Reati corruttivi, la Calabria seconda regione in Italia per denunce e reati commessi secondo il report del Viminale relativo al 2022. Parlando del fenomeno sarebbe, ovviamente, riduttivo analizzare solo lo specifico delitto definito dal legislatore come “corruzione”. Come spiegano gli esperti del Viminale, meglio fare riferimento ad una pluralità di reati che vengono considerati come espressione di atti corruttivi o, comunque, rientranti nel concetto della corruzione.
Non solo corruzione: le 4 categorie nel report
Il dossier del ministero dell’Interno, a cura del Servizio analisi criminale, ha preso in considerazione dodici fattispecie di reato che ruotano intorno a 4 aree principali: corruzione, abuso d’ufficio, peculato e concussione. Il Servizio analisi criminale elabora studi e ricerche sulle tecniche di analisi, sviluppa progetti integrati interforze. Utilizza inoltre gli archivi elettronici di polizia e li pone in correlazione con altre banche dati. Monitora, infine, i tentativi di infiltrazione mafiosa nelle procedure di appalto di lavori attinenti la realizzazione di grandi opere, grandi eventi, attività di ricostruzione e riqualificazione del territorio.
Corruzione et similia: la Calabria ai vertici nazionali
L’analisi prende in considerazione un periodo di tempo ampio, che va dal 2004 al 2021. La media nazionale di reati corruttivi commessi ogni 100mila abitanti è pari a 10,03. La Calabria ne registra più del doppio – 23,32 – e nella classifica generale si piazza così al secondo posto. Peggio fa solo il Molise, mentre dal gradino più basso del podio in giù troviamo Basilicata, Lazio e Campania.
Abuso d’ufficio
Peculato e peculato mediante profitto dell’errore altrui
Reati “corruttivi”
Concussione
ANDAMENTO DELLA DELITTUOSITÀ: CONCUSSIONE, REATI CORRUTTIVI, PECULATO E ABUSO DI UFFICIO
Anche nelle sottoclassifiche la Calabria tiene purtroppo alto il suo nomignolo, risultando sempre ai primi posti (in negativo). Nel capitolo concussione (articoli 317, 319 quater del codice penale) la Calabria è terza, dietro a Basilicata e Campania. In quello che si riferisce alla corruzione (articoli 318, 319, 319 ter, 320, 321, 322, 346 bis, del codice penale) la Calabria risulta terza, dietro a Molise e Umbria. Per quanto riguarda il peculato (articoli 314, 316 del codice penale) la regione Calabria è quinta, dietro a Molise, Toscana, Sicilia e Lazio. E infine per l’abuso di ufficio (articolo 323 del codice penale) la Calabria è seconda, dietro alla Basilicata. I dati si riferiscono, come detto, a reati e denunce per ogni 100mila abitanti monitorati.
Numero di delitti commessi e segnalazioni riferite a persone denunciate e/o arrestate nella regione Calabria in violazione delle norme contro la Pubblica Amministrazione previste dal Codice Penale
Qualcosa di positivo c’è
Ci si può consolare, forse, con le conclusioni del report. Secondo lo studio del Viminale – salvo il peculato e l’abuso d’ufficio, sostanzialmente stabili da quasi vent’anni – siamo di fronte a «una generale tendenza alla diminuzione della specifica delittuosità». Certo, «tali risultanze non possono essere considerate definitive», anche perché non si può sottovalutare la «indubbia rilevanza della parte sommersa del fenomeno». Ma resta comunque un «andamento tendenzialmente decrescente nel tempo per i vari indicatori».
La strada verso tassi di legalità maggiori, in Calabria più che altrove, appare ancora lunga e complessa, insomma, ma qualche segnale positivo c’è.
Se dovessi pensare a un’immagine della Calabria da trasmettere come metafora della realtà socio-politica del nostro tempo opterei per quella dei suoi ponti. Tre nello specifico, anzi due ponti e un viadotto. Tre ponti di cui uno dimenticato e sconosciuto, un altro che ogni tanto rimbalza sulle pagine della cronaca e l’ultimo famosissimo ma anche futuristico, quindi inesistente. Ponti specchio di come questa regione è amministrata, ma allo stesso tempo di quanto stia poco a cuore ai suoi abitanti, sempre più lontani da una presa di coscienza oggettiva di quello che è il bene comune. Gente sempre più impegnata a perorare interessi privati, intenta a coltivare orticelli secondo quella logica del familismo amorale che, di fatto, ha determinato la marginalità della Calabria.
Ponti del diavolo: la Calabria in buona compagnia
I ponti sono strutture pensate dall’uomo per aprire nuove vie di comunicazione, superando ostacoli che s’interpongono alla continuità della viabilità. Opere d’ingegneria che, in Italia come nel resto del mondo, segnano anche mete turistiche. Perché, oltre la funzione pratica, i ponti parlano di storia, dell’evoluzione di una società. I ponti uniscono lembi di terra distanti geograficamente e avvicinano strutture sociali diverse.
Tra i ponti più famosi in Calabria c’è quello del Diavolo a Civita (CS)
Nel resto d’Italia i ponti storici più famosi, solo per citarne alcuni, sono quello di Rialto a Venezia, Ponte Vecchio a Firenze, Ponte Sant’Angelo a Roma. Nel Cosentino abbiamo il Ponte di Annibale a Scigliano, monumento nazionale di epoca romana (II sec. A.C.), il suggestivo Ponte di Tavolaria a Marzi, edificato intorno al 1592, e il famoso Ponte del Diavolo a Civita che, secondo una recente documentazione, può essere datato intorno al 1840.
In realtà ogni regione che si rispetti sembra debba avere un suo ponte del diavolo, dal Friuli al Veneto, passando per Piemonte, Toscana, Emilia, Lazio. Ognuna rivendica una leggenda che mette in relazione la capacità del demonio di costruire laddove per gli uomini è impossibile.
Griffe e fiducia cieca
Poi ci sono gli altri ponti, quelli che gli automobilisti percorrono ogni giorno. Per citarne qualcuno ricordiamo il Viadotto Italia che attraversa i comuni di Laino Borgo e Laino Castello, il Viadotto Sfalassà sull’autostrada nei pressi di Bagnara Calabra, il Viadotto Fausto Bisantis, detto anche Ponte Morandi a Catanzaro. Spesso ne ignoriamo lo stato di salute e non possiamo fare altro che fidarci del fatto che siano aperti alla viabilità.
Il ponte di Calatrava a Cosenza
In Calabria possiamo anche vantarci di avere un ponte griffato dal famoso architetto Santiago Calatrava. Lo hanno inaugurato nel 2018 in pompa magna con effetti speciali da far venire in mente Rutger Hauer in Blade Runner e la sua «Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste neanche immaginarvi». Resta solo da capire la funzione di un ponte che in realtà più che a unire è riuscito a dividere una città intera, ma questa è un’altra storia.
Tre ponti simbolo della Calabria
Torniamo invece ai tre ponti simbolo della nostra realtà territoriale. E spostiamo, quindi, l’attenzione sul Ponte della Cona, costruito sul finire del 1700 nel comune di San Giovanni in Fiore, sul Viadotto del Cannavino, realizzato negli anni ‘70 del secolo scorso sulla SS 107 Silana Crotonese nei pressi del comune di Celico alle porte di Cosenza, e sul tanto discusso Ponte sullo Stretto, il cui primo progetto risale al 1969. Quest’ultimo, per il momento, riesce solo a unire nelle polemiche il dissenso e l’approvazione, il buonsenso e la sconsideratezza.
I tre ponti in questione sono l’immagine del passato, del presente e del futuro. Il passato è abbandonato a se stesso, immerso nel degrado di un luogo che ha perso ogni contatto con il centro abitato e difficilmente raggiungibile. Il presente vive una situazione di precarietà e di pericolo che non fa ben sperare sulle sorti della sua stessa stabilità, e quindi sulla sicurezza di chi lo attraversa. Il futuro è incerto. E, soprattutto, appare come il luogo ideale per chi, da sempre, è alla ricerca di certi consensi personali o elettorali. Benvenuti in Calabria, dunque, dove il passato è stato dimenticato, il presente vacilla e il futuro è illusorio e fuorviante. L’immagine di questa terra è quella di una cultura dimenticata, di una società governata da un’imperante negligenza e di un avvenire costruito da accurate e ben orchestrate narrazioni utopistiche.
Registi in fuga dalla Storia
Il Ponte della Cona è una struttura a due arcate, con le volte a pietra incastrate fra loro e tenute insieme da uno strato di malta a base di calce. Anticamente era l’unico accesso al centro di San Giovanni in Fiore. Sul ponte transitarono anche i Fratelli Bandiera dopo la cattura in località Stragola, distante poco più di dieci chilometri dal centro abitato.
Si giunge al ponte dopo aver percorso una ripida discesa e sembra quasi di fare un salto indietro nel tempo di almeno duecento anni. Una fitta vegetazione di betulacee, nello specifico ontani, costeggia il sottostante corso del fiume Neto. Insieme agli alberi anche i rifiuti si estendono lungo il fiume. E il ponte subisce i segni del tempo, tanto che da oltre un decennio c’è un divieto di transito per i mezzi e i pedoni.
