Tag: politica

  • Prima che tutto frani: previsione e prevenzione

    Prima che tutto frani: previsione e prevenzione

    Non sorprende constatare che dopo gli ultimi fatti disastrosi delle Marche e della Sicilia la maggior parte delle considerazioni abbia riguardato l’abusivismo. Che c’entra, certo, ma prima, a monte, c’entra altro. Né il rosario senza fine che si sta sgranando sotto i nostri occhi da decenni – e riguarda la Calabria come ogni parte d’Italia, nessuna esclusa, con frane, alluvioni, devastazioni, lutti, risorse ingentissime spese posteventi e quasi altrettanti soldi disponibili e non utilizzati – basta ad accendere la scintilla della messa in sicurezza prima di ogni altra cosa. Che non significa inseguire un improponibile rischio zero ma nemmeno adagiarsi su una non ammissibile deregulation, ma previsione e prevenzione sì, però. Così come pianificazione e utilizzo del territorio secondo criteri basati sulle conoscenze, l’equilibrio fra i diversi comparti territoriali, urbani ed extraurbani e il controllo da parte di ha ruolo e responsabilità.

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    Difesa del suolo? Si fa poco e poi succede “Casamicciola”

    Dagli Usa all’Italia

    Un tempo non lontano solo a parlare di “piano” si richiamavano echi di modernità, di razionalità, di proiezione in avanti. Di certo le misure messe in essere dalla Tennessee Valley Authority varata da Roosevelt dopo il giovedì nero del ‘29 diedero una spinta poderosa alla “progettazione” e alla gestione del territorio in accordo alla multidisciplinarietà e all’utilizzo plurimo delle risorse.

    Il presidente Franklin Delano Roosevelt firma uno dei provvedimenti economici del New Deal

    La diffusione in Italia di quanto si stava facendo Oltreoceano sul Politecnico di Elio Vittorini funzionò da spinta ai primi governi di centrosinistra in Italia con Giolitti ministro per varare una stagione virtuosa e carica di promesse in tal senso: quelle della pianificazione, della previsione, della prevenzione.
    Solo che i piani si moltiplicarono in misura esponenziale, invalse una loro concezione fin troppo rigida e poco modulabile. Le risorse cominciarono a scarseggiare. Così – anche per la sovrapposizione fra essi che di fatto creò una situazione fra l’eccessivamente vincolistico da una parte, la contraddittorietà dall’altra – quella stagione tramontò, in corrispondenza, e non è secondario, con un edonismo diffuso che piano piano prendeva piede.

    Interviene l’Europa. E sono guai

    Nel settore acqua-suolo lo strumento principe è stato il Piano di bacino che, a partire dal 1989 quando il Parlamento approvò il Programma Decennale per la Difesa del Suolo, individua comparti territoriali, strumenti, istituti, risorse, best practices per una ottimale politica di utilizzo del territorio. Ha dato frutti estremamente significativi, se pure molto osteggiato da chi lo giudicò un mezzo per limitare e vincolare e sottrarre poteri ai tanti cacicchi locali, avvalendosi degli straordinari risultati via via ottenuti in discipline quali l’idraulica, la geologia, la geotecnica.

    La difesa del suolo deve tornare al centro dell’agenda politica

    Le università e il Cnr costituirono magna pars di quel poderoso processo messo in moto, che nei fatti si arrestò nel 2000 con le Direttive Europee che mutarono volto e corpo al nostro apparato normativo e alle sue diverse articolazioni. Lo mutarono senza che ne conseguissero risultati positivi, fino a giungere a tutto il primo ventennio del terzo millennio con un territorio in balia di se stesso, confuso in termini di centri di competenze, responsabilità spalmate e irrintracciabili, controlli, cambiamento climatici e tutto quanto stiamo vivendo.

    Basta scaricabarile

    Recuperare la tensione e l’attenzione dei decenni passati, sulla scorta delle esperienze nel frattempo maturate e dei risultati conseguiti è così un imperativo etico oltre che politico per rispondere alla domanda di intervento e di responsabilità che sorge dai cittadini. Per onorare le vittime, senza ricorrere a una indecorosa caccia al colpevole. O al gioco preferito degli italiani: lo scaricabarile.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

     

  • Addio zona rossa: la Presila lascia Gagarin per Conte e Meloni

    Addio zona rossa: la Presila lascia Gagarin per Conte e Meloni

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    Addio compagno Gagarin. Adesso è il tempo di tovarišč Conte. Segno dei tempi e della turbopolitica. Macella, trita e inghiotte tutto: storie, appartenenze, colori. Nessuno, però, ha mai avuto il coraggio di rimuovere e cambiare il nome della piazza intitolata al cosmonauta russo. A Pedace, oggi frazione di Casali del Manco, una cosa del genere potrebbe ancora provocare una sollevazione popolare.

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    Fausto Gullo, antifascista e ministro (foto bibliotecagullo.it)

    Nel cuore della rossa Presila di Fausto Gullo e Cesare Curcio il colore dominante è il giallo. Nelle ultime elezioni politiche il Movimento 5 Stelle ha raggiunto il 46,1 % alla Camera. Il Pd si è fermato al 13,28 %, tallonato da Fratelli d’Italia con il 12,81%.
    Le destre sono pronte per la spallata alle prossime amministrative. Dove i grillini fanno sempre fatica a sfondare. Un copione già visto pure altrove quando si parla di crisi della sinistra.

    Presila zona rossa: Ingrao fuggiasco a Pratopiano di Pedace

    Pedace ha rappresentato per la sinistra calabrese un simbolo. Qui fu nascosto Pietro Ingrao, in fuga dai fascisti. Una storia di resistenza in un Sud dove non erano tanti ad opporsi al regime di Mussolini. Uno dei pochi fu Cesare Curcio, meccanico specializzato. Tenne con sé Ingrao, futuro presidente della Camera, nei boschi di castagne a Pratopiano. Oggi ha raccolto il suo testimone ideale il figlio Peppino, attivista e scrittore, raccoglitore di storie di briganti.

