Umberto Calabrone è il nuovo segretario della Fiom Cgil della Calabria. Prende il posto di Massimo Covello. Calabrone sarà ufficialmente ancora segretario della Cgil di Cosenza fino al prossimo 20 dicembre.
«Ho affrontato più volte giornate come quella di oggi, anche con molte più tensione, ma le forti emozioni che mi hanno trasmesso le compagne e i compagni della Fiom rimarranno per sempre nel mio cuore e nella mia testa». Sono parole espresse dal segretario Calabrone in un post sulla sua pagina Facebook.
«Un grazie particolare a Massimo Covello – ha scritto Calabrone – per il grande lavoro svolto e per il sostegno che mi ha sempre dato».
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Calabrone è il nuovo segretario della Fiom Cgil Calabria
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Cosenza è già la palla al piede della città unica
L’anello debole della città unica Cosenza-Rende è proprio il capoluogo bruzio. Perde abitanti e servizi. E con i conti in rosso che si ritrova sarebbe una palla al piede per gli altri. Compresi Montalto Uffugo e Castrolibero, due feudi non proprio desiderosi di farsi inglobare da sorelle maggiori così ingombranti.
Nessuno si chiede: i cittadini-contribuenti sono disposti a pagare i debiti dei vicini? E parlare di aria vasta per indorare la pillola non migliora né la situazione, né la percezione del problema. Il sindaco di Mendicino, Antonio Palermo, pensa a giocare la carta Pandosia, intanto, emulando il percorso di Casali del Manco.
Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto Alfonso Bombini) E se i conti migliorano pure a Rende?
Lo ha annunciato assessore al Bilancio del Comune di Rende, Fabrizio Totera. E così in «meno di otto anni» arriverà – a suo dire – entro dicembre 2022 l’uscita dal pre-dissesto.
Una boccata d’ossigeno proprio nel momento di peggiore crisi della maggioranza consiliare oltre Campagnano dopo due inchieste giudiziarie che hanno innescato inevitabilmente, se non un terremoto, almeno uno smottamento politico. Resta il divieto di dimora per il sindaco Marcello Manna (ma è caduta l’accusa di presunta corruzione), mentre continua l’interdizione del vicesindaco Anna Maria Artese.

Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini) Dopo l’annuncio trionfale di Totera, il movimento RendeSì ha messo in guardia dai facili entusiasmi del momento: «Solo la Corte dei Conti può certificare l’uscita dal pre-dissesto».
Intanto Forza Italia si dichiara «autonoma» rispetto all’intero consiglio comunale per bocca del commissario cittadino, Eugenio Aceto. E dice di «non condividere diverse scelte della maggioranza». Non è ancora un divorzio, tuttavia ha il sapore di un appoggio esterno.Un debito che fa paura ai vicini
La storia delle finanze in crisi del Comune di Cosenza affonda le radici nel 1876 quando divenne primo cittadino un certo Francesco Martire. Ma il primo dissesto vero e proprio arriva nel 2019. Sindaco era Mario Occhiuto, attuale senatore di Forza Italia. Una situazione contabile precaria ereditata inevitabilmente da Franz Caruso, subentrato alla guida della città dopo l’architetto. La leva del debito facile è stata azionata per primo in maniera massiva da Giacomo Mancini. Erano altri tempi e Roma ci metteva sempre una pezza sopra.

L’incontro sulla città unica organizzato dalla parlamentare della Lega, Simona Loizzo Città unica Cosenza-Rende? Un salotto bipartisan in casa Loizzo
L’incontro sulla città unica organizzato dalla parlamentare della Lega, Simona Loizzo, non ha ceduto alle solita noia del politicamente corretto. Per il senatore Mario Occhiuto «la città unica esiste nei fatti». In concreto «non l’hanno voluta né Principe, né Manna».
Sandro Principe ha risposto per le rime: «Lo sguardo di Occhiuto non andava oltre le cinte murarie di Cosenza»
Il senatore di Forza Italia, Mario Occhiuto (foto Alfonso Bombini 2022) Picconate e analisi dell’ex sottosegretario socialista con un occhio all’esperienza recente di Corigliano-Rossano: «Territori in crisi profonda». Perché «i matrimoni riusciti hanno bisogno di lunghi fidanzamenti».
Principe non crede nella fusione a freddo. Preferisce partire con servizi condivisi e piccoli passi. Una posizione non dissimile è quella del coordinatore di Forza Italia a Rende, il già citato Eugenio Aceto. A margine del confronto, ha commentato: «Io sono per la città unica, ma le condizioni sono confronto sui Bilanci e unificazioni dei servizi». In questo senso, la bruzia Amaco sull’orlo del fallimento non aiuta.
Guccione c’è, Franz Caruso declina l’invito
In realtà Principe, da politico navigato, sa bene e ha il timore che gli incentivi dello Stato per una futura città unica Cosenza-Rende potrebbero essere pochi e, forse inutili, rispetto al debito consistente dei cugini spendaccioni di Palazzo dei Bruzi.

Da sinistra Sandro Principe (di spalle); Carlo Guccione; Mario Campanella; Mario Occhiuto (foto Alfonso Bombini 2022) Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso ha declinato l’invito a partecipare all’incontro. Gli attacchi dei compagni di partito non hanno fermato, invece, Carlo Guccione, responsabile Sanità per il Pd nel Sud, presente al focus in casa del Carroccio. «Non c’è un progetto di area urbana di centrodestra e di centrosinistra, ma una necessità unica» – ha evidenziato. Del resto l’ex consigliere regionale è uno dei sostenitori più radicali e convinti della “Grande Cosenza”.

La parlamentare della Lega, Simona Loizzo (foto Alfonso Bombini 2022) Città unica nel metaverso
Simona Loizzo aveva presentato una proposta di legge regionale per la città unica Cosenza-Rende da consigliere regionale. E ha promesso di continuare a lavorarci anche da parlamentare. «I confini territoriali sono dentro di noi» – ha commentato la deputata del Carroccio. Nella costruzione di «un ospedale che sarà azienda sanitaria universitaria, nell’area urbana della cultura e della digitalizzazione» vede tre strade da seguire. E non è un caso se Fabio Gallo, a capo del Movimento Noi che punta molto sulle leve del digitale, era nelle prime file ad ascoltare con attenzione. Perché la città unica nel metaverso forse è possibile, quella reale sembra ancora in balia di un dialogo tra sordi.
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Marcia su Roma e cifre tonde: un imbarazzante spauracchio
Gli addetti ai lavori l’avevano ovviamente previsto (anzi, direi, “messo in conto”, un po’ nel bene e un po’ più in mala fede). Gli osservatori attenti se ne saranno accorti in tempo. La restante fetta di fruitori percepisce, assorbe acriticamente e poco elabora, in ossequio alla distinzione già aristotelica fra chi possiede logos e chi solo doxa, opinioni: in vista del centenario della marcia su Roma, gran parte dell’editoria italiana (non soltanto scientifica) si è prodigata in pubblicazioni a tema mussoliniano e/o fascista, declinate ora sul romanzesco, ora sull’equilibrismo tra il censorio e il garbato coccodrillismo.

La vetrina di una libreria In coda, istituzioni culturali, società storiche, archivi di Stato, deputazioni di Storia patria, obbligati a fare i conti con due numeri di 8 cifre assai simili (28101922 e 28102022), in virtù del mai sopito potere seduttivo del sistema decimale. I due numeri non sono utenze telefoniche e tuttavia hanno chiamato la suddetta compagine all’appello. Qual è il risultato? È un altro dato prevedibile, per alcuni: ovvero che del fascismo non si sa ancora parlare.
Del fascismo non si sa ancora parlare
Questo profluvio di pubblicazioni e di convegni, ha indici e programmi la cui eloquenza lascia quasi sempre abbastanza a desiderare, al netto del prestigio di taluni contributori. Si tratta perlopiù di retrospettive su questo o quello specifico personaggio, su questo o quell’evento relativo agli albori del fascismo o – fuori luogo – su qualche parentesi resistenziale che poco c’entra col centenario.

Saluti romani a Predappio, città natale di Benito Mussolini, in occasione del centenario della marcia su Roma Sia chiaro sin d’ora: ovviamente solo forzanovisti, casapoundisti e compagnia marciando potrebbero auspicare una vera e propria “celebrazione” della ricorrenza anziché un mero riferimento asettico e di riflessione. E ci mancherebbe altro: non è questo il punto. Il punto è che cent’anni – diciamo pure un’ottantina – sono serviti assai poco a formare una seria coscienza critica rispetto alla salita al potere del regime fascista.
Duelli e imbarazzi
Qualcuno lo temeva e prevedeva già negli anni ’50: l’Italia non farà mai i conti col Ventennio, senza riuscire mai ad elaborare e metabolizzare tutto l’accaduto e soprattutto le ragioni dello stesso, e resterà stretta nella morsa del manicheismo fra buoni e cattivi, fra belli e brutti, rossi e neri (con prevedibile gioia dei bianchi, poiché tertium datur eccome!). La qual cosa riesce, oltre che ingiusta, anche un po’ ridicola e finanche imbarazzante per i protagonisti di tanta parte della storia politica – e culturale – dell’Italia repubblicana, tenuto conto del camaleontismo italico, dell’epurazione all’acqua di rose, dell’amnistia firmata Togliatti eccetera.

Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento Il caso vuole – e questo è proprio un caso – che l’anniversario cada all’alba di un governo di destra, e ciò rende a molti ancora più imbarazzante un riposizionamento visibile (e allora, pensano gli stessi molti: meglio non farsi vedere affatto, almeno per un po’). Questo è il guaio: che di talune cose o si parla con una certa colorazione o non se ne può parlare affatto, con tutta la pavida ottusità di ritenere che parlare di un fascista significhi per forza vestirsi da fascista, neofascista o nostalgico che dir si voglia, senza distinguere la biografia dall’agiografia: ma che candore!
Una scelta di comodo
Di certi argomenti, insomma, non si riesce ancora a parlare con la dovuta e auspicabile serenità, sopraffatti da decenni di vulgata monocorde, comprensibile per via di una sedimentazione ideologica e pertanto culturale decennale: una stratificazione in cui abbiamo “imparato” a dare per scontati alcuni dati di fatto (o non-fatto) e meno altri; alcune certezze assai più apparenti che reali. Perché? Perché è comodo, perché è facile e rasserenante scegliere la via più breve. La quale, però, a ben vedere è la stessa identica via breve che – mutatis mutandis – può sempre portare a scorciatoie molto accidentate e pericolose.
La marcia su Roma e la prova generale a Napoli
Sto uscendo forse dal mio stesso seminato e certamente sto rimanendo sul vago. Ma, per essere più specifico, il tema meriterebbe un trattato che non ho il tempo di scrivere (né, francamente, tutta questa gran voglia). La marcia su Roma, si sa, ha radici più vecchie e anche poco mussoliniane: fu D’Annunzio a concepirla già un anno prima, e a programmarla per il 4 novembre ’22 prevedendovi anzitutto l’adesione di reduci e combattenti. E proprio a D’Annunzio i vari De Ambris, Balbo, Michele Bianchi e Dino Grandi avrebbero conferito per l’occasione la direzione degli squadristi.

Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi ne “La marcia su Roma” (Dino Risi, 1962) Curiosamente o, anzi, assai comprensibilmente, sopravvivono più fotografie della “prova generale” della marcia che della marcia stessa: intendo quel Congresso tenuto a Napoli, in piazza del Plebiscito, pochi giorni prima. E mica c’era solo la spina nel fianco del reducismo che chiedeva conto del suo sacrificio: ragionevole era pure l’appoggio offerto al fascismo da parte degli industriali o dell’aristocrazia e della borghesia, per non dire della monarchia e del Vaticano. Chi meglio di un movimento nuovo, progressista, anticlericale e antisocialista – come appunto il fascismo degli albori, sottolineo degli albori – avrebbe potuto ispirare fiducia?
Fascisti insospettabili (o quasi)
Si pensi che tra i maggiori oblatori in favore della causa fascista ritroviamo aziende e privati oggi insospettabili (o quasi), ad esempio Voiello, Cirio, Citterio, Peroni, Cinzano, Wührer, Pedavena, Piaggio, FIAT, Isotta Fraschini, Paravia, Lips Vago, Manetti & Roberts, Rueping, e ancora il comm. Luigi Bertarelli, fondatore del Touring Club, nonché esponenti dell’aristocrazia fiorentina e marchigiana come i Ricasoli, gli Strozzi, i Ginori, i Della Gherardesca, i tre conti Gentiloni Silverj e i tre conti Tomassini. Perché mai i vari gruppi di potere o comunque ‘diffusi’ e con interessi da tutelare non avrebbero dovuto assicurarsi la propria fetta di appoggio, una propria garanzia? Era più che lecito cercare altri interlocutori politici, oltre a quelli già presenti e non ostili.

Cosenza, piazza XXV luglio, già piazza XXVIII ottobre (rione Michele Bianchi) Fin troppo semplice istruire un processo alle intenzioni e giudicare i fatti a un secolo di distanza, con la cognizione maturata, a posteriori, di ciò che il fascismo divenne nel corso del Ventennio, di quali furono le sue pecche e quali i danni che procurò al Paese. Bisogna invece calarsi in quel preciso frangente storico e guardare i fatti con gli occhi di chi li vedeva accadere sul momento. Nessuno aveva la sfera di cristallo né nel 1919, al momento della fondazione del movimento, né quando si preparava e si attuava la marcia, né quando i fascisti entrarono in parlamento e nemmeno con le varie violenze perpetrate prima d’allora. No, nemmeno con quelle, ché non erano le uniche.
Il delitto Matteotti come spartiacque
La percezione del vero – o del nuovo – volto del fascismo fu indiscutibilmente chiara al grande pubblico soltanto nel 1924 con l’omicidio Matteotti. Pochi, prima del 28 ottobre, avrebbero previsto la longevità che un regime, dalle fattezze oggi note, avrebbe riservato. Tanti vi credettero in buona fede. In ogni caso, di marcia si parlò e poco più che di una marcia si trattò, a dispetto di qualche narrazione fin troppo gloriosa e apologetica rispetto al reale evento. Un film non notissimo ma esemplare, riesce a restituire perfettamente la natura della partecipazione alla marcia, attraverso le maschere di Vittorio Gassman e di Ugo Tognazzi nella pellicola tragicomica di Dino Risi intitolata, appunto, La marcia su Roma (1962).
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Meno di mille voti per eleggere un deputato
Si fa presto a criticare (magari non a torto) l’attuale sistema elettorale, che, grazie al taglio dei parlamentari, limiterà tantissimo la rappresentanza calabrese.
Ma in passato era decisamente peggio, perché la democrazia era un affare di élite, riservato a borghesi, possidenti e “altolocati”.
Fatta l’Italia, si prese subito atto che gli “italiani” (cioè i cittadini che avevano partecipato ai moti risorgimentali o erano comunque in grado di partecipare alla vita pubblica) erano pochini.
E il sistema elettorale funzionava di conseguenza. Vediamo come.Le prime elezioni
Le prime elezioni politiche della storia d’Italia si svolsero il 27 gennaio 1861.
Il clima non era dei più facili: i resti dell’esercito duosiciliano ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta e di Messina, che si sarebbero arrese l’11 febbraio e il 13 marzo di quell’anno.
Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie Ancora: re Francesco II di Borbone avrebbe abdicato al trono e al titolo reale solo dieci anni dopo circa. La sua rivendicazione politica avrebbe ispirato a lungo le bande dei briganti, particolarmente diffuse nella Calabria Citra e in parte del Catanzarese.
Ma questa è un’altra storia.Chi poteva votare
L’Italia e la Calabria dell’epoca sono realtà rurali, con larghe sacche di analfabetismo e povertà diffusa.
La legge utilizzata per eleggere il primo Parlamento italiano è quella del Regno di Sardegna, adattata a un territorio grande poco più del 70% di quello attuale: ancora mancano alla conta il Lazio e il Veneto.
Per votare occorrono quattro requisiti: il sesso maschile, l’età superiore a venticinque anni, essere alfabetizzati e poter pagare almeno quaranta lire annue di tasse.
Questa regola ha delle eccezioni. La prima, più vistosa, riguarda i sardi, ammessi al voto anche se analfabeti.
La seconda, invece, è relativa ad alcune categorie, che possono votare anche a prescindere dalla capacità fiscale.
Sono i “colti” e i professionisti. Cioè i membri delle accademie e degli ordini cavallereschi, i professori universitari, i laureati, i dipendenti dei tribunali e delle procure, i professionisti della Sanità e quelli legali, i funzionari pubblici, civili e militari, in servizio.
Camillo Benso conte di Cavour La legge elettorale
Occorre ricordare che nel 1861 il Senato è nominato dal re e tale rimarrà fino alla caduta del fascismo.
Dunque, si vota solo alla Camera, dove sono in palio 443 collegi uninominali, che diventeranno 493 con l’annessione del Veneto e 508 con quella del Lazio.
Il meccanismo elettorale è un uninominale su due turni potenziali. Detto in pillole, se nessuno prende il 50% più uno, si va al ballottaggio. Se si libera qualche posto durante la legislatura, si va alle elezioni suppletive. Fin qui, il sistema politico italiano degli esordi è in linea con quelli europei, dove gli elettori effettivi sono di più solo perché è maggiore il benessere diffuso.Gli elettori
Quanti sono gli italiani in grado di votare al momento dell’Unità? La risposta non è proprio consolante: l’1,9% dei cittadini residenti.
Infatti, i singoli collegi elettorali sono costituiti da mille elettori al massimo.
In Calabria, la situazione è peggiore. Al momento dell’Unità i calabresi al voto sono poco più dell’1% . Questa percentuale sale all’1,63% nel 1870 e tocca l’1,82% nel 1880. In pratica, votano circa diciannove persone ogni mille abitanti.
La percentuale è sconfortante anche nel quadro complessivo del Paese.
I privilegiati sono soprattutto i proprietari (60%), le “pagliette bianche” (cioè i professionisti: 10%), i funzionari civili e i sacerdoti (15%).
In pratica, tutti i pochissimi benestanti di una società basata sul latifondo.
Contadini calabresi di fine ‘800 Calabria in controtendenza
Ma questi pochissimi votano di più rispetto alla media nazionale e a quella del Mezzogiorno.
Le prime Politiche, infatti, sono caratterizzate da un forte astensionismo: a livello nazionale vota solo il 56,4% degli aventi diritto. Nel Sud la percentuale si alza di un po’ e arriva al 63,2%. La Calabria batte tutti col suo 65,7%.
Di più: la regione è in controtendenza anche per le scelte politiche: mentre il Paese premia la Destra cavouriana, da noi vince la Sinistra storica, sebbene in un quadro di lotte e intrighi piuttosto complesso.I cosentini al Parlamento
Particolarmente interessante risulta la pattuglia dei deputati cosentini, eletta dai dieci collegi della provincia.

Vincenzo Sprovieri Il primo è Giuseppe Pace, esponente della Destra, eletto a Cassano con 301 voti su 774 aventi diritto e 551 votanti effettivi.
Il collegio di Castrovillari, dove votano 973 aventi diritto, esprime l’indipendente Antonio La Terza, che prende 329 preferenze su 761 elettori effettivi.
Corigliano, invece, esprime Vincenzo Sprovieri delle Sinistra storica, che prende 468 voti su 622 votanti effettivi (gli aventi diritto sono 801).
A Cosenza la Destra si prende la sua rivincita: passa Donato Morelli, che ottiene 276 voti su 557 votanti effettivi in un collegio costituito da 909 aventi diritto.
A Paola gli aventi diritto sono decisamente meno: 689. Il collegio esprime Giuseppe Valitutti della Sinistra storica, che prende 339 voti su 550 votanti.
Ancora meno, 624, gli aventi diritto a Rogliano, dove vince Gaspare Marsico della Sinistra storica con soli 173 voti su 345 votanti.
Rossano ha 625 aventi diritto. Gli elettori effettivi sono 466 e 285 di questi eleggono Pietro Compagna della Destra.
A San Marco, che ha 606 aventi diritto, la spunta Giovanni Mosciaro della Sinistra storica con 288 voti su 519 votanti.
Spezzano Grande elegge Gabriele Gallucci della Destra, con soli 164 voti. I votanti sono 278, gli aventi diritto 472.
A Verbicaro vince Francesco Giunti della Sinistra storica, che prende 348 voti su 568 votanti. Gli aventi diritto del collegio sono 757.
Giovanni Nicotera I trombati
La maggior parte degli eletti proviene dal notabilato locale, che ha fatto le sue fortune sulle grandi proprietà, ottenute prima dell’Unità nazionale e non sempre in maniera cristallina.
Tra i grandi trombati, invece, ci sono altri protagonisti del Risorgimento.
Tra questi, alcune figure di prima grandezza della storia regionale e non solo: il patriota e intellettuale Domenico Mauro, il futuro ministro Luigi Miceli e Giovanni Nicotera, anche lui futuro protagonista dei governi della Sinistra storica.
I tre, battuti in casa dai notabili, rientrano alla Camera grazie a candidature mirate in collegi fuori regione.
La Calabria entra nella storia unitaria con il suo solito vizio: boccia i migliori e preferisce i notabili. -

Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato
Soffiano ancora i venti della rivolta di Reggio Calabria, quando si parla per la prima volta del porto di Gioia Tauro, che avrebbe dovuto rappresentare l’affaccio sul mare del Quinto centro siderurgico, un sogno svanito al pari delle altre promesse contenute all’interno del cosiddetto “Pacchetto Colombo”: le Officine Grandi Riparazioni e la Liquichimica di Saline Joniche.

La zona del Quinto centro siderurgico durante i lavori del 1976 (foto Michele Marino) Oggi di quell’opera non resta che uno scheletro che costeggia la SS106, la “strada della morte”. Uno scenario in cui si sarebbe potuta girare la serie Chernobyl: quel pilone altissimo e, attorno, ruderi, capannoni e paludi.
Saline Joniche è lo specchio dello sviluppo che non c’è in Calabria. Con la devastazione del territorio ancora lì, come monito, a distanza di decenni. E a nessuno con i tanti, tantissimi, fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è venuta in mente un’idea per provare a rilanciare quell’area in provincia di Reggio Calabria.La stagione dei grandi appalti

I Moti di Reggio Agli inizi degli anni Settanta, conclusi i giorni della rivolta, venne la stagione dei grandi appalti. Un fiume di finanziamenti pubblici inondò Reggio e provincia per la realizzazione di alcune grandi opere. Tra queste, la Liquichimica, il V Centro Siderurgico ed il raddoppio della tratta ferrata Villa S. Giovanni-Reggio Calabria. La prospettiva degli insediamenti industriali e l’esecuzione di alcuni lavori costituiranno quindi il casus belli tra il gruppo emergente della ’ndrangheta, che annoverava nuove leve che sarebbero entrate nella storia della criminalità, e la vecchia generazione che aveva la necessità di riaffermare palesemente il proprio prestigio.
Da un lato ci sono uomini come i fratelli De Stefano, ma anche Pasquale Condello e Mico Libri; dall’altro ’Ntoni Macrì e don Mico Tripodo. Sono tutti interessati ad opere che non verranno, di fatto, mai realizzate. O che, comunque, non porteranno alcun effettivo beneficio al territorio. Ma alle cosche sì. Grazie a quelle “truffe” governative, la ’ndrangheta si arricchisce e fa il salto di qualità.

Antonio Macrì La crescita della cosca Iamonte
L’area di Saline Joniche sarà solo un enorme affare per i clan. Come spesso è accaduto in passato. Come spesso accade ancora oggi. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 le cosche calabresi non sono ancora egemoni nel traffico internazionale di droga. Ma proprio attraverso quei denari riusciranno a costruire il proprio futuro. La ‘ndrangheta come la conosciamo oggi è così anche grazie a quei grandi affari. Emblematica, in tal senso, l’ascesa del gruppo Iamonte, una famiglia di macellai assurta oggi al Gotha della criminalità organizzata calabrese. Anche grazie all’affare della Liquichimica e delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato.
Ne parla, in particolare, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, uno dei primi e più importanti pentiti della storia della ‘ndrangheta: «[…] La cosca Iamonte è cresciuta attraverso gli appalti della Liquichimica e del porto di Saline Joniche… Ulteriore fonte di arricchimento è poi derivata dalla costruzione dell’Officina riparazione treni sita in Saline Joniche. In sostanza la famiglia Iamonte riceveva tangenti dall’impresa Costanzo di Catania, che è risultata aggiudicataria dell’appalto per la costruzione dell’officina di cui sopra. La tangente veniva pagata grazie all’intervento di Nitto Santapaola e Paolo De Stefano…»
La droga a Saline Joniche
Ma il canale ben presto si allarga. Proprio al traffico di droga. La merce che giungeva a Saline Joniche, suddivisa in partite, non era diretta a Iamonte, bensì all’organizzazione De Stefano-Tegano e a quelle di Nitto Santapaola, di Domenico e Rocco Papalia di Platì e dei Calabrò di San Luca. Perché far sbarcare la droga, e in alcune circostanze anche delle armi, proprio a Saline? Natale Iamonte riusciva a ottenere una copertura da parte delle forze istituzionalmente preposte al controllo del porto. Poi, a fronte della “base logistica” fornita, percepiva da tutti i destinatari della merce una percentuale. O in sostanza stupefacente, come nel caso di Nitto Santapaola, o in denaro contante.

Nitto Santapaola Ancora dal racconto di Barreca: «Successivamente il clan Iamonte instaurò un binario proprio e autonomo con Nitto Santapaola in funzione del traffico di stupefacenti […]». Santapaola, quando aveva necessità di individuare coste “sicure” per i suoi traffici non esitava a utilizzare quel territorio sotto il controllo completo della cosca Iamonte. Come infatti ha dichiarato, il 27 novembre 1992, Barreca: «[…] Per quanto concerne il traffico di stupefacenti Natale Iamonte e i figli rifornivano buona parte della provincia di Reggio Calabria e di Milano. La droga arrivava via mare, con navi provenienti dal Medio Oriente che attraccavano nel porto di Saline Joniche».
Il rapimento Di Prisco
In questo contesto si incastra il rapimento del giovane napoletano Giuseppe Di Prisco. È il 1976, quelli sono gli anni d’oro della ’ndrangheta con i sequestri di persona. Ma quello di Di Prisco è diverso. Viene effettuato non tanto per il riscatto – che alla fine venne pagato: 180 milioni – quanto per costringere la madre del ragazzo, la baronessa Maria Piromallo Di Prisco a piegarsi. A cedere, cioè, per una cifra identica alla parte di terreno di sua proprietà su cui doveva sorgere la Officina Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato. A mettere in atto il rapimento, la cosca Iamonte di Melito Porto Salvo.
È la stessa baronessa a raccontarlo nel processo che vede imputato e condannato Natale Iamonte. La donna conferma di essere proprietaria dei terreni in Saline Joniche, oggetto di esproprio per dar vita ai due impianti. La Di Prisco si era opposta all’esproprio connesso alla realizzazione della Liquichimica in quanto le venivano formulate offerte imprecise e generiche. Non si era mai giunti alla determinazione della cifra e aveva dato incarico di fare opposizione. La donna avrebbe ricevuto visite di personaggi che si qualificavano rappresentanti dell’Ente ferrovie. Che talvolta le offrivano somme elevate e altre le avanzavano non molto velate minacce («peggio per lei se…» o «meglio per lei se accetta»).
Offerte (più o meno adeguate) e minacce (più o meno esplicite), prima di passare alle vie di fatto. Mandante del rapimento sarebbe proprio Natale Iamonte, il vecchio patriarca della famiglia. Il sequestro di Giuseppe Di Prisco, uno studente ventiduenne, avviene il 22 settembre 1976, poco dopo mezzanotte. In quel momento il ragazzo si trovava nei pressi dell’ingresso della sua proprietà insieme a un amico ad ascoltare musica in macchina.
L’auto venne ritrovata il giorno successivo in zona pre-aspromontana. Seguirono settimane di trattative e di incontri con intermediari. La richiesta iniziale di riscatto era di due miliardi. All’improvviso i sequestratori abbassarono la richiesta e si accordarono per il pagamento di una cifra di 180 milioni. Il padre del ragazzo, l’avvocato Massimo Di Prisco, pagò l’11 dicembre 1976 lungo una strada che gli era stata indicata, quella che da Melito Porto Salvo sale a Gambarie. Successivamente, vi fu un periodo di silenzio e il ragazzo non venne rilasciato. Fino alla data del 3 gennaio del 1977, quando avvenne la liberazione.
I motivi del sequestro
Il collaboratore di giustizia Filippo Barreca parla di un sequestro “anomalo”. Era stato «architettato da Natale Iamonte ed è stato portato a termine dai fratelli Tripodi, i quali sono uomini di Natale Iamonte». Tutto finalizzato ad addomesticare i Di Prisco per far sì che cedessero la loro proprietà. La Liquichimica doveva sorgere ad Augusta, ma era stata spostata per volere di politici importanti in Calabria. Lo Stato aveva stanziato migliaia di miliardi e l’azienda non era destinata a funzionare.

Natale Iamonte Stando al racconto di Barreca, l’obiettivo del sequestro era quello di conseguire «l’esproprio del terreno. In poche parole, subito dopo il sequestro, il tutto fu sbloccato, mi riferisco agli anni 1976, perché il sequestro avvenne nel 1976 e subito dopo la liberazione dell’ostaggio il tutto fu appianato e quindi iniziarono i lavori per la prosecuzione dello stabilimento della Liquichimica di Saline Joniche». L’altro importante collaboratore degli anni Novanta, Giacomo Lauro, racconta del ruolo degli Iamonte sul sequestro: «Proprio fatto apposta per usufruire di quei terreni dove poi le Ferrovie dello Stato, mi ricordo sempre la frase, “si cambia…”».
La morte dell’ingegnere Romano
A rendere la storia della Liquichimica ancora più oscura e inquietante è la morte dell’ingegnere Romano, allora direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, che stilò una perizia in cui sconsigliava l’uso di quel terreno perché altamente instabile. La perizia, infatti, sparì e i lavori proseguirono. Il direttore si oppose ma poi morì in uno strano incidente stradale. La sentenza racconta di una «zona grigia fatta di politica, ’ndrangheta e massoneria».
Dell’accaduto parla anche il collaboratore di giustizia Barreca: «Nelle more di questo fatto si era verificato un episodio: l’uccisione fu fatta passare come un banale incidente, l’uccisione del capo del genio civile Romano. In buona sostanza, il Romano aveva ostacolato con una relazione, perché si era verificato uno smottamento, la prosecuzione dei lavori per via del terreno su cui era sorta la Liquichimica. Si trattava di un tecnico di alta professionalità, che poi fu sostituito». Al posto di Romano arriva un altro tecnico che Barreca definisce «molto malleabile». L’intreccio tra poteri, evidentemente, ottiene il proprio obiettivo.
La politica
Quelle Officine le volevano tutti. La ‘ndrangheta e Cosa nostra – con Iamonte e Santapaola, per il tramite dell’impresa Costanzo – così come i politici della zona, socialisti soprattutto. Ma servivano anche alle Ferrovie. Anche stavolta emergono i presunti legami tra mondi che, tra di loro, non avrebbero dovuto dialogare.
Ci vorranno anni per accendere i riflettori sulla potenza della ‘ndrangheta in Calabria. E sui legami tra la criminalità organizzata e il mondo istituzionale. Nel 1993, i parlamentari Girolamo Tripodi e Alfredo Galasso presentano in Commissione Antimafia una relazione di minoranza sulla ’ndrangheta e sul caso Calabria. Lo spunto è l’eclatante omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, il reggino democristiano, Lodovico Ligato, assassinato nell’estate del 1989.https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ
Per i due esponenti politici il movente del delitto Ligato non sarebbe riconducibile a un semplice scontro tra cosche per la conquista del potere., ma a uno scontro politico per la conquista dei fondi pubblici. Un delitto oscuro che vedrà il quasi totale silenzio della Democrazia Cristiana, sebbene Ligato fosse «uno di loro», come dirà Oscar Luigi Scalfaro. Trame oscure quelle della Democrazia Cristiana in quegli anni.
L’uomo forte in Calabria è il deputato cosentino Riccardo Misasi, anch’egli indagato per associazione mafiosa dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Misasi, peraltro, non è l’unico politico di rango a essere indicato (venendo comunque prosciolto) per rapporti con la ’ndrangheta. Il “leone socialista” Giacomo Mancini viene menzionato dal collaboratore Giacomo Lauro, con riferimento alla vicenda della Liquichimica di Saline Joniche e ai presunti collegamenti con la cosca di Melito Porto Salvo. Un altro collaboratore, Giuseppe Scopelliti, accosta invece il nome di Mancini al casato dei Piromalli di Gioia Tauro. Cosca, se possibile, ancor più potente della famiglia Iamonte. Tutte accuse che non troveranno alcuno sbocco giudiziario.
Saline Joniche, l’ultima idea prima del buio
Oggi l’area di Saline Joniche è quell’ecomostro che chiunque, da un cinquantennio a questa parte, è abituato a vedere quando percorre la SS 106 jonica. Non uno straccio di sviluppo. Né imprenditoriale, né turistico. Chilometri e chilometri di paesini a volte poco abitati, di nulla e di scempi ambientali. L’ultimo tentativo di usarla per qualcosa è di alcuni anni fa. Un colosso svizzero – la SEI Repower – si era messa in testa di costruirci una centrale a carbone. Proprio quando, già da tempo, un po’ ovunque quella fonte di energia scompare, dismessa, sostituita con qualcosa di più sostenibile, l’unica idea per la Calabria riportava indietro di decenni.

Protesta contro il carbone a Saline Joniche Una campagna marketing per propugnare l’ecologia di quel progetto. Come se esistesse il “carbone pulito”. Contro quella centrale, infatti, si espresse per mesi il grosso della popolazione calabrese. In particolare quella reggina. Fu, soprattutto, uno sparuto gruppo di cittadini di quelle zone, costituitisi in un comitato spontaneo, a sfidare, anche legalmente davanti alla giustizia amministrativa, quel colosso. Una battaglia che appassionò tutti e che costrinse, alla fine, anche la Regione (che aveva parere vincolante) a schierarsi contro il progetto. Il caso più scolastico della vittoria di Davide contro Golia.
Neanche stavolta però, con i soldi del Pnrr sul tavolo, qualcuno ha pensato di ridare decoro a quella zona e alla sua popolazione. Che immagina qualcosa di diverso per un’area che è l’emblema dei fallimenti e degli imbrogli della politica. Ma, soprattutto, del degrado calabrese e del disinteresse di cui “gode” la regione a livello nazionale.
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Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati
Vittorio de Seta li chiamò «i contadini del mare». Il campo che coltivavano, con cura e sudore uguali a quelli che gli agricoltori riversano sulla terra, erano le acque del Golfo di Sant’Eufemia, da Pizzo a Tropea. Nelle loro fatiche, nei gesti, nel codice con cui comunicavano, perfino nei loro canti e nei soprannomi che si affibbiavano, c’era una cultura millenaria. Quella dei tonnaroti, oggi quasi del tutto perduta, materialmente abbattuta dal tempo e dalla noncuranza che, come l’acqua di mare, erode ogni cosa.
L’isola di reti
Eppure l’uso delle tonnare in Calabria, un ingegnoso sistema di pesca fissa e passiva, è stato praticato fino agli anni ’60 solo sul Tirreno vibonese. Il tonno rosso si pescava attraverso un articolato sbarramento di reti abilmente piazzate e divise in “isole” e “camere”. Una trappola intricata che attirava i tonni durante la loro migrazione. Rappresentava una sorta di prolungamento marino della terraferma. Una «territorializzazione del mare», diceva sempre de Seta. Poi c’erano gli edifici stabili costruiti quasi a riva in cui avveniva il deposito, la lavorazione, il ricovero dei barconi. Tutto ciò era pratica comune solo in Sicilia. Però lì i tonni arrivavano già stanchi e sfibrati, nella baia di Vibo invece erano più “freschi”. E si avvicinavano, cosa che oggi non accade più, fino a due miglia dalla costa.

Le antiche tonnare (dal sito callipo.com) Tonnare in Calabria: un’economia fiorente
Le tonnare in Calabria, di mare e di terra, hanno così dato da vivere a moltissime famiglie di Pizzo, Vibo Marina, Bivona e Portosalvo (le tre “Marinate” vibonesi), Briatico e Parghelia (alle porte di Tropea). Rappresentavano un settore importantissimo dell’economia locale, tanto che le antiche famiglie nobiliari che le possedevano le proteggevano sorvegliandole attraverso torri o addirittura castelli.
L’indotto verso i monti
C’è anche un altro aspetto, tutt’altro che secondario, da ricordare. Le tonnare dei paesi costieri erano inserite in dei microcircuiti economici che comprendevano anche i territori di collina e di montagna. Da lì arrivavano sale, olio e ghiaccio per la conservazione. Lì gli artigiani producevano e lavoravano reti, cordami e legname per le barche.

Tonnara Angitola a Vibo Marina. La benedizione delle reti e dei barconi prima delle mattanze nel 1947 (collezione Cantafio) Tonnare in Calabria, mille anni di pesca
Di manufatti per la pesca del tonno in quest’area si trovano tracce documentali risalenti al XI secolo. In uno dei primi privilegi concessi da Ruggero il Normanno all’Abbazia di Mileto compare l’area di Bivona. Che viene descritta, nel 1081, «… cum portu suo, ac tunnaria, et omnibus pertinentiis». Fin dalla fondazione dell’odierna Vibo diversi manoscritti riportano fatti legati alle tonnare: in un atto del 1326 il re Roberto, per prevenire incidenti, dispose che nessuno vendesse vino nell’area e nel periodo in cui era in attività la tonnara di Bivona.
La contaminazione con i siciliani
Questo sistema di pesca si estende dal XVI secolo, periodo a cui risalgono le prime notizie sulle tonnare di Parghelia (Bordilà), Sant’Irene e Briatico (Rocchetta), Santa Venere e Pizzo (delli Gurni). Nel XVIII secolo l’iniziativa imprenditoriale delle tonnare in Calabria è appannaggio dei nobili (De Silva y Mendoza, Pignatelli, Caracciolo) e della Diocesi. I tonnaroti di Pizzo diventano i più ricercati per tutto il golfo. E a loro si uniscono anche rais (i dominus della ciurma) e tonnaroti siciliani. Generando una contaminazione unica di tecniche e di rituali di pesca.

La grande ancora di tonnara portata a riva da un gruppo di 10 tonnaroti (Lomax, 1954) Un po’ di Sicilia in Calabria
Nell’agosto del 1954 arrivano a Vibo Marina lo statunitense Alan Lomax e il calabrese Diego Carpitella. Mostri sacri dell’etnomusicologia, quell’anno attraversano tutta l’Italia a bordo di un pulmino Wolkswagen. E realizzano un’impresa di documentazione che diventerà una pietra miliare per il futuro studio della musica tradizionale italiana. Hanno già registrato a Sciacca i canti di tonnara. Hanno incontrato De Seta mentre documenta la pesca del pescespada a Scilla e Bagnara. Dunque si stupiscono di trovare, sullo sterrato che affianca la tonnara del borgo portuale vibonese, un pezzo di Sicilia anche nel continente.

Alan Lomax in mezzo ai tonnaroti (1954, collezione Canduci) I canti delle tonnare in Calabria
A Lomax e Carpitella si devono foto e registrazioni sonore che hanno strappato all’oblio i canti, i nomi, i linguaggi e le relazioni secolari di rais e tonnaroti. Si tratta del più corposo lavoro mai fatto sulla cultura musicale delle tonnare, in Calabria e non solo. Oggi è raccolto e approfondito in un bel volume (con cd), “Canti della tonnara”, edito da Rubbettino e curato da Danilo Gatto, con contributi di Giorgio Adamo, Sergio Bonanzinga, Danilo Gatto, Giuseppe Giordano, Anna Lomax Wood, Antonio Montesanti, Domenico Staiti, Vito Teti.

Onofrio Lo Presti, uno dei tonnaroti fotografato e registrato da Alan Lomax L’itinerario della dimenticanza
Montesanti ha trascorso anni a ricostruire, incrociando le informazioni raccolte da Lomax con le testimonianze locali, le identità e le storie di rais e tonnaroti della zona. Proprio con lui abbiamo provato a ripercorrere le tracce delle tonnare tra Pizzo e Tropea. Un tour della dimenticanza. Perché di fatto, oggi, i segni dell’antichissima tradizione di pesca delle tonnare in Calabria sono stati spazzati via. Resta qualche fuggevole particella di memoria e dei tentativi, miseramente falliti, di dare dimora alla testimonianza di ciò che è stato.
La più antica, dimenticata
Partiamo proprio da Pizzo, dalla tonnara più antica. È quella della Seggiola, che secondo alcune risultanze documentali esisteva già nel 1400. Di proprietà dei De Silva y Mendoza prima, poi dei Gagliardi, è diventato un bene demaniale e, in parte, oggi l’edificio è usato da alcuni pescatori. Ma è seminascosto e dimenticato, in una piccola insenatura, con un mostro di cemento mai finito che incombe a fianco (di cui abbiamo scritto in questo controtour).

Ciò che rimane dell’antica tonnara della Seggiola, a Pizzo Il museo del vuoto
Pare fosse uno degli angoli più belli della cittadina costiera, che invece oggi concentra molte delle sue attrattive turistiche, oltre che sul centro storico, sul vicino lungomare. Lì ha sede il “Museo del mare” che però, di fatto, delle tradizioni di pesca conserva poco più che il nome. Un tempo era la loggia dei barconi, oggi vi si fa qualche convegno e poco altro.

Il “museo del mare” a Pizzo Da pescatori a carrozzieri
Procedendo verso Sud sul litorale pizzitano c’è l’antico stabilimento Callipo, o meglio i resti puntellati da impalcature in legno. Un ramo della famiglia, quello di Carmelo Callipo, si divise da quello che faceva capo a Giacinto (di cui invece porta il nome ancora oggi la nota azienda di prodotti ittici nata nel 1913 e tuttora attiva) e rilevò, nel Dopoguerra, la tonnara nel centro di Vibo Marina. Era stata di proprietà dei nobili siciliani Adragna d’Ali. Inaugurata nel 1865, rimase in attività solo per pochi anni dopo il passaggio di proprietà. Oggi, al suo interno, c’è una carrozzeria.

Il portale della ex tonnara di Vibo Marina, al cui interno oggi c’è una carrozzeria Lo sciopero del ’54 e la caserma di oggi
Sempre a Vibo Marina sorgeva la tonnara Angitola. Prima dei Gagliardi e poi dei Cantafio, era proprio quella a cui giunsero Lomax e Carpitella nel 1954 nel bel mezzo di uno sciopero. Il padrone non li pagava da un anno e i tonnaroti avevano incrociato le braccia lasciando tutte le attrezzature a mare per fare pressione sul titolare. Non si sa come, ma con l’arrivo degli etnomusicologi la “vertenza” si risolse. Oggi di quella tonnara non resta nulla. Ne ricorda vagamente solo qualche forma il casermone del Comando provinciale della Guardia di finanza che è stato costruito al suo posto.

La caserma della Guardia di finanza a Vibo Marina, costruita dove c’era la tonnara Angitola Tonnare di Calabria, l’appello per Bivona
Scendendo ancora in direzione Tropea c’è la tonnara di Bivona, che merita un discorso a parte. «Negli anni – ricorda Montesanti – tanti fondi pubblici sono stati spesi male per il suo recupero, tant’è che dopo oltre 5.200 giorni è ancora inagibile. E un nuovo finanziamento rischia di smembrarne la storia». Qualche giorno fa lo studioso ha lanciato un appello al presidente della Regione Roberto Occhiuto. Tra i firmatari Carlo Petrini, Silvio Greco, Gioacchino Criaco, Francesco Cuteri, Tomaso Montanari, Vito Teti e Silvana Iannelli.

La tonnara di Bivona Gli annunci «spacchettati»
Il finanziamento in questione prevedrebbe «la realizzazione del Museo del Mare e della pesca». Il sindaco di Vibo, Maria Limardo, lo scorso 10 maggio ha scritto su Fb: «Che bella la nostra Tonnara! Che belli i nostri barconi! Presto torneranno a nuova vita con un importante lavoro di restauro che inizierà nel prossimo mese di giugno». Secondo i sottoscrittori della petizione decine di tavoli tecnici avrebbero invece «partorito un disastro» con quel bene monumentale «spacchettato in tre pezzetti». Si vedrà come andrà a finire. Intanto però una delle ultime tonnare di Calabria resta chiusa, anche se al Salone del libro di Torino l’amministrazione vibonese ha sostenuto di averci aperto un «centro culturale Lomax» che, al momento, non esiste.

L’interno della tonnara di Bivona (dalla pagina Facebook Maria Limardo Sindaco) Dalla Curia ai ristoratori
Andiamo ancora avanti. È interessante la storia della tonnara di Sant’Irene a Briatico. Di epoca ottocentesca, la proprietà è passata dai Mendoza alla diocesi di Mileto. Poi dalla Curia ai privati. Che al suo posto hanno realizzato un ristorante. Oltre alla singolare evoluzione, un fattore di unicità è rappresentato dal fatto che vicino alla tonnara scomparsa ci siano i resti di una «peschiera» di epoca romana. In pochi metri millenni di storia della pesca. Cancellati.

Il luogo dove sorgeva la tonnara di Sant’Irene a Briatico. Ora c’è un ristorante e, a pochi metri, la «peschiera» romana Secoli, torri e selfie
Nello stesso paese c’era anche la tonnara della Rocchetta. Di proprietà dei Bisogni, le ultime notizie risalgono alla fine del 1600. Poi diventò uno zuccherificio, quindi (a fine Ottocento) una vetreria. Ne sono rimasti dei ruderi nascosti dall’erba alta. E anche qui, poco distante, ci sono i resti di una «peschiera» romana su cui i ragazzini si fanno dei selfie a like garantito. L’ultima traccia (perduta) era a Parghelia, dove un villaggio turistico conservava solo il toponimo, fino a quando non ha cambiato nome. Ma anche le torri che sorvegliavano le tonnare sono diventate altro. Quella di San Pietro di Bivona, a guardia dell’antica tonnara che non esiste più, è un immobile privato. La torre Marzano a Vibo Marina è stata in parte demolita durante la costruzione delle case popolari.
Il tonno non si fida più di noi
Ora, è chiaro che questi sistemi di pesca nel Vibonese sono scomparsi perché il tonno rosso non arriva più qui. La Calabria non ha quote di pesca nella ripartizione europea. Le principali aziende lavorano e vendono tonno a pinna gialla. E quel poco di “rosso” che trattano lo acquistano per lo più da Campania e Sicilia.
Chi guarda indietro e chi perde la memoria
Intanto, per esempio, in Sardegna (a Stintino) e nel Sud della Spagna (Andalusia) si sta studiando il ripristino delle tonnare fisse perché è un sistema molto più ecosostenibile della pesca distruttiva a predazione. Mentre delle tonnare, nella Calabria della retorica dei borghi e delle bandiere blu, delle tradizioni da tramandare e dell’identità-culturale-da-valorizzare, non si conserva quasi più neanche la memoria.
Un selfie sui resti della «peschiera» di epoca romana (Briatico, Rocchetta) I resti della tonnara Rocchetta (Briatico) L’antico stabilimento Callipo (Pizzo) Una vignetta realizzata dal fumettista Gianluca Costantini attaccata su una finestra della tonnara di Bivona La torre di San Pietro di Bivona I resti della torre Marzano a Vibo Marina -

Mastrolorenzo è il nuovo amministratore unico di Amaco
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Michelangelo Mastrolorenzo è il nuovo Amministratore unico di Amaco S.p.a. Il commercialista è stato nominato dall’assemblea ordinaria dei soci. Mastrolerenzo prende il posto del dimissionario Paolo Posteraro. L’assemblea ha nominato anche il nuovo collegio sindacale alla cui presidenza è stato designato Carlo Cannataro. Del collegio sindacale sono stati chiamati a far parte anche Antonio Naso e Sandra Salemme, quali sindaci effettivi. Sindaci supplenti sono stati, inoltre, nominati il Ivo Mazzotti e la dottoressa Antonella Rizzuto.
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Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?
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Il ponte di Calatrava potrebbe abbattersi sul Comune di Cosenza. Non fisicamente, ma con un salasso che metterebbe k.o. le già disastrate casse dell’ente. Cimolai Spa, l’azienda che lo ha costruito, ritiene che il suo credito nei confronti di Palazzo dei Bruzi non sia affatto esaurito. E chiede altri 19,2 milioni di euro per il lavoro fatto. Raddoppierebbe così il conto da saldare per il più grande inno alla grandeur cosentina, un gioiello architettonico che, a detta di molti, ora come ora collega il nulla al niente.
Mancini, Calatrava e l’Europa
Tutto ha inizio a cavallo tra il vecchio e l’attuale millennio. Alla guida del Comune c’è il primo sindaco eletto direttamente dai cosentini: Giacomo Mancini. È lui a siglare a inizio maggio del 2000 nel teatro Rendano l’intesa con Santiago Calatrava, vincitore di una selezione tra progettisti che lo vede imporsi su altri grandi nomi dell’ingegneria civile.

Mancini e Calatrava al Rendano L’architetto e ingegnere spagnolo è già una star in patria e all’estero, ma il ponte cosentino sarà – meglio, dovrebbe essere – la prima opera a sua firma in Italia. Dal Rendano parte la prima sfida di Palazzo dei Bruzi, quella alle ovvietà. «La committenza», riportano i resoconti ufficiali di quella serata, ha voluto e avrà «un ponte che colleghi Cosenza con l’Europa», con buona pace dei cartografi e della tettonica a zolle così poco inclini alla retorica da aver già piazzato qualche millennio prima la città nel Vecchio Continente.
Le ultime parole famose
Passano un paio di mesi dalla première al Rendano e nel Salone di rappresentanza del municipio arriva pure la presentazione del plastico del ponte. Le fanno da contorno i primi dettagli tecnici e gli annunci dell’allora assessore all’Urbanistica – e di lì a breve sindaca – Evelina Catizone. Traendo forse ispirazione dal collega di Giunta ed esperto conoscitore delle volte celesti Franco Piperno, Catizone dichiara che «i tempi di realizzazione potranno essere contenuti fra un anno e mezzo e due anni. I costi: 16 miliardi (di lire, nda) per il solo ponte, 34 se si vorranno realizzare anche le opere di complemento, piazza e viali di collegamento alla città compresi».

Evelina Catizone insieme a Franco Piperno In quelle parole, cariche di ottimismo, si nasconde il segreto per rispettare il cronoprogramma e sconfiggere lo scetticismo generale. Basta infatti calcolare gli anni in questione come se fossimo su Giove, pianeta che per completare tutto il suo giro intorno al Sole impiega oltre 4.300 giorni terrestri. E che ha pure un satellite che si chiama Europa. Se la committenza avesse voluto collegare Cosenza a quello tramite il ponte di Calatrava tutto tornerebbe. E a un costo irrisorio per un’opera così audace.
Secondo il meno confortante calendario gregoriano in uso dalle nostre parti tra quell’annuncio di metà estate del 2000 e il taglio del nastro, invece, di anni tocca contarne quasi una ventina. E il conto da pagare, già più salato del previsto, adesso rischia di schizzare – per restare in tema – alle stelle.Il tempo se ne va
In omaggio alla tradizione italiana, infatti, nonostante l’opera «stia per passare alla fase esecutiva» a settembre 2001, per aggiudicare l’appalto toccherà attendere l’autunno del 2008, quando il successore di Catizone, Salvatore Perugini, è già a metà del proprio mandato da sindaco. I lavori, stando agli atti, dovranno durare 877 giorni (terrestri, nda). Ad occuparsene, questo l’esito della gara, sarà proprio la già citata Cimolai, colosso delle costruzioni in acciaio.
Oltre ad aver già lavorato con Calatrava e il suo studio, l’azienda di Pordenone può oggi vantare nel proprio curriculum di aver partecipato «alla ricostruzione di Ground Zero a New York, al recupero sottomarino della nave Concordia e, tra le tante altre attività, ai lavori del New Safe Confinement di Chernobyl». A Cosenza non le tocca rimediare a disastri simili, per fortuna. Ma anche sulle sponde del Crati non mancheranno le tragedie – la morte di Raffaele Tenuta, operaio di una ditta impegnata in un subappalto – né le polemiche, come accaduto per un’altra opera progettata da Calatrava in Italia nel frattempo.
Il ponte di Calatrava e i fondi Gescal
Se a Venezia si scivola (e non solo), a Cosenza fa discutere il denaro utilizzato – o, meglio, la sua provenienza – per realizzare il ponte, il cui montaggio vero e proprio è partito solamente nel 2014 con un altro sindaco ancora, Mario Occhiuto, insediatosi tre anni prima. È Sergio Pelaia a sollevare il polverone dalle colonne del Corriere della Calabria. Già da tempo il giornalista ha rivelato con una serie di articoli che per anni la Regione ha fatto un uso allegro dei fondi Gescal. Cosa sono? Soldi detratti dalle buste paga dei dipendenti pubblici con l’impegno di realizzarci case popolari. Quel fiume di denaro, però, è finito disperso in mille rivoli, molti dei quali con l’edilizia popolare pare abbiano ben poco a che vedere.

Mario Occhiuto alla riapertura del cantiere del ponte di Calatrava (foto Ercole Scorza) Nell’elenco delle spese discutibili, si scopre a poche settimane dall’inaugurazione, ci sarebbero pure quasi 6 degli oltre 19 milioni di euro usati per costruire il ponte di Calatrava e le opere accessorie, il cui unico rapporto col sostegno a chi vorrebbe un tetto tutto suo a basso costo si concretizzerà tempo dopo nell’offrire saltuario riparo a qualche clochard.

Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021 Paradosso nel paradosso, parte dei fondi Gescal legati davvero alle attività dell’Aterp è stata al centro di un’inchiesta che ha visto protagonisti anche più o meno grandi nomi della politica calabrese, quali Pino Gentile e Antonino Daffinà. Una storia tutta vibonese, quest’ultima, che si è chiusa poche settimane fa per gran parte degli imputati con l’equivalente giuridico dei tarallucci e vino: la prescrizione. A Cosenza invece, nonostante qualche protesta degli attivisti locali per il diritto alla casa, per liquidare la questione Gescal-Calatrava si è optato per una soluzione diversa. Altrettanto efficace, ancora più rapida: il tutto va bene, madama la marchesa.

Una simbolica protesta a Cosenza: 100 casette di cartone sul ponte di Calatrava per criticare l’impiego dei fondi Gescal Cimolai va all’attacco
Il ponte di Calatrava, oggi intitolato a San Francesco di Paola, all’attenzione di un tribunale c’è finito lo stesso però, anche se finora non se n’è accorto nessuno. A luglio del 2019 Cimolai si è rivolta a quello di Catanzaro chiedendo che il Comune di Cosenza risponda davanti ai giudici di tutto ciò che l’azienda ritiene abbia provocato un «andamento anomalo dei lavori». L’elenco delle doglianze è lungo, ben 35 differenti riserve espresse su altrettanti avvenimenti. Le valutazioni dei singoli danni subiti a causa di quelle presunte anomalie vanno da circa 6mila a quasi 6 milioni di euro. Senza contare gli eventuali interessi maturati nel frattempo, sommandole tutte si sfiorano i venti milioni extra richiesti a Palazzo dei Bruzi.
Un peso notevole nella stima delle perdite ha il lunghissimo stop ai lavori dovuto alle bonifiche del terreno che ha ospitato il cantiere. Il rinvenimento di ordigni bellici e rifiuti pericolosi nell’area ha impedito per anni a Cimolai di dare il via al montaggio della struttura e costretto la ditta a tenere per tutto quel tempo i componenti del ponte – che nel frattempo aveva costruito – chiusi nei capannoni in attesa di poterli portare a Cosenza. Ma non mancano i rilievi relativi a perizie di variante in corso d’opera, aumenti dei costi dovuti allo slittamento dei lavori, presunte discrepanze col progetto messo a gara. E poi, ancora, contestazioni sulle attività extracontrattuali che non sarebbero state retribuite a dovere, il fermo forzato e improduttivo di macchinari e personale tra un’interruzione e l’altra, finanche l’allagamento del cantiere durante una piena del Crati nel 2016.
Il Comune di Cosenza si difende
A Palazzo dei Bruzi, però, sono sicuri del fatto loro, pronti a smontare le accuse punto per punto. Reputano di aver sempre agito nel rispetto delle norme e degli accordi. Le richieste di Cimolai sarebbero quindi pretestuose e infondate dal punto di vista giuridico. L’ammontare dell’eventuale risarcimento, poi, del tutto sproporzionato rispetto a quello dell’appalto originario. Se davvero l’azienda avesse subito danni di tale portata, rilevano in municipio, avrebbe potuto esercitare il suo diritto alla risoluzione del contratto a lavori ancora in corso. Invece Cimolai ha continuato ad affrontare il rischio d’impresa per anni, salvo poi tornare a battere cassa a Cosenza qualche mese dopo la consegna del ponte di Calatrava.

Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza Alcuni ritardi, inoltre, sarebbero da addebitare ad altri soggetti coinvolti, come le Ferrovie dello Stato o la Provincia. In vista del processo il Comune ha anche assunto poche settimane fa un consulente tecnico, l’ingegnere Francesco Mordente, per far valere le proprie ragioni in aula.

Una parte dell’atto da cui emergono la causa in corso tra Cimolai e il Comune e l’ammontare del contenzioso Di generazione in generazione… in generazione?
Il 26 gennaio 2018, giorno della faraonica cerimonia inaugurale cofinanziata dall’ancora amichevole Cimolai, Santiago Calatrava definì la sua creatura un ponte che «collega due generazioni: il sindaco Mancini, per il quale l’ho progettato, e il sindaco Occhiuto che è riuscito a portarlo a termine». Il verdetto di Arianna Roccia, giudice della Sezione specializzata per le imprese, servirà a chiarire se collegarle a una terza: quella che per finire di pagarlo dovrebbe sborsare quanto o più delle altre due messe assieme.

Cosenza, un momento della cerimonia d’inaugurazione del ponte di Calatrava -

Autonomia ed energia, una rima (anche) per la Calabria
La buona notizia è che la Calabria, fra fonti rinnovabili, idroelettrico e altre fonti non fossili, produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Addirittura siamo al 42% sulle rinnovabili, dato che ha entusiasmato Younous Omarijee, presidente della Commissione Europea per lo Sviluppo Regionale, di recente in visita in Calabria. Evviva, verrebbe voglia dire. E invece no. Anzi quasi.
Tutto bello, certo, se non fosse che, per il tramite di alcune datate convenzioni con scadenze non proprio dietro l’angolo, la Regione Calabria ha affidato ad una società per azioni lombarda, la A2A, quotata in borsa e con 7 miliardi di fatturato, la gestione dei propri bacini idroelettrici.L’acqua verso Nord e la Calabria a secco
Primo risultato? In forza di tali convenzioni, l’A2A, legittimamente sia chiaro, destina il grosso della produzione di energia elettrica verso il Nord utilizzando l’acqua dei nostri invasi. Secondo risultato? Accade che a causa dei mutamenti climatici e quindi in piena siccità e parallela crisi idrica, ci si ritrovi con i laghi quasi completamente svuotati. E con città come Crotone che, ad esempio, rischiano la paralisi degli approvvigionamenti idrici per uso domestico e agricolo. A penalizzarci è una convenzione che orienta l’utilizzo delle risorse idriche (nostre) verso priorità diverse da quelle espresse dalle esigenze sociali e produttive del territorio.
Le domande che ora vorremmo porre sono quasi banali. Per esempio: attesa l’eccezionalità della situazione meteo, i termini di queste convenzioni non possono essere rivisitati per intervenuta eccessiva onerosità o, magari, per distorsione della relazione sinallagmatica fra le parti contraenti?
Sila, il lago Ampollino svuotato L’autonomia passa dall’energia: la Calabria e l’esempio del Veneto
In attesa che qualche giurista risponda al quesito, vorremmo lanciare una proposta chiara e forte. Visto che produciamo più energia di quella a noi oggettivamente necessaria, perché non pensiamo ad una autonomia differenziata che ci veda protagonisti e non spaventati da quello che il Nord e/o il Ministro Calderoli potrebbero architettare ai nostri danni? Sapete che il Veneto ha già approvato una legge che dispone il trasferimento della proprietà delle centrali idroelettriche alla Regione? Sapete che il presidente Zaia impazza già sui social rivendicando l’evento come primo passaggio verso l’autonomia della Regione Veneto?

Luca Zaia posa con un militante durante una manifestazione in favore dell’autonomia del Veneto Un gestore pubblico tutto calabrese
E perché la Calabria non dovrebbe riscoprirsi coraggiosamente autonoma e, addirittura, visto il surplus energetico, regione fornitrice dell’intero mercato nazionale, nel settore delle rinnovabili, atteso che sole, vento e correnti marine non sembrano proprio mancarci? E chiaro o no che la tendenza di scenario, tra Agenda Onu 2030 e PNRR, muove inarrestabile verso la transizione ecologica e la sostenibilità?
Perché non costituire, da subito, un soggetto pubblico calabrese per la captazione, trasformazione, stoccaggio e distribuzione di energia derivante da fonti rinnovabili visto che le risorse naturali sono nostre e soprattutto non rare?Indipendenti, non col cappello in mano
Attenzione a non giocare la solita partita vittimistica dell’autonomia differenziata e del Sud depredato. Cambiamo modulo di gioco: per la prima volta, nella nostra storia, proviamo a riscoprirci autonomi ed intraprendenti anziché genufletterci all’A2A di turno per pietire, con il solito cappello in mano ormai sgualcito, volumi aggiuntivi di acqua o di energia visto che, soprattutto, parliamo di risorse nostre.
E poi magari, nel frattempo, stiamo attenti a non dimenticare che lo stesso soggetto pubblico potrebbe, anzi dovrebbe, avviare la pianificazione degli investimenti necessari a giocare la partita energetica del futuro: quella sull’idrogeno.
La Calabria regione leader, in Italia, nelle energie rinnovabili. Dai, proviamo a regalare una prospettiva, un lavoro e un sogno alle nuove generazioni calabresi. I calabresi siamo noi. -

Staine assessore, per la Lega festa o funerale?
«Saccomanno: Lega Calabria si stringe attorno al suo assessore Emma Staine». A leggere una cosa del genere, vien difficile pensare a festeggiamenti. Qualcuno potrebbe addirittura pensare a un lutto. L’amena frase è il titolo, invece, del comunicato inviato alle redazioni dai vertici regionali del Carroccio per celebrare l’ingresso ai piani alti della Cittadella della suddetta Staine. Sarà lei a prendere il posto della leghista reggina Tilde Minasi nella Giunta di Roberto Occhiuto. E chissà se, per sicurezza, leggendo la nota del suo partito non abbia provveduto a telefonare ai suoi cari per sincerarsi della loro salute.
Da Minasi a Staine: le parole della Lega
Il comunicato prosegue con toni meno funerei, ma non troppo. «In occasione del “passaggio delle consegne” tra Tilde Minasi e il nuovo assessore Emma Staine, tutta la dirigenza della Lega ha voluto essere presente per manifestare la vicinanza e la costruzione di una squadra forte che possa sostenerla nel migliore dei modi. Una manifestazione (commemorazione?, nda) sobria, ma molto importante e significativa in quanto si è, finalmente, valorizzata la militanza, l’appartenenza e il merito».

L’email della Lega Spazio quindi ai presenti alla cerimonia, «dal commissario regionale Giacomo Francesco Saccomanno alla senatrice Tilde Minasi, al deputato Domenico Furgiuele, al consigliere regionale Pietro Raso». Amici che per l’occasione «hanno manifestato il gradimento della scelta operata direttamente dal segretario federale Matteo Salvini ed hanno ringraziato il precedente assessore Tilde Minasi per quanto fatto ed hanno augurato un forte buon lavoro alla Staine, garantendo sostegno e partecipazione. Tanto entusiasmo (sic) per la nuova avventura che, certamente, porterà buoni risultati alla Calabria e che vedrà la Lega anche interessata della difficile materia del nuovo settore dei trasporti».
Non fiori, ma opere (pubbliche) di bene. Si dispensa dalle visite istituzionali?