Il Ponte della Cona nei pressi di San Giovanni in Fiore
Ma chi se ne importa, il sito è ormai relegato ai margini della città e per essere sicuri non ci sono indicazioni che suggeriscano come raggiungerlo. Almeno così si può essere certi del fatto che nessuno chiederà nulla su alcuni sversamenti sospetti provenienti da condotte non canalizzate che confluiscono direttamente nel fiume. Di questo non potrà dare conto neanche il registro dei tumori perché in Calabria c’è ma è come se non esistesse.
Qualche mese fa un regista ha fatto un sopralluogo in zona: voleva girare alcune scene di un film, ma poi è scappato a gambe levate spostando il lavoro della troupe verso l’Italia centrale. Altre regioni avrebbero trasformato quest’antico manufatto in una meta turistica, creando un indotto economico. L’idea di costruire un’industria culturale non è cosa che pare appartenere ai calabresi: meglio piangersi addosso o emigrare.
Rifiuti abbandonati ai piedi del Ponte della Cona
L’eterno rattoppo
Il Viadotto del Cannavino è nato sotto una cattiva stella: due operai nel 1972, durante la costruzione, persero la vita a causa di un cedimento del ponte. Da allora il viadotto non è mai stato sicuro, presenta un’accentuata deflessione che preoccupa. Fiumi di denaro pubblico continuano a essere spesi per incessanti manutenzioni che, con molta probabilità, non riusciranno mai a rendere sicura la struttura. All’orizzonte si prospetta, addirittura, l’ipotesi di un abbattimento e un rifacimento. Chiusure totali o parziali e aperture temporanee non fanno altro che peggiorare la già difficile situazione viaria di una regione sempre più dissestata e violata da politiche territoriali inconcludenti e incompetenti.
Diciamo pure che per il momento il Cannavino barcolla ma fortunatamente non molla.
Così lontane, così vicine
E per finire la ciliegina sulla torta: un fantascientifico ponte che possa collegare in maniera diversa, più moderna – almeno così dicono – la Calabria alla Sicilia. Non bastano i pareri di esperti che, in tutti i modi, cercano di dimostrare i rischi di un’opera tanto dispendiosa quanto tecnicamente pericolosa. Senza scendere in tecnicismi da addetti ai lavori, a noi comuni mortali basta solo dire che l’economia calabrese per ripartire non ha bisogno dell’apertura di utopistici cantieri attorno ai quali potrebbero concentrarsi ulteriori interessi di malaffare. Si avverte, invece, il bisogno di una politica dignitosa in grado di dare un minimo di normalità a questa terra.
Una delle ipotesi progettuali per il mai realizzato ponte sullo Stretto
Non abbiamo bisogno di avvicinarci alla Sicilia, anche perché non siamo mai stati lontani. C’è, però, la necessità di collegare i piccoli centri alle città, di avere la certezza che le strade interne non siano il luogo dove fare la conta dei “caduti”. Servirebbe avere finalmente la tranquillità di sapere che un’ambulanza potrà raggiungere un ospedale nel minor tempo possibile. Non abbiamo bisogno di dimostrare al mondo di essere capaci di avviare opere faraoniche se non abbiamo prima strade, ferrovie e aeroporti sicuri e funzionanti.
I ponti che servono alla Calabria
Si avverte il bisogno di valorizzare il nostro patrimonio storico, naturale e artistico, compreso il Ponte della Cona, perché è anche su questo che dovrebbe basarsi la nostra economia. I calabresi hanno la necessità di percorrere il Viadotto del Cannavino senza doverlo fare col fiato sospeso.
La Calabria ha bisogno di un unico grande ponte capace di congiungere la dignità politica con la bellezza di un territorio in balia di brame personali. Un ponte che faccia transitare le persone sulla strada della consapevolezza e dell’autocritica, perché tutto ciò che noi abbiamo è il frutto delle nostre singole scelte. Ogni calabrese è responsabile della costruzione di tutti i ponti di collegamento tra il personale e il politico.
Solo questa consapevolezza potrà ristabilire condizioni di autodeterminazione, libertà e dignità personale e collettiva.
Di profeti, veri o falsi che siano, la Calabria ne ha avuti parecchi nei secoli. Il più famoso? Senza dubbio l’abate Gioacchino, personaggio simbolo della silana San Giovanni in Fiore. Il religioso si ritrova adesso al centro di un dibattito che nemmeno le sue tanto decantate doti divinatorie gli avrebbero potuto far prevedere. In città, infatti, sta andando in scena uno scontro tutto politico che lo riguarda. O, meglio, che vede coinvolto il Centro internazionale di studi gioachimiti a lui dedicato. A darsi battaglia sono la sindaca Succurro e… l’ex sindaco Succurro.
La cosa, però, in municipio pare non interessare quanto in passato. Tant’è che la maggioranza che fa capo alla sindaca ha deliberato poco prima di Natale una drastica riduzione al contributo previsto per il Centro. Da quasi 10.500 euro si passa a 2.000 tondi tondi, un taglio di circa l’85%. Tutto mentre il Comune nello stesso periodo stanzia oltre 70mila euro – costo dell’elettricità escluso – per luci artistiche che illumineranno San Giovanni da qui fino a febbraio inoltrato.
Una variazione di bilancio che fa discutere
Il caso è scoppiato pochi giorni fa, il 20 dicembre, durante un consiglio comunale di indubbia teatralità, la cui visione si consiglia agli amanti del vernacolo. L’aula si è infiammata quando al centro del dibattito sono finite alcune variazioni di bilancio da ratificare dopo la relativa delibera di Giunta. Soldi spostati da un capitolo all’altro o all’interno dello stesso, col Centro internazionale studi gioachimiti a beneficiare di 8.426,53 euro meno del previsto per il 2022. E gli stanziamenti per la voce “Luminarie e addobbi natalizi” in aumento di 40mila euro.
Quest’ultima somma, peraltro, coprirà le spese solo per dicembre. Perché, recita la determina 589 del primo dicembre scorso, «oltre al periodo natalizio, è prevista l’installazione delle luminarie artistiche anche in occasione del periodo dei saldi, San Valentino e Carnevale». Ergo, serviranno altri 33.200 euro, impegnati fin d’ora sul bilancio 2023.
Déjà vu
Il Comune ha optato, in questo caso, per un affidamento diretto, visto il Natale ormai alle porte. A beneficiarne, una ditta in grado di fornire «installazioni esclusive, originali e dal forte richiamo turistico»: la Med Labor. Più che nella San Giovanni in Fiore del 2022, sembrerebbe di essere nella Cosenza del decennio scorso. Qui si parla di Buone feste florensi, lì si parlava di Buone feste cosentine. Anche all’epoca Rosaria Succurro sedeva in giunta, ma come assessore a Palazzo dei Bruzi. E Med Labor infiammava il dibattito politico (e non solo) come e più di adesso.
Palazzo dei Bruzi illuminato dai cerchi luminosi a Natale di qualche anno fa
L’azienda era, infatti, assisa ad esclusivista o quasi delle forniture di luminarie al municipio bruzio a botte di affidamenti diretti sotto la soglia dei 40mila euro (oltre la quale, per la normativa del tempo, sarebbero state necessarie gare d’appalto aperte a più concorrenti) fatturando somme mai guadagnate prima d’allora. La questione finì pure in un’inchiesta della Procura locale sui cosiddetti “appalti spezzatino”. Nemmeno sfiorata da sospetti Succurro; a giudizio invece, tra gli altri, il titolare dell’azienda insieme ad alcuni dirigenti comunali. La notizia finì al Tg1, ma gli inquirenti fecero un buco nell’acqua: imputati tutti assolti perché il fatto non sussiste.
La rendicontazione c’è o no?
Memore senz’altro della buona fattura delle luminarie cosentine, è probabile che la sindaca abbia suggerito Med Labor come «operatore economico con capacità tecniche ed organizzative, che possa fornire quanto richiesto in tempi brevi». Dimenticando, però, l’importanza per San Giovanni in Fiore del Centro studi. E, per di più, senza fornire una spiegazione plausibile al taglio dei fondi.
Succurro, infatti, nel replicare in aula alle critiche dell’opposizione ha giustificato così la scelta di ridurre lo stanziamento: il Centro non avrebbe rendicontato le attività svolte nell’anno precedente, ragion per cui dargli più dei 2.000 euro rimasti avrebbe potuto creare anche problemi con la Corte dei Conti.
Succurro vs Succurro
E qui entra in scena l’altro Succurro, il professor Riccardo, che peraltro di Rosaria è zio. Udite le dichiarazioni della nipote, le ha definite in una nota «fortemente lesive della reputazione e del prestigio del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti». Il giudizio sulla cifra destinata al Cisg dopo la variazione di bilancio? Lapidario: «Mortificante». Non meno severo quello sul perché del taglio ai finanziamenti. «Il sindaco ha affermato che il Centro Studi non ha rendicontato le attività svolte nel 2021. È un’affermazione non vera. Il sindaco mente? Pensiamo non sia informata. Il Centro Studi ha invece rendicontato le attività svolte nel 2021 ed inviato il piano delle attività del 2022 con comunicazioni che gli uffici comunali hanno acquisito agli atti». E con il denaro decurtato prevedeva di realizzare materiale didattico sull’abate Gioacchino da Fiore per le scuole del territorio.
Riccardo Succurro
E l’altro 15%?
Ad alimentare i dubbi è arrivata un’ulteriore nota, stavolta del Psi locale. I socialisti riportano che «in data 20.07.2022 ed in data 19.08.2022, sono state notificate alla Responsabile del Settore Cultura del Comune due note, aventi per oggetto: “richiesta contributo finanziario per l’attività del CISG”. In entrambe sono state allegati i seguenti documenti:
Relazione sulle attività svolte dal CISG;
Piano delle attività per l’anno 2022:
Bilancio di previsione per l’anno finanziario 2022.
Si precisa che i tre documenti inviati sono stati approvati dall’assemblea dei soci ad unanimità».
Circolano anche immagini di una lettera protocollata che risalirebbe al 28 luglio. Date e protocolli a parte, c’è un dettaglio non da poco: uno dei soci è proprio il sindaco pro tempore di San Giovanni in Fiore. E se anche fossero il professor Succurro o il Psi a non raccontarla giusta resterebbe comunque un dubbio: in assenza delle rendicontazioni, perché dare i 2.000 euro rimasti e non eliminare del tutto il finanziamento, scongiurando così gli eventuali problemi con la magistratura contabile?
Tressette
Ma la querelle tra i Succurro non finisce qui. Rosaria nel suo intervento in aula ha aggiunto che la progettualità del Centro dev’essere adeguata alla linea di indirizzo politico dell’amministrazione comunale. Parole che Riccardo ha accolto così:«Il Centro Studi non è un circolo di tressette che dipende dal Comune. Il Centro Studi è un istituto culturale autonomo statutariamente, giuridicamente riconosciuto di valenza nazionale. Il piano delle attività del Centro viene approvato dall’assemblea dei soci dove il Comune è rappresentato. La programmazione pluriennale del Centro è di altissimo livello culturale ed è apprezzata in tutto il mondo».
Pare che iniziative come il Premio Città di Gioacchino, istituito dalla sindaca e organizzato spendendo qualche decina di migliaia di euro nei mesi scorsi, non incontrino il gradimento del professore. Che alle passerelle di personaggi più o meno illustri continua a preferire lo studio dei testi antichi come omaggio al fondatore della locale abbazia.
La tomba dell’abate Gioacchino all’interno dell’Abbazia florense
Tra zio, nipote e rispettivi enti, insomma, le posizioni sembrano inconciliabili. Qualcuno si diverte a suggerire che per mediare tra le parti si potrebbe piazzare qualche luminaria pure nel Centro Studi. Ma non serve essere «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato» collocato da Dante nel suo Paradiso per prevedere come andrebbe a finire.
«Stai attenta. Fatti riaccompagnare, se fate tardi. Quella strada è pericolosa se sei da sola, soprattutto la sera. Allunga il passo e non rispondere».
Questi sono alcuni dei moniti che le ragazze iniziano a sentirsi ripetere appena sono abbastanza grandi da poter uscire e sperimentare gli spazi urbani senza la supervisione dei propri genitori o di altri adulti. Quando passeggiamo da sole, soprattutto in alcuni quartieri e soprattutto dopo il calar del sole, mettiamo in atto un meccanismo di autodifesa automatico che dovrebbe tutelarci dalle molestie in strada. Che siano verbali o fisiche, dal catcalling ai palpeggiamenti nei mezzi pubblici finanche allo stupro, le molestie rappresentano un rischio costante alla base di un’ansia generalizzata e spesso normalizzata che circonda le donne di ogni età.
Queste premesse sono utili per capire la sorpresa quando, a distanza di un mese dal mio trasferimento da Cosenza a Vienna, dissi a un’amica di sentirmi estremamente sicura nella nuova città. Avevo dimenticato di mettere in valigia quelle preoccupazioni o in questa città c’è qualcosa di diverso? Parlando con altre donne che vivono qui ho scoperto trattarsi di una sensazione abbastanza diffusa. È un caso o, al contrario, è il risultato di un progetto ben preciso? Le risposte sono due: gender mainstreaming e femminismo urbano.
Gender mainstreaming e femminismo urbano
Per gender mainstreaming intendiamo un approccio strategicogender-oriented alla definizione, alla scrittura, all’attuazione e alla valutazione delle politiche pubbliche. L’obiettivo è quello di combattere le diseguaglianze di genere in ogni ambito della società, a partire dalle norme che regolano la società stessa.
Ma il femminismo urbano, invece? Prima di rispondere facciamo un passo indietro e chiediamoci cosa sono le città. Un insieme di edifici e strade? La riflessione sulle città inizia con i processi di urbanizzazione durante la rivoluzione industriali.
I primi sociologi, per esempio, iniziarono a riflettere sugli effetti dell’urbanizzazione sulle persone e sulle loro relazioni sociali. Già nell’Ottocento era chiaro che negli spazi urbani i mattoni non sono solo mattoni. Oltre agli aspetti quantitativi che le definiscono, come le dimensioni e la densità della popolazione, le città sono costituite dalla stratificazione sociale di gruppi con caratteristiche diverse e tra i quali esistono forme di disuguaglianza. Il femminismo urbano, come si può prevedibilmente intuire dal nome, ha come focus principale le diseguaglianze tra uomini e donne.
Le città e i pericoli per le donne
La geografa Leslie Kern, nel saggio La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, mostra come le città contribuiscano a plasmare i rapporti sociali. L’ansia e la paura per gli approcci sessuali non richiesti e le molestie di cui parlavamo prima, ne sono un esempio. Kern spiega come le città siano percepite e fatte percepire come luoghi pericolosi per le donne.
Leslie Kern
«Molestie e approcci sessuali non richiesti nutrono questa paura: le donne si sentono costantemente sessualizzate, oggettivate e a disagio», ma questa paura è proiettata all’esterno e non verso la casa o la famiglia. «Al contrario la violenza domestica, gli abusi su minori e altri crimini ‘privati’ molto più diffusi ricevono decisamente meno attenzione». «Il lavoro qualitativo femminista sulla paura delle donne nelle città rivela quelli che sembrano problemi contraddittori e insormontabili: le donne hanno paura negli spazi chiusi e aperti, nei luoghi affollati e in quelli deserti; sui mezzi di trasporto e mentre vanno a piedi; sole sotto una luce intensa o invisibili nel buio».
Sicurezza non è solo controllo
Che fare? Una risposta semplice potrebbe essere il ricorso a un approccio securitario ma, come evidenzia la stessa Kem, «l’aumento della sorveglianza statale e aziendale, la polizia militarizzata e la privatizzazione dello spazio pubblico, hanno la stessa probabilità di diminuire la sicurezza per gli altri», laddove con altri ci riferiamo ad altri gruppi sociali marginalizzati come i migranti o gli appartenenti a gruppi etnici minoritari.
L’Università della Calabria
Nei miei anni da studentessa all’Università della Calabria, per esempio, ricordo nitidamente le richieste di alcune associazioni studentesche come RDU di aumentare la videosorveglianza e la vigilanza per garantire più sicurezza. Era questa la risposta ai casi di molestie o aggressioni ai danni delle studentesse dell’ateneo. Si sollevarono discussioni in merito, ma la domanda di fondo restava una: si possono garantire spazi più sicuri per le donne senza ricorrere a svolte securitarie?
Bisogni differenti
Vienna, in questo senso, mi ha dimostrato che gender mainstreaming e urbanismo femminista possono lavorare assieme per creare una città vivibile e inclusiva. Tutto ebbe inizio nei primi anni Novanta con l’idea di disegnare una città che funzionasse tanto bene per gli uomini quanto per le donne. La prima domanda essenziale fu: quanto diversi sono i bisogni degli uomini e quelli delle donne in città? Nel 1991 Vienna condusse un primo studio per valutare come variasse l’uso di mezzi di trasporto in base al genere e ne emerse che gli uomini quotidianamente si spostano soprattutto in bici e in auto mentre le donne prediligono i mezzi di trasporto pubblico e due terzi dei pedoni sono donne.
Nello stesso anno Eva Kail e Jutta Kleedorfer, due urbaniste, organizzarono una mostra fotografica chiamata Wem Gehört Der Öffentliche Raum? Frauenalltag in Der Stadt (Chi possiede lo spazio pubblico? Vita quotidiana di una donna in città), in cui veniva documentata la quotidianità di varie residenti appartenenti a classi sociali diverse. Per esempio, si passava dalla vita di una giovane studentessa a quella di una signora anziana passando per una migrante turca casalinga. Ciò che ne emerse era l’esigenza per tutte di vivere spazi più sicuri e in cui fosse più facile muoversi.
Città su misura (anche) delle donne
Nel 1999 fu condotto un nuovo studio per capire come e perché i residenti viennesi attraversassero la città. La routine maschile era abbastanza semplice, gli uomini si spostavano prevalentemente tra casa e lavoro. Gli spostamenti delle donne, al contrario, erano vari e coinvolgevano l’accompagnare e il riprendere i figli da scuola, le spese per negozi e supermercati, le visite mediche per la famiglia e le visite familiari agli anziani. Si è così iniziato a lavorare seriamente sull’accessibilità, la sicurezza e la facilità di movimento. Per esempio, hanno migliorato l’illuminazione stradale in modo che sia più sicuro camminare di notte, ampliato più di un chilometro di marciapiede e introdotto semafori a misura di pedone. In Italia, in Calabria – e a Cosenza in particolare – non mi sembra siano stati condotti studi tanto mirati, ma possiamo riflettere su alcune informazioni.
L’attesa del proprio bus all’autostazione di Cosenza
Per esempio, è facile intuire che le routine di spostamento di una donna viennese e di una donna cosentina siano più o meno simili: sulle donne grava maggiormente il lavoro invisibile ed il lavoro di cura, quindi, saranno le donne a spostarsi per accompagnare i figli a scuola, a fare sport e saranno soprattutto le donne ad occuparsi delle spese e delle altre attività connesse al lavoro di cura. Eppure, è possibile a Cosenza muoversi agevolmente solo attraverso i mezzi pubblici? Dalla mia esperienza personale, di donna sprovvista di un’automobile, posso dire di no. E quali sono le condizioni dei marciapiedi? Una persona che porta un passeggino riesce a muoversi tranquillamente in città?
Aspern, un quartiere al femminile
Ma non si tratta solo di interventi di illuminazione o di sicurezza pubblica. Si è condotto uno studio sui visitatori dei cimiteri, in cui è emerso che sono in maggioranza donne anziane. Per adattare i cimiteri alle loro esigenze si è iniziato a lavorare si è iniziato a lavorare ad una segnaletica ben visibile, all’installazione di servizi igienici sicuri e all’aumento delle panchine.
Nel 2015, invece, le giovani ragazze di una scuola vicino a Reumannplatz sono state invitate a raccontare che tipo di spazio urbano avrebbero voluto attorno. Dal confronto con le ragazze si è deciso di costruire uno spazio per spettacoli all’aperto e di ridisegnare un’area giochi non molto distante per renderla più accessibile e sicura.
Il quartiere Aspern
Tra i progetti in via di realizzazione c’è il quartiere Aspern, i cui lavori dovrebbero concludersi nel 2028 e che dovrebbe ospitare 20.000 persone e 20.000 lavoratori giornalieri. Il quartiere è costruito attorno al lago Alte Donau e metà dell’area è stata dedicata alla costruzione di spazi pubblici. L’intero quartiere è stato pensato per rispondere ai bisogni delle famiglie e delle donne. Come gesto simbolico tutte le strade, le piazze e gli spazi pubblici sono stati intitolati a delle donne, da Hannah-Arendt-Platz a Ada-Lovelace-Straße.
Toponomastica? Roba da uomini
Certo, i nomi delle strade sono solo un simbolo, ma la toponomastica incide sui volti della città i nomi di persone si pensa siano state importanti e, tristemente, in genere si pensa solo a uomini. E la toponomastica cosentina?Su oltre 500 strade intitolate a uomini, meno di 50 portano il nome di donne e quasi la metà sono sante, madonne o donne di chiesa. Ma oltre alla simbologia dei nomi, quanti spazi pubblici in città sono sicuri per le donne o sono dedicati ai bisogni delle famiglie? Oltre al Parco Piero Romeo, realizzato dalla Terra di Piero, non trovo altri spazi in cui porterei un bambino o una bambina a giocare nello spazio urbano.
Il parco Piero Romeo a Cosenza
Oltre agli interventi di urbanistica, c’è di più. Una parte del progetto femminista viennese, infatti, riguarda anche la sensibilizzazione. È stata lanciata una campagna chiamata “Vienna la vede diversamente” per sensibilizzare e informare il personale amministrativo, che lavora presso il comune, e i cittadini sulla posta in gioco del gender mainstreaming.
Per esempio, i cartelli che indicano i fasciatoi raffigurano uomini intenti a cambiare il pannolino ai bambini, mentre nei cartelli stradali in cui si avverte che ci sono lavoro in corso sono state mostrate donne lavorare nel settore dell’edilizia. Inoltre, in diversi centri per bambini si è scelto di adottare un’educazione attenta alle questioni di genere. Ciò consiste nell’evitare stereotipi di genere nel gioco o rivedendo materiale scolastico e canzoni per evitare cliché sessisti.
Non c’è solo il centro
Vienna, l’arcobaleno su Stephansplatz
La forma che si decide di dare ad una città incide fortemente sulla qualità della vita di chi la abita, ma le città non sono solo vetrine di cui mostrare fieramente il solo centro. Le attività che hanno interessato Vienna, protagonista di oltre 60 progetti dedicati alla città, non hanno riguardato solo Stephansplatz e i luoghi più frequentati dai turisti. Il quartiere Aspern, per esempio, si trova nel ventiduesimo distretto ed è ben distante dal centro. I progetti di cui Vienna è stata protagonista hanno messo al centro i bisogni delle cittadine e dei cittadini e non solo l’immagine riflessa da mostrare a chi passa qui non più di una settimana.
Un signore distinto si aggirava nei mesi scorsi tra i vicoli del centro storico di Cosenza, incuriosito e affascinato dalle pietre antiche di Corso Telesio. Quel signore si chiama Giorgio Pala, è un architetto di fama nazionale, che recentemente ha lavorato al restauro del parco archeologico del Colosseo. Cosa ci facesse da queste parti è presto detto: il suo studio romano si è aggiudicato i lavori di riqualificazione di piazzetta Toscano e per qualche mese ha frequentato la parte vecchia della città in cerca dell’idea migliore per ripensare questo luogo.
I soldi del Cis per piazzetta Toscano
Una partita da un milione e duecentomila euro (soldi previsti dal Piano Sviluppo e Coesione del Ministero della cultura) per mettere mano all’opera più controversa della città, con la sua spigolosa copertura di ferro e di vetro nata per “custodire” l’area archeologica sottostante (i resti di una domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale), ma da decenni oggetto di polemiche per lo stato di inesorabile degrado in cui versa. I fondi sono quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) al cui iter per la destinazione alla città dei Bruzi aveva dato un forte impulso la Cinquestelle Anna Laura Orrico, in veste di sottosegretaria nel governo Conte bis.
Le erbacce sotto la copertura che impedisce la piena fruizione dell’area
A distanza di anni, con una nuova giunta in sella, riecco il Cis con un altro progetto. Anzi, due: Pala e il suo team, infatti, nell’aggiudicarsi i lavori hanno presentato due proposte (con una identica previsione di spesa) per la riqualificazione urbanistica e funzionale di piazzetta Toscano con la valorizzazione dei reperti. La prima opzione prevede di salvaguardare l’attuale copertura. La seconda, invece, propone di “smontare” l’opera realizzata in ferro e vetro e dare una nuova vita all’area lasciando la piazza aperta e il parco archeologico fruibile dai visitatori.
La promessa di Alimena: lavori al via ai primi di gennaio
Chi deciderà? A scegliere la migliore tra le due proposte presentate dal prestigioso studio romano dell’architetto Pala, aggiudicatario dell’appalto, sarà la Conferenza dei servizi che vedrà riuniti intorno allo stesso tavolo tutti gli enti che a vario titolo sono interessati al futuro di piazzetta Toscano. L’ultima parola sulla riqualificazione di quest’area dall’immenso valore storico e artistico, spetta però alla Sovrintendenza, che potrà porre il suo veto nel caso in cui non ritenga garantita la tutela dei reperti.
Il consigliere comunale con delega al centro storico Francesco Alimena (PD)
Pare quindi che il 2023 sarà l’anno del restyling della vituperata piazzetta, l’apertura dei cantieri è prevista per i primi di gennaio, «la tempistica è chiara, già a metà del mese i lavori partiranno» garantisce Francesco Alimena, oggi consigliere comunale con delega alla città vecchia ma sostenitore dei Cis fin dalla prima ora. «Stiamo per cambiare il volto del centro storico – dice – e questa volta non si tratta di proclami ma di fatti».
L’unica certezza nei rapporti tra l’Italia del dopoguerra e il mondo arabo è l’ambiguità.
Di questa ambiguità, che fu un comportamento necessario, uno degli interpreti più abili è Pietro Buffone, storico esponente della Dc calabrese, che gli estimatori e gli amici chiamavano Pierino. Gli ispiratori di questa “ambiguità” sono essenzialmente due: Enrico Mattei e Aldo Moro.
Tuttavia, non serve soffermarsi troppo su questi due giganti dell’Italia contemporanea, perché i protagonisti di questa storia sono altri: oltre Buffone, Roberto Jucci, ex generale dei carabinieri ed ex 007. E con loro, Mu’ammar Gheddafi, vittima di un “pacco” paragonabile alla vendita della Fontana di Trevi nel mitico Totòtruffa.
Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa
Filoarabi e nazionalisti
Grazie a Mattei e Moro, l’Italia riprende, nel dopoguerra, le linee di politica estera iniziate in età giolittiana ed esasperate dal fascismo: un’attenzione ammiccante verso il mondo arabo, declinata in chiave ora antibritannica, ora antifrancese.
Con una differenza fondamentale, rispetto al ventennio: questi rapporti non sono più diretti né godono della grancassa della propaganda. Al contrario, sono gestiti dall’intelligence. E, in questo settore, ha un ruolo di primo piano Stefano Giovannone, ufficiale dei carabinieri e agente segreto di fiducia di Moro.
Giovannone è l’uomo chiave della diplomazia parallela imbastita dal leader Dc, che culmina nel cosiddetto “Lodo Moro”, un accordo con l’Olp di Arafat che preserva l’Italia dagli attentati dei palestinesi.
Filoisraeliani ma non troppo
Grazie a questo modo di fare, l’Italia è riuscita a conciliare l’inconciliabile. Cioè l’appoggio ufficiale agli israeliani, imposto dalla Nato, con una simpatia verso il nascente nazionalismo arabo, neppure troppo dissimulata.
E c’è da dire che questa è l’unica politica mediterranea possibile per l’Italia dell’epoca: un Paese in sviluppo vertiginoso e affamato di energia. Di petrolio in particolare.
Il generale Roberto Jucci (a sinistra) con l’ex presidente Francesco Cossiga
Gheddafi e noi
Gheddafi è un leader sui generis: antitaliano e panarabista nella forma, è italianissimo nella sua cultura militare, perché si è formato nella Scuola di Guerra di Civitavecchia e in quella di artiglieria contraerea di Brecciano.
Quando spodesta re Idris, cavalca i malumori contro l’Italia, espelle molti lavoratori italiani, nazionalizza i giacimenti petroliferi, ma si tiene l’Eni, a cui lascia tutte le concessioni e gliene dà qualcuna di più.
Il tutto a danno della Gran Bretagna, l’ex protettrice della monarchia libica.
L’amante necessaria
Il generale Ambrogio Viviani
L’Italia lascia fare, perché la Libia di Gheddafi è un’amante necessaria. Quel tipo di amante di cui si dice male in pubblico ma di cui non si può fare a meno.
Di questo rapporto c’è una testimonianza significativa. Proviene da Ambrogio Viviani, l’ex capo del controspionaggio.
Viviani rilascia delle dichiarazioni inequivocabili: «Dal ‘70 al ‘74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano, la parola d’ordine fu “salvare i nostri interessi in Libia” e impedire che l’Eni fosse buttato fuori. Fu così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime, a rifornirlo di armi, a organizzargli un servizio di intelligence, a circondarlo di consiglieri per l’ammodernamento delle forze armate».
Lo shock petrolifero
Negli anni in cui opera Viviani il boom economico subisce un arresto fisiologico e il centrosinistra, che ha accompagnato la crescita degli anni ’60, entra in agonia. Il problema energetico, affrontato brillantemente da Mattei e comunque gestito dal suo successore Eugenio Cefis, torna a farsi sentire.
In seguito alla guerra dello Yom Kippur, combattuta da Egitto e Siria contro Israele (1973), i Paesi arabi produttori di petrolio alzano i prezzi di botto. È il cosiddetto shock petrolifero, che spinge le economie occidentali nella stagnazione.
L’Italia gioca l’unica carta possibile per sfuggire alla morsa: Gheddafi.
Petrolio contro armi
L’uomo chiave della delicata trattativa col leader libico è Jucci, che tiene i contatti. Dietro di lui c’è Pietro Buffone, che in quel frangente delicatissimo è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo Rumor.
Grazie ai buoni uffici dello 007, il politico calabrese incontra Gheddafi in pieno deserto. E i tre stringono un accordo: l’Italia avrebbe fornito carri armati alla Libia e questa, a dispetto dell’embargo occidentale, avrebbe aumentato le forniture di greggio.
Enrico Mattei, il papà dell’Eni
Armi e tangenti
Affare fatto? Mica tanto, perché mentre l’Italia diventa il principale importatore di petrolio libico, a Gheddafi non arriva neppure un temperino.
Ma la Dc preme perché l’affare vada in porto, per un motivo in cui opportunismo e patriottismo vanno a braccetto. Come rivela il generale Michele Correra, ex capo delle relazioni industriali del Sid, l’Eni in quegli anni paga alla Balena Bianca una tangente che va dallo 0,5 allo 0,6% su ogni singola fornitura.
Tuttavia, nella Dc ci sono al riguardo differenze di vedute, che risalgono al ’72. C’è chi, come Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, vorrebbe fornire armi italiane, tra l’altro nuove di zecca. E chi, al contrario, teme reazioni americane.
Aldo Moro negli anni del potere
La patacca italiana
Buffone riesce a trovare la quadra: niente carri armati, ma autoblindo corazzate vecchio tipo.
Per la precisione, uno stock di M113, mezzi blindati risalenti agli anni ’50 e prodotti in Italia su concessione americana. Queste blindo, ormai vecchiotte, sono praticamente dismesse dall’Esercito, che le ha cedute ai carabinieri. L’idea di Buffone è semplice ed efficace: requisire i mezzi, riverniciarli e cederli ai libici.
La trovata riesce e tutti sono contenti: le industrie italiane, che fanno il pieno di petrolio, la Dc, che si rimpinza di tangenti, e i libici, che comunque ottengono dei mezzi di trasporto truppe meno antiquati delle reliquie italiane e britanniche della Seconda guerra mondiale.
Una vecchia blindo M113
Buffone? Solo un cognome
Niente male per un politico poco vistoso e, in apparenza, non troppo brillante. Pietro Buffone non è un militare di carriera né un grande accademico come Moro. Ha sì e no la scuola dell’obbligo, ma riesce a trovarsi a suo agio sia nei corridoi di Montecitorio sia in quelli del Comune di Rogliano, di cui è sindaco a lungo.
Su di lui, resta un giudizio significativo di Jucci: «Nei governi i politici si dividono in due categorie: c’è chi appare e chi, invece, produce risultati nell’ombra».
A riprova, nel suo caso, che Buffone è solo un cognome.
Gli arresti di ‘ndrangheta a Rocca di Neto del 19 dicembre hanno fatto parlare anche per la collaborazione tra le forze di polizia italiane e quelle statunitensi. L’FBI avrebbe infatti fornito delle informazioni cruciali per l’operazione crotonese su legami tra presunti ‘ndranghetisti e controparti newyorkesi.
Di questa operazione, una volta chiariti i dettagli, si potrà parlare più specificatamente. Perché sì, la ricerca accademica – condotta sia sul campo che su fonti aperte – può fornire analisi del caso e degli scenari a esso connessi che non sempre le notizie di cronaca possono mettere in luce. Eppure, questo bacino di conoscenza che la ricerca scientifica offre, non è, in Italia, considerato sistematicamente nella produzione di conoscenza istituzionale.
La Commissione Antimafia si congeda
Che a molte autorità e istituzioni italiane non piaccia la ricerca è forse un dato che non fa notizia. Ma quando questa ignoranza volontaria diventa ragione per missioni istituzionali, che oltre ad avere un costo elevato, producono risultati banali e superficiali, bisognerebbe forse chiedersi cosa ci sia alla radice di questo difficile rapporto con la ricerca. È questo il caso degli ultimi rapporti della Commissione Parlamentare Antimafia uscente, che, a differenza di alcune Commissioni passate e nonostante il potenziale valore compilativo, deludono ricercatori e addetti ai lavori.
Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E mentre aspettiamo le nomine per una nuova Commissione, usiamo questi ultimi momenti del 2022 per fare un bilancio di quella appena morta e che per gli ultimi 4 anni ha portato avanti – o avrebbe dovuto portare avanti – il lavoro di ricerca, analisi e disseminazione sul fenomeno delle mafie e dei fenomeni a esse collegate in Italia.
Sicuramente il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia, istituita nel 1963, ha un ruolo di rilievo; una voce istituzionale – a volte più sommessa, a volte urlante – che negli anni ha contribuito a sistematizzare la conoscenza sulla criminalità organizzata nel nostro paese e punto di riferimento dall’estero per qualunque forza politica e autorità voglia un confronto sul tema.
Passato e presente
Gli archivi della Commissione sono poi tesoro inestimabile per ricercatori e addetti ai lavori. È la continuità della memoria storica che la Commissione rappresenta a darle, oltre ai singoli lavori e rapporti, il suo valore istituzionale, legislatura dopo legislatura. È ruolo della Commissione, infatti, oltre a preservare la memoria istituzionale, anche dare nuovi indirizzi per analisi innovative. La Commissione può arrivare laddove molte ricerche non possono arrivare, o non possono arrivare in breve tempo. Questo vantaggio fa sì che in passato alcuni lavori della Commissione – ad esempio quella presieduta da Rosy Bindi, che ha prodotto rapporti innovativi e fruibili come quello su Mafia e Massoneria – siano diventati punti di riferimento e di partenza, nonché spunti di ricerche, per gli anni a venire.
Una seduta della Commissione Antimafia ai tempi in cui a guidarla era Rosy Bindi
Ecco perché, quando una Commissione Parlamentare Antimafia uscente pubblica la sua relazione di chiusura – approvata, in questo caso, quest’estate ma resa pubblica solo in autunno nei suoi contenuti – il ricercatore va a leggerla con aspettative e attenzione.
Ma che succede se il ricercatore o la ricercatrice in questione si dimentica di avere comunque a che fare con forze politiche, fatta di politici – quelli degli ultimi anni poi – e non di esperti? E se poi si dimentica di alcune vicissitudini personali di alcuni membri della Commissione in questi anni, che hanno ‘distratto’ dal lavoro? Ecco, il ricercatore o la ricercatrice potranno effettivamente rimanere delusi.
Niente di nuovo sul fronte criminale (o quasi)
Nei rapporti che compongono la relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia uscente al dicembre 2022, c’è davvero poco di nuovo. Anzi, non c’è praticamente nulla di nuovo. Fatta eccezione per il valore della sistematizzazione di alcuni fatti da un lato – ad esempio la relazione sulla visita nei distretti di Catanzaro e Vibo Valentia, in seguito alla risonanza mediatica del processo Rinascita-Scott – e l’attenzione posta su alcuni temi – si veda il rapporto su criminalità organizzata e porti, a seguito dei sequestri di cocaina o a processi che guardano (ancora!) al rapporto tra mafia e massoneria – il contenuto analitico di questi rapporti rimane superficiale.
Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott
Eppure, si tratta di rapporti spesso molto densi: quello sui porti è lungo 65 pagine ed è il risultato di una serie di interviste con forze dell’ordine e presidi di sicurezza portuale. Nessuna menzione della ricerca accademica, che, per quanto non nutritissima sul tema di criminalità in ambito portuale, si è focalizzata proprio sui due porti di cui la Commissione si è occupata, Genova e Gioia Tauro con dati spesso più ‘freschi’ di quelli analizzati dalla Commissione.
A che pro?
Insomma, un occhio attento vede tre caratteristiche ricorrenti in questi rapporti:
la ‘rincorsa’ del tema del momento;
l’assenza di analisi indipendente;
l’assenza di coinvolgimento della ricerca.
Tra l’altro, emerge chiaramente che c’è un problema con l’accademia: solo 2 le audizioni di docenti universitari dichiarate dalla Commissione (a fronte di 18 magistrati e 17 funzionari pubblici per esempio), sui temi dell’usura e sui risultati di una ricerca compilativa, sicuramente utile per la Commissione ma poco utilizzata nella pratica, L’Università nella lotta alle mafie.
Emerge una questione cruciale: quale valore hanno missioni e rapporti di approfondimento su temi specialistici che ignorano lo stato dell’arte della ricerca, sia accademica sia di ricognizione sistemica delle fonti aperte, sui temi prescelti, quando i risultati che si ottengono da tali missioni e per questi rapporti si rivelano datati, carenti e soprattutto non dicono niente di nuovo?
La Commissione Antimafia sbarca in America
Prendiamo – nell’ambito dei lavori svolti dalla Commissione uscente – proprio la relazione sulla missione a New York e a Washington dal 13 al 18 gennaio 2020. La relazione è di 27 pagine. Si prefigge, come detto nella sua introduzione «un obiettivo conoscitivo» sui «profili generali concernenti il tema della presenza, negli Stati Uniti, di insediamenti della criminalità organizzata di origine italiana, nonché dei rapporti tra la criminalità organizzata locale e quella del nostro Paese». Altri obiettivi erano «analisi e valutazione dello stato di evoluzione della cooperazione giudiziaria e delle relazioni intercorrenti tra autorità italiane e statunitensi, con specifico riferimento alla materia della criminalità̀ organizzata».
La Commissione Parlamentare Antimafia all’ONU presso la missione italiana (Foto Twitter @ItalyUN_NY)
C’erano poi obiettivi di discussione più specifica sulla legislazione di contrasto al terrorismo e sull’attuazione e aggiornamento della Convenzione ONU di Palermo del 2000, contro la criminalità̀ organizzata transnazionale. Cinque giorni intensi per la delegazione italiana della Commissione, in visita alla DEA (Drug Enforcement Administration), all’FBI (Federal Bureau of Investigation), al Department of Justice. Un tour proseguito incontrando procure specializzate tra Washington e New York, per finire con la Rappresentanza permanente italiana presso l’ONU.
Nelle puntate precedenti
Quali i risultati di questo viaggio alla scoperta dell’America? Innanzitutto, una descrizione di come funzionano le autorità statunitensi e soprattutto un’analisi della legislazione sia penale che patrimoniale contro il crimine organizzato. E fin qua, si potrebbe anche dire che sia un esercizio compilativo utile, sebbene si potesse, ovviamente, fare comodamente da casa, sui libri scritti sull’argomento e sui siti web appositi. Il resto è un riassunto delle puntate precedenti. La DEA che riassume i suoi rapporti annuali – a consultazione aperta sul web – comunicando le ultime novità in merito a chi traffica cosa e soprattutto chi ricicla denaro: informazioni ancora una volta ricavabili da fonti aperte da un qualunque ricercatore.
Con altre autorità, soprattutto le procure, si parla di casi negli anni precedenti. L’arresto di Ferdinando “Freddy” Gallina, latitante palermitano vicino a Matteo Messina Denaro, a New York nel 2016, per esempio. Oppure le operazioni New Connection, New Bridge, tra il 2011 e il 2014 e Columbus nel 2015, che hanno riguardato indagini sulla famiglia Gambino in Sicilia e in USA e arresti di soggetti residenti a New York connessi alla ‘ndrangheta. O, ancora, operazioni locali contro le cinque famiglie newyorkesi (Bonanno, Lucchese, Colombi, Gambino e Genovese).
Basso profilo is the new basso profilo
L’FBI ha poi confermato «un vero e proprio ruolo di superiorità gerarchica che la mafia di New York esercita rispetto alle altre organizzazioni criminali diffuse sul resto del territorio nazionale», altro fatto decisamente noto alla ricerca. Alle organizzazioni criminali italiane si attribuisce un “nuovo” trend – che nuovo non è per niente, basta chiedere a chiunque si occupi del tema – che sarebbe quello di mantenere un basso profilo, senza violenza.
Si ritiene rilevante – definito «impressionante» – «il numero di siciliani aventi legami con organizzazioni mafiose che ogni anno compiono viaggi nella città di New York», anche questo fatto noto. Soprattutto, già rilevato in connessione al porto di New York.
‘Ndrangheta, molto rumore per nulla
E poi c’è la ‘ndrangheta, ovviamente, immancabilmente. Ancora una volta molto rumore per nulla, però.
La Commissione ha sentito di come clan di ‘ndrangheta siano stati accertati a New York (Commisso, Aquino- Coluccio, Mazzaferro, Piromalli). Non sorprende, visto che il cosiddetto Siderno Group of Crime è attivo tra Stati Uniti e Canada da oltre mezzo secolo. Operazione Provvidenza, poi, aveva dato dettagli sulla presenza dei clan della Piana in un business di prodotti Made in Italy verso gli Stati Uniti nel 2017.
Che la ‘ndrangheta abbia attivato collaborazioni con le cinque famiglie newyorkesi è anche roba vecchia. Tale collaborazione di fatto esiste da quando il Siderno Group è attivo, come ha fatto plurime volte notare negli anni la Waterfront Commission per il porto di New York e New Jersey.
Il porto di New York
Questo porta poi a raccontare che tali clan di ‘ndrangheta mantengono rapporti con il Canada e con altri gruppi sul territorio, ad esempio in California. Laddove la ricerca sulla ‘ndrangheta in Canada è notoriamente avviata da decenni, la California sembrerebbe dato nuovo, Ma può leggersi nella più ampia considerazione che tra le 5 famiglie almeno una, i Gambino, sono notoriamente legati a Los Angeles e che i collegamenti tra clan sidernesi e i Gambino sono anche li, notoriamente avviati.
Da ultimo, la Commissione in America ha fatto il punto sulla collaborazione internazionale e sullo stato dell’arte della normativa penale legata alla Convenzione di Palermo e alla possibilità di attivare non solo arresti, ma anche sentenze e pene transfrontaliere.
Anche stavolta la ricerca a livello europeo è molto attiva a riguardo. E conforta forse vedere come la Commissione arrivi a risultati in fondo simili: le raccomandazioni sulle squadre investigative comuni, sullo scambio di informazioni, sulla formulazione di indirizzi di pena comuni e via discorrendo.
Commissione Antimafia impreparata?
Probabilmente molte più cose avranno ascoltato i membri della Commissione Antimafia in missione negli Stati Uniti, cose che non sono scritte in questo rapporto. Il problema non è solo di “risultati” scritti, ma di capacità analitica: se non c’è preparazione a monte, come si fa l’analisi dei dati a valle? Se non si assorbe la conoscenza già in circolazione, come si può davvero elaborare la nuova conoscenza?
E dunque il dubbio ab origine: sono necessarie queste missioni, che di nuovo non solo non dicono nulla, ma mostrano – urlano – con chiarezza l’assenza di interazione con ricerca sul tema e con la conoscenza pregressa che dovrebbe essere la base per tutti gli interessi di approfondimento politico e istituzionale?
Alla luce anche dell’operazione di Rocca di Neto, questo porta a un’ulteriore dolorosissima domanda: come possono le forze politiche del nostro paese commentare, intervenire, direzionare il discorso pubblico sull’argomento, se di questo argomento sanno solo notizie di seconda mano raccolte in missioni di 5 giorni?
Errori da non ripetere
Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E speriamo che gli errori dei padri non ricadano sui figli. E che magari, oltre a fare le audizioni di qualche sparuto collega accademico, si scelga – che so – di creare una unità di ricerca più strutturata, capace di ricerca su fonti aperte, in lingue diverse, e già pubblicate (che già aiuterebbe) e anche collegata con chi sul campo – sui campi – della ricerca sulla criminalità organizzata ci sta da anni.
Quando i calabresi (e non solo) hanno appreso degli oltre due milioni e mezzo di euro spesi dalla Regione per far pubblicità alla Calabria dentro (e di fronte a) la stazione di Milano Centrale non sono stati pochi a storcere il naso, Tra questi, lo stesso governatore Roberto Occhiuto, che già nei mesi precedenti aveva battibeccato indirettamente con l’assessore al Turismo (oggi senatore) Fausto Orsomarso per altre iniziative promozionali. Troppo calda ancora la figuraccia fatta col mitico corto di Muccino, costato l’ira di Dio tra realizzazione e messa in onda, per permettersi nuovi passi falsi nel campo del marketing territoriale e del turismo.
A volte ritornano
Una soluzione per evitare – o, quantomeno, posticipare – nuovi esborsi monstre dai risultati imprevedibili, però, alla Cittadella la conoscono già. Basta fare come con mamma Rai, che per farsi pagare quanto le spettava dopo aver promosso la Calabria in tv ha dovuto aspettare un’eternità. Risale infatti al 2011 una pratica riemersa dai cassetti e riapparsa in queste ore sul Burc. Cosa c’è scritto? Che i contribuenti calabresi si troveranno a spendere nei prossimi giorni oltre 800mila euro destinati a pubblicizzare il nostro territorio oltre un decennio fa.
Miss Italia a Reggio Calabria, pubblicità per la regione
All’epoca dei fatti a regnare sulla Cittadella è Peppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio. Ed è proprio in riva allo Stretto che si terrà la finale di “Miss Italia nel mondo”. La Rai ha 180mila buone ragioni per far svolgere l’evento lì, tante quanto gli euro (Iva esclusa) che la Regione sborserà per la copertura dell’evento e la celebrazione dei luoghi che lo ospiteranno. Ed ecco i vertici di Germaneto e Saxa Rubra stipulare una prima convenzione il 5 agosto 2011. Ne seguirà, quattro mesi dopo, una seconda. La cifra, stavolta, è più alta, il doppio della precedente. Per 360mila euro più Iva la Calabria troverà spazio in alcune trasmissioni della Tv di Stato nel corso del 2012: Uno Mattina, Linea Blu, Sereno Variabile e la Giostra sul Due.
Impegni
Gli italiani vedono la Calabria sulla Rai, ma la Rai non vede un centesimo dalla Calabria. Gli anni passano e in viale Mazzini iniziano a lamentarsi del ritardo. Email e telefonate alla Cittadella si susseguono, le risposte però non sono quelle che ci si aspetterebbe. Soldi, infatti, a Roma non ne arrivano. Dal Bilancio provano a saldare parte del debito con i quattrini impegnati per la promozione turistica illo tempore, ma la somma basterebbe a versare più o meno la metà del dovuto. Del resto del denaro (e dei relativi impegni di spesa) non c’è traccia. Ci si mettono pure di mezzo problemi informatici alla piattaforma dei pagamenti. E così dalle casse regionali finisce per non uscire neanche un centesimo.
La sede della Rai in viale Mazzini a Roma
Il tribunale dà ragione alla Rai
A essere scomparsi, oltre ai soldi che ci si aspettava già impegnati alla luce delle due convenzioni, sono anche quelli del Dipartimento Turismo, a cui toccherebbe gestire la vicenda. A nulla valgono le sollecitazioni dei colleghi che si occupano dei conti regionali. Nonostante la Rai chieda soldi ormai dal 2016, nonostante abbia fornito più volte negli anni ogni documento possibile (a partire dalle fatture), nonostante abbia pregato la Regione di non farsi portare in tribunale per farle sborsare il dovuto, nonostante in tribunale ci sia effettivamente andata e quest’ultimo abbia riconosciuto con un decreto ingiuntivo ormai esecutivo da maggio 2021 che quei soldi la Rai dovrà averli entro i successivi 40 giorni, non succede nulla fino a quest’estate.
Regione Calabria, riecco i soldi per la pubblicità
È il 28 giugno 2022 – qualcuno trova la formula più efficace per svegliare dal torpore anche il più inoperoso dei burocrati: se ci saranno ulteriori aggravi di spesa, a pagare di tasca propria saranno funzionari e dirigenti rimasti immobili fino a quel momento.
Come per magia – ma senza troppa fretta, alle tradizioni non si rinuncia – riparte l’iter. Prima (siamo in autunno) arriva la copertura finanziaria per circa 400mila euro. Poi, con atto del 14 dicembre pubblicato sul Burc di ieri, si ufficializza come debito fuori bilancio da sentenza esecutiva il resto della somma. Che nel frattempo, tra interessi e spese legali è arrivata a poco più di 816mila euro. Se una parte dovrà essere a carico di qualche burocrate regionale è materia da Corte dei Conti. Ma una cosa è certa: se fossimo nei panni della concessionaria che si occupa della Calabria Straordinaria targata Orsomarso nella stazione Centrale, di fronte a precedenti come questo, qualche preoccupazione per il futuro l’avremmo.
Milioni stanziati e agricoltori trepidanti, dopo aver presentato progetti e aver anticipato spese.
Ora un erroraccio rischia di mandare parecchie aspettative in fumo, a dispetto di alcuni proclami trionfali della Regione. L’allarme e il potenziale scandalo finora sono rimasti sottotraccia. Forse perché le associazioni di categoria sperano che il problema rientri al più presto. O forse perché ai piani alti della cittadella di Germaneto si tenta di correre ai ripari senza troppi clamori.
Calabria e agricoltura, tanti fondi in ballo
L’acronimo più di moda è Pnrr. Come tutti gli outfit all’ultimo grido, ha messo in secondo piano tutto il resto, compresi i fondi Por e, per quel che riguarda l’agricoltura, Psr.
Quest’ultimo acronimo sta per Piano di sviluppo rurale e ha uno scopo ben preciso: iniettare liquidità nell’agricoltura attraverso vari progetti a cui gli imprenditori del settore partecipano in cofinanziamento.
La cittadella regionale di Germaneto
In parole povere, anticipano parte dei finanziamenti per essere compensati dalla Regione non appena si mettono all’opera.
Ma quanti soldi ballano attorno ai Psr? Non proprio spiccioli.
Lo confermano i comunicati con cui l’Assessorato all’agricoltura della Regione ha diramato i pagamenti più recenti
Pagamenti milionari
Il primo pagamento, di fine novembre, riguarda il Kit (così in burocratese si chiama la tranche di pagamento) 3 del 2022.
Ben 44.283.348, 31 euro distribuiti a più di 46mila agricoltori calabresi.
Anche dicembre sembra partito bene: il Kit 4 ha erogato 33.535.212, 41 euro a 13.754 beneficiari.
Altri Kit di dicembre hanno sbloccato fondi vari. Pure in questo caso non sono spiccioli. Il primo liquida 6.607.219, 09 euro a 513 imprese, per bandi che risalgono a prima del 2022. Il secondo distribuisce altre due sostanziose tranche, entrambe anticipazioni per il 2022.
La prima è di 8.925.470, 47 euro che vanno a 2.071 aziende beneficiarie. La seconda, 1.075.853, 45 euro, va a 175 imprenditori.
I fondi Psr hanno un peso enorme per l’agricoltura in Calabria
A cosa servono davvero i Psr
È il momento di tirare le somme, da cui si ricavano alcuni elementi utili.
Il primo: ogni kit di pagamento oscilla, in media, da 20 a 40 milioni complessivi.
Il secondo: le cifre sono senz’altro milionarie, ma divise per il numero di beneficiari, si riducono a spiccioli. Detto altrimenti, sono la classica boccata d’ossigeno per la sopravvivenza di imprese di dimensioni medio-piccole.
Terzo elemento: l’elevato numero di beneficiari è indice di un’economia, quella calabrese, che si basa un po’ troppo sull’agricoltura, più che altro per la latitanza degli altri settori.
Detto altrimenti: laddove, anche nel resto del Sud, l’agricoltura è il 2% del Pil, da noi pesa più del doppio.
Tutto ciò fa capire come questi fondi siano vitali e come la loro mancata o ritardata distribuzione rischi di mettere a repentaglio la Calabria. Il pericolo, purtroppo, si è verificato.
Agricoltura: i controlli sui fondi in Calabria
Per distribuire i fondi Psr, la normativa prevede un meccanismo articolato di controlli, che sono affidati a società specializzate in base a una gara. La società privata, esternalizza l’assistenza tecnica. In pratica, esegue i controlli sulle aziende già riconosciute meritevoli di finanziamento e dà parere favorevole. In altre parole: le varie aziende comunicano lo stato di avanzamento dei lavori relativi ai progetti finanziati, la società verifica e invia il “visto si paghi” al Dipartimento agricoltura della Regione che, a sua volta, ordina all’Arcea, l’ente pagatore, di liquidare le somme.
Ma che succede se la società non è in regola? La domanda non è astratta, perché in Italia l’inghippo c’è sempre. E in Calabria è capitato.
La raccolta delle fragole
Il controllore
L’inghippo è emerso grazie al decreto 16193 dello scorso 10 dicembre, firmato da Antonio Giuseppe Lauro, il responsabile del procedimento di selezione della società incaricata dei controlli, e da Giacomo Giovinazzo, il dirigente del Dipartimento agricoltura della Regione.
Ad approfondire la vicenda, viene da ridere. Vediamo perché.
Per individuare il controllore, la Regione indice una prima gara, la numero 8182941 dell’8 luglio 2021. Ma questa gara non si svolge, perché nell’agosto successivo il Dipartimento agricoltura si riorganizza, probabilmente in vista delle imminenti elezioni regionali. Quindi è tutto da rifare.
La gara è indetta l’11 febbraio scorso. L’11 luglio successivo escono i partecipanti. Sono una società, Cogea Srl con sede a Roma, e due Ati (associazioni temporanee d’impresa). La prima è costituita da Deloitte Consulting Srl più Consendin Spa. La seconda raggruppa tre società: Lattanzio Kibs Spa, Meridiana Italia Srl e Ptsclass Spa. Lo spiegamento di forze si giustifica per il tanto lavoro da fare e per il compenso: poco meno di dieci milioni (9.799.462 euro) per cinque anni. Vince Cogea lo scorso 19 ottobre. Praticamente, in zona Cesarini. Ma non passa un mese che Deloitte fa ricorso al Tar. E iniziano i guai.
Il pasticcio e lo scandalo
Le accuse di Deloitte non sono proprio irrilevanti. Secondo la società perdente, Cogea avrebbe creato gli atti della precedente gara annullata e poi li avrebbe riproposti tal quali alla Regione.
Quest’ultima, quindi, non avrebbe fatto il bando da sé, ma sulla base di un documento di un privato.
E, ad analizzare il documento, regolarmente pubblicato sul sito della Regione, le cose risulterebbero come sostiene Deloitte: nelle proprietà del file si apprende che l’autore è Cogeco. Di più: la data di creazione del file e quella di ultima modifica coincidono.
Galeotto fu un pc…
La risposta della Cittadella è ferma, ma non forte abbastanza: il file, sostiene il responsabile unico del procedimento, è stato formato su un pc della Regione, ma convertito in pdf su un pc di Cogea, che si trovava in un ufficio delle Regione.
Cogea, a sua volta, risponde che di quel pc non sa nulla perché l’aveva dismesso.
Non è il caso di approfondire, anche perché col decreto del 10 dicembre la Regione ha provveduto ad annullare la gara vinta da Cogea in autotutela.
Quindi nessuno risponderà a una domanda banale: visto che tutti i programmi Word prevedono la conversione dei documenti in pdf, possibile che solo la Regione non abbia un programma di videoscrittura aggiornato?
Il problema
Ancora la situazione non è esplosa. Ma l’annullamento del bando può provocare molti problemi. Vediamone alcuni.
Innanzitutto, che succede ai pagamenti in corso o da approvare? Ora che il controllore non c’è, chi prende il suo posto? In teoria, dovrebbero farlo gli uffici della Regione. Ma sono attrezzati?
Secondo problema: che succede ai pagamenti già approvati da Cogea e non ancora liquidati? Vengono congelati fino a nuova gara? Oppure verranno sanati in qualche modo?
Terzo problema: che accadrà ai pagamenti già liquidati?
La contestazione è dietro l’angolo, perché se il Tar dovesse confermare il ricorso di Deloitte, emergerebbe un solo dato: Cogea non doveva trovarsi lì.
Fondi fermi, il pericolo per l’agricoltura in Calabria
In ogni caso, si annuncia un pessimo Natale per tutti gli imprenditori che hanno anticipato somme per avviare i progetti.
In attesa di capire che pesci prenderà la Regione, in particolare l’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, è sicuro che si accumuleranno ritardi, che colpiranno tutto il settore agricolo con danni di non pochi milioni di euro a migliaia di aziende. L’allarme, al momento, è strisciante. Ma, fanno capire alcune associazioni di categoria (ad esempio la Cia) potrebbe esplodere da un momento all’altro. E quando certi allarmi esplodono, vuol dire che la catastrofe è vicina.
Quante difficoltà devono affrontare i disabili e i loro familiari? E in Italia quanti diritti effettivi godono?
Forse proprio la Calabria ha iniziato una piccola rivoluzione che, a partire da alcune situazioni critiche, potrebbe dare il via a una nuova epoca. Certo, la situazione non è rosea, a partire dai progetti individuali. Da noi, infatti esistono ritardi nell’applicazione della legge 328 del 2000. Le previsioni di questa normativa ora sono incluse nei fondi del Pnrr.
La sede regionale del Tar
Tar e disabilità
La magistratura ha dovuto dare la classica “strigliata” al sistema.
Infatti, il Tar di Catanzaro ha dato una risposta a due famiglie annullando le note dei Comuni di Vibo Valentia e di Lamezia Terme.
Un record, in questa materia delicata, grazie al quale i nostri giudici amministrativi tallonano le decisioni pionieristiche di Aosta e Catania.
Nello specifico, parliamo dei genitori di due minori che nel 2019 avevano chiesto ai propri Comuni di adottare i progetti individuali per disabili. Questi progetti devono essere inoltrati dal Comune, in sinergia con l’Azienda sanitaria territoriale, per attingere ai fondi regionali.
Vibo e Lamezia: due realtà nel mirino
Vibo e Lamezia e le rispettive Asp avevano provato a sottrarsi. Ma il Tar di Catanzaro ha deciso altrimenti e ha ordinato a Comuni e Asp di concludere entro 90 giorni il procedimento.
Queste due sentenze, tra le prime in Italia, sono finite in molti siti web specializzati in Sanità o di legali esperti in materia. I giudici hanno stabilito che i diritti dei disabili sono esigibili, quindi devono avere risposta immediata, pena la condanna.
La Calabria sarà pure indietro nella tutela dei disabili, ma forse la magistratura è avanti. E ha qualche potere particolare: ad esempio, quello di nominare commissari ad acta. Insomma, non si scherza più.
Barriera architettonica a Vibo
Io autentico: una onlus in lotta per i disabili
La onlus“Io autentico” di Vibo, in prima linea nella tutela degli autistici, ha fatto il punto sui progetti per disabili. «Abbiamo avviato da tempo un intenso lavoro di sollecitazione e di affiancamento con diversi enti locali e sanitari, oltre che con la Regione. Abbiamo partecipato attivamente alla stesura del piano sociale regionale 2020-2022 della Calabria, Ciò non è tuttavia bastato fino a che il Tar quest’anno non è intervenuto contro Vibo e poi quello di Lamezia».
Disabili: Vibo fila ma l’Asp arranca
Da allora, il Comune di Vibo Valentia, vanta un primato: «È stato il primo in Calabria ad avviare la predisposizione e la realizzazione dei progetti di vita in modo sistematico col coinvolgimento dell’Asp. Finora, nel Vibonese sono attivi sessantatré progetti per disabili».
E c’è di più: «l’Ambito territoriale sanitario di Vibo Valentia (16 Comuni) è quello più attivo. E non va male l’Ats di Spilinga, che comprende altri 17 Comuni. L’Asp di Vibo registra forti ritardi, difficoltà e inadempienze nei confronti del Comune, nonostante un protocollo operativo firmato proprio con l’ente comunale, nella gestione della progettazione, per carenza di professionisti».
L’Asp di Vibo Valentia
Bene Cosenza, male Reggio, peggio Crotone
Nel resto della Calabria, si segnala la provincia di Cosenza, dove sono in corso progetti nei Comuni di Rende, San Giovanni in Fiore, Praia a Mare e Scalea. A Catanzaro, invece, c’è da star certi che la recente sentenza del Tar contro Lamezia velocizzerà i procedimenti.
La situazione resta difficile a Reggio, dove “Io autentico” era intervenuta in audizione lo scorso luglio presso la Commissione pari opportunità del capoluogo per avviare una collaborazione per le numerose istanze pendenti che tuttora, però, restano tali.
Perciò «nei confronti del Comune di Reggio Calabria è pendente un ricorso al Tar contro il silenzio-inadempimento. La provincia di Crotone, purtroppo, non è pervenuta».
Cosa prevede la legge del 2000
La legge n. 328 del 2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) prevede che, ai fini della piena integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare, si predisponga un progetto individuale per ogni soggetto con disabilità psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva. Attraverso i progetti si creano percorsi personalizzati per massimizzare i benefici.
Al riguardo, si legge sul sito web dell’Anffas(Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale): «Nello specifico, il Comune deve predisporre, d’intesa con la Asl, un progetto individuale, indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di necessita per la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione».
Un mezzo dell’Anffas
Un diritto blindato
Attraverso tale innovativo approccio si guarda al disabile non più come ad un semplice utente di singoli servizi. Ma lo si considera «una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere». Il progetto individuale, infatti, «è un atto di pianificazione che si articola nel tempo e sulla cui base le Istituzioni, la persona, la famiglia e la stessa comunità territoriale possono/devono cercare di creare le condizioni affinché quegli interventi, quei servizi e quelle azioni positive si possano effettivamente compiere».
L’importanza e la centralità della redazione del progetto individuale è oggi ampiamente ribadita dal primo e dal secondo programma biennale d’azione sulla disabilità approvati dal Governo, che ne prevedono la piena attuazione, quale diritto soggettivo perfetto e quindi pienamente esigibile.
Assistenza ai disabili
Questo diritto è ancorato allo stesso percorso di certificazione ed accertamento delle disabilità ed è identificato quale strumento per l’esercizio del diritto alla vita indipendente ed all’inclusione nella comunità per tutte le persone con disabilità. Come previsto, in particolare, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità)».
La buona scuola
Oggi, la legge 112 del 2016 (disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive di sostegno familiare, nota come legge sul durante e dopo di noi) individua proprio nella redazione del progetto individuale il punto di partenza per l’attivazione dei percorsi previsti dalla stessa.
La redazione del progetto individuale per le persone con disabilità è ulteriormente ripresa anche dalla riforma della “buona scuola” del 2015.
Il progetto individualecomprende vari aspetti. Innanzitutto, il profilo di funzionamento. Poi le cure e la riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale. Inoltre, include il piano educativoindividualizzato a cura delle scuole. Il Comune fa la sua parte, direttamente o tramite accreditamento, coi servizi alla persona. La strada è lunga ma proprio dalla Calabria è partita l’ennesima battaglia per il pieno riconoscimento di tutti i diritti già previsti dalla normativa per i disabili e per i loro familiari.
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