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  • IN FONDO A SUD| Temesa e l’Amantexit, una secessione al gusto di cipolla

    IN FONDO A SUD| Temesa e l’Amantexit, una secessione al gusto di cipolla

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    C’è chi in Calabria di questi tempi, nonostante spopolamento e crisi delle municipalità e dei piccoli centri, vorrebbe far nascere un nuovo comune. Riproponendo disinvoltamente a pretesto, tra mito e storia, favolose antichità da guida turistica e suggestioni archeologiche che coprono a stento, con una araldica foglia di fico, vecchi e nuovi campanilismi.
    Succede ad Amantea, contrapposta alla frazione di Campora San Giovanni. Intenti secessionistici che la frazione avanza rispolverando una pretesa continuità «etnica» (sic!) con l’antico «popolo di Temesa», risalente niente poco di meno che alla fondazione dell’antica città italica, citata da Omero (Odissea, I, vv.180-184).

    Calabria saudita

    E parte da qui una spericolata rivendicazione secessionista, a colpi di etnicismi e illazioni identitarie. «Da fonti storiche e sulla base di ritrovamenti archeologici si desume che il territorio dell’attuale frazione Campora, compreso tra il fiume Oliva e il torrente Torbido è stato precedentemente territorio appartenente a Temesa. Dalle testimonianze rinvenute si può evincere, fino ai giorni nostri, la naturale e spontanea simbiosi degli abitanti dei luoghi interessati, che mette in evidenza anche sulla base degli eventi archeologici già ampiamente dettagliati, l’uniformità ad un unico territorio (Campora San Giovanni – Serra d’Aiello) che affonda le proprie storiche radici nella città e popolo di Temesa».

    Un cartello sulla Statale 18 dà il benvenuto ad Amantea in cinque lingue (ma non in arabo)

    Si passa poi alle pretese del presunto «contesto linguistico, usi, costumi e tradizioni», che rincara la dose. «Il diverso aspetto socio-culturale viene ampiamente giustificato in quanto comprovato dall’esistenza della città di Temesa sull’attuale territorio di Campora San Giovanni e di Serra d’Aiello, che porta ad attribuire a entrambi gli abitanti dei due territori una comune discendenza riconducibile sotto il profilo etnico al popolo di Temesa. Stante ciò, è naturale spiegare come gli usi, i costumi e le tradizioni si identifichino in Campora San Giovanni e Serra d’Aiello: la diversa terminologia e la cadenza della lingua dialettale comunemente parlata dai Camporesi, è quasi identica a quella parlata dai Serresi e simile al dialetto parlato dai cittadini di Aiello Calabro. Palese è la netta diversità dal vernacolo amanteano che identifica innegabilmente la propria etnia, che a tutt’oggi fa risaltare l’influenza araba degli invasori».

    Il consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)

    All’influenza araba degli invasori non ho potuto trattenere le risate. Pure perché il testo citato tra virgolette non è la tesi abborracciata di qualche erudito locale. È il testo di un documento ufficiale della Regione Calabria a firma del consigliere Graziano.

    Anche le frazioni nel loro piccolo si staccano

    Date le premesse, non stupisce che la vicenda secessionista sia finta per adesso sulle carte bollate. Il nuovo comune che dovrebbe nascere dall’esito di un referendum, Temesa, sarebbe frutto dell’unione di Campora San Giovanni (popolosa frazione di Amantea) e Serra d’Aiello, un altro piccolo comune collinare del comprensorio, a danno del centro cittadino di Amantea. Quest’ultima, in caso di perdita della frazione di Campora e con la costituzione del nuovo comune limitrofo, scenderebbe sotto la soglia fatidica dei 10.000 abitanti. Per ora si tratta di un’ipotesi. Per avere la certezza dell’apertura dei seggi, serve attendere una pronuncia di legittimità del Consiglio di Stato, prevista per il 12 gennaio.

    Prescindo ovviamente dal rilievo strettamente tecnico e politico-istituzionale della faccenda. Dal mio punto di vista, quello che rileva piuttosto da questa curiosa ed esemplare vicenda è un dato significativo antropologicamente paradossale. Ovvero che rivendicazioni autonomistiche che cavalcano gli istinti di restaurazione delle piccole patrie, come fenomeno collaterale del populismo sovranista dei nostri tempi, le aspirazioni che fomentano ormai ovunque secessioni e spinte autonomistiche sono ormai divenute moda anche dalle nostre parti. Anche nei paesi. Persino nelle frazioni.

    Proprio laddove, invece, per contrastare spopolamento e crisi delle piccole comunità locali occorrerebbe mirare piuttosto a obiettivi contrari, come le unioni di comuni e il rafforzamento delle strategie di cooperazione e di rafforzamento dei servizi, alla crescita di movimenti civici e di cittadinanza attiva e consapevole necessari per contrastare il decadimento dei territori locali e per rafforzare la già fragile connessione tra piccoli centri, città secondarie e dimensione regionale-nazionale.

    Amantexit

    Il referendum scissionista tra Campora ed Amantea sembra riproporre su scala localissima una specie di derby paesano, fomentato da una sorta di populismo della porta accanto. In una realtà già falcidiata da fenomeni di crisi economica e sociale, da un forte declino delle rappresentanze istituzionali e della partecipazione democratica, ormai tipica dei piccoli comuni, una scissione in un centro medio-piccolo (Amantea arriva a stento a meno di 14mila abitanti), può rappresentare davvero una frattura traumatica nella storia e nella vita sociale di una intera comunità. Ci si chiede quale sia davvero la ratio – e la velleità culturalmente distintiva- che può spingere a separare definitivamente due entità insediative che in realtà sono e resteranno contigue e omogenee.

    È una scelta che rischia di rivelarsi antistorica e avventurista. La separazione tra un comune e una frazione, Campora versus Amantea, potrebbe sommare così due debolezze senza creare davvero nessun punto di forza. E anche il tema retorico dello sviluppismo che differenzia, secondo i fautori del referendum scissionista, la realtà di Campora proiettata verso la crescita da quella di Amantea, cronicamente stagnante e in ritardo, affrontato e risolto a colpi di schermaglie burocratiche o con il ridisegno dei nuovi confini comunali a vantaggio dell’uno o dell’altro non farebbe certo avanzare di un passo i problemi di entrambi.

    Fiato alle trombe

    In certi aspetti la vicenda così come viene delineandosi tocca le punte tragicomiche di uno psicodramma familiare. Una disputa collettiva da strapaese. Alla rappresentazione mancano solo, per ora, un Don Camillo e un Peppone nostrano. Ma già pare di dover assistere a tratti a una questione di diplomazia da arbitrato internazionale Onu per ristabilire chi ha ragione e chi ha torto tra l’ex madrepatria di Amantiella ‘a terza e i neo-nazionalisti dell’ex-colonia rurale che nell’agro annovera i ricchi campi di cipolle (di Tropea) della Campora di San Giovanni.

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    Campora: l’inequivocabile giudizio dei tifosi dell’Amantea sui rivali cittadini

    Con indubbio sprezzo del ridicolo intanto volano parole grosse da una parte e dall’altra.
    «I promotori della separazione si stanno assumendo la responsabilità di compromettere la crescita e l’ammodernamento dell’intero comprensorio del Sud Tirreno cosentino», tuonano esagerando non poco dal confine amanteano.
    Rispondono minacciosi e risentiti i ricchi colonizzatori neo-civici appostati sulle sponde del fiume Oliva: «Distaccandosi da Amantea, i residenti di Campora San Giovanni vogliono porre le basi per un’aggregazione futura, che magari alla lunga riguarderà anche altri municipi. L’atteggiamento sprezzante registrato nel tempo ha favorito il processo in corso auspicato dalla maggior parte dei cittadini di Campora».

    Mare e monti

    A parere dei leader locali, nella disputa autonomista «si scontrano due culture diverse: una meravigliosa cultura marinara, quella di Amantea, e una, differente, di Campora. Questa frazione è passata da 500 a 3800 abitanti, espressioni delle aree collinari limitrofe come, ad esempio, Cleto e Serra d’Aiello».

    A parte l’enfasi, già numeri del genere inviterebbero alla cautela. Preoccuperebbero un demografo e stuzzicherebbero le indagini di un sociologo o di un economista sensato. Invece bastano a rinfocolare polemiche e rivendicazioni secessioniste degne del nazionalismo post-colonialista e terzomondista. È tutto un trionfo della retorica delle origini, dell’autenticità, del senso civico e dei valori tradizionali ad alimentare contrapposizioni artificiose, che fanno a cazzotti con realtà minuscole e pretese comunque sproporzionate. Ma tant’è, ormai la battaglia autonomista divampa, anche a colpi di infiammati comunicati e polemiche incrociate tra le diverse fazioni in lotta.

    Mattarella e Carosello per Temesa

    C’è persino chi ha rivolto un appello al presidente Mattarella «affinché impedisca l’indizione del referendum circa l’aggregazione della frazione di Campora San Giovanni al Comune di Serra d’Aiello-NuovaTemesa».

    «C’è da trasecolare!», afferma invece il Comitato Ritorno alle origini di Temesa (sic!), che dichiara con lessico vagamente neoborbonico remixato con riferimenti iconici da Carosello-anni ’60, che «Lorsignori, evidentemente, spendono il proprio miglior tempo sul pianeta Papalla altrimenti saprebbero che in Italia dal 27 dicembre del 1947 vige una Repubblica democratica che fonda la propria essenza su un ordinamento a base democratica che si regge su tre poteri separati tra di loro, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Al dunque, ma i fatti sono noti, i Camporesi, attraverso un proprio Comitato, Ritorno alla origini di Temesa, hanno avviato un iter giuridico-amministrativo davanti alla Regione Calabria perché fosse riconosciuta questa storica e corale aspirazione, quella di separarsi dal Comune di Amantea in quanto – ormai è verità storica – lo stesso Comune, con colpevole, inadeguata, negligente e assente azione amministrativa ha da oltre quaranta anni ignorato le più elementari esigenze di una grossa comunità a dispetto di un dinamismo economico che avrebbe imposto le migliori attenzioni e il miglior impegno. Così non è stato. Evidenziando, nei fatti un atteggiamento sprezzante, arrogante quanto egoistico che dà ragione, in qualche misura, all’eterno pregiudizio di parte di molti amanteani nei confronti dei camporesi. Loro nobile borghesia, e i camporesi campagnoli».
    Insomma, ci manca solo una dichiarazione di guerra.

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    Statale 18 nel territorio di Campora San Giovanni (foto Alfonso Bombini)

    Derby, indiani, eliporti

    Incuriosito dalla polemica, nei giorni scorsi sono stato da quelle parti per un sopralluogo, per rendermi conto di persona. Alla fine del mio giro sulla SS 18, il nastro d’asfalto con vista mare che qui raccoglie e aspira come un sifone tutto quello che di antico, di vitale e di nuovo si muove intorno alla vita dislocata di questi paesi senza più un centro, ho pranzato in un ristorantino sul lungomare di Amantea. Il posto era frequentato per la pausa pranzo da un gruppo di persone. Prevalentemente bancari, tutta gente del luogo, ma già ben divisa tra tifosi amanteani e camporesi, anche se lavorano ogni giorno fianco a fianco in qualche banca o servizio finanziario locale. Il tono era accalorato ma conviviale. Volavano battute sarcastiche e sfottò pesanti. Il punto era naturalmente il prossimo referendum per l’autonomia.

    Tra le tra le due opposte fazioni a tavola è venuto fuori di tutto: dal derby calcistico locale tra le due squadre che già si fronteggiano nel campionato di Promozione (dilettanti), agli 800 residenti indiani, braccianti occupati (come?) nei campi di cipolle, nell’agricoltura e nei servizi, ai numerosi altri immigrati e rifugiati trattenuti nei centri di assistenza o a spasso per le strade, agli appalti lucrosi previsti per la costruzione di grande piattaforma logistica di Conad. E persino di un eliporto da costruire: «Pe’ le Eolie? No, pe’ Iacucci, cussì piglia e porta!», e giù risate bipartisan (Franco Iacucci è il politico locale di lungo corso che molti indicano come artefice della scissione).

    Franco Iacucci, consigliere regionale del Partito democratico (foto Alfonso Bombini)

    Archeologia e cipolle

    Qualcuno poi azzarda che forse sarebbe meglio prenotare invece uno stand per la prossima borsa del turismo archeologico in cui “vendere” le attrattive del vicino sito archeologico di Temesa: «Seeh! Addu ce su le cepulle» E giù altre risate e battutacce. Intanto un tempio arcaico venuto alla luce nel territorio dell’antica Temesa, l’edificio sacro in località Imbelli di Campora San Giovanni, langue insieme ad un ricco antiquarium, chiuso da tempo.

    Per ora restano solo pochi fatti a giustificare i toni di un secessionismo spinto, convinto unicamente dall’esaltazione paesana, da un campanilismo da condominio: il porticciolo turistico ubicato nello specchio d’acqua antistante la frazione di Campora, le più importanti infrastrutture turistiche collocate sulla fascia costiera di circa otto km che fa capo alla frazione, più alcune imprese all’interno dell’area ex Pip. E appunto le cipolle. Una discreta estensione di preziosi campi piantati a cipolla di Tropea, (il cui areale tipico si spinge fin qui).

    Campora vanta una produzione importante di cipolle

    Campi di cipolle praticamente ormai sovrapposti alle aree archeologiche di Cozzo Piano Grande e di Piano della Tirena, che qui fanno sempre più gola, costituendo la risorsa territoriale che fa reddito più di ogni altra cosa da queste parti. Tutti terreni collocati tra le aste fluviali del torrente Oliva (lo stesso degli interramenti dei rifiuti tossici e radioattivi della Jolly Rosso, su cui non è mai stata fatta piena luce) e del torrente Torbido; superfici molto ampie che quindi passerebbero integralmente in dote al nuovo comune, a danno di Amantea.

    Temesa, una favola senza lieto fine?

    Questo strambo, comico e strapaesano apologo locale calabrese mi riporta ad un saggio che lessi da studente. Un libro eretico che indagava sulle metamorfosi sociali e culturali registratesi in un villaggio francese della Bretagna, Plodemet, scritto da Edgar Morin alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Qui tra Campora ed Amantea, come nel villaggio francese studiato di Morin, esiste un carattere “plodemetano” che li accomuna. Molti si sentono reclutati per un progetto neo-identitario tanto fantasioso quanto ritenuto ambizioso e necessario. Ingaggiati in una sorta di antropologia elementare del noi e dell’altro tale da definire e promuovere un’umanità in transizione.

    Lo studioso francese Edgar Morin

    Una confusa favola allegorica della modernità alla calabrese che vede di fatto la fine dei paesi, che in questo caso paradossalmente coincide però con la moltiplicazione molecolare dell’ideologia del paese. Con il rischio che alla fine ne resti solo l’involucro vuoto, anche se c’è chi adesso la mette sulla lezione del passato, e accampa radici più antiche della storia, e perciò pretende il riconoscimento di primazie civiche e culturali. Con la pretesa ulteriore che il progresso debba venire solo dalla radicalizzazione delle presunte differenze invece che dalla loro armonizzazione, da una rifondazione artificiale, una sorta di riesumazione del passato, da un ritorno forzato e del tutto nominalistico alle origini.

    Un altro referendum dopo Campora e Amantea

    A me quindi la vicenda secessionista Campora Vs Amantea richiama il paradosso della fragilissima vulnerabilità e infondatezza della gran parte dei cosiddetti “discorsi identitari” nostrani. E se peraltro allarghiamo la scala delle questioni in campo, se guardiamo ai risibili e asfittici campanilismi, alle dispute ottocentesche tra province defraudate di questo a favore di quella che riempiono le cronache di questa regione dal Pollino allo Stretto, dal Tirreno allo Ionio, arrivati al 2023 resta la conferma sconsolante che la Calabria non sa ancora pensarsi come un’unica grande città-regione, con un suo posto dentro la realtà di un paese moderno ed europeo.
    Se per ora ci sia da ridere o da piangere decidetelo voi calabresi. Magari con altro referendum.

  • Anpi Presila: c’è sempre tempo per essere partigiani

    Anpi Presila: c’è sempre tempo per essere partigiani

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    Mancava fino a poco tempo fa. Ma da ottobre dello scorso anno anche la Presila cosentina ha la sua sezione dell’Anpi, associazione nazionale partigiani d’Italia. Il presidente è Massimo Covello, ex segretario regionale della Fiom. Adesso è il responsabile dell’ufficio studi Formazione e Archivio storico della Cgil. A I Calabresi spiega perché questo territorio ha bisogno di riannodare il suo legame con la Resistenza.

    La Presila ha un deficit di memoria storica?

    «È stata una delle aree calabresi a più alta intensità di lotta sociale e di protagonismo antifascista. E non solo. Tornerei indietro al pensiero garibaldino e alla lotta dei briganti traditi dalla unificazione dello Stato nazionale, elemento che ha visto crescere tra le masse diseredate uno spirito di lotta. Purtroppo la memoria è un po’ sbiadita in questi anni».

    Molti ritengono, anche a sinistra, che l’Anpi sia anacronistica?

    «Non condivido per nulla chi ha un pensiero di questo tipo. C’è sempre tempo per essere partigiani. Significa aderire a una lezione etica e politica che sta dentro i valori della Costituzione. L’Anpi oggi è un soggetto che deve e può essere rafforzato con una visione moderna e prospettica. C’è bisogno di difendere valori come la libertà, l’inclusione, la valorizzazione delle differenze».

    Non è una battaglia di retroguardia?

    «Restano sempre meno, purtroppo, le persone che hanno condotto in prima persona la lotta partigiana. La realtà ci insegna che la lezione di questa lotta – pluralismo, democrazia, libertà – non sono venuti meno. Anzi, il fatto che negli anni recenti sia entrato in un cono d’ombra l’antifascismo e abbia prevalso un revisionismo carico di un lettura distorta della storia, ha prodotto e sta producendo risultati e fenomeni negativi».

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    Pietro Ingrao a Pedace prima e dopo la caduta del regime fascista. In alcune foto compare Cesare Curcio

    Quanti conoscono una figura come Cesare Curcio?

    «Non solo Cesare Curcio (che nascose Pietro Ingrao). Penso a Edoardo Zumpano, Salvatore Martire, Luigi Prato. Tutti espressione della lotta partigiana qui in Calabria. Senza dimenticare due militari come Filippo Caruso e Mario Martire che, nell’esercizio delle loro funzioni, anche prima dell’8 settembre decidono di schierarsi dalla parte dei resistenti all’occupazione nazifascista».

    C’è stato un antifascismo “minore” al Sud?

    «Gli studi storici più recenti hanno dimostrato che non è vero. Poi è ovvio che lottare contro il Fascismo ha significato in alcuni luoghi imbracciare le armi e unirsi alla lotta partigiana, in altri resistenza per l’affermazione di alcuni valori. Noi abbiamo confinati politici per avere mostrato la loro estraneità e contrarietà al regime di Mussolini. A Casali del Manco c’è stata una cellula molto forte della Resistenza. Che era trasversale: comunista, socialista, in alcuni frangenti anarchica, anche bordighista e cattolica».

    Poi, improvvisamente, cosa è cambiato?

    «Possiamo individuare una data: il 1989 e il crollo del Muro di Berlino. Da lì c’è stato un revisionismo anche a sinistra quasi come se ci fosse una colpa da espiare. Con una interpretazione della storia assolutamente inaccettabile. Le conseguenze sono ben visibili. Comprese le istituzioni locali della Presila vocate a un approccio governista dei problemi, svendendo quei valori di riscatto sociale cari alla generazione dei vecchi gruppi dirigenti.
    Mi vengono in mente Rita Pisano, Pietro D’Ambrosio, Peppino Viafora, Oscar Cavaliere, Eleandro Noce. Anche nella loro storia amministrativa erano ancorati a quella cultura della politica come servizio e riscatto sociale. Invece negli ultimi anni l’obiettivo è stato l’occupazione del sistema istituzionale. E la classe politica locale e regionale? Indifferente ai destini collettivi».

    E la destra ormai è entrata nella ex fortezza rossa

    «Addirittura una delle candidate più votate è una leghista, una delle forze con più consensi è Fratelli d’Italia. Casali del Manco rischia di essere una palude in cui tutte le idee sono uguali. Si è tutti gli stessi e l’unica cosa che conta è l’intercessione per avere accesso a benefici privati invece di promuovere benefici collettivi».

    Un assessore regionale leghista, che smacco per la sinistra?

    «Questa è la conferma della confusione e del grande smarrimento. Che io leggo come una responsabilità storica di quei partiti che, a parole, dicono di rifarsi alla storia della Resistenza. Poi come sia arrivata a diventare assessore la dottoressa Staine è questione politicista. Il suo legame con il territorio non esiste se non per essere nata a Celico e avere origini pedacesi».

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    Emma Staine

    In pochi hanno trovato spazio nelle istituzioni?

    «Sono stati consiglieri regionali Enzo Caligiuri, Ciccio Matera e Giuseppe Giudiceandrea. Il problema non sono gli uomini e le donne, ma le idee per cui ci si impegna in un percorso. L’Anpi nasce qui per dire alle giovani generazioni che questa storia oggi sbiadita e messa in disparte merita di essere riportata in auge, valorizzando il patrimonio accumulato nella Biblioteca Gullo, nel Fondo storico Curcio, Zumpano, Malito. Sono patrimoni librari e documentali misconosciuti. Il nostro intento è metterli in circuito, coinvolgere le scuole in un lavoro di approfondimento e ricerca».

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    Lo studio di Fausto Gullo nella casa-museo che ospita la biblioteca omonima a Macchia nel Comune di Casali del Manco

    Le elezioni si avvicinano e l’Anpi Presila che farà?

    «L’Anpi da statuto non sarà della partita elettorale. Noi vogliamo dare un contributo alla comunità con idee, teorie, valori. Certo, sarebbe una contraddizione se uno si iscrive all’Anpi Presila e poi concorre con Fratelli d’Italia o con la Lega. Intanto siamo in prima fila per la raccolta firme contro l’autonomia differenziata. In quello saremo parte della lotta, eccome».

  • Conservatori vaticani alla carica: Müller arriva a Paola

    Conservatori vaticani alla carica: Müller arriva a Paola

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    Il 2 dicembre del 2022 il cardinale Gherard Ludwig Müller ha presentato nel Convento di San Francesco di Paola il suo ultimo libro: Il Papa, Missione e Ministero.
    Accolto con tutti gli onori dai frati Minimi, l’alto prelato, dopo aver celebrato messa, ha ricevuto i calorosi saluti del correttore provinciale dell’Ordine, padre Francesco Trebisonda. L’appuntamento ha interessato un uditorio ristretto ma consapevole di partecipare ad un evento significativo.
    Non fosse altro per la caratura del big vaticano, che negli ultimi anni si è schierato in maniera aperta contro l’attuale pontefice Bergoglio, rappresentando l’ala intransigente della Chiesa.

    Dopo papa Ratzinger

    Questo episodio, in relazione alla morte del papa emerito Benedetto XVI, assume una nuova luce nel contesto di una guerra che si è riaperta tra le due fazioni, quella progressista e l’altra più tradizionale, all’ombra della cupola di San Pietro.
    Padre Georg, segretario particolare di Ratzinger, ha dato fuoco alle polveri: a salma ancora da inumare dell’ex pontefice, ha rilasciato dichiarazioni non certo tenere verso papa Francesco.

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    Padre Georg con Benedetto XVI

    Parole al veleno, le sue, con cui ha anticipato l’imminente uscita di un suo libro pieno di rivelazioni sconcertanti sulla convivenza dei due papi.

    Padre Georg alla carica

    Per quale motivo Georg Genswein ha rotto la pax vaticana, tra l’altro nel momento meno opportuno? Dietro quest’iniziativa forse c’è l’intenzione di aprire un’offensiva mirata a stabilire nuovi equilibri cardinalizi.
    Il tutto in vista di un Concilio, che seguirebbe le ventilate dimissioni di papa Francesco per motivi di salute.
    Infatti, scrive l’arcivescovo tedesco nel suo libro Nient’altro che la verità, di essere rimasto «scioccato e senza parole» quando Francesco gli comunicò: «Lei rimane prefetto ma da domani non torni al lavoro».
    Secondo padre Georg, Benedetto commentò: «Penso che papa Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode».

    Satana contro Ratzinger e l’inquisitore silurato

    In una intervista rilasciata a Ezio Mauro, Genswein ha rivelato di aver scorto la «mano del diavolo» durante il pontificato di Ratzinger.
    In un’altra dichiarazione alla stampa, il prefetto della Casa Pontificia ha evidenziato che il provvedimento con cui papa Francesco ha ribaltato la liberalizzazione della messa in latino ha «spezzato il cuore» di Ratzinger.

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    Papa Benedetto XVI

    Con queste uscite, l’arcivescovo tedesco ha riacceso le polemiche innescate in precedenza dal cardinale Müller con le sue continue prese di distanza dalla visione di Bergoglio. Per questo motivo, il papa ha destituito Müller da capo della Congregazione per la Dottrina della Fede (cioè l’ex Sant’Uffizio).

    Müller alla riscossa

    Dopo questa decisione, il prelato tedesco ha deciso di non tornare a Ratisbona ma è rimasto a Roma per accrescere il fronte dei conservatori vaticani.
    In questo compito rientra anche il proselitismo, soprattutto nei più importanti centri religiosi e all’interno delle varie confraternite in Italia e nel mondo. Da qui la tappa al Santuario di San Francesco di Paola, dove Müller ha trovato porte aperte e orecchie pronte ad ascoltare le sue tesi radicali. Arricchite dagli spunti polemici, più volte esternati in altre sue pubblicazioni.
    La polemica di Müller colpisce le aperture di papa Francesco al riconoscimento dell’affettività omosessuale, le posizioni papali sul ruolo delle donne nella Chiesa e sui divorziati risposati.

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    La Cappella del Santuario di San Francesco di Paola

    L’ambigua diplomazia di un conservatore

    Ciononostante, lo stesso Müller ha in più circostanze tentato di non rimarcare troppo queste distanze. Anzi, ha messo in risalto la fedeltà al Papa, pur manifestando una linea a volte non coincidente con quella di Bergoglio.
    Tuttavia, non bisogna dimenticare che lo stesso ex inquisitore nel 2015 firmò la lettera dei tredici cardinali in cui si denunciavano irregolarità nello svolgimento del Sinodo sulla famiglia, che avrebbero favorito la prevalenza delle posizioni più avanzate. E c’è da dire che Müller intrattiene rapporti anche con uomini nella Chiesa di stampo progressista, come il peruviano Gustavo Gutiérrez, padre della teologia della liberazione, con cui ha scritto un libro intitolato Dalla parte dei poveri.

    Coppie gay: il no di Müller

    Dopo l’apertura di Papa Francesco alle unioni civili per le coppie omosessuali, Müller dice di aver ricevuto «centinaia di chiamate» di chi la pensa diversamente.
    Teologo e curatore dell’opera omnia di Ratzinger, nominato nel 2012 da Benedetto XVI prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e rimasto in carica fino al 2017, al Corriere della Sera ha spiegato la sua critica al pontefice: «L’ho sempre difeso contro protestanti e liberali, però il Papa non è al di sopra della Parola di Dio, che ha creato l’essere umano maschio e femmina».

    Papa Francesco

    Massoni? Alla larga

    In un’altra occasione ebbe a dire: «Non mi sono piaciute tutte quelle grandi lodi dei massoni al Papa. La loro fraternità non è la fraternità dei cristiani in Gesù Cristo, è molto di meno. Non possiamo prendere come misura della fraternità quello che viene dalla Rivoluzione francese, che è ideologia, come il comunismo. Una religione universale non esiste, esiste una religiosità universale, una dimensione religiosa che spinge ogni uomo verso il mistero. A volte si sentono idee assurde, come quella del Papa “capo di una religione universale”, ma è ridicolo. Pietro è Papa per la sua confessione o professione di fede: “Tu sei Il Cristo, il figlio del Dio vivo”. Questo è il Papa, non il capo dell’Onu».

    «Solo la Chiesa è universale»

    Ancora più netto è sul concetto della relativizzazione:
    «C’è una orizzontalizzazione del cristianesimo, lo si riduce in modo da piacere agli uomini d’oggi, invece così si inganna la gente. Quando ci si trova con persone di altre religioni non possiamo unirci in una fede generalizzata. Si riduce la fede a una fede filosofica, Dio a un essere trascendente, e poi diciamo che Allah o Dio padre di Gesù Cristo sono la stessa cosa. Così come il Dio del deismo non ha nulla a che vedere con il Dio dei cristiani. Ogni appello ad una “fratellanza universale” senza Gesù Cristo, l’unico e vero Salvatore dell’umanità, diventerebbe, dal punto di vista della Rivelazione e teologico, una corsa impazzita nella terra di nessuno».

    Gherard Ludwig Müller

    Caccia ai fedeli

    Questi concetti, esposti in maniera netta e intransigente, non lasciano intravedere una direzione comune con quella di Bergoglio, invece più aperto al dialogo interreligioso. Dopo la morte di Benedetto XVI è in gioco il futuro della Chiesa e la sua proiezione al di fuori dei confini vaticani. Perciò chi vuole riportare la dottrina cristiana in orizzonti più dogmatici, si sta organizzando per acquisire il consenso necessario a delimitare l’espansione di una visione più illuminista, che ha tuttora nel papa il più strenuo sostenitore. In questa ottica si inserisce l’attivismo del cardinal Müller, arrivato anche in Calabria in cerca di interlocutori.

    Alessandro Pagliaro

  • Campora contro Amantea: conto alla rovescia per il divorzio

    Campora contro Amantea: conto alla rovescia per il divorzio

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    La Befana ha portato un comizio agli abitanti di Campora San Giovanni, in vista del referendum previsto per il 22 gennaio.
    Sempreché, beninteso, il Consiglio di Stato, a cui il Comune di Amantea ha fatto ricorso il 19 dicembre scorso, non ci metta lo zampino.
    Infatti, dopo il secondo rigetto del Tar, la parola decisiva spetta a Roma. Toccherà ai magistrati amministrativi di Palazzo Spada decidere se il referendum si farà o meno.
    Intanto, le cose ad Amantea procedono come se nulla fosse.
    Ma andiamo con ordine.

    Graziano e Iacucci in piazza

    I consiglieri regionali Giuseppe Graziano e Franco Iacucci sono stati i mattatori del comizio indetto da Ritorno alle origini di Temesa, il comitato che gestisce la parte “politica” del divorzio tra Campora e Amantea e il conseguente matrimonio con Serra d’Aiello.
    Jonio e Tirreno, centrodestra e centrosinistra, ma core a core, i due hanno arringato il pubblico che ha riempito la piazza della chiesa di Campora.
    A prescindere dai mal di pancia, più o meno tardivi, della politica cittadina. Tra questi, le esternazioni del Pd amanteano, supportate da un tweet della ex deputata Enza Bruno Bossio.

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    Campora San Giovanni by night

    Le contraddizioni del referendum

    E Amantea? Tolta la lamentela dei Dem, per il resto non si batte quasi colpo. Forse si ipotizza un “contro comizio”, che tuttavia non si terrà a Campora, dove le eventuali opinioni contrarie alla “secessione” non sono rappresentate.
    E la partita sembra già chiusa: al referendum voteranno solo i camporesi più i residenti di Coreca e Marinella. E qui emerge una contraddizione non proprio irrilevante: in caso di scissione, le due frazioni resteranno con Amantea, tuttavia i loro elettori parteciperanno al referendum da cui è escluso il resto dei cittadini.
    L’inghippo si chiarisce subito: Campora non voterà solo come territorio (cioè dal fiume Oliva in giù) ma anche come collegio elettorale, che include gli altri due territori.
    Ma non è questa l’unica contraddizione.

    Amantea vs Campora: il ricorso in pillole

    Le altre contraddizioni sono evidenziate nel ricorso confezionato dagli avvocati Mariella Tripicchio e Andrea Reggio d’Aci, che si sono finora misurati davanti al Tar coi loro colleghi Gianclaudio Festa, Oreste Morcavallo e Giovanni Spataro. Cioè, i difensori, rispettivamente, della Regione, del Comune di Serra d’Aiello e di Ritorno alle origini di Temesa.
    Le elenchiamo sbrigativamente.

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    Amantea al tramonto (foto Giovanni Gigliotti)

    Non votano gli amanteani

    Il grosso della popolazione, è noto, non voterà. Per il Tar l’esclusione del resto di Amantea non è un problema.
    Anzi, come recita l’ultima ordinanza di rigetto, «non appare contraria alla legge».
    Ma, a prescindere dall’analisi giuridica, restano sul piatto problemi non proprio secondari.

    Il primo: alcune strutture importantiche servono tutta la città, il porto e il Pip, ricadono in Campora e andrebbero via con essa. Come sarà regolata la futura gestione?
    Secondo problema: il debito. Forse, più delle continue accuse di infiltrazioni mafiose, la vera debolezza della città è il buco nelle casse, stimato approssimativamente in quaranta milioni. Come saranno ripartiti? Resteranno tutti in pancia ad Amantea o Campora se ne porterà una parte pro quota? La legge regionale che istituisce il referendum non risolve il problema.
    Come si vede, si tratta di problemi comuni, su cui deciderà una parte.

    La furbata di Graziano

    La proposta di Graziano, c’è da dire, è piuttosto sofisticata a livello normativo. Infatti, l’idea di accorpare Campora e Serra in un nuovo Comune, Temesa, camuffa con abilità la sostanza dell’operazione: ovvero la secessione di Campora.
    Ma soprattutto elude alla grande l’articolo 15 del Tuel, secondo il quale non sono ammissibili scissioni che generino Comuni al di sotto dei 10mila abitanti e, più che le scissioni, sono incoraggiate le fusioni.

    L’eventuale nascita di Temesa sarebbe una fusione di territori, da cui comunque deriverebbe un Comune con una popolazione di poco maggiore a quella di Campora (in totale poco meno di quattromila abitanti). Amantea, al contrario, resterebbe con 10mila e rotti abitanti.
    Ma siamo sicuri che i numeri siano questi?

    Il consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)

    Quanti sono gli amanteani?

    Sulla popolazione di Amantea, c’è un balletto di cifre. Il Tuel dà comunque un’indicazione precisa: i numeri devono derivare dall’ultimo censimento valido.
    Al riguardo, i difensori del Comune forniscono un dato, ovviamente quello che fa più comodo al municipio: 13.272 cittadini residenti. Tolti i 3mila e rotti di Campora, ci si avvicinerebbe alla parcellizzazione del territorio e il referendum sarebbe inammissibile.
    Tuttavia, gira un’altra cifra che supera i 14mila ma include gli stranieri residenti.
    Allora occorre specificare: cosa significa “cittadini”? I cittadini italiani o anche i non italiani iscritti all’anagrafe? Non è sovranismo né xenofobia, intendiamoci.
    Sull’interpretazione di questo punto può aprirsi un dibattito infinito con tante posizioni ciascuna di per sé giusta.

    Altri problemi

    Amantea dista da Campora circa dieci km, ma di strada costiera per percorrere i quali bastano dieci minuti.
    Serra d’Aiello, al contrario dista da Campora otto km, ma sono percorribili (si fa per dire) su una vecchia strada tutta curve. In pratica, sono territori non ancora integrati.
    Né sarebbero integrati, riferiscono i bene informati, gli altri territori che dovrebbero entrare in Temesa nel prossimo futuro: Aiello, dove Iacucci è stato sindaco per quarant’anni, e Cleto.
    Non tutti questi motivi hanno rilevanza giuridica, ma pesano a livello politico.

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    Franco Iacucci

    Di nuovo al voto?

    Resta un ultimo problema sul tappeto: il comma 2 dell’articolo 8 della legge 570 del 1962. Questa norma prevede che i consigli comunali si debbano rinnovare integralmente quando, in seguito a variazioni come quella in corso ad Amantea, i territori varino di un quarto della popolazione.
    Sarebbe così per Amantea, che comunque perderebbe un quarto della popolazione; sarebbe così per Serra d’Aiello, la cui popolazione aumenterebbe almeno di sette volte.
    La norma è stata abrogata o superata? Non risulta.

    Il problema è politico

    Iacucci ha ragione su una cosa: i camporesi si sono sentiti trascurati e hanno agito di conseguenza. Anche, si perdoni il bisticcio, senza guardare le conseguenze.
    Già: Serra è reduce da un dissesto esploso nel 2014 e potrebbe ricascarci assieme a Campora.
    Ancora: la pianta organica del futuro Comune di Temesa potrebbe risultare insufficiente per assumere il personale necessario a gestire il nuovo territorio.
    Sono cose che né il referendum né il riassetto burocratico potrebbero gestire.

    Reperti del Museo di Temesa

    I dolci avvelenati

    Non è solo un problema burocratico, quello che affronterà il Consiglio di Stato. Né lo risolverà il referendum.
    Tra Amantea e quella parte di Campora che vuole la secessione c’è una differenza: gli amanteani stanno trangugiando ora tutti i veleni possibili. Per i camporesi, invece, il veleno verrà dopo, ben nascosto nei dolci della conquistata autonomia.
    Il conto alla rovescia è iniziato e la partita ancora aperta.

  • La Calabria che frana e non vuol sapere perché

    La Calabria che frana e non vuol sapere perché

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    L’inizio della stagione invernale riporta alle cronache notizie legate a frane, alluvioni e erosione costiera… Aspettate, forse meglio ricominciare poiché registriamo eventi già in autunno.
    L’arrivo delle prime piogge riporta alle cronache… No, neanche così va bene poiché abbiamo avuto eventi alluvionali anche ad agosto.
    In qualsiasi periodo dell’anno (ora sì che funziona), la Calabria, come molte altre aree dello Stivale, registra eventi naturali che provocano nel peggiore dei casi la perdita di vite umane, nel migliore solo la distruzione di abitazioni e strade.

    In queste occasioni, la macchina della solidarietà si mette immediatamente in moto, le persone offrono aiuto fisico ed economico dimostrando vicinanza verso chi è stato meno fortunato. Contemporaneamente, i politici sfoderano (in modo proporzionale al livello dei danni registrati) il meglio della loro ars oratoria per promettere che tutto ciò non si ripeterà più (fino alla prossima dichiarata emergenza). Gli amministratori locali, spesso lasciati da soli a fronteggiare dinamiche e situazioni più grandi di loro, sbattono i pugni chiedendo fondi per ripristinare lo stato delle cose (fino al prossimo evento).

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    Lista di alcuni eventi naturali come alluvioni e frane avvenuti in Calabria negli ultimi anni

    Scarsa conoscenza e speculazioni

    Un piccolo esercizio di memoria aiuterebbe a comprendere che gli eventi naturali ed il cambiamento delle condizioni che noi definiamo “normali” rappresentano, in Italia come e più di altre aree geografiche, la norma e non l’eccezione. Questo perché la Terra è viva (se non lo fosse avremmo poche chance di sopravvivere), l’ambiente intorno a noi è dinamico. Processi come frane e alluvioni sono parte integrante e fondamentale del ciclo naturale.

    Da un punto di vista geologico l’Italia è una catena giovane e ancora in fase di assestamento, con il 94% dei Comuni sottoposti a rischi naturali. Se a questo aggiungiamo un uso del territorio, sia in tempi antichi che recenti, che per mancanza di conoscenze (prima) e/o speculazione (dopo) non ha tenuto e non tiene conto di questo dinamismo e delle peculiarità e vulnerabilità del territorio, è facile trovarsi a cadenze regolari nelle stesse situazioni.

    Un circolo vizioso

    In questo scenario, l’unico strumento che abbiamo a disposizione per prevenire il verificarsi di eventi potenzialmente avversi è quello di conoscere il territorio, la sua struttura, morfologia e predisposizione a determinati cambiamenti. Per fare ciò abbiamo bisogno di persone qualificate come i geologi, capaci di leggere ed interpretare in modo corretto il territorio, e di database come le carte geologiche aggiornati.

    Negli ultimi anni, politiche universitarie discutibili e progressivi tagli ai finanziamenti hanno portato alla scomparsa di molti dipartimenti di Geologia e Scienze della Terra, o nel migliore dei casi alla loro fusione con altri dipartimenti, riducendo di fatto la loro visibilità e ruolo di riferimento per gli studi del territorio. Questo, unito alla mancata attenzione e riconoscimento da parte sia della politica che della società civile della figura del geologo e delle sue capacità, ha contribuito alla riduzione del numero di iscritti di studenti nelle discipline di Scienze della Terra. Calo che porterà nei prossimi anni ad una progressiva riduzione di competenze sia a livello locale che nazionale in un circolo vizioso che, salvo investimenti sostanziali, potrà solo peggiorare.

    Centoquarant’anni e non sentirli

    Per quanto concerne le carte geologiche, pochi mesi dopo l’atto formale di unificazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) veniva istituita una giunta consultiva che doveva “discutere i metodi e stabilire le norme per la formazione della Carta Geologica del Regno d’Italia” che porterà nel 1881 in occasione del 2° Congresso Internazionale di Geologia tenutosi a Bologna di pubblicare “per cura del Regio Ufficio geologico” la prima edizione della Carta geologica d’Italia in scala 1:1.000.000. Dopo 140 anni, ci troviamo oggi nella situazione in cui in Italia non abbiamo ancora una carta geologica aggiornata in grado di rappresentare tutto il territorio nazionale.

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    17 marzo 1861, nasce il Regno d’Italia

    Il programma di Cartografia Geologica nazionale CARG, lanciato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, rischia di fermarsi nuovamente per la mancanza di finanziamenti dopo che nel 2020 aveva ripreso dopo 20 anni di inattività per carenza di fondi. I fogli CARG rappresentano una banca dati fondamentale per la conoscenza del territorio e del sottosuolo necessaria per mappare le aree a rischio e metterle in sicurezza e procedere con una idonea pianificazione urbanistica. Come recentemente annunciato dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA), «quella a rischio è un’importante infrastruttura di ricerca strategica per la Nazione che oggi rappresenta lo strumento più completo per leggere il passato e il presente del nostro territorio».

    Per un pugno di euro

    Il tutto per una cifra tutt’altro che esorbitante (5 milioni l’anno) rispetto alle conoscenze e benefici che ne deriverebbero, sebbene questo dovrebbe essere una priorità per il Paese a prescindere dal costo. A titolo di esempio, Francia, Germania e Inghilterra hanno una carta geologica che copre tutto il territorio e la stessa viene aggiornata regolarmente.
    A livello nazionale, la copertura odierna della carta geologica CARG si attesta a poco più della metà del territorio: 348 carte geologiche su 636 totali.
    La Calabria è tra le regioni con minore copertura con solo 15 carte geologiche completate (incluse due a cavallo tra Calabria e Basilicata) e due in fase di realizzazione rispetto alle 42 necessarie a coprire il territorio regionale.

    Copertura regionale delle carte geologiche CARG in Calabria (Fonte Ispra)

    Il ruolo delle Scienze della Terra

    Solo conoscendo il territorio, la sua composizione e variabilità geologica è possibile una corretta pianificazione e gestione per proteggere la vita dei cittadini e anche le infrastrutture. Senza una pianificazione e sostegno finanziario e culturale, lavorando nel medio e lungo periodo per dotarsi degli strumenti e delle figure professionali necessarie per monitorare il territorio, i proclami post-evento hanno poca efficacia. Se non quella di rispondere, in emergenza, ad evento già avvenuto.
    Quello su cui si deve lavorare è sostenere e valorizzare gli studi delle Scienze della Terra. Allo stesso tempo permettere di realizzare gli strumenti necessari a prevenire gli effetti legati ad eventi naturali. Ad esempio, mettendo in sicurezza le aree a rischio o limitando le stesse nelle situazioni in cui è necessario convivere con i rischi perché impossibili da risolvere a meno di non evacuare la popolazione spostandola su altri siti.

    Lo sfasciume pendulo sul mare è ancora lì

    Nel lontano 1904, quando le prime carte geologiche d’Italia erano da poco state realizzate permettendo di colmare un divario con le altre nazioni e conoscere il territorio anche da un punto di vista geologico, Giustino Fortunato (politico e storico italiano) definì, a ragione, la Calabria come uno «sfasciume pendulo sul mare». A più di cento anni di distanza, lo sfasciume pendulo è ancora lì intento, nella sua lenta ma inarrestabile evoluzione geologica. Purtroppo, gli strumenti per conoscerlo e monitorarlo sono spesso ancora gli stessi consultati da Giustino Fortunato. Dire che da allora ad oggi si sarebbe potuto fare di più è retorica.

     

  • Grillini ma non troppo, ecco i 9 calabresi alle “Regionarie” del Lazio

    Grillini ma non troppo, ecco i 9 calabresi alle “Regionarie” del Lazio

    Oggi, 5 gennaio, dalle 10 alle 22 si vota alle “regionarie” del Movimento 5 Stelle, l’ormai nota selezione online delle candidature dei pentastellati in vista delle elezioni, in questo caso, regionali.
    Alcune esclusioni preventive stanno suscitando dibattito tra gli attivisti. Quella dell’avvocata Claudia Majolo, ad esempio, già fuori dalla lista definitiva per le elezioni politiche del M5S a causa di vecchi post in cui dichiarava il suo amore per il leader di Forza Italia, con tanto di hashtag #BerlusconiAmoreMio. Ma anche altri candidati, come vedremo, sono destinati a far discutere.

    Intanto c’è da rilevare che sono ben 9 i candidati alle “Regionarie” nel Lazio (tutti del collegio di Roma) calabresi o originari dalla Calabria che tentano il grande salto per correre al seguito della candidata Presidente (e capolista) Donatella Bianchi.

    La “carica” dei grillini calabresi

    Tra loro troviamo l’ingegnere e project manager di Catanzaro, Andrea Mungo che nel suo profilo sul sito del M5S rivendica l’esperienza giovanile nell’Udc del capoluogo calabrese.
    Presente anche il dottore cosentino Domenico Guarascio, che svolge un post-dottorato in neurobiologia a Roma. Nel suo profilo specifica di essere stato responsabile della comunicazione del M5s alle elezioni comunali di Cosenza nel 2016, quelle con candidato sindaco il “morriano” ex presidente del Rotary club, Gustavo Coscarelli (la lista arrivò ultima con il 2,36% e non elesse nessun consigliere).

    In lista anche il 49enne Giuseppe Fazzari, nato a Sellia Marina, impiegato a Roma presso una società fornitrice di energia elettrica, e Giovanni Brescia, docente di economia aziendale in istituti secondari a Roma, originario di Scandale e fratello di Gaspare Brescia, l’artista e scultore incaricato di realizzare la statua di Pitagora a Crotone.

    A volte ritornano

    Spazio anche all’avvocato Federico Amato, nato ad Amantea e già candidato alle elezioni comunali di Roma nel 2021 a sostegno di Virginia Raggi (ottenne 190 preferenze personali e non fu eletto), e a Pierpaolo Coluccia, dirigente sanitario del Policlinico Umberto I di Roma, originario di Cosenza, nominato dalla sindaca Raggi vicepresidente del Cda dell’azienda pubblica di servizi alla persona Iras di Roma Capitale. Coluccia vanta un passato tra le file dei giovani del PCI.

    «Credo che le competenze che ho maturato in questi anni possano essere utili ad una forza politica che ha sempre difeso il servizio sanitario pubblico contro i tentativi di privatizzarlo, tutto o in parte, della destra ed anche, purtroppo, della giunta Zingaretti», ha dichiarato sui social Coluccia, noncurante che in quella stessa Giunta regionale siede anche il M5S con due assessori (di cui una crotonese, Valentina Corrado).

    Ci ritenta Silvana Denicolò, nata a Vibo Valentia e già Consigliera regionale nel Lazio per il M5S dal 2013, eletta con 1.553 preferenze. Le 1.171 del 2018, invece, non le bastarono per il bis. È stata poi assessora comunale alla cultura nel municipio di Roma X (Ostia). E ora si ripresenta alla corsa regionale.

    Un candidato “Vero”

    La Calabria deve aver deluso l’ufficiale delle forze armate Nicola Vero, originario del catanzarese e già candidato alle elezioni regionali calabresi dell’ottobre 2021.
    «Scegli un Vero candidato consigliere, vota Nicola Vero (…) se ci credi aiutami a smuovere il sistema», scriveva l’ex componente della struttura del generale Figliuolo.
    Ottenne 750 preferenze personali. Il giorno dopo le elezioni scrisse su Facebook «non sapevo di essere quasi solo in questa esperienza sul territorio catanzarese, non immaginavo lo scarso senso di appartenenza ad una nazione da parte dei calabresi, non immaginavo lo scarso dovere civico dei calabresi». Ci riprova ora vagliando il “dovere civico” dei romani.

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    Un santino Vero per le regionali calabresi

    Maria Saladino e la candidite

    È stata candidata a tutto: elezioni europee, primarie per le comunali di Castrovillari, segreteria nazionale del Pd, elezioni regionali calabresi, elezioni politiche in Calabria.
    Ora ci riprova con le regionali del Lazio, tanto che un suo ex collega democrat ironizza «ha la candidite acuta».
    Lo scorso luglio, quando la Saladino lasciò il Pd per approdare nel M5S, venne accolta dall’allora coordinatore regionale Massimo Misiti (che ha recentemente abdicato al ruolo) con queste parole: «La sua esperienza politica a servizio del Movimento in Calabria sicuramente consentirà di aprire nuovi orizzonti in una terra che ha bisogno di sempre maggiore attenzione e di proposte di crescita e sviluppo».

    L’unico orizzonte che si aprì da lì a poco fu una candidatura (rivelatasi perdente) nell’uninominale nord del Senato alle politiche in Calabria. Nonostante questo, nel suo profilo sul sito del M5S, giudica quella candidatura una «battaglia epocale» in cui si attribuisce i 119mila voti ottenuti dal M5S in quel collegio.
    Ora ha scelto di «scendere in campo nella città in cui vivo e lavoro da oltre 20 anni, Roma, perché ritengo che sia questa ancora una tappa da vivere per contribuire ad affermare il verbo del Presidente Conte», si legge sul suo profilo Facebook e facendo storcere il naso a più di un attivista calabrese.

    Con Renzi tra gli ultimi

    Saladino molla il Pd nel 2022 puntando il dito sulla linea politica di Enrico Letta e Dario Franceschini: «Il Pd è lontano dagli ultimi».
    Nel Pd, però, la neo grillina ha tentato la scalata nel 2014 con una candidatura alle Europee che le portò ben 25.710 preferenze (arrivò terzultima nella lista del Pd nell’Italia meridionale, di molto distaccata dai cosentini Mario Pirillo, che ottenne 63.934 preferenze e Mario Maiolo, che ne ottenne 72.205, entrambi non eletti).
    Nel 2015 tentò la strada delle primarie per diventare candidata sindaca del Pd nella sua città, Castrovillari. Arrivò ultima e non si presentò come candidata consigliera. Sulla stampa si qualificava però come “delegata nazionale alle politiche per l’occupazione giovanile Labdem-Pd”.

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    Renzi e Saladino

    Nel 2016, in piena epoca di Pd renziano, Saladino lo abbraccia con fervore. «La passione per la bella Politica ed il rivedersi nella linea del Leader del proprio partito è un mix esplosivo di energia positiva» scriveva nel 2016.
    «A mio modo di vedere, il PD che oggi guida Matteo Renzi è lontano dagli aumma aumma, quello che alle Europee 2014 ha segnato percentuali uniche nella storia, proprio grazie al segnale di cambiamento anche nella classe politica esposta in prima linea, voluta da Matteo Renzi e dal PD», continuava nelle sue dissertazioni a favor di stampa.

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    Saladino referendaria

    La fede renziana che l’ha portata ad entrare nel coordinamento nazionale “Basta un SÌ Roma” a favore del referendum costituzionale Renzi-Boschi. «Quale componente del Coordinamento Nazionale dei Comitati del SÌ, dalle voci di notevole impegno territoriale che giungono da ogni parte di Italia, ritengo, inviare alle Regioni Meridionali, che ho rappresentato alle Europee 2014, ai tanti elettori che mi hanno sostenuta, alle tante realtà sociali con cui mi sono confrontata in questi anni, l’appello a votare un SÌ convinto alla Riforma Costituzionale, per non perdere questa grande occasione, garantirci futuro e prospettiva d’avvenire», scriveva Saladino in una lettera aperta.

    Una calabrese per Emiliano

    Nel 2017 Saladino consolida però il rapporto con il più anti renziano dei democrat: Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia ed ex sindaco di Bari.
    Tant’è che quando presentò alla Camera dei Deputati l’associazione politico-culturale Piazza Dem, da lei presieduta, al suo fianco c’era proprio Emiliano. La Saladino lo definì «indiscusso e forte riferimento del Mezzogiorno d’Italia».
    Pochi mesi dopo si tenne la “Cerimonia federativa tra Fronte Democratico di Michele Emiliano e Piazza Dem di Maria Saladino”.

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    Un selfie ricordo con lo smemorato Maurizio Martina

    Un amore spezzato in poco meno di un anno, il loro. Alle primarie nazionali del Pd la Saladino si candidò (ottenendo lo 0,9%), mentre Emiliano sostenne il favorito Nicola Zingaretti.
    Giova ricordare che nella sfida finale alle urne delle primarie tra Zingaretti e l’ex ministro dell’agricoltura Maurizio Martina la Saladino sostenne quest’ultimo. Che, però, pochi mesi prima aveva dichiarato a La7: «Mi sfugge il nome della sesta candidata alle primarie del Pd».

    Coerenza innanzitutto

    Nel 2020 Maria Saladino, che occupava la casella di componente dell’assemblea nazionale del Pd a seguito delle primarie, è stata capolista per il collegio di Cosenza alle elezioni regionali calabresi a sostegno di Pippo Callipo (e contro il M5S).
    A sostenerla c’era Nicola Oddati, coordinatore dell’iniziativa politica del Pd nazionale e plenipotenziario del segretario Nicola Zingaretti nel Mezzogiorno (e recentemente coinvolto in una inchiesta su un presunto scambio di favori a Pozzuoli). Arrivò ottava su nove candidati del Pd, con 1.572 preferenze personali.

    Pochi mesi dopo venne inserita dall’allora commissario regionale del Pd, Stefano Graziano, nel coordinamento regionale del Partito.
    «Meditate, compagne e compagni, mentre alcune esprimono, ancora, pretese e chiedono poltrone, c’è chi crede in questo PD, non per opportunismo e senza chiedere prebende (…) Ora è arrivato il momento di stringersi attorno al Partito ed al Segretario Nazionale Nicola Zingaretti, non di cavalcare le verdi praterie di chi ha, senza vergogna, portato il consenso elettorale del 2018, degli elettori democratici, alla corte della Lega. È giusto invece chiedere coerenza». Queste le parole di Saladino all’Ansa nel marzo del 2021, poco prima della folgorazione pentastellata.

    Un berlusconiano “nerazzurro”

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    Pasquale Saladino con Alessandra Mussolini – 2007

    Il padre della ex democrat, ora pentastellata, è stato assessore comunale a Castrovillari con il Psi e due volte candidato sindaco con Forza Italia.
    Nel 2002, da candidato perdente (ottenne il 12,4%) divenne consigliere comunale e capogruppo dei Berluscones. Due anni dopo non gli riuscì l’elezione alla provincia di Cosenza, sempre tra le fila degli azzurri. Nel 2007 non venne rieletto nemmeno consigliere. Ottenne il 5,8%, venendo sostenuto anche da Alternativa per la Calabria con candidata capolista Alessandra Mussolini.
    «Castrovillari ha bisogno di ritrovare il sorriso» disse la Mussolini a sostegno di Saladino, alla presenza anche del leader di Forza Nuova, Roberto Fiore.
    Insomma, tra il passato renziano di Maria Saladino e quello berlusconiano del padre, c’è materia per far discutere i grillini più ortodossi.

  • Da Bruxelles alla Calabria: tutti gli uomini di Cozzolino

    Da Bruxelles alla Calabria: tutti gli uomini di Cozzolino

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    L’Europa è grande e il Qatar è lontano, verrebbe da dire con una battuta.
    Che, tuttavia, non vale nella società globale, come dimostra il recente scandalone che ha colpito l’eurogruppo socialista.
    Riformuliamo: l’Europa è grande e il Qatar è più vicino di quanto non si pensi. E questa vicinanza lambisce anche la Calabria. Per fortuna, la lambisce soltanto.

    Un Cozzolino è per sempre

    Le ultime notizie sul Quatargate riguardano, com’è più che noto, il napoletano Andrea Cozzolino, rieletto per la terza volta all’Europarlamento nel 2019, con 81.328 preferenze.
    Il suo ruolo nello scandalo delle mazzette islamiche non è definito, stando a quanto trapela dalle cronache. E, per elementare garantismo, ci si augura che risulti estraneo ai fatti, che comunque lo sfiorano.
    Ma gli inquirenti belgi, pensano che sotto ci sia qualcos’altro. Altrimenti non avrebbero chiesto la revoca dell’immunità parlamentare, che tra l’altro il Pd è prontissimo a votare.

    Eva Kaili

    Il cerchio magico

    Cozzolino è finito nel tritacarne essenzialmente per il suo rapporto con Francesco Giorgi, uno dei principali indagati e compagno di Eva Kaili, la ex vicepresidente del Parlamento Europeo finita per prima nei guai.
    Giorgi vanta una lunga carriera nel sottobosco dorato dei portaborse europei: ha iniziato come segretario di Antonio Panseri, anche lui tra i principali indagati, ed è passato, dal 2019 in avanti, alla corte di Cozzolino col ruolo di assistente accreditato.
    Tradotto in parole povere: non come collaboratore del gruppo ma della persona.
    Resta legittima una domanda: basta una vicinanza a rendere sospetta una persona? Forse no. E, in effetti, il teorema per cui Cozzolino potrebbe essersi sporcato di fango solo perché datore di lavoro di chi il fango lo maneggiava regge male.
    Ma c’è da dire che l’inchiesta belga non è partita da una “normale” operazione di polizia, ma è la traduzione giudiziaria dei rapporti degli 007.

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    Francesco Giorgi, assistente di Cozzolino e compagno di Kalili, anche lui nei guai

    Cozzolino e la Calabria

    L’eventuale allargarsi dell’inchiesta su Cozzolino chiