochi mesi. E da quel momento in avanti prese il via uno stillicidio pesantissimo, a livello politico e poi giudiziario.
    Sono coincidenze, ci mancherebbe. Ma è doveroso rilevarle comunque: nel 2013, mentre la Commissione spulcia le carte del Comune, il sindaco Vittorio Cavalcanti, sostenuto (o, se si preferisce, imposto) da Principe, getta la spugna e Rende finisce commissariata.
    L’anno successivo, arrivano altri due stop per Principe: nella primavera 2014 i riformisti perdono clamorosamente contro la coalizione di centrodestra, guidata da Marcello Manna, e nell’autunno seguente il Pd nega la ricandidatura dello stesso Principe al Consiglio regionale.
    In tutto questo hanno pesato i sospetti di mafiosità? Impossibile dirlo. Ma occorre ricordare che l’inchiesta Sistema Rende ricostruisce gli ultimi anni ruggenti della leadership di Principe, che tocca il culmine nelle provinciali del 2009, con l’elezione di Ruffolo, Bernaudo e Gagliardi, e nelle amministrative del 2011, quando Cavalcanti diventa sindaco al posto di Bernaudo.

    Voti infetti?

    Secondo le ipotesi dell’accusa, rappresentata nel processo dall’attuale procuratore capo di Paola Pierpaolo Bruni, i voti delle cosche avrebbero avuto il loro ruolo in questi exploit. E, viceversa, gli amministratori di Rende avrebbero agevolato non poco le “coppole”.
    Queste accuse hanno raggiunto il massimo nel 2016, con l’arresto eccellente di Principe, poi revocato dal Riesame. Rende, a partire da quell’anno, non è più l’isola felice.

    Il paradosso Lanzino

    Nel 2012, quando finì in manette Ettore Lanzino, Marcello Manna non pensava di candidarsi a sindaco di Rende. Si limitava a fare manifestazioni coi Radicali e navigava in quell’area liberalsocialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra.
    Soprattutto, era l’avvocato di Lanzino, che avrebbe difeso fino al 2018, cioè fino al rinvio a giudizio di Principe.
    Ovviamente non c’è alcuna relazione tra la professione (e gli assistiti) e il ruolo politico di Manna. È solo un paradossale gioco di porte girevoli, grazie al quale un leader finisce in manette per presunte collusioni con un boss e l’avvocato di quest’ultimo gli fa le scarpe a livello politico.
    Di più non è possibile (né bello) dire, perché c’è di mezzo la democrazia. E la democrazia dice che i rendesi hanno scaricato da otto anni in qua il meccanismo politico creato da Principe.

    Il paradosso salernitano

    Il discorso è speculare per Marcello Manna, su cui pende tuttora la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione in atti giudiziari presso il Tribunale di Salerno per la nota vicenda dell’ex giudice Marco Petrini.
    Questa vicenda, sia chiaro, riguarda l’attività professionale di Manna e non il suo ruolo di sindaco. Che sia così lo hanno ribadito i magistrati che si occupano di questo delicatissimo procedimento, con la conferma dell’interdizione dall’esercizio dell’avvocatura a Manna, ma senza alcuna conseguenza politica. Una beffa del destino.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Le porte girevoli

    Marzo è il mese pazzo per eccellenza. Ma maggio può fare scherzi peggiori. Il mese è iniziato con tre scenari possibili.
    Il primo: proscioglimento di Manna e condanna di Principe. Quest’ipotesi avrebbe comportato senz’altro la fine del riformismo rendese e avrebbe fatto colare un bel po’ di fango anche sulle sue innegabili realizzazioni
    Secondo scenario: proscioglimento di Manna e Principe. Ormai è un’ipotesi astratta, anche se bella. Se si fosse realizzata, tutto sarebbe finito in un pari e la parola sarebbe ritornata alla politica.
    Terzo scenario: assoluzione di Principe e rinvio a giudizio di Manna. Non ci si pronuncia per elementare e doveroso garantismo. Tuttavia, visto che Manna ancora non ha deciso se optare per il rito abbreviato o per quello ordinario, quest’ipotesi è quasi certa e potrebbe rimescolare non poche carte.
    Di sicuro il sindaco ne uscirebbe indebolito di fronte al tribunale dell’opinione pubblica, l’unico che conti per un politico. Principe, al contrario, si rafforzerebbe. Anche a dispetto di alcune figuracce (ricordate la storia del “lazzo”?) che gli sono costate le elezioni del 2019 e che sono passate di prepotenza negli annali del trash.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Una veduta aerea di Rende