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    Pietro Ingrao a Pedace prima e dopo la caduta del regime fascista. In alcune foto compare Cesare Curcio

    È ancora lì la casa dove fu nascosto il dirigente del Partito comunista italiano. L’hanno trasformata in una suggestiva abitazione di montagna. Basta salire poche centinaia di metri e un’altra costruzione ospita un piccolo museo familiare. Con gli atti parlamentari del padre eletto parlamentare del Pci e poi morto troppo presto. Foto, carte, documenti. Uno dei piccoli tesori nascosti. Non lontano in linea d’aria da San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta, dove morì Gioacchino da Fiore.

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    Peppino Curcio, storico e attivista (foto Alfonso Bombini)

    Il Pd governa con Fratelli d’Italia

    La memoria è un esercizio difficile. Consente di capire – o, almeno, provarci – perché sono cadute storiche roccaforti della sinistra. Sesto San Giovanni e Sant’Anna di Stazema su tutte. Passate a destra. Figuriamoci se questo non può succedere a Casali del Manco. Comune, tra l’altro, dove un primo cittadino del Pd governa con un assessore di Fratelli d’Italia.

    Sul punto Peppino Curcio, già candidato a sindaco del M5S, ha le idee chiare: «L’inciucio ha un suo peso». È un ritorno alle «politiche di prima, quelle del mettersi d’accordo per fini elettorali». Ne ha pure per il Movimento Presila Unita, a suo dire «rivelatosi una succursale del Partito democratico».

    Parole che Peppino Curcio pronuncia nella casa museo di Fausto Gullo a Macchia. Un condensato di storia e aneddotica: appunti del ministro dei contadini, ricordi catalogati di uno dei padri costituenti, carte del processo Valpreda (difeso dall’illustre giurista). Senza dimenticare quella lettera di Togliatti che ringrazia Gullo per il dono ricevuto: deliziosi fichi calabresi.

    I timori dell’ex segretario provinciale del Pd

    Persino Luigi Guglielmelli, ex segretario provinciale del Pd, ha il timore che l’assalto al fortino Presila possa andare a segno prima o poi: «Mi auguro che il prossimo primo cittadino di Casali del Manco non sia di centrodestra, ma non è scontato». I motivi? «C’è una grande frammentazione della sinistra e del M5S, non vedo in campo un percorso unitario».

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    Luigi Guglielmelli, ex segretario provinciale del Pd di Cosenza

    Non deve meravigliare più di tanto il fenomeno delle liste civiche «che racchiudono – puntualizza Guglielmelli, oggi nella direzione regionale del partito – tutto l’arco costituzionale, è molto diffuso dappertutto». Ultimo tabù ancora in piedi? «Anche nelle formazioni civiche con presenze di centrodestra il sindaco è sempre stato iscritto al Pd».

    I tempi sono maturi per il centrodestra

    Chi è convinta che Casali del Manco sia vicino ad essere conquistato dal centrodestra è Emma Staine, militante della Lega che, poco tempo dopo aver parlato con I Calabresi,  è diventata assessore regionale nella Giunta di Roberto Occhiuto: «I tempi sono maturi. Negli ultimi 5 anni ci siamo affermati scardinando determinati dogmi e luoghi comuni che volevano la Presila rossa». Ormai da quattro anni il partito di Salvini – spiega – «è stabile dall’8 al 10% raggiungendo picchi del 15 alle Europee affermandosi lo scorso anno a Celico come prima forza alle regionali».

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    Emma Staine, assessore regionale alle Politiche sociali e ai Trasporti

    Zona rossa e memoria corta

    Uno spostamento spiegato anche in termini di «perdita della memoria storica di un luogo». Fausto Gullo, Cesare Curcio e il sindaco Rita Pisano «purtroppo sono figure che interessano soprattutto gli studiosi». Francesco Scanni, ricercatore di Scienze Politiche all’Università di Teramo e attivista di Voci in Cammino, fa notare «la distanza fra queste personalità di grande valore e il ceto politico attuale». Perché «non basta avere avuto cittadini così illustri, resta un obbligo ricordarli, riconoscerne l’importanza e trasmettere l’insegnamento alle generazioni future».

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    Francesco Scanni, ricercatore universitario a Teramo e attivista di Voci in Cammino (foto Alfonso Bombini)

    L’antipasto del totonomi

    L’attuale maggioranza in consiglio comunale tenterà di restare in sella in vista delle amministrative del 2024. Probabilmente cambiando il candidato a sindaco. Che non dovrebbe essere l’attuale primo cittadino Nuccio Martire. Uno tra gli ex sindaci di Trenta e Casole Bruzio, Ippolito Morrone e Salvatore Iazzolino, potrebbe decidere di scendere in campo. Così come l’ex primo cittadino di Pedace, Marco Oliverio. Defilato ma attento si muove l’ex consigliere regionale, tornato nel Pd dopo la sbornia De Magistris, Giuseppe Giudiceandrea. Il centrodestra osserva con attenzione. Se le divisioni a sinistra resteranno ferite aperte, il tempo di conquistare l’ex roccaforte rossa è davvero arrivato. E Gagarin sarà costretto a farsene una ragione.

  • Junio Valerio Borghese: un golpista piccolo piccolo

    Junio Valerio Borghese: un golpista piccolo piccolo

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    Sporco fascista, golpista, pericolo per la democrazia: questo è Junio Valerio Borghese secondo una lettura molto diffusa, di sicuro maggioritaria.
    Invece, per altri Borghese è stato un grande eroe, coinvolto in giochi di potere pericolosi e spericolati per amor di patria o in seguito a richieste impossibili da rifiutare.
    Ma questa divisione, scontata in un dibattito storico che continua a dividersi tra destra e sinistra (quindi tra ammiratori e detrattori, entrambi a oltranza), non aiuta a rispondere a una domanda.
    Eccola: perché Borghese prese la guida di un golpe che forse lui stesso per primo sapeva impossibile?

    Antefatto: le bombe e le stragi

    Il tentato golpe dell’Immacolata, svoltosi appunto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, per alcuni è il primo tentativo di capitalizzare le tensioni sociali che scuotono l’Italia all’inizio di quel decennio.

    Junio Valerio Borghese a Salò

    Il suo antefatto più importante è la strage di piazza Fontana, avvenuta poco meno di un anno prima (12 dicembre 1969). Questa strage fu preceduta e accompagnata da attentati dinamitardi, con e senza vittime, e fu seguita da altri atti eclatanti. In particolare, dalla strage di Peteano, l’unica strage fascista rivolta contro carabinieri e militari, e dalla strage di piazza della Loggia (29 maggio 1974), dopo la quale lo stragismo di destra inizia a declinare.
    A questo punto, è lecita un’altra domanda: perché un golpe così piccolo, tentato con mezzi palesemente insufficienti, di fronte a stragi così crudeli?

    La X Mas tra crimini e ambiguità

    Memento audere semper: questo motto, nato prima del fascismo e prima che Borghese entrasse nel vivo della sua carriera militare, è costato un brutto incidente a Enrico Montesano.
    I guardiani della memoria, anziché storicizzare hanno preferito esasperare gli animi. Tant’è: la leggenda nera della X Mas resiste oltremisura, rafforzata dalla memoria dei feroci rastrellamenti e delle esecuzioni sommarie nel periodo di Salò.

    Questa leggenda impedisce la storicizzazione del principe nero, passato da eroe di guerra a criminale in men che non si dica. E dunque: criminale il Borghese fascista, che fucila partigiani a raffica. Criminale anche l’Oss (Office of Strategic Services, l’antenata della Cia) e il suo capo in Italia, James Jesus Angleton, che salvarono Borghese. Criminali, infine, quei settori deviati dei servizi, civili e militari, che protessero il principe e ne sponsorizzarono il tentativo di golpe.
    Possibile che sia tutto un crimine?

    James Jesus Angleton, capo dell’Oss in Italia e fondatore della Cia

    Tora Tora: Junio Valerio Borghese e Pansa

    La recentissima ristampa di Borghese mi ha detto (Rizzoli, Milano 2022), un vecchio libro intervista di Giampaolo Pansa, consente di aprire uno spiraglio sul golpe.
    Il giornalista piemontese aveva intervistato il principe il 4 dicembre 1970, cioè quattro giorni prima del tentato colpo di Stato. L’intervista uscì su La Stampa il 9 dicembre, cioè ventiquattro ore dopo l’operazione Tora Tora, di cui in quel momento il pubblico non sapeva niente.

    Pansa rimase affascinato dalla lucidità e dalla schiettezza di Borghese, che sembrava tutto tranne che un golpista. Infatti, la notizia del golpe sarebbe emersa il 17 marzo del ’71, grazie a uno scoop di Paese Sera.
    Riavvolgiamo il nastro: possibile che una cosa tanto grave, un pericolo per la democrazia, finisse tanto sottogamba?
    C’è da dire che parecchie avvisaglie di golpe erano già emerse sulla stampa, come ha riscostruito con grande efficacia Fulvio Mazza nel suo Il Golpe Borghese (Pellegrini, Cosenza 2021). E allora: perché Borghese ha potuto agire quasi indisturbato?

    Golpe Borghese: un Putch inconsistente

    Nel golpe Borghese c’era tutto il cattiverio. C’era Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e il Fronte Nazionale (il partito personale del principe).
    Poi c’erano i Servizi e la P2. Insomma, non mancava nulla per creare il colpevole quasi perfetto: un militare fascista, potenzialmente stragista, i Servizi, per definizione deviati, e ambienti inconfessabili. E non dimentichiamo le mafie.
    Peccato che tutta questa attrezzatura abbia sostenuto un golpe gestito solo da paramilitari di destra, un pugno di poliziotti, nemmeno cinquecento carabinieri più il vecchio Corpo forestale dello Stato.

    C’è una cosa corretta sul golpe Borghese: non fu un conato neofascista ma un tentativo di destabilizzazione atlantista, a cui Borghese si prestò. Ergo: al principe andava bene roba sul modello portoghese, cileno o greco. Nulla di più.
    Il principe non era un rivoluzionario nero ma un uomo d’ordine e un anticomunista sfegatato. E questo spiega sia la gestione di un golpe rientrato alle battute iniziali sia i legami più o meno inconfessabili, per i fascisti e per gli antifascisti.

    Borghese e Licio Gelli: una relazione pericolosa

    Iniziamo dalla cosa più pornografica per una certa mentalità politicamente corretta: i rapporti tra il principe e il venerabile della P2.
    È noto che Gelli riuscì ad accreditarsi come campione dell’atlantismo. Più complicato il discorso per Junio Valerio Borghese. Tuttavia, sulla base dei documenti disponibili, ci sono alcune certezze.
    Le espongono Jack Greene e Alessandro Massignano ne Il principe nero (Mondadori, Milano 2008): Borghese non fu un piduista ma era vicino a Gelli, che lo aveva favorito in momenti di crisi finanziaria. Ancora: sia gli ambienti dei Servizi sia gli extraparlamentari di destra erano infiltrati o condizionati dalla P2.

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    Licio Gelli

    Il tutto ha un corollario: di Gelli si può mettere in discussione ogni cosa, tranne l’atlantismo. Quanto bastava a creare una comunione d’interessi col principe.

    Borghese e la resistenza

    Col principe nessuno era al sicuro: neppure i partigiani.
    C’è una differenza fondamentale tra la Decima di Borghese e le milizie di Salò: la prima era un corpo autonomo, con uno statuto simile alla Legione Straniera; le altre un tentativo di creare un esercito regolare.
    Questa differenza fu riconosciuta dalle corti militari del dopoguerra, che trattarono meglio i militi della X Mas rispetto agli altri repubblichini. Ma la apprezzarono anche i comandi e l’intelligence alleati, che negoziavano sottobanco più con Borghese che col resto della Rsi. Inoltre, la apprezzarono i vertici delle brigate partigiane Osoppo, cioè i partigiani bianchi, che temevano e detestavano i “garibaldini”, cioè i partigiani comunisti.

    Due studiosi di vaglia, Giacomo Pacini e Giuseppe Parlato concordano su un punto: a partire dalla fine del ’44 ci furono abboccamenti tra la Decima e la Osoppo per concordare un’azione comune contro i partigiani di Tito. La proposta, avanzata dai partigiani fu fatta cadere. Non per l’antifascismo ma perché i seguaci di Borghese erano praticamente bolliti, dopo oltre un anno di guerra civile.
    Ancora: Pacini parla della vicinanza, nell’immediato dopoguerra tra vari reduci della Decima e gli ex partigiani bianchi. E allude alla possibile militanza di alcuni ex marò in Gladio, che era comunque una struttura di ex partigiani.

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    Partigiani della brigata Osoppo

    Borghese e Israele

    È il capitolo più piccante della vicenda.
    Tuttavia, ci sono dei dati certi sui rapporti tra Borghese e i gruppi da cui sarebbe sorto lo Stato di Israele. A dispetto di tutto quel che era capitato prima, leggi razziali incluse.
    Il partito di punta del movimento sionista era l’Irgun Zvai Leumi, un gruppo di estrema destra, che in Italia s’intese alla perfezione coi leader del nascente neofascismo (tra questi, Pino Romualdi) in nome dell’odio comune verso la Gran Bretagna.

    Borghese contribuì a modo suo: mise in contatto i rappresentanti dell’Irgun col suo braccio destro Nino Buttazzoni, che nel ’46 era latitante in Vaticano.
    Quest’ultimo, che non poteva esporsi, convinse i sionisti a ingaggiare due ex marò per addestrare gli incursori della futura Marina israeliana e impiegarli in funzione antibritannica. Dio stramaledica gli inglesi? Lo dicevano i fascisti, ma gli ebrei erano d’accordo. Non a caso, il corpo degli incursori della Marina israeliana si chiama XIII flottiglia. Manca solo Mas.

    Borghese e la Calabria

    Durante il maxiprocesso a Cosa Nostra, Luciano Liggio parlò dei suoi colloqui con Borghese in occasione dei preparativi del golpe. Le coppole siciliane, per bocca sua, declinarono l’invito.
    Molti picciotti calabresi, invece, l’accolsero. Almeno fu così per il clan De Stefano.
    Mafia o meno, occorre ricordare che Borghese era di casa in Calabria, grazie anche ai buoni uffici di Maria de Seta, la moglie di un altro principe nero: Valerio Pignatelli di Cerchiara, leader della resistenza fascista al Sud.
    I rapporti con la ’ndrangheta, di cui all’epoca non si percepiva la pericolosità, erano una conseguenza.

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    I funerali di Junio Valerio Borghese

    Per concludere

    I rapporti di Borghese con un certo estabilishment atlantista sono storicamente accertati.
    Il principe era stimato dai britannici, a cui aveva dato filo da torcere in guerra, era apprezzato dagli americani e dagli israeliani. E Gelli lo teneva in considerazione. Insomma, era l’ideale pedina anticomunista.
    C’è da dire che Borghese interpretò il ruolo alla grande. Anche nella curiosa ritirata finale. Cioè nel contrordine dato quando il golpe stava per entrare nel vivo.
    Al riguardo, in tanti evocano complotti. Ma forse la verità è più semplice, come racconta Miguel Gotor nel suo recentissimo Generazione Settanta (Einaudi, Torino 2022).
    Borghese aveva intuito che il golpe avrebbe potuto avere una sola riuscita: spaventare l’opinione pubblica e propiziare un governo autoritario di destra, che tuttavia, per prima cosa avrebbe represso proprio i “camerati”.

    Il dietrofront sarebbe dovuto essenzialmente a questa preoccupazione.
    Certo, se le cose stanno così, non serviva uno storico stellare come Gotor. Ma basta un regista geniale come Mario Monicelli, che nel suo Vogliamo i colonnelli (1973) racconta più o meno la stessa cosa.
    Già: non c’è nulla di meglio di una commedia, per raccontare il golpe da operetta di un ex eroe in declino…

     

     

     

  • Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

    Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

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    Per qualcuno, una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. Per altri, invece, un’adunanza di nostalgici, che mai avrebbe potuto prendere il potere. Si dibatte ancora, a distanza di 52 anni, sul tentato golpe Borghese. E tante sono, ancora oggi, le zone d’ombra su un’azione che aveva come proprio centro nevralgico la Calabria.

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    Il “Principe Nero” Junio Valerio Borghese molti anni prima del tentato golpe

    Il Golpe dell’Immacolata

    Un ex gerarca fascista, pezzi di destra eversiva, la P2 di Licio Gelli, pezzi di ‘ndrangheta. Una commistione di realtà e di interessi che, a metà tra storia e mito, rende il racconto ancor più inquietante. Quel progetto eversivo sarebbe dovuto scattare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. E si incastra in un momento di enorme cambiamento nelle dinamiche della ‘ndrangheta.

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    Ciccio Franco, uno dei protagonisti della Rivolta di Reggio

    Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della Destra eversiva. Secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.

    Un uomo da romanzo, il “principe nero”. Ex comandante della Decima Mas, fiero e carismatico avrebbe tentato di mettere in atto l’ultimo colpo d’ala di una vita avventurosa. Sfruttando, peraltro, il periodo che viveva la Calabria. Esattamente in quegli anni, infatti nasce la Santa, la ’ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria. Un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.

    Un sentiero che porta a Montalto, nel cuore dell’Aspromonte

    Il summit di Montalto

    Tutto affonda nel summit di Montalto del 26 ottobre 1969. In quell’incontro, nel cuore dell’Aspromonte, l’anziano patriarca Peppe Zappia ammonisce sulla necessità della ‘ndrangheta di organizzarsi, di essere unita. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndrangheta di ’Ntoni Macrì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», dovrà tuonare nel corso della riunione. Si discute di strategie, si discute di equilibri, si discute dell’alleanza con la Destra eversiva. Quella di Junio Valerio Borghese. Ma anche di Stefano Delle Chiaie, uomo forte di Avanguardia Nazionale. Legami, quelli tra le cosche calabresi e la destra eversiva, che si protrarranno per anni, fino ai rapporti tra la cosca De Stefano e Franco Freda.

    Stefano Delle Chiaie in un’aula di tribunale durante uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto

    Le divergenze tra i clan scaturiranno, invece, negli anni Settanta, nella prima guerra di mafia, in cui cadranno, tra gli altri, don ’Ntoni Macrì, e don Mico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale), oltre ai fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano, che fanno parte, però, della “nuova mafia”. Del nuovo che avanza, appunto.

    La ‘ndrangheta e le mafie in generale sarebbero dovute essere l’esercito di Borghese. Di contatti fra elementi mafiosi ed emissari di Junio Valerio Borghese parla anche il boss siciliano Luciano Liggio nel corso di una udienza svoltasi il 21 aprile 1986 dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Liggio racconterà di una riunione che si era tenuta a Catania con la presenza di Salvatore Greco, Tommaso Buscetta e dello stesso Liggio per discutere in merito all’adesione al golpe.

    Il piano per il Golpe Borghese

    Proprio i De Stefano e i Piromalli – le due cosche che, più delle altre, sarebbero artefici dell’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria – sarebbero state le famiglie calabresi più impegnate a favore del progetto di Borghese. A un nucleo speciale coordinato da Gelli sarebbe stato affidato il compito di rapire il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

    Il particolare emerge dalla sentenza-ordinanza emessa dal giudice di Milano, Guido Salvini. «Si trattava di un compito primario sul piano operativo e istituzionale nell’ambito del progetto di golpe e non è un caso che tale incarico fosse affidato ad un uomo del livello di Gelli, che godeva di molteplici, e allora ancora nascosti, contatti con i Servizi Segreti, l’Esercito, l’Arma dei Carabinieri e forse con Centrali internazionali» – si legge nel documento.

    La presa del potere

    «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: Italia, Italia, viva l’Italia!»

    Con queste parole, l’ex comandante della X Mas avrebbe dovuto salutare la presa del potere. Non un progetto fantasioso di arzilli nostalgici del Ventennio, ma un piano studiato nei minimi particolari in accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri. Il golpe del Principe nero prevedeva l’occupazione del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi Rai e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Tra i primi a riferire, nel 1992, dei legami tra ’ndrangheta e Destra eversiva per il tentato golpe Borghese è il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro. Dichiara anche che nell’estate del 1970 avvenne un incontro a Reggio Calabria tra i capibastone dei De Stefano (Paolo e Giorgio) e il principe Borghese attraverso l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo (secondo il collaboratore, ’ndranghetista ed esponente di Avanguardia Nazionale) per discutere sul colpo di stato.

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    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985

    Le sue dichiarazioni sono contenute nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, sulle attività della Destra eversiva. Nello stesso procedimento figuravano, tra gli altri, proprio Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli: «[…] Più volte alla ’ndrangheta fu richiesto di aiutare i disegni eversivi portati avanti da ambienti della Destra extraparlamentare fra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Paolo Romeo. I De Stefano erano favorevoli a questo disegno e in particolare al programmato golpe Borghese».

    A parlarne è anche l’ex estremista nero, Vincenzo Vinciguerra: «La mobilitazione avvenne nella provincia di Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. Anche in Calabria venne fatto riferimento, da persona che non intendo nominare, alla possibilità di mobilitare 4000 uomini sempre appartenenti alla ’ndrangheta ove la situazione politica lo richiedesse».

    Gli appartenenti alla ’ndrangheta, armati e mobilitati per l’occasione sull’Aspromonte, erano stati messi a disposizione dal vecchio boss Giuseppe Nirta, estimatore di Stefano Delle Chiaie il quale era in grado, secondo lui, di «ristabilire l’ordine nel Paese». Sul punto, anche il collaboratore Serpa ricorda come il summit di Montalto, dell’ottobre del 1969, dovesse servire per trovare un accordo tra i clan e il principe Borghese: «A Montalto doveva essere sancita l’alleanza tra l’organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe Borghese».

    Golpe Borghese, salta tutto

    Il golpe sarà però annullato per motivi ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, oscuri. Con l’avvio delle indagini Borghese fuggirà in Spagna, dove morirà nel 1974. I procedimenti imbastiti, tuttavia, finiranno con un nulla di fatto. Piuttosto accreditati, ma non provati, i coinvolgimenti sia dei Servizi segreti italiani, in particolare il Sid (Servizio Informazioni Difesa), sia della Cia americana. Un progetto che avrebbe visto un inquietante connubio tra destra eversiva, Servizi segreti, massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli) e criminalità organizzata.

    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985
    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    Da ultimo, sul punto, il racconto di Carmine Dominici, ex appartenente ad Avanguardia Nazionale e in quegli anni molto vicino proprio a Delle Chiaie. Quando decide di collaborare con la giustizia, Dominici parla del ruolo che l’organizzazione estremista avrebbe avuto in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia, tra cui la strage di piazza Fontana. Parla anche del golpe progettato da Junio Valerio Borghese. E racconta delle grandi manovre gestite, in quel periodo, dal marchese Fefè Genoese Zerbi, che era il referente di Avanguardia Nazionale sul territorio:

    «[…] Anche a Reggio Calabria eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dei Carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa. Il contrordine a livello di Reggio Calabria venne da Zerbi».

  • Intercettazioni, la Riforma Nordio piace a Occhiuto

    Intercettazioni, la Riforma Nordio piace a Occhiuto

    «Questo è il primo governo di centrodestra dopo tanti anni, con un magistrato ministro della Giustizia. Giudico positivamente il fatto che Nordio abbia avuto il coraggio di proporre certi temi, forse partendo da una posizione che è più favorevole a fare le riforme, proprio perché è un magistrato che è stato in trincea». Sono parole espresse da Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria, intervenuto oggi a “Tg1 Mattina” su Rai 1.

    «Abuso delle intercettazioni»

    «Nordio, ad esempio – ha sottolineato Roberto Occhiuto – è ancora più credibile quando dice che a volte c’è stato un abuso delle intercettazioni. Le intercettazioni sono uno straordinario strumento d’indagine. Lo dico io che governo una Regione nella quale è importante non avere alcun cedimento nell’attività di contrasto ai poteri criminali, ma a volte le intercettazioni sono diventate uno strumento di lotta politica».

    Giudici e azione penale

    «La separazione delle carriere – ha affermato Occhiuto – è un altro punto che Forza Italia ha sempre evocato come necessario per riformare il sistema della giustizia. Così come l’obbligatorietà dell’azione penale: se i magistrati sono bravi hanno la possibilità di stabilire quali attività vadano perseguite e quali no. Probabilmente queste riforme non sono state ancora fatte perché da tanti anni non c’è un governo con una maggioranza coesa come quella attuale. Questo è un governo che ha una maggioranza politica che in Italia non vedevamo dal 2011. Quindi, probabilmente questo esecutivo è nella condizione di fare ciò che governi con coalizione più larghe, che paradossalmente nascevano per realizzare cose più coraggiose, non sono riusciti fare».

  • Economia senza lavoro: il futuro bussa al reddito di cittadinanza

    Economia senza lavoro: il futuro bussa al reddito di cittadinanza

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    «Entro il prossimo secolo il lavoro di massa sarà cancellato da quasi tutte le nazioni industrializzate» (La fine del lavoro, J. Rifkin, ed. Baldini & Castodi). Era il 1995 e Rifkin spiegava che il lavoro, almeno per come siamo stati educati a pensarlo, è finito. Non era una profezia, era uno sguardo proiettato verso un futuro che già allora non era lontano e che oggi è diventato il tempo che stiamo vivendo. Quell’annuncio trova riscontro in quanto accaduto in questi decenni: oggi per produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri sono necessarie meno ore di lavoro e meno lavoratori.

    Vuol dire che un numero sempre maggiore di persone è stato e sarà espulso dal sistema produttivo, restando così senza reddito. A muovere questa rivoluzione è la capillare diffusione dell’alta tecnologia, che invece di promettere meno ore di lavoro e una migliore qualità della vita, ha generato disoccupazione globale e immiserimento delle esistenze. L’economia non si è fermata, semplicemente ha cominciato a fare a meno delle persone.

    L’economia fa a meno delle persone

    E se l’economia non genera più lavoro, ha ragione De Rose a domandarsi nella sua riflessione sul nostro giornale «che senso ha ancorare il destino di tante persone alla formula odiosa dell’occupabile?».
    È per questo che praticamente ovunque nei paesi ricchi si è provveduto a pensare a forme di reddito separato dal lavoro. Questi provvedimenti hanno molte facce: solidarietà sociale, rivendicazione del diritto all’esistenza, ma più di ogni altra motivazione quella più aderente alla realtà è garantire l’accesso al consumo.

    In Calabria in realtà questa è una vecchia storia: qui, dove abbiamo saltato ogni forma di sviluppo industriale e dove l’assenza di lavoro è endemica, il sostegno al consumo ha avuto le sembianze del clientelismo e delle pensioni di invalidità erogate à gogo. Nella nostra regione, secondo i dati Istat aggiornati al 2021, il 18,4 per cento della popolazione è senza lavoro, con la provincia di Crotone a guidare la classifica, seguita da Vibo, Cosenza, Catanzaro e Reggio.

    Reddito di cittadinanza: Calabria e numeri

    Nella regione con una storia antica di emigrati – quelli la cui vita era legata “alla catena di montaggio degli dei”, come scriveva Franco Costabile – e con livelli altissimi di disoccupati, sono ben 62.548 i nuclei familiari che vivono grazie al reddito di cittadinanza, che il governo ha annunciato di cancellare. Per maggiore precisione, secondo i dati forniti dal report “Monitoraggio sul reddito di cittadinanza” aggiornato al 2019, sono 149.626 le persone in Calabria che affidano la propria dignità a quella forma di sostegno economico.

    Nella terra dei “prenditori”

    Considerata la fragilità dell’economia calabrese, quante possibilità hanno di trovare un lavoro? Togliere loro il Reddito di cittadinanza si traduce nel costringerli ad emigrare, oppure ad accettare condizioni di lavoro lontanissime dai livelli accettabili di dignità.
    Questa terra è piena di “prenditori” che piomberanno famelici su questo esercito di persone senza tutele di alcun genere, esattamente quelli che fin qui si sono lamentati di non trovare lavoratori perché “sdraiati sul divano”.

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    Un meme pubblicato sulla pagina Fb “Sostituire frasi di Fisher a quelle di Coelho sulle foto degli influencer”

    E qui giungiamo all’aspetto più attuale e tragico: l’etica del lavoro, con la quale ci hanno sempre ingannato spiegandoci che solo il lavoro rende autenticamente liberi, è finita. Al suo posto è rimasto il moralismo che condanna l’ozio del divano, il reddito senza la fatica, in un mondo in cui il lavoro non c’è più. Aumenteranno i poveri e la disperazione sociale, che la destra si è mostrata storicamente più brava a trasformare in consenso.

  • Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

    Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

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    Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.

    Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
    Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.

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    Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”

    Bellocchio e la rivoluzione

    Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.

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    La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival

    Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. 

    Un manifesto politico con lo stile di sempre

    Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.

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    Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola

    La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.

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    Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca

    Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.

    I pedinamenti dei carabinieri

    Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.

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    Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.

    Un’occupazione in 100 minuti

    Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

    Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.

    Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.

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    Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.

    Paola, 1969

    C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.

    Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.

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    1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il Boom si è fermato ad Eboli

    Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità.
    Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.

    Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri

    Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.

    Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.  

    I poveri e l’avvocato del popolo

    La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.

    Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.

    Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice over dell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.

    Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.

    Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità

    Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.

    Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.

    Il ricordo di Bellocchio

    Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.

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    Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».

    Da comunisti a borghesi

    L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.

    I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.

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    Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.

    Un libro per capire meglio

    Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento».
    La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.

  • ‘O gerarca ‘nnammurato: Michele Bianchi e le lettere a Maria de Seta

    ‘O gerarca ‘nnammurato: Michele Bianchi e le lettere a Maria de Seta

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    Chi l’avrebbe mai detto che a un uomo tutto di un pezzo, il quadrunviro col frustino, potesse battere così forte il cuore, innamorato come un ragazzino di una donna che era già, e lo sarebbe stata ancor di più anni dopo, protagonista non certo occulta delle vicende italiane.
    La storia d’amore tra Michele Bianchi e Maria de Seta Pignatelli, nata Elia, sta tutta lì, in quel mazzo di lettere che Francesca Simmons, una nipote della marchesa, ha rintracciato nelle carte di famiglia, Anna De Fazio e Antonio Vescio hanno commentato e uno storico del calibro di Giuseppe Parlato ha introdotto e annotato, in un volume di quasi 200 pagine pubblicato da Brenner che avrebbe meritato, proprio per l’argomento e i protagonisti una veste editoriale migliore.

    Michele Bianchi e Maria de Seta: cronaca di un amore (e dell’Italia)

    Ma non è questo che conta. Contano i contenuti delle lettere finora sconosciuti. Lettere che come scrive Parlato nella sua introduzione «costituiscono non soltanto un significativo documento epistolare che segna un momento importante nel rapporto tra due personaggi pubblici, quali allora erano, ma soprattutto uno degli esempi nei quali la cronaca quasi quotidiana di un amore si intreccia con la storia italiana».

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    Maria Elia de Seta Pignatelli

    È un epistolario a senso unico, in verità, quindi parziale per scrutare a fondo in un rapporto a due. Sono soltanto le lettere d’amore e non solo che Michele inviava a Maria e che questa ha conservato quasi a “futura memoria”. Ora è vero che molto spesso Michele si dilunga a raccontare la propria giornata di lavoro come ministro, una specie di diario che affidava all’amante. Ma è altrettanto vero che intestando le lettere inizialmente con “mia preziosa amica”, “amica sempre più cara”, “amica cara e gentile”, e poi “gioia mia incomparabile”, innamorata mia”, “ti soffocherei di baci”, “mia fiamma ardente”, “tuo, tuo, tuo”, “amore mio bello” “baci e baci”, “morsi e morsi” e altre espressioni analoghe, ci dà l’idea della cotta di un collegiale più che di un uomo maturo, ministro del regime fascista che uno si immagina tutto di un pezzo come ho detto prima, parco di sentimenti, severo.

    «Mio tutto»

    Sono 77 lettere che il gerarca fascista Michele Bianchi, a quel tempo ministro dei Lavori Pubblici, tra il 5 agosto 1927 e il 19 settembre 1929, inviò alla marchesa Maria Elia de Seta Pignatelli. Se lette in sequenza esse danno anche il senso di un rapporto in crescendo, anche per l’intimità del linguaggio usato da Bianchi che da un asettico “amica mia sempre più cara” della prima lettera dell’agosto 1927, da “gentile marchesa” e “gentile amica”, passa ben presto (ottobre successivo) a “mia gioia divina” e poi “anima mia”, “mia tutto”, “vita mia”.
    Non fu un amore clandestino quello tra Michele e Maria perché in tanti sapevano. Fu in un certo senso un amore prudente, anche perché Maria aveva ben quattro figli. Si vedevano ma con discrezione anche se, come una qualsiasi coppia, facevano anche dei viaggi e si facevano vedere in pubblico assieme.

    Michele Bianchi pazzo di Maria de Seta. E lei di lui?

    Se dalle lettere appare chiaro che Michele si era “perso” per Maria, lei che sentimenti nutriva nei confronti di Michele? Dalle stesse lettere, indirettamente, è evidente che Maria provava gli stessi sentimenti di Michele. Era innamorata e anche gelosa. In una sua lettera, una letteraccia come Michele la definisce, lo accusava di tradimento. E lui come in una qualsiasi coppia di innamorati risponde con una tenerezza «che avalla un po’ gli aculei della passione», dando spiegazioni: «Dov’ero quando tu, alle 6,30 del 14, telefonasti per la prima volta? Presso quale donna? Presso nessuna donna. Ero presso un uomo: S.E. Grandi. È perché? Perché pochi momenti prima avevo ricevuto l’acclusa lettera della tua “Bonne”».

    michele-bianchi-mussolini
    Michele Bianchi con Mussolini

    Pubblico e privato

    È un epistolario, insomma, che vale la pena di leggere perché consegna, se non alla storia almeno alla memoria, l’altra faccia, quella privata, di un uomo pubblico che uno si immagina senza passioni, di un sindacalista rivoluzionario, di un uomo di lotta, di un interventista della prima ora, del fondatore dei Fasci di azione rivoluzionaria, di un Sansepolcrista fondatore dei Fasci di combattimento che trasformò il movimento in Partito Nazionale Fascista di cui fu il primo segretario, di un uomo di governo, di un uomo la cui immagine pubblica stride con il contenuto delle lettere d’amore inviate alla marchesa.

    Pantaleone Sergi

  • Mezzogiorno di vuoto: tra dire e fare ancora 0-0

    Mezzogiorno di vuoto: tra dire e fare ancora 0-0

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    Quanto una prevalente impostazione culturale a carattere umanista ha contribuito a insediare e consolidare l’impianto individuale e collettivo del Mezzogiorno? Non è soltanto l’appartenenza a un insieme di radici che affondano e si intrecciano fra loro a partire dal mondo ellenico e ebraico e quindi cristiano attraverso inestricabili sentieri sincretici via via tracciati e ritracciati a marcare la differenza con gli imprinting dell’illuminismo e del protestantesimo.

    La cultura del fare, il riconoscere nella dimensione imprenditoriale e industriale una galassia comportamentale che impregna di sé i vari ambiti della vita dell’uomo è non solo una visione del mondo ma interessa dalle fondamenta, conseguentemente, architetture istituzionali e modi di stare in esse.

    Non solo Pensiero meridiano

    Nel Mezzogiorno, complici concause di non marginale importanza quali la forte impronta impressa da dominazioni particolarmente grevi e strutture fisico morfometriche non incoraggianti la socializzazione, il richiamo di Franco Cassano al Pensiero Meridiano hanno rappresentato pleonasticamente, anni fa, l’apertura a un insieme di paradigmi che in verità era iscritto nel suo DNA fin dalle origini. E la stessa forse ormai superata (forse) polemica sull’osso e la polpa, fra (presunta) vocazione agraria e opzione industriale che Manlio Rossi Doria agitò decenni fa altro non è che l’altra faccia della medaglia, la rappresentazione di quanto di recente ha riproposto Giuseppe Lupo del gruppo che fa capo alle posizioni di Adriano Olivetti e del suo stretto collaboratore Leonardo Sinisgalli.

    Cosa può fare la letteratura?

    Echi tutt’altro che silenti di questo dualismo, di un dibattito che a volte affiora ma nel complesso non decolla, si avvertono in parte della letteratura meridionale di oggi dove produzioni riconducibili a Rea, Ottieri, Volponi, non sono rinvenibili né forse mai esistite. E la letteratura, la forma romanzo, è, lo sappiamo, non soltanto fiction né semplice evasione: contiene in sé potenti capacità di coinvolgimento, sintesi, rappresentazione del detto così come del non detto. Senza disturbare mostri sacri e intoccabili, senza chiamare in causa Benedetto Croce e i numerosi epigoni, come qualcuno forse spericolatamente ha fatto, è facile in ogni caso individuare nelle stesse organizzazioni politiche e nei loro impianti statutari oltre che nelle piattaforme programmatiche una sorta di consecutio del magistero in cui domina il pensare sul fare, la teoria sul pragmatismo.

    Se pure sono plausibili queste riflessioni, per forza di cosa schematiche fino all’apparire brutali (mi rendo conto), nel frattempo il fare è diventato sempre più difficile, meno praticabile, il pensare s’è arrestato alla fine della storia o al “www” senza frontiere. Ripensare a Croce con la lente dei giorni nostri potrebbe essere la chiave.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • «Occupabile sarà lei!»: la povertà diventa status

    «Occupabile sarà lei!»: la povertà diventa status

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    Un nuovo soggetto rivoluzionario si aggira per l’Italia: l’occupabile.
    Si tratta, secondo la previsione normativa, di “soggetti sani, dall’età anagrafica compresa tra i 18 anni e i 59 anni che non abbiano nel nucleo familiare disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni di età, che non svolgano un’attività lavorativa (sia autonomamente che come subordinati) e che non frequentino un corso di studi o di formazione”.

    L’occupabile e il reddito di cittadinanza

    A leggere la lista dei requisiti, sembrerebbe tutto sommato una categoria di fragilità minore.
    E invece no perché, nel frattempo, sono diventati oggetto di una contesa che sta a metà tra la logica economica tout court e il peggiore paraculismo burocratico Italian style. Si tratta infatti di un esercito di ben 660mila unità destinate, nella migliore delle ipotesi, a ricevere il sussidio del Reddito di Cittadinanza, condizionato e non oltre gli 8 mesi, in attesa dello stop definitivo previsto, per gli occupabili, nel 2024.

    E se il lavoro non c’è?

    Ora la domanda è: ma l’occupabile, comunque disoccupato perché non trova lavoro, perché dovrebbe perdere il sussidio? Solo perché non ha malattie, figli disabili o genitori a carico?
    La sensazione, triste, è che solo lo scivolamento verso la povertà assoluta possa rendere, di fatto, gli occupabili destinatari del reddito di cittadinanza.
    Se l’economia non genera lavoro, che senso ha ancorare il destino di tante persone a questa formula odiosa dell’occupabile?

    Un futuro paradossale

    La beffa delle moderne politiche attive del lavoro è tutta qui: dato il rallentamento della crescita e la pre-recessione, considerato che è difficile trasformare gli occupabili in occupati, solo chi certificherà e documenterà la propria povertà potrà accedere ai sussidi.
    Paradossalmente, quindi, la povertà deve diventare status per trasformarsi in diritto al sussidio.
    Occupabili di tutta Italia unitevi: la povertà è il vostro futuro.
    Con buona pace di Keynes, moltiplicatori, acceleratori e pieno impiego.