Tag: politica

  • Campora addio: il Tar boccia Amantea

    Campora addio: il Tar boccia Amantea

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Niente da fare: il Tar ha bocciato il secondo ricorso con cui Amantea voleva bloccare il referendum che chiede agli abitanti di Campora San Giovanni se vogliono staccarsi per creare un nuovo Comune assieme alla vicina Serra d’Aiello.
    I giochi sono fatti e l’esito della consultazione è scontato, visto che voteranno solo i camporesi e i serresi,
    La “nuova” Amantea sarà mutilata, perché i suoi confini si fermeranno alla foce del fiume Oliva. Sull’altra sponda nascerà Temesa, un nuovo Comune in cui si fonderanno Serra e Campora.

    amantea-campora-tar-celebra-divorzio
    Scorcio del centro storico di Amantea (foto di Camillo Giuliani)

    Campora e Amantea, una scissione mascherata

    Non è la prima volta che Campora vuole divorziare da Amantea. Al riguardo, i promotori dell’attuale referendum ricordano che già negli anni ’70 i camporesi avevano tentato il distacco con una raccolta di firme che finì in niente.
    Stavolta, invece, la manovra è riuscita meglio, perché gli organizzatori hanno presentato la scissione sotto le mentite spoglie di un’annessione.

    Ovvero: non è Campora che vuole andar via, ma la vicina Serra d’Aiello che vuole annettersela per creare un nuovo Comune.
    L’operazione, a prima vista, sembra ineccepibile, perché Campora è abitata essenzialmente da serresi e da persone provenienti da Aiello Calabro.
    In più, c’è la presunta eredità dell’antica città greca, Temesa appunto, a nobilitare il tutto.

    amantea-campora-tar-celebra-divorzio
    Reperti del Museo di Temesa

    I numeri non mentono

    Ma se si guarda ai numeri, le cose non stanno proprio come le hanno presentate il Comune di Serra e il comitato promotore.
    Serra d’Aiello, nota nel recente passato per lo scandalo dell’Istituto Papa Giovanni XXIII, ha appena 516 abitanti ed è prossima all’irrilevanza demografica.
    Campora, al contrario, è il boccone grosso, grazie ai suoi 3.047 abitanti.
    Temesa, quindi, sarebbe un Comune di 3.516 abitanti, in cui i camporesi farebbero la parte del leone.

    Tuttavia, secondo i bene informati, Temesa non si fermerebbe qui, ma dovrebbe, nei prossimi anni, inglobare anche Aiello Calabro (1.388 abitanti) e Cleto (1.176 abitanti).
    I numeri, in questo caso cambiano, perché il nuovo Comune arriverebbe a 6.127.
    Non cambia, però, il problema giuridico: il Testo unico degli Enti locali vieta la costituzione di nuovi Comuni al di sotto di 10mila abitanti.
    Ma la perla vera di questa storia è un’altra.

    Il Tirreno come i Balcani

    La delibera del Consiglio Regionale 82 del 6 giugno 2022, che approva il referendum consultivo con cui i serresi e i camporesi dovranno dar vita a Temesa, contiene dei passaggi strani. Inquietanti, nella peggiore delle ipotesi, o involontariamente comici nella migliore.
    A pagina 4 del documento, infatti, si apprende che amanteani e camporesi apparterrebbero quasi a etnie diverse: arabi gli uni e magnogreci gli altri.
    Leggere per credere: «la diversa terminologia e la cadenza della lingua dialettale comunemente parlata dai Camporesi, è quasi identica a quella parlata dai Serresi e simile al dialetto parlato dai cittadini di Aiello Calabro».
    Perciò «palese è la netta diversità dal vernacolo amanteano che identifica innegabilmente la propria etnia, che a tutt’oggi fa risaltare l’influenza araba degli invasori».

    Ustascia croati durante la guerra civile jugoslava

    L’argomentazione ricorda alcuni ragionamenti deliranti degli etnonazionalisti balcanici durante la guerra civile della ex Jugoslavia. Solo che allora si confrontavano per davvero popoli diversi, con culture e lingue diverse (serbi, croati, sloveni, albanesi ecc).
    Non è il caso dell’attuale basso Tirreno. Fermiamoci qui, perché anche al trash c’è un limite. Con tutto il rispetto per storia e archeologia.

    Amantea: una città in ginocchio

    Il referendum per l’accorpamento di Campora e Serra è l’ennesima pugnalata ad Amantea, che oggi non se la passa bene, ma che la scorsa primavera, quando tutto è iniziato, era addirittura in ginocchio.
    La cittadina tirrenica, infatti, era priva di sindaco perché commissariata per mafia (la seconda volta in poco più di dieci anni). Ma Amantea ha un problema peggiore della ’ndrangheta: le casse, oberate da un debito difficile da quantificare e comunque enorme.
    Secondo i bene informati, il “buco” oscillerebbe tra quaranta e cinquanta milioni. Se si considera che il bilancio cittadino dovrebbe pareggiare attorno ai 15 milioni, la situazione è border line. E ricorda assai da vicino quella di Cosenza, fatte le debite proporzioni tra popolazione, gettito fiscale e territorio.

    I manovratori del Referendum: Graziano il “legislatore”

    Diamo un nome ai protagonisti di questa storia. Il primo è Giuseppe Graziano, consigliere regionale già in quota Forza Italia e tornato a Palazzo Campanella in quota Udc. Graziano è famoso per aver presentato la legge regionale 2 del 2018, che fondeva i Comuni di Rossano e Corigliano.
    Graziano, la scorsa primavera, è stato autore della proposta di legge 54-112 che promuove la nascita di Temesa.
    Domanda: come mai il “ginecologo” della nascita del più grande Comune del Cosentino, oggi promuove la mutilazione di una città?

    amantea-campora-tar-celebra-divorzio
    Giuseppe Graziano

    Cuglietta: il sindaco frontman

    La proposta non è farina del sacco di Graziano. Ma proviene dall’amministrazione di Serra d’Aiello, guidata da Antonio Cuglietta, diventato sindaco in seguito a un ricorso andato a segno contro la ex prima cittadina Giovanna Caruso. Cuglietta è il frontman dell’operazione, che tuttavia lascerebbe piuttosto tiepidi i suoi concittadini.
    Già: Serra, travolta dal crack del Papa Giovanni, è uscita da poco dal dissesto finanziario. Se si fondesse con Campora, rischierebbe di ripiombarci, perché forse erediterebbe la parte del debito amanteano che la frazione porterebbe con sé.

    Iacucci: l’utente finale

    I bene informati, ancora, riferiscono della presenza di Franco Iacucci nella Commissione affari costituzionali della Regione durante i lavori preparatori del referendum.
    Una presenza curiosa, visto che Iacucci non fa parte di questa commissione. Tuttavia, l’ex presidente della Provincia di Cosenza sarebbe il beneficiario principale della nascita di Temesa e della sua ulteriore espansione.
    Già storico sindaco di Aiello, Iacucci è molto radicato nella zona. Non è da escludersi perciò un suo interesse politico diretto. Il quale motiva anche il ruolo defilato tenuto dal consigliere.

    amantea-campora-tar-celebra-divorzio
    Franco Iacucci guarda con interesse alla separazione di Campora da Amantea

    Campora via, Amantea sulle barricate

    Ciò ha causato qualche imbarazzo al Pd di Amantea, in particolare al consigliere comunale Enzo Giacco, che ha chiesto al suo partito di intervenire in maniera energica.
    Cosa non avvenuta, visto che la delibera del Consiglio regionale è passata con 23 voti su 25 votanti e 6 assenti. Il Pd, evidentemente, o non si interessa troppo di Amantea o non vuole pestare i piedi a un suo big.

    La resistenza amanteana, praticamente bipartisan in Consiglio comunale, è guidata dal sindaco Vincenzo Pellegrino, insediatosi lo scorso giugno. Pellegrino ha tentato due ricorsi al Tar.
    Il primo, con cui chiedeva la sospensione del referendum, è stato rigettato con un’ordinanza. Col secondo, l’amministrazione è entrata nel merito e ha chiesto l’annullamento del referendum.

    Vincenzo Pellegrino

    Cala il sipario. Per ora

    Ancora non è detta l’ultimissima parola, che potrebbe spettare al Consiglio di Stato.
    Ma al momento Amantea subisce l’ennesima batosta.
    Già: non bastavano le infiltrazioni criminali, non bastavano i debiti. Ora la sua frazione più grossa se ne va. E porta con sé molte attività commerciali e produttive. E, soprattutto, il porto e il Pip, i due asset strategici che forse sono il vero motivo di tutta l’operazione. Più povera e adesso mutilata, l’ex regina del Tirreno scende un altro gradino in direzione di un declino che sembra inesorabile.
    A meno che non ci sia un giudice a Roma meglio disposto nei suoi confronti.

  • Batoste al Tar e “parentopoli”: che pasticcio a Cirò Marina

    Batoste al Tar e “parentopoli”: che pasticcio a Cirò Marina

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Ha sollevato un polverone a Cirò Marina a inizio estate il “caso padel”  lanciato da I Calabresi. Tutto è nato da un permesso per costruire rilasciato alla ditta Signor Padel Srls. Il provvedimento era opera dell’Ufficio Tecnico del Comune di Cirò Marina, guidato dal presidente della Provincia di Crotone, Sergio Ferrari.

    Galeotto fu il padel a Cirò Marina

    Il terreno su cui costruire l’impianto appartiene ad Antonietta Garrubba, socia unica della srls in questione. Il catasto lo qualifica come uliveto con un reddito agrario di 5,86 euro, perciò non edificabile.
    Una svista amministrativa da sanare in autotutela? Probabile. Ma la Garrubba è moglie dell’amministratore unico e legale rappresentante dell’impresa, Giuseppe Farao. E suo marito è stato condannato nel processo Stige in primo grado a 13 anni e 6 mesi per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato dall’agire mafioso.

    Farao-Silvio-cattura (1)
    La cattura di Silvio Farao

    Inoltre, lo stesso si è visto infliggere alcune pene accessorie: incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per 5 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’espiazione della pena.
    Giuseppe è figlio di Silvio Farao, ritenuto uno dei boss della locale di Cirò, condannato in Stige a 30 anni di reclusione e attualmente detenuto. Padre e figlio, è doveroso aggiungere, sono tuttora sotto appello, quindi le loro condanne non sono definitive.

    Una revoca tempestiva

    A seguito della notizia de I Calabresi, il sindaco annunciò dopo poche ore (il primo giugno scorso) la revoca del provvedimento firmato il giorno prima dall’allora responsabile dell’ufficio tecnico, l’architetto Raffaele Cavallaro.
    In effetti, il 3 giugno uscì un altro provvedimento, sempre a firma di Cavallaro. L’atto comunicava l’avvio della revoca del permesso di costruire “incriminato” e la sospensione di ogni effetto, sia per l’errata destinazione d’uso, sia per acquisire «la prescritta documentazione inerente i requisiti dei soggetti richiedenti, dell’impresa e del progettista».

    permesso-padel-farao

    Il ricorso di Farao

    Non si è fatto attendere il ricorso al Tar Calabria di Giuseppe Farao, discusso in udienza pubblica lo scorso novembre. Dinanzi ai giudici amministrativi, Farao ha sostenuto che «l’attività amministrativa (del Comune di Cirò Marina, ndr) sarebbe stata sviata dal clamore mediatico verificatosi, in quanto non sarebbe stata altrimenti necessaria l’acquisizione della documentazione antimafia ai fini del rilascio del permesso di costruire» e che «in ogni caso, l’iter amministrativo seguito sarebbe evidentemente illegittimo, essendo stati contestuali la comunicazione dell’avvio del procedimento, la sospensione degli effetti del titolo edilizio e il suo annullamento». Al contrario, il Comune di Cirò Marina ha rivendicato la correttezza della revoca a firma di Cavallaro.
    Risultato: Comune condannato (in persona del sindaco in carica) alla rifusione delle spese legali a Farao, pari a 4mila euro più oneri.

    Condanna per il Comune di Cirò Marina

    Secondo il Tar Calabria (sentenza 2222 dello scorso 7 dicembre, presidente Giovanni Iannini), «il Comune di Cirò Marina non avrebbe dovuto revocare sic et simpliciter il permesso di costruire in ragione della mancata acquisizione della comunicazione antimafia; piuttosto, avrebbe dovuto acquisire tale documentazione, provvedendo solo all’esito e in base alle risultanze di questa» e che «in ogni caso, la concentrazione in un solo giorno della comunicazione di avvio del procedimento, della sospensione cautelare degli effetti del provvedimento e la revoca del titolo costituiscono, come già sottolineato in sede cautelare, violazione del corretto sviluppo del procedimento amministrativo, da cui deriva l’illegittimità del provvedimento impugnato».

    Sbaglia ma non paga?

    Insomma, secondo il tribunale, il funzionario del Comune ha “toppato” sia nel concedere il permesso di costruire a Farao, sia nel revocarlo.
    Lo stesso 3 giugno scorso, giorno del dietrofront con la Signor Padel Srls, il sindaco Ferrari aveva tolto a Cavallaro la titolarità della posizione organizzativa dell’Area urbanistica per «particolari inadempienze amministrative», pur mantenendolo nell’incarico di istruttore. Un incarico fiduciario, espressamente revocabile «per risultati inadeguati», come rilevato anche dall’ex deputato Francesco Sapia in una formale interrogazione parlamentare al Ministero dell’Interno sul caso padel.

    Raffaele-Cavallaro
    Raffaele Cavallaro

    Lo stesso Cavallaro, benché privato della posizione organizzativa (e, quindi, del potere di firma), è rimasto nel medesimo ufficio con le medesime incombenze. Né risulta aperto un procedimento disciplinare a suo carico.

    Una vittoria di Pirro per Farao

    Quella di Giuseppe Farao potrebbe essere, però, una vittoria di Pirro. La necessità della certificazione antimafia non è infatti il frutto improvviso del “clamore mediatico”.
    Su questo rilevante punto, il Tar cita un precedente del Consiglio di Stato. E rileva che «il permesso di costruire di cui si tratta non è meramente riconnesso al godimento di un terreno di cui la società ricorrente abbia disponibilità, ma – evidentemente – legato all’esercizio di un’attività imprenditoriale relativa al gioco del padel».

    TAR-Calabria
    La sede del Tar a Catanzaro

    Allora, «la fattispecie ricade nell’ambito di applicazione della normativa antimafia che, ad ampio spettro, esige che l’attività economica sia espletata con il corredo della documentazione antimafia che, ove mancante, impone la paralisi dell’attività medesima e la rimozione dei suoi effetti».
    In soldoni: la revoca è stata un gran pasticcio, ma la certificazione antimafia serviva prima e serve ancora adesso. Qualora non fosse rilasciata, il Comune di Cirò Marina dovrà fare una nuova revoca.

    Cirò Marina, una famiglia in Comune

    A Cirò Marina nel frattempo a tenere banco è un altro argomento. Niente a che vedere con i tribunali stavolta, ma c’entra sempre il municipio. È lì dentro, infatti, che si registra il rapido avanzamento di carriera di una dipendente comunale, Maria Natalina Ferrari, sorella del sindaco.
    Con decreto 1 del 28 gennaio 2022, da dipendente di categoria C è diventata responsabile dell’Area servizi alla persona con relativa posizione organizzativa per una indennità di 8.246,11 euro. L’ha nominata il vicesindaco Pietro Francesco Mercuri, benché privo di delega al personale.
    Né risulta dal decreto che Mercuri avesse avuto una delega dal sindaco per questo provvedimento. Insomma, sembrerebbe un altro pasticcio amministrativo. Che, però, non finisce qui.

    pietro-mercuri-ciro-marina
    Pietro Mercuri con Giorgia Meloni

    La supersorella di Ferrari…

    Con la determinazione n. 378 del 27 giugno scorso, il responsabile dell’Area Affari generali Giuseppe Fuscaldo ha indetto una selezione per una procedura comparativa per la progressione verticale di una unità di Categoria D, posizione economica D1, riservata al personale interno di Cirò Marina per il profilo di Istruttore direttivo.
    Una sola candidata ha partecipato alla selezione, come si evince dall’ulteriore determina di Fuscaldo n. 683 dello scorso 20 settembre. Indovinate chi? La sorella del sindaco Ferrari, Maria Natalina, contrattualizzata nel nuovo ruolo dal primo di ottobre.

    ferrari-sorella-ciro-marina
    Il sindaco Ferrari e sua sorella

    Il presidente della Commissione valutatrice era Nicola Middonno, segretario generale della Provincia di Crotone (guidata, ricordiamo, da Sergio Ferrari). I componenti erano Giulio Cipriotti, nominato il 3 giugno 2022 responsabile dell’Area urbanistica dal sindaco al posto di Cavallaro, e Nicodemo Tavernese, vicesegretario comunale e cognato del consigliere comunale di Cirò Marina, Giuseppe Russo (ha sposato la sorella di Tavernese), che a sua volta è zio del sindaco per via materna.

    … e la nipote del vicesindaco

    C’è chi fa rilevare, ancora, che tra i vincitori del concorso per agente di Polizia locale di Cirò Marina (graduatoria finale approvata con determinazione n. 848 del 14 novembre scorso) vi sia anche Morena Pizino, la nipote del vicesindaco Pietro Mercuri.
    Insomma, tra pasticci e promozioni il Comune di Cirò Marina torna a far parlare di sé. In paese e non solo.

  • Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha pubblicato il suo report sulla qualità della vita nelle 107 province italiane. E come ogni anno quelle calabresi si ritrovano nei bassifondi della classifica. Fanalino di coda, 107esima su 107, è infatti Crotone. Ma le altre quattro rappresentanti della Calabria non vanno molto meglio. Vibo si piazza al 103esimo, Reggio una posizione più su, Catanzaro 96esima. Cosenza, la meglio piazzata, tiene alto il nomignolo della regione alla posizione numero 95.
    Il quotidiano di Confindustria analizza la qualità della vita attraverso sei macrocategorie, suddivise a loro volta in molteplici indicatori. Ma da qualsiasi punto si analizzi la classifica è impossibile non notare come, invece di progredire, i nostri territori registrino un arretramento.

    Qualità della vita a Cosenza

    Prendiamo il caso di Cosenza, punta di diamante della regione alla luce dei risultati. La provincia bruzia peggiora in 5 categorie su 6. Rispetto all’anno precedente scende di due posizioni in classifica per quanto riguarda Ambiente e servizi (ora è 58esima), Cultura e tempo libero (posizione n°98). Si ritrova 103esima per Ricchezza e consumi, prima era cinque posti più su, e 80esima (da ex 71esima) nella categoria Demografia e società. Precipita di ben 44 posizioni in classifica (ora è 85esima) anche in quella Giustizia e Sicurezza anche per l’incapacità di riscuotere i tributi dei Comuni che la compongono. In questa specifica sottocategoria, infatti, è la terzultima in tutta Italia.

    citta-unica-qualita-della-vita

    Si registra, al contrario, un bel balzo in avanti nella classifica che riguarda il settore Affari e lavoro. In questo caso la provincia di Cosenza guadagna 16 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie anche a una percentuale sopra la media nazionale per quel che riguarda l’imprenditorialità giovanile. Ma anche qui c’è poco da esultare. Cosenza, infatti, anche nella sua performance migliore tra le 6 macrocategorie non va oltre l’80° posto in classifica.

    I dati di Catanzaro

    A Catanzaro, invece, si può festeggiare per i pochi furti negli appartamenti: solo in altre tre province italiane ne denunciano meno. Va molto peggio nei tribunali però, con la provincia che si piazza al penultimo posto nazionale per durata delle cause civili e i reati legati a stupefacenti; quartultima invece per la quota cause pendenti ultratriennali, con una durata media che è due volte e mezza quella del resto d’Italia. La provincia del capoluogo regionale comunque può essere soddisfatta rispetto al recente passato. Migliora infatti in tre macrocategorie: Affari e lavoro (50°; + 20 rispetto al 2021), Ambiente e servizi (41°; + 10) e, seppur di poco, Cultura e tempo libero (95°; + 2). Sarà, in quest’ultimo caso, per le 8,8 librerie ogni 100mila abitanti, contro le 7,7 della media nazionale.

    in-fondo-a-sud-catanzaro-la-capitale-del-gran-bazar-calabrese
    (foto Antonio Capria)

    Reggio Calabria, la più lenta nei pagamenti

    A Reggio Calabria invece le fatture si pagano più tardi che in tutto il Paese: se altrove la media è di 10 giorni oltre i canonici 30 usati come indicatore, sullo Stretto il tempo extra sale a tre settimane. Certo, la provincia reggina è tra quelle più soleggiate (15°), ma l’apporto al clima di Madre Natura contrasta con il terzultimo posto nella categoria Ambiente Servizi (l’anno scorso era 25 posti più su in classifica). Reggio è terzultima anche per quel che riguarda Cultura e tempo libero, addirittura un gradino più giù se si parla di Ricchezza e consumi.

    reggio-calabria-citta-sedie-vuote-comunita-resistenti-i-calabresi
    Nubi minacciose sull’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Sale invece di ben 40 posizioni (ora è 58esima) nel settore Affari e Lavoro, nonostante sia 101esima per tasso di occupazione. Sale anche di 23 posizioni, piazzandosi 52esima, in Giustizia e Sicurezza. Anche qui pesa parecchio la lunghezza delle cause in tribunale, così come il numero altissimo di cause civili, circa il 40% in più che altrove.

    Vibo Valentia non è una provincia per donne

    Vibo invece è la migliore d’Italia per imprenditorialità giovanile sul totale delle imprese registrate, ma anche la peggiore di tutte quando si parla di qualità della vita per le donne. Paradossale, inoltre, che la provincia della Capitale del libro si piazzi nei bassifondi quando si parla di Indice di lettura (87°), Offerta culturale (105°) e librerie (7,3 ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 7,7). In più è la seconda provincia del Paese per numero di estorsioni, quella col maggior numero di cause pendenti ultratriennali e con le cause civili che durano di più. Il valore, in quest’ultimo caso, è di 1.453, in Italia si ferma a 561,9.

    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    Anche il Vibonese, nonostante tutto, può comunque festeggiare per la qualità dell’aria (19°), uno dei dati che gli permette di risalire 14 posizioni, piazzandosi 78° in Ambiente e servizi. E, anche se non esistono o quasi start up innovative sul territorio, anche in Affari e lavoro la classifica segna un sontuoso +49 nel settore Affari e lavoro: ora Vibo è 52esima, l’anno scorso era 101esima.

    Qualità della vita, Crotone ancora nei bassifondi

    Infine Crotone, che si conferma fanalino di coda nazionale. Da qui sono in tanti a scappare, il decuplo che dal resto d’Italia: la provincia pitagorica è 107esima per saldo migratorio totale. Ma Crotone è anche ultima per Depositi bancari delle famiglie consumatrici e Spesa delle famiglie per il consumo di beni durevoli. È anche il territorio con la percentuale più alta di beneficiari del reddito di cittadinanza.E poco importa che qui le case costino in media 1000 euro in meno al metro quadro rispetto al resto del Paese.

    crotone-acqua-diventa-eterna-crisi-idrica-tutta-provincia-i-calabresi
    Italia. Crotone 2013: Veduta della città: Crotone è circondata da colline di argillose che la dividono in due.
    (foto © Agostino Amato)

    Crotone e la sua provincia sono anche il posto dove si studia meno: ultima per numero di laureati (o con altri titoli terziari), penultima per anni di studio tra la popolazione over 25, quart’ultima per persone con almeno un diploma. Chi non studia, però, ha poco da fare nel tempo libero: pochissime librerie (104°), palestre e piscine (106°), ancor meno spettacoli (107°). In compenso gli amministratori pubblici sono tra i più giovani del Paese (4°), nonostante da queste parti si registri la più bassa partecipazione elettorale d’Italia. Qui almeno, però, le cause civili durano meno della media (57°). E in mancanza di altri svaghi si passa il tempo tra le coperte: in sole tre province italiane le donne partoriscono prima che a Crotone, dove l’età media delle neo-mamme si attesta a 31 anni, contro i quasi 32 e mezzo del resto d’Italia.

  • Dal Galles alla Calabria: John Trumper, il prof superperito degli anni di piombo

    Dal Galles alla Calabria: John Trumper, il prof superperito degli anni di piombo

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    È il 1972. Siamo a Gorizia, uno dei confini caldi con l’ex Jugoslavia.
    Come tutto il Friuli, anche questa provincia è militarizzata. Ma la vicinanza al regime titino è solo uno dei problemi di questa zona. L’altro, non secondario, è costituito dalla presenza massiccia dei movimenti extraparlamentari di destra, soprattutto Ordine Nuovo. Questi gruppi vivono un rapporto ambiguo con il Msi di Giorgio Almirante, che nello stesso periodo assorbe i monarchici e vara la Destra nazionale.
    Infine, in Friuli opera Gladio, l’organizzazione paramilitare che gestisce la Stay Behind in Italia. Gladio non è solo un gruppo anticomunista, che agisce sotto le direttive (e la copertura) della Nato. È anche un ambiente potenzialmente esplosivo, in cui convivono ex partigiani bianchi, reduci di Salò e neofascisti.

    trumper-strage-peteano-delitto-moro
    I resti della Fiat 500 usata per la strage di Peteano

    Antefatto: Trumper, un professore curioso

    Negli stessi anni inizia la sua carriera un giovane linguista gallese, arrivato in Italia per studiarne l’incredibile varietà di dialetti e suoni.
    John Trumper, all’epoca non ha ancora trent’anni: è fresco di laurea e si alterna tra la neonata Università della Calabria e, quella, ben più antica, di Padova.
    Trumper, che si occupa di fonetica e linguistica, allora non immagina che grazie a queste sue specialità avrà un ruolo importante nelle tragedie giudiziarie degli anni’70, appena iniziati.

    Il boato di Peteano

    La sera del 31 maggio del ’72 i carabinieri di Gorizia ricevono una telefonata anonima.
    Il “telefonista” segnala una strana presenza a Peteano, una frazione del piccolo Comune di Sagrado: una Fiat 500 abbandonata in una stradina. L’auto ha un particolare inquietante: dei fori di pallottola sul parabrezza.
    Una pattuglia si reca subito sul luogo. La guida il sottotenente Angelo Tagliari, che, dopo aver ispezionato la zona, apre il cofano della vettura.
    La serratura è collegata a una forte carica esplosiva, che si attiva in maniera devastante: il boato sbalza Tagliari di parecchi metri. L’ufficiale si salva solo perché la portiera gli fa da scudo, ma perde una mano e riporta ustioni e altre ferite gravissime.

    trumper-strage-peteano-delitto-moro
    Le vittime della strage: da sinistra, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni

    Invece, muoiono sul colpo tre carabinieri, tutti meridionali. Sono il brigadiere Antonio Ferraro, un 31enne siciliano, che lascia la moglie incinta, e i militari Donato Poveromo, un lucano di 33 anni, e il leccese Franco Dongiovanni, di appena 23 anni.
    Nessuno rivendica l’eccidio, che resterà avvolto nel mistero per oltre dieci anni: solo nel 1984 il neofascista Vincenzo Vinciguerra se ne assumerà la responsabilità dopo una lunga latitanza all’estero.

    Una strage “minore”

    La strage di Peteano vanta due sinistri primati. Innanzitutto, è l’unica strage su cui sia stata fatta piena chiarezza. Ed è l’unica strage fascista che ha per vittime dei militari.
    Ma quella di Peteano è una strage “minore”, che passa quasi in secondo piano rispetto a quelle, mostruose, di piazza Fontana a Milano (1969) e piazza della Loggia a Brescia (1974).
    Tuttavia, c’è un tratto sinistro che accomuna questi tre massacri: la difficoltà delle indagini, dovuta a una serie di depistaggi.

    trumper-strage-peteano-delitto-moro
    I funerali dei tre carabinieri caduti

    Il dirottatore

    È il 6 ottobre 1972. Siamo a Ronchi dei Legionari, una cittadina del Goriziano dove c’è l’aeroporto del Friuli Venezia Giulia.
    Un uomo sale a bordo di un piccolo aereo civile diretto a Bari. Questi, subito dopo il decollo, minaccia l’equipaggio con una pistola e lo costringe a tornare indietro.
    Il dirottatore chiede la liberazione di Franco Freda, leader veneto di Ordine Nuovo, in quel momento accusato per la strage di piazza Fontana.

    Le forze dell’ordine tentano prima di trattare. Poi fanno l’irruzione, a cui segue una sparatoria. L’uomo resta ucciso.
    È l’ex paracadutista Ivano Boccaccio, noto per la sua militanza in Ordine Nuovo e per lo stretto legame politico con Vinciguerra, ex militante missino di origine siciliana passato a On, e con l’udinese Carlo Cicuttini.
    Quest’ultimo non è solo un ordonovista, ma è stato anche segretario della sezione missina del suo paese, San Giovanni al Natisone.

    La pistola fumante

    trumper-strage-peteano-delitto-moro
    Vincenzo Vinciguerra durante il processo per la strage di Peteano

    Se gli inquirenti avessero repertato subito i bossoli trovati vicino alla 500 di Petano, che avevano provocato i fori nel parabrezza, si sarebbero accorti che i colpi provenivano dalla pistola ritrovata addosso a Boccaccio.
    E non ci avrebbero messo molto a fare il classico uno più uno, perché quella pistola apparteneva a Cicuttini.
    Cicuttini finisce sotto processo assieme a Vinciguerra per il dirottamento di Ronchi. Ma nessuno pensa ai due per Peteano.

    I depistaggi

    Le indagini su Peteano iniziano in maniera a dir poco strana. Non le coordina la Polizia giudiziaria di Gorizia, ma le gestisce il colonnello Dino Mingarelli, che guida la Legione carabinieri di Udine, su ordine diretto del generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e piduista.
    La quasi totalità delle stragi fasciste è stata coperta da depistaggi sistematici, che funzionavano con lo stesso meccanismo: attribuire alla sinistra estrema i delitti della destra. Così per piazza Fontana, così per Peteano.
    Infatti, gli inquirenti provano ad affibbiare a Lotta Continua la 500 esplosiva.

    Ma la pista non regge e ne emerge un’altra, non più “rossa” ma “gialla”. Cioè non una pista politica ma indirizzata alla delinquenza (più o meno) comune.
    Inizia così un’odissea giudiziaria per sei giovani goriziani, accusati di aver fatto saltare in aria i quattro carabinieri di Peteano per vendicarsi di torti subiti dall’Arma.
    I sei scontano un anno di galera. Vengono prosciolti in primo grado, ma sono costretti a giocarsi la partita vera in Appello, dove interviene Trumper.

    Trumper il superperito

    Secondo la difesa degli imputati goriziani, è decisiva la telefonata anonima che aveva attirato i carabinieri a Peteano.
    Trumper, che nel 1976 è già un’autorità nella fonetica, viene incaricato delle perizie e perlustra il Goriziano armato di registratore.
    Il risultato è inequivocabile: la parlata del telefonista non è goriziana ma udinese. Per la precisione, il telefonista del ’72 parlava un dialetto tipico della bassa valle del Natisone. Manca solo il nome: Cicuttini.
    Ma è quanto basta per scagionare i sei. Ma che fine aveva fatto Cicuttini?

    Almirante: tra doppiopetto ed eversione

    Finiti sotto processo per il dirottamento di Ronchi, Cicuttini e Vinciguerra sono assolti in primo grado nel 1974.
    Ma scappano proprio mentre si prepara l’Appello e gli inquirenti stanno per incarcerarli.
    Cicuttini, in particolare, si rifugia nella Spagna franchista, grazie a un doppio canale: l’Aginter Press, l’organizzazione semiclandestina che gestiva gli estremisti di destra di tutt’Europa, e il Movimento sociale italiano. In particolare, finisce nei guai Giorgio Almirante, che copre la latitanza dell’ex segretario friulano, mentre i Servizi segreti e alcuni inquirenti depistano alla grande. Perché?
    Sul ruolo ambiguo dei Servizi e di settori interi delle forze dell’ordine è inutile soffermarsi: al riguardo continuano a scorrere i classici fiumi d’inchiostro.

    Giorgio Almirante nei primi anni ’70

    Per il leader missino, invece, si può fare un’ipotesi minima. Cicuttini, infatti, era un personaggio a due facce: da un lato era un ordinovista, anche piuttosto pericoloso, dall’altro restava legato al Msi. Cioè a un partito che in quegli anni aveva sposato una linea di destra conservatrice e legalitaria.
    Perciò Almirante lo avrebbe coperto per evitare che il suo partito finisse coinvolto in una strage, tra l’altro a danno dei carabinieri. Ma, come ha ricostruito alla perfezione Paolo Morando nel suo recente L’ergastolano (Laterza, Roma-Bari 2022), non sapremo mai la verità. Formalmente incriminato per favoreggiamento, Almirante si sottrae al processo grazie a un’amnistia. Tuttavia il cerchio attorno a Cicuttini e Vinciguerra si stringe lo stesso.

    Trumper e Toni Negri

    Grazie anche alla vicenda di Peteano, la reputazione di Trumper cresce a dismisura. Una fama meritata, di cui il glottologo gallese dà prova in un altro celebre processo: quello sul delitto Moro.
    Anche in questo caso, la perizia di Trumper è fondamentale per scagionare un sospettato illustre: Toni Negri, accusato di essere il telefonista che aveva segnalato la Renault rossa col cadavere di Moro in via Caetani (in realtà, il “messaggero” era Valerio Morucci).

    Toni Negri

    L’intervento del prof di Arcavacata, in questo caso, è cruciale per confutare un teorema, accarezzato allora da non pochi inquirenti, secondo cui tra Potere Operaio – di cui Negri era stato leader assieme a Franco Piperno – e le Br ci fosse una continuità assoluta.
    Scagionare Negri, come ha fatto Trumper, ha evitato una pista falsa anche se non ha chiarito tutti i dubbi.
    Giusto una suggestione per concludere: Trumper è stato collega sia di Negri a Padova sia di Piperno all’Unical. Ma è inutile, al riguardo, aggiungere altro: sarebbe solo l’ennesima dietrologia.

  • Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Vorrei iniziare con una domanda provocazione: che fine ha fatto “la mano invisibile del mercato” nelle scelte del centrodestra?
    Già solo a leggere i programmi economici, si intuisce un caos spaventoso. Si passa dalle grandi opere infrastrutturali, tipo Ponte sullo Stretto e Alta Velocità ferroviaria (quale volano keynesiano dello sviluppo e della creazione di ricchezza) alla flat-tax di Laffer, quale strategia fiscale a supporto della crescita e dei consumi ( e qui siamo in piena supply side economics) fino ad arrivare, nelle scelte degli enti locali territoriali, addirittura, alla gestione semi diretta (simil-IRI per intenderci) di impianti termali, di aeroporti e chissà di cos’altro ancora.

    Centrodestra: tanti voti e poche idee?

    La risposta più ovvia, ma da evitare, è sempre quella: attese le diversità delle anime politiche che lo abitano, il centrodestra resterebbe un efficacissimo cartello elettorale ma un debolissimo progetto politico ed economico.
    Tale caratteristica legittimerebbe le asimmetrie ideologiche e il coacervo, apparentemente irrazionale, di approcci alle questioni di politica economica. Troppo semplice, quasi banale.
    La mia impressione è che ciò sia dovuto a qualcosa di più problematico: si tratterebbe, al contrario, di una risposta politica alla complessità di una fase storica che non consente lussi, quali l’eleganza metodologica piuttosto che l’ortodossia ideologica, nella definizione delle policy.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Il centrodestra ha abbandonato ormai da tempo la polverosa identità del sogno berlusconiano per sfociare in un pragmatismo deputato a fare sintesi tra liberismo-liberalismo, sovranismo e destra sociale.
    A ben vedere, le tre anime ideologiche del centrodestra stanno provando a cedere quote parte della propria sovranità culturale a vantaggio di un passaggio successivo capace di riallinearle sotto una comune veste strutturale.
    Sarà, forse, la formula istituzionale del (semi) presidenzialismo la nuova frontiera comune del centro destra? E quale DNA economico animerà il nuovo contenitore liberale dei conservatori italiani?

    Che si fa con la destra sociale?

    Deglobalizzazione ed emergenze ambientali, di sicuro, offriranno poco spazio a nostalgie di governance ispirate al liberismo puro.
    D’altra parte, considerando che, in termini elettorali, allo stato, Lega e Forza Italia, insieme, pesano meno di Fratelli d’Italia, appare ovvio immaginare una precisa riconfigurazione delle direttrici di politica economica, non propriamente ispirate al sovranismo e al liberismo della Lega e di alcuni settori di Forza Italia.

    centrodestra-uno-e-trino-che-dira-il-dio-mercato
    Le percentuali alle Politiche 2022

    Tuttavia, e qui sta la novità, molti politologici e troppi economisti tendono, inspiegabilmente, a sottovalutare la significativa matrice di destra sociale che caratterizza Fratelli d’Italia. Identificare la destra sociale nella destra liberista (o presunta tale) di Berlusconi e Salvini rappresenterebbe un grande errore e non restituirebbe la vera immagine della coalizione attualmente al governo. Le battaglie su periferie, ceti deboli, ruolo dello Stato, emarginati, famiglie, artigiani sono da sempre il terreno di coltura della destra sociale e di Fratelli d’Italia.

    Liberali all’italiana: il centrodestra e il mercato

    L’impressione è che si vada verso una nuova economia sociale di mercato capace di coniugare crescita e redistribuzione passando per il rafforzamento pubblico degli asset infrastrutturali (energia, autonomia alimentare, digitale, trasporti) senza arrossire dinanzi alla necessità della difesa degli interessi nazionali.
    Presidenzialismo, identità nazionale, nuove autonomie territoriali, Europa, mercato, politiche redistributive: il nuovo partito dei liberali italiani, forse, sta già muovendo i primi passi.

    centrodestra-uno-e-trino-che-dira-il-dio-mercato

    Attenzione tuttavia a non confondere, come spesso accade, tale possibile evoluzione con il modello renano (o neo corporativo) prevalente in Germania o Giappone, dove coesistono libertà di mercato, concertazione, dirigismo e, soprattutto, sindacati proattivi.
    La sfida italiana è più sottile e, nello stesso tempo, meno agevole.
    Dinanzi ad uno scenario inedito, fatto contemporaneamente di lotta al debito pubblico e di inflazione a doppia cifra, che politica economica e fiscale possiamo permetterci? E ancora, cosa significa essere liberali o attenti al sociale, con risorse pubbliche mai così rare e con imprese mai così insicure in termini di aspettative?

    Oltre le Regioni

    Occorre, forse, che questo centrodestra ripensi il paradigma dell’economia sociale di mercato. Un primo ordito metodologico potrebbe consistere nel rilancio (finalmente) del capitale civico, dell’economia civile e del protagonismo territoriale delle categorie. Costruire cioè unità geopolitiche diverse dalle attuali Regioni (troppo indistinte ed inefficienti) ed aggregare policy e territori sulla base di filiere produttive e sociali condivise.
    Il centrodestra potrebbe tentare di approcciare, ad esempio, la questione meridionale rivoluzionando la scala degli interventi e piuttosto che varare l’ennesimo piano decennale per il Sud (fatalmente destinato al flop, al pari dei suoi predecessori come la legge 64/1986) puntare finalmente su programmi di filiera capaci di aggregare territori omogenei e non “Regioni” ormai prive di senso identitario e politico.

    La sede della Giunta regionale della Calabria a Germaneto

    È ora di dire basta ai soliti POR e agli ormai ventennali partenariati regionali fantasma che nulla discutono, tutto approvano e poco spendono.
    Il dibattito è aperto. Servirebbe un po’ di coraggio. Politico. Anche europeo.

  • Protesta in piazza e corse alle poltrone: Reggio, una città allo sbando

    Protesta in piazza e corse alle poltrone: Reggio, una città allo sbando

    La legge è uguale per tutti. Per alcuni è più uguale che per gli altri. È il paradosso che vive la città di Reggio Calabria. In trappola. Sospesa, proprio come la maggior parte dei suoi principali esponenti politici. In un momento cruciale, in cui servirebbero guide stabili, ma, soprattutto, una visione anche per la gestione dei fondi del PNRR.
    E, invece, l’amministrazione comunale galleggia, naviga a vista. E si rende protagonista di scelte quantomeno discutibili, costituendosi parte civile in alcuni processi contro gli amministratori e non in altri.

    I presunti brogli elettorali

    È accaduto appena pochi giorni fa anche nell’udienza preliminare che vede imputato il consigliere comunale e capogruppo del Partito Democratico a Palazzo San Giorgio, Antonino Castorina, accusato dalla Procura di presunti brogli elettorali nel corso delle elezioni del settembre 2020. In quell’occasione, nel raggiro che avrebbe architettato Castorina, risulterebbe anche il voto di un centinaio di anziani che in realtà non si erano mai recati al seggio. Persino persone decedute, secondo l’impostazione accusatoria sostenuta dai pm coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri.

    reggi-ostaggio-big-comune-parte-civile-grazia-falcomata
    Antonino Castorina

    Uomo forte del Pd, Castorina, con rapporti intensi anche con il partito romano. È considerato «promotore, organizzatore e capo indiscusso» di un’associazione per delinquere finalizzata a «commettere più delitti in materia elettorale» finalizzati ad ottenere l’elezione in consiglio dello stesso Castorina. Tra gli imputati c’è pure l’ex presidente del Consiglio comunale Demetrio Delfino (oggi assessore comunale), accusato, assieme al segretario dell’ufficio elettorale Antonio Covani, di abuso d’ufficio in relazione all’autonomina di Castorina a componente della commissione elettorale.

    Il caso Miramare

    La costituzione come parte civile di Palazzo San Giorgio contro chi avrebbe truccato le consultazioni appare il minimo sindacale. Allo stesso tempo rappresenta un paradosso politico e amministrativo il fatto che l’Ente non si sia costituito parte civile (come avrebbe dovuto fare altrettanto doverosamente) anche contro il suo sindaco, Giuseppe Falcomatà, anch’egli del Partito Democratico, condannato appena poche settimane fa anche in appello nell’ambito del cosiddetto “Caso Miramare”.
    Anche i giudici di secondo grado, infatti, hanno riconosciuto la colpevolezza di Falcomatà e della sua ex Giunta per l’affidamento di una parte dell’ex albergo Miramare, immobile di pregio della città, alla semisconosciuta associazione Il sottoscala, dell’amico imprenditore Paolo Zagarella.

    reggi-ostaggio-big-comune-parte-civile-grazia-falcomata
    Giuseppe Falcomatà

    In quel processo, scatenando le ire delle opposizioni, Palazzo San Giorgio non è stato così solerte come avvenuto nel processo contro Castorina. E oggi quella scelta stride ancora di più dopo la condanna in appello che ha fatto ripartire la sospensione nei confronti di Falcomatà, lasciando, nuovamente, in sella il facente funzioni Paolo Brunetti, nominato vicesindaco in fretta e furia poche ore prima della condanna di primo grado.
    Nei giorni successivi, la macchina propagandistica di Falcomatà ha lanciato la crociata contro la Legge Severino, un tempo sostenuta dal Pd. Dall’Ufficio Stampa della Città Metropolitana sono partite diverse mail con l’adesione di svariati sindaci dell’hinterland reggino, che chiedono l’abrogazione della legge che impone la sospensione in caso di condanne, anche non definitive. Qualcuno si è poi anche smarcato da tale manovra.

    Reggio in ostaggio, la protesta

    Per il medesimo caso, è stata invece assolta in appello l’ex assessore Angela Marcianò, unica a scegliere il rito abbreviato e grande accusatrice di Falcomatà.
    In città, quindi, è caos politico, con un’amministrazione che pare alla deriva, senza una rotta chiara su quasi alcun aspetto. Dalle opere, fino agli eventi e alle luminarie di Natale.

    reggi-ostaggio-big-comune-parte-civile-grazia-falcomata
    Reggio in ostaggio, un momento della protesta a corso Garibaldi

    Il malcontento cresce e appena pochi giorni fa corso Garibaldi, strada principale della città, è stato teatro di un corteo che ha avuto una riuscita che forse neanche gli stessi organizzatori si aspettavano. Ad animare la protesta, che chiedeva le dimissioni in blocco della maggioranza, il centrodestra. Ma per le strade del centro si sono ritrovati in circa 500, molti dei quali senza una tessera di partito. Segno evidente di uno scollamento che gli ultimi eventi hanno sancito tra la cittadinanza e la sua classe dirigente.

    La corsa alla poltrona

    Il vuoto politico è percepito dai cittadini. Ma è percepito anche da chi vuole tentare di formarsi o riformarsi un ruolo amministrativo. E così, negli ultimi giorni, fioccano le (auto)candidature, tra uomini nuovi (o presunti tali) ed esponenti che le istituzioni le hanno già animate. Con risultati altalenanti.

    Tra questi, l’imprenditore Pino Falduto, assai noto in città e già componente della maggioranza che sosteneva Italo Falcomatà negli anni ’90. Si propone ora (con un non meglio identificato dream team) come panacea dei mali di Reggio, per la sua resurrezione.

    A volte ritornano: Eduardo Lamberti Castronuovo

    Il suo annuncio segue di pochissimi giorni l’auto-candidatura del medico ed editore Eduardo Lamberti Castronuovo, già candidato nel 2007 e sconfitto malamente da Peppe Scopelliti. Nella sua carriera politica ha svolto anche il ruolo di assessore provinciale. E il suo nome compare (pur senza mai essere stato indagato) nelle conversazioni di Paolo Romeo, considerato un’eminenza grigia della masso-‘ndrangheta, che lo indicava (millantando o no, non è dato sapere) come suo uomo.

    Insomma, la girandola è iniziata. E Reggio Calabria guarda tutto ciò proprio come un ostaggio guarda quella piccola luce che filtra da dietro la porta della propria cella. Senza capire di cosa si tratti realmente.

  • Stessi diritti: Sud alla carica contro le oligarchie del Nord

    Stessi diritti: Sud alla carica contro le oligarchie del Nord

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Ci risiamo: l’autonomia differenziata è tornata al centro del dibattito, dov’era entrata poco prima delle Politiche del 2018, su iniziativa degli allora tre governatorissimi del Centronord-che-conta: Luca Zaia, Roberto Maroni e Stefano Bonaccini.
    Il tutto con un inquietante trasversalismo (Bonaccini, è il caso di ricordare, è dem di estrazione Pci) che lascia mal sperare.
    L’allarme, allora, partì da Gianfranco Viesti, guru dell’economia, e fu accolto soprattutto da Roma in giù.
    E ora? Ha provveduto Massimo Villone, costituzionalista ed esponente della sinistra dura-e-pura, a rinfrescare la lotta con un ddl che prova a dare uno stop al cosiddetto neoautonomismo, iniziato più di venti anni fa con la riforma del Titolo V della Costituzione promossa da D’Alema.

    autonomia-differenziata-confronto-esperti-villa-rendano
    Un momento del dibattito a Villa Rendano

    Se n’è parlato il 9 novembre a Cosenza, per la precisione a Villa Rendano, in Stessi diritti da Nord a Sud, un dibattito promosso dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che ha restituito gli umori e le preoccupazioni sulle autonomie.

    Falcone: il Sud alla Riscossa

    Il Sud alla riscossa? Sì. Ma stavolta non fa rivendicazioni inutili o gratuite. Lo ha chiarito Anna Falcone, giurista e portavoce di Democrazia Costituzionale, che sostiene il ddl Villone: «Il Coordinamento Democrazia Costituzionale non vuole demolire l’autonomia differenziata, che anzi per vari argomenti può essere utile».
    Piuttosto «miriamo a garantire i diritti fondamentali del cittadino attraverso l’uniformità normativa».
    In pillole: «Ci sono materie che non possono essere gestite direttamente dalle Regioni, neppure da quelle più ricche». E cioè: Sanità, Scuola e istruzione, Università e ricerca, Lavoro e Infrastrutture. «Questi settori», prosegue Falcone, «Devono essere disciplinati dalla legge dello Stato per garantire l’uniformità di trattamento di tutti i cittadini».

    Altrimenti, «L’Italia rischia di fare un percorso antistorico: un Paese già non grande di suo che si spezzetta in aree più piccole si indebolirebbe davanti all’Ue, che ha fatto il contrario». Ovvero, che «sta pian piano cementando la sua identità politica attraverso i fondi del Pnrr». Detto altrimenti: attraverso la solidarietà.

    autonomia-differenziata-confronto-esperti-villa-rendano
    Anna Falcone

    Esposito: attenti al portafogli

    Non è del tutto vero che il Coordinamento Democrazia Costituzionale non abbia rivendicazioni. Lo ribadisce l’intervento di Marco Esposito, firma economica de Il Mattino di Napoli e autore di due libri chiave di un certo neomeridionalismo: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020).
    «Il progetto dell’autonomia differenziata contiene un nuovo pericolo, dovuto al Pnrr». In pratica, alcune classi dirigenti del Nord, secondo Esposito, «mirano a egemonizzare questi fondi».
    Con un risultato paradossale: «L’Ue ha concesso i fondi all’Italia sulla base di tre parametri a rischio: popolazione, disoccupazione e reddito», che sono determinati (purtroppo) dalla situazione del Sud.
    Viceversa, se si fosse puntato sul Pil, che avrebbe avvantaggiato il Nord «il Paese avrebbe avuto le briciole».

    L’inghippo dell’autonomia differenziata

    Quindi, i problemi del Mezzogiorno consentono l’incasso dei fondi, che tuttavia il Nord vuole capitalizzare. Anche con un meccanismo non bello: la predisposizione di una “cassa” da cui le Regioni ricche potrebbero attingere i fondi che i “terroni” non sono in grado di impiegare.
    Ma la situazione è cambiata: «Il Sud non è solo, perché una parte dell’opinione pubblica settentrionale ha capito l’inghippo» ed è pronta a dare battaglia.

    autonomia-differenziata-confronto-esperti-villa-rendano
    Marco Esposito

    Gambino: il Parlamento è impotente

    Silvio Gambino, costituzionalista e ordinario Unical, denuncia un’altra insidia: la marginalizzazione del Parlamento nell’attuazione delle autonomie differenziate.
    «La legge Calderoli, che attua il comma 3 dell’art. 16 della Costituzione, è bloccata. Tuttavia, è prevista un’intesa diretta tra governo e Regioni, che il Parlamento può solo accettare o respingere in blocco, senza possibilità di emendamenti».

    Una specie di plebiscito da aula, che non consente passi indietro, a meno che non vogliano farli le Regioni. «Tuttavia, perché una Regione dovrebbe rinunciare a ciò che la avvantaggia?».
    Ma la avvantaggia fino a un certo punto: «Se l’autonomia differenziata passasse», spiega ancora Gambino, «Ci troveremmo di fronte al paradosso per cui una Regione a Statuto ordinario come la Lombardia avrebbe più poteri di una Regione a Statuto speciale come la Sicilia, che a sua volta ne ha di più della Baviera, che non è una Regione, ma il più ricco Stato federato della Germania». Ogni altra considerazione è superflua.

    Paolini: che brutta la prepotenza delle oligarchie

    Più barricadero, Enzo Paolini di Avvocati Anti-Italicum. L’autonomia differenziata, argomenta Paolini, «è una delle due facce della stessa medaglia». L’altra è il Rosatellum.
    Già: «Il sistema elettorale attuale è prodotto dalla stessa cultura istituzionale che vuole riformare le autonomie». Cioè «una cultura irrispettosa del rapporto tra cittadini e rappresentanti e che vuole privilegiare solo le oligarchie».

    Giannola: silenzio, parla Svimez

    In chiusura del dibattito, il lungo intervento di Adriano Giannola, il presidente di Svimez. Più di quaranta minuti a braccio, densi di concetti e polemiche, gestiti con tono pacato ma parole ferme.
    Il ragionamento centrale di Giannola è semplice: il Sud è ridotto male, ma il Nord arretra. Morale della (brutta) favola: le tre Regioni che vogliono l’autonomia differenziata rischiano di  diventare le cenerentole dell’Europa settentrionale.
    Di questo pericolo ci sono le avvisaglie: «Il Piemonte è entrato nell’area di coesione e alcune Regioni del Centro (Marche e Umbria) sono in palese declino».

    adriano-giannola
    Adriano Giannola

    Quindi, o si cresce tutti assieme oppure il crollo sarà inesorabile: solo questione di tempo.
    La possibilità di ripresa passa attraverso la posizione geografica dell’Italia: «Il centro del Mediterraneo che guarda verso l’Africa, un continente problematico ma in forte crescita commerciale».
    Ma con la litigiosità interna e la scarsa intenzione del governo a gestire seriamente le opportunità, quasi non ci sono vie di uscita.
    I terroni, quando si arrabbiano, incutono qualche timore. Ma quando pensano fanno addirittura paura.

  • Da Peppe mani di forbice ai cubani: tante ricette, nessuna cura

    Da Peppe mani di forbice ai cubani: tante ricette, nessuna cura

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Peppe Scopelliti, allora trionfante presidente della Calabria, quel giorno di settembre del 2010 solcava la folla adorante per entrare nel cinema Morelli come Mosè aveva aperto il Mar Rosso. Era venuto a Cosenza per annunciare la sua cura per salvare la malatissima sanità regionale: chiudere gli ospedali. Appena sotto il palco, in prima fila, l’allora deputato dell’Udc Roberto Occhiuto plaudiva sorridendo alla decisione. Il nome dato all’evento politico era “Meno sprechi, più qualità” e sappiamo com’è andata a finire: i calabresi sono rimasti senza cure, Scopelliti è finito in carcere (ma scontata la pena è riuscito a portare a casa una discreta somma da baby pensionato) e Roberto Occhiuto è diventato presidente della Regione. Quel pomeriggio non poteva certamente immaginare che la patata bollentissima della sanità sarebbe finita proprio nelle sue mani.

    Sanità in Calabria, non si salva nessuno

    Quella scelta, di chiudere ben 18 ospedali, non era una decisione di stampo tatcheriano, ispirata dalla cieca fiducia nel mercato del liberismo lacrime e sangue. La Destra italiana, infatti, non ha mai avuto quella drammatica statura. Fu invece una ricetta fatta in casa: abbiamo debiti? Chiudiamo gli ospedali. Il prezzo l’hanno pagato quelli che non hanno trovato strutture di prossimità, né qualità in quelle lontane. Non solo: la spesa non è diminuita, così come il debito mostruoso accumulato in decenni di politica bipartisan. Perché in questa storia triste non c’è chi si salvi, da Chiaravalloti a Loiero, da Scopelliti a Oliverio, fino alla breve parentesi di Santelli, passando per l’interregno di Spirlì.

    Emergenza e normalità

    Nel mezzo la Calabria ha dovuto affrontare la più grande pandemia del dopoguerra con strutture sanitarie inadeguate, pochi medici, risorse insufficienti. Era una emergenza, ma anche la normalità non è che andasse bene. Mesi per effettuare una ecografia, o qualunque esame diagnostico, una crepa dentro cui si è con profitto infilata la sanità privata facendo di fatto la differenza tra chi può pagare e curarsi e chi no, alla faccia di quanto scritto sulla Costituzione circa il diritto alla salute.

    Sanità, un anno dopo

    Oggi il deputato che sorrideva all’idea di mutilare la sanità calabrese ha ereditato, anche da se stesso, un fardello gravosissimo e in soccorso ha chiamato circa 500 medici cubani dei quali, annunci a parte, si è saputo poco o nulla. A Repubblica, nel febbraio 2022 dichiarava «Sono commissario alla Sanità da due mesi e ho trovato un disastro» e ottimisticamente aggiungeva: «ma datemi un anno». Febbraio 2023 è vicino, un anno passa in fretta.

  • C’era una volta la Sanità a Cariati [VIDEO]

    C’era una volta la Sanità a Cariati [VIDEO]

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «Quando a Cariati hanno chiuso l’ospedale è stato come se avessero chiuso la Fiat». L’amarezza di Cataldo Curia, attivista del comitato Le Lampare Basso Jonio Cosentino, la dice tutta. Perché, oltre a garantire il diritto alla salute, il nosocomio del piccolo centro sulla SS 106 assicurava anche tanti posti di lavoro. Un presidio economico e sociale importante per molti medici, infermieri e personale sanitario della zona.

    PER GUARDARE IL VIDEO CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA

    ospedale-cariati-occupato-lotta-lampare-diventa-cinema
    L’ingresso dell’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)

    Quando ha aperto, nel 1978, era una struttura così all’avanguardia che chi era già emigrato al nord decideva di tornare a Cariati per partorire “a casa”. «Mia madre abitava a Bolzano e decise di farmi nascere all’ospedale di Cariati perché all’epoca era una struttura all’avanguardia», rivendica emozionata una giovane donna, all’uscita dal cinema San Marco di Corigliano Rossano. È il 6 dicembre e ha appena visto la seconda anteprima nazionale del film documentario C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, dei registi Federico Greco e Mirko Melchiorre, prodotto da Studio Zabalik.

    C’era una volta l’ospedale a Cariati

    I due film-maker romani hanno scelto di iniziare proprio dalla punta dello Stivale, con tappe a Reggio e Rossano, il tour di questo “western” sulla distruzione della sanità pubblica in Italia. Un richiamo a Sergio Leone in salsa calabra, a partire dalla chiusura dell’ospedale di Cariati con la «resistenza epica» dei cittadini che lo hanno occupato durante la pandemia per chiederne la riapertura.
    C’era una volta in Italia è a tutti gli effetti il sequel di PIIGS, del 2017, film narrato da Claudio Santamaria, che racconta gli effetti nefasti delle politiche di austerity sul caso specifico del lavoro della Cooperativa sociale Il Pungiglione di Monterotondo (Rm).

    ospedale-caritati-occupato-lotta-lampare-diventa-cinema
    Federico Greco durante le riprese a Cariati

    Stavolta Federico Greco torna alle origini. «Mio padre era di Crotone – ricorda il regista – e ho riscoperto questa terra filmandola». Si trovavano proprio nel capoluogo pitagorico, con il collega Melchiorre, e stavano facendo riprese per Emergency all’ospedale dove era appena arrivato Gino Strada per gestire il reparto covid.
    Lì vengono a sapere dell’occupazione dell’ospedale di Cariati e vanno subito a capire cosa stesse accadendo. «Non ricordo altre occupazioni di un ospedale prima d’ora – spiega Melchiorre – e ci ha colpiti il coraggio e la tenacia di questi cittadini, giovani e anziani insieme, che sono andati avanti a testa alta e con pazienza per rivendicare il diritto alla salute».

    Così è successo che il film è diventato parte integrante dell’occupazione. «Abbiamo seguito – spiega Greco – la lotta delle Lampare per molto tempo. Infatti abbiamo narrato sia i momenti duri, tristi, sia quelli molto entusiasmanti». Come l’appello di Roger Waters, proprio durante la loro intervista. «Le sue parole, come avete visto, sono finite su tutti i telegiornali e l’ospedale di Cariati è diventata una questione internazionale».
    Proprio come il documentario che, nel solco di PIIGS, segue il doppio binario glocal.

    Come distruggere la sanità pubblica

    Si parte dalla storia di un piccolo territorio e gli effetti delle politiche globali su di esso. La privatizzazione della sanità e il Washington Consensus, le dieci raccomandazioni dell’economista inglese John Williamson al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e al Tesoro degli Stati Uniti, che puntavano alla liberalizzazione del commercio estero e del sistema finanziario, con l’obiettivo di attrarre capitali stranieri nei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) per condizionare l’intervento statale nell’economia.
    Poi la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, nel 2001, che di fatto trasforma il Sistema Sanitario Nazionale, in un sistema sanitario regionale, aggravando le grandi disparità economiche e sociali tra Nord e Sud Italia e la conseguente emigrazione sanitaria da quest’ultimo verso il centro-nord.

    Come risultato, documentato nel film, un’ambulanza privata della Misericordia, che si inerpica di corsa e a fatica sulle strade dissestate dell’entroterra jonico «che sembrano bombardate», fa notare Greco, per andare a prendere con la barella una persona nel paesino di Scala Coeli. «Abbiamo voluto mostrare, a chi calabrese non è, cosa significhi essere costretti a percorrere anche poche decine di chilometri dissestati in questi luoghi abbandonati, nella rincorsa al primo Pronto Soccorso vicino».

    Indonesia, Cile, Calabria: a ciascuno la sua Giacarta

    Il “metodo Giacarta” fu il massacro di comunisti nel genocidio in Indonesia deciso dal generale Suharto nell’ottobre 1965. Si replicò in Cile, quando per le strade di Santiago comparirono le scritte Ya viene Jacarta, un disegno mortale contro il presidente democratico Salvador Allende (e i suoi sostenitori), ucciso dal golpe militare di Pinochet l’11 novembre 1973.

    Giacarta, inteso come massacro dei diritti sociali, a partire dalla salute, è arrivata anche in Calabria. C’è una data precisa che lo testimonia e ringraziamo la collega giornalista Giulia Zanfino per averci concesso le immagini dell’intervista a Roberto Occhiuto, allora neoeletto deputato Udc, oggi presidente della Regione Calabria e commissario straordinario della Sanità calabrese.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il 9 ottobre 2010 sedeva in prima fila nel gremito Teatro Morelli di Cosenza, dove l’ex presidente Scopelliti presentava il piano di rientro dal debito sanitario. Occhiuto rivendicava la riforma e i tagli: «Oggi spieghiamo ai cittadini e agli operatori del settore che la sanità non può più essere un baraccone per alimentare clientele». E ancora: «Si possono tagliare i posti letto per impedire i ricoveri impropri e investire, allo stesso tempo, nella medicina territoriale, perché la qualità dei livelli essenziali di assistenza sia garantita a tutti».

    Su la testa

    Ma Giacarta arriva e non perdona. Solo che, anche in un territorio spopolato e spolpato come la Calabria, c’è chi non ci sta e si mobilita. E richiama l’attenzione di chi calabrese non è, ma coglie l’importanza di certe storie e decide di raccontarle, «anche se rischiano di vendere poco», spiega Alessandro Pezza, di Studio Zabalik, produttore del film. «A noi – precisa – piace il cinema scelto dagli spettatori e non imposto dalle case di produzioni. Ci siamo innamorati di questa storia perché i ragazzi dell’ospedale di Cariati hanno alzato la testa contro le ingiustizie e sono un esempio da seguire. Con questo film speriamo di farci anche portavoce dei diritti dei calabresi. Del resto, ormai ci sentiamo un po’ calabresi anche noi».

    Nell’attesa che arrivino risposte certe sulla riapertura completa dell’ospedale, continuano le proiezioni del film con la lotta delle Lampare del Basso Jonio Cosentino contro Giacarta “mani di forbice”. Le prossime?  Il 12 dicembre al cinema San Nicola di Cosenza alle 20 e al Nuovo Olimpia di Roma alle 21. Il 13 dicembre, sempre a Roma, ore 21, cinema Giulio Cesare.

  • Commissari e deficit, così la Calabria non riesce a guarire

    Commissari e deficit, così la Calabria non riesce a guarire

    In sede di rendicontazione generale della spesa regionale del 2021, ancora una volta, la Corte dei Conti ha sancito l’inadeguatezza della gestione del Servizio Sanitario Regionale della Calabria.  Tra i nodi cruciali, l’assoluta incertezza riguardo la modalità di impiego delle risorse e i risultati conseguiti dal servizio sanitario. La Regione infatti, negli anni non ha mai approvato il bilancio di esercizio consolidato in aperta violazione dell’art. 32 del d.lgs 118/2011.

    La Sanità in Calabria? Piani di rientro e commissari

    Dal 2010, il Sistema Sanitario Regionale è soggetto al Piano di Rientro dai disavanzi sanitari regionali e al commissariamento. Il meccanismo contabile che obbliga una Regione alla sottoscrizione del Piano di Rientro si innesca quando il disavanzo sanitario supera il cinque per cento della somma delle entrate sanitarie regionali (finanziamento statale + ticket). Oppure quando il disavanzo non supera il cinque per cento, ma la Regione non è in grado di garantirne la copertura con i mezzi che ha a disposizione.

    Il Piano di Rientro ha potenzialmente due pilastri fondamentali: uno finanziario ed uno socio assistenziale. Da un lato si prevede l’ottenimento dell’equilibrio di bilancio e dall’altro si vigila al rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) costituzionalmente garantiti. Negli anni, il Governo ha nominato ben otto commissari ad acta per risanare la situazione, senza che mai nessuno ne sia venuto a capo.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    L’attuale commissario è il presidente della Regione Roberto Occhiuto, nominato quasi contestualmente alla sua elezione nel 2021. Il commissario ad acta è responsabile dell’approvazione del bilancio di esercizio consolidato, deve determinare il disavanzo e adottare i necessari provvedimenti per il suo ripiano. Questa figura estromette di fatto il Consiglio regionale dalla gestione e dalla legislazione in ambito sanitario.

    Mentre a Roma parlano, in Calabria gli ospedali chiudono

    Fin dalla sua elezione Occhiuto ha dichiarato: «Sulla sanità mi gioco tutto». Poi, però, ha fatto qualche passo indietro minacciando di non sedersi più al Tavolo Adduce (dal nome della dirigente governativa che presiede le riunioni sul Piano di Rientro). Il motivo? «La sanità della Calabria ha bisogno di strutture ministeriali che ci aiutino, non di atteggiamenti pignoleschi e ragionieristici da parte di funzionari dello Stato».

    sanità-ospedale-cariati-i-calabresi
    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)

    I dodici anni di Piano di Rientro hanno ridisegnato profondamente la geografia della sanità calabrese con una serie di tagli, dismissioni e riconversioni. In questo contesto, nel 2011, si è predisposto il taglio orizzontale di diciotto ospedali di medio-piccole dimensioni che reggevano le aree interne della Regione. Questa scelta non ha tenuto conto delle condizioni orografiche del territorio, del fabbisogno sanitario della popolazione e dei tempi di percorrenza verso gli ospedali principali, a loro volta sull’orlo del collasso vista la sempre crescente affluenza di pazienti.

    Deficit e blocco del turnover: così la Sanità in Calabria va a rotoli

    Gli indicatori finanziari disponibili – seppur non esaustivi né definitivi – continuano a delineare una assoluta invarianza della spesa sanitaria regionale. Il deficit è in continuo aumento. In altri termini, la chiusura degli ospedali non ha sortito alcun beneficio finanziario. E col blocco del turnover il personale sanitario ed amministrativo è diminuito del 19% in dieci anni. Una bolla che continua a gonfiarsi.

    Già nel 2020, la Corte dei Conti affermava che «l’analisi effettuata ha confermato, ancora una volta, come il deficit sanitario dichiarato sia totalmente inattendibile e probabilmente ampiamente sottostimato». Riguardo agli aspetti finanziari del Piano di Rientro risulta impossibile trarre giudizi positivi e definitivi. Si possono invece constatare le gravi criticità che pongono la Calabria abbondantemente al di sotto della soglia di adempienza dei LEA, con punteggi molto lontani rispetto alla media italiana.

    E i cittadini pagano

    Nel rilevamento 2019, il punteggio basso di 125 (la soglia è di 160), in peggioramento rispetto all’anno precedente, si deve soprattutto alle gravi carenze nell’area dell’assistenza sanitaria e all’insufficiente dotazione di posti letto. E così anche i cittadini, che già subiscono la privazione di un sistema sanitario adeguato, elargiscono di tasca loro sempre più risorse per curarsi. Le ragioni sono almeno tre: l’aumento forzato dell’addizionale IRPEF e dell’aliquota IRAP nella misura massima; l’emigrazione sanitaria verso altre regioni; il ricorso forzato, infine, alla sanità privata ed alle visite intramoenia. La Calabria, infatti, è tra le regioni d’Italia con maggiori difficoltà di accesso alla diagnostica strumentale.

    calabria-regione-contrasti-incompiute-eccellenze
    La Cittadella regionale

    La Calabria spende poco e male per la Sanità

    Uno dei problemi principali è che la Calabria spende poco e male. Delle tante risorse finanziarie (soprattutto comunitarie) destinate alla sanità, pochissime si trasformano in azioni concrete volte ad adeguare il sistema. Progetti come quello della Rete Case della Salute spesso migrano da una programmazione settennale alla successiva. E penalizzano il finanziamento di nuovi progetti.
    A tal riguardo, anche la Corte dei Conti sottolinea che è necessario dare impulso ed accelerare tutto il processo di spesa per scongiurare la perdita di importanti e significative risorse.

    Enrico Tricanico