    La città nel mezzo

    Stanco, commosso e insolitamente pacato, Sandro Principe ha rilasciato una dichiarazione un po’ confusa non appena lui e i suoi sodali sono stati assolti con formula piena.
    Ma nel mezzo di questa vicenda decennale, iniziata con un arresto eccellente, e trascinatasi tra tante contraddizioni, resta Rende, che non è più quella degli anni d’oro.
    Il bilancio non è evaporato come quello di Cosenza, ma resta a forte rischio e la fama di oasi è un ricordo.
    La città è passata da “modello” a “sistema” e resiste come può al declino, che c’è anche se è meno visibile rispetto al resto dell’area urbana.
    Tuttavia, la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Cosenza fa chiarezza su un punto: la poltrona di sindaco a Rende non scotta più. E di questi tempi non è poco…

  • Mimmo Lucano, al via l’appello

    Mimmo Lucano, al via l’appello

    Non è in aula Mimmo Lucano quando, poco dopo le 10, prende formalmente il via il processo d’appello che lo vede coinvolto assieme ad altri 17 imputati. «Non cerco alibi ma non rinnego niente di quanto ho fatto. Credo nella giustizia, ma nella giustizia degli ultimi, in quella giustizia che una volta si chiamava giustizia proletaria»: dal palco di una manifestazione targata Cgil a Chiaravalle, l’ex sindaco di Riace continua a tirare dritto per la sua strada. Rivendica il lavoro fatto nel “laboratorio” del paese dell’accoglienza. E difende alcune scelte – come quella di non allontanare i migranti alla scadenza dei sei mesi previsti dai regolamenti dei progetti d’accoglienza – che gli sono costate, almeno in parte, la pesante condanna emessa dal Tribunale di Locri.

    Entrerà comunque nel vivo solo nell’udienza del prossimo 6 luglio il processo di secondo grado relativo all’indagine Xenia. Sarà allora che i giudici relazioneranno sulle posizioni dei presunti capi dell’associazione a delinquere che avrebbe compiuto «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità» sulle risorse che arrivavano in paese per i numerosi progetti di inclusione e accoglienza che avevano fatto di Riace un miracolo da studiare all’università.

    La condanna

    Saranno i giudici di piazza Castello a decidere se, come dicono le oltre 900 pagine di motivazioni alla sentenza del primo giudice, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano». Un’associazione che avrebbe agito alle spalle degli stessi migranti, riducendo l’intero progetto «a forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore».

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    Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena

    Motivazioni pesanti come macigni e attraverso cui, il collegio locrese ha determinato, nei confronti di Lucano, una condanna a 13 anni e rotti di carcere per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali di cui era imputato). Una condanna andata ben oltre le richieste dei pm dell’accusa, che in sede di requisitoria avevano avanzato per l’ex sindaco una richiesta a 7 anni e 10 mesi di reclusione. E che di fatto ha scritto la parola fine sull’intero progetto d’accoglienza che, scrivevano i giudici di primo grado, si era ridotto ad un “baraccone” «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo».

    Mimmo Lucano in appello

    E se durissime erano state le motivazioni redatte dal collegio locrese, altrettanto dura era stata la richiesta d’Appello presentata dai legali dell’ex primo cittadino di Riace, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che quella stesa sentenza l’avevano bollata come «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza». Ben 140 pagine di argomentazioni dettagliatissime che il collegio difensivo del “curdo” aveva utilizzato per provare a smontare pezzo per pezzo la verità venuta fuori dal primo grado di giudizio. Sia dal punto di vista del riscontro politico che da quello giudiziario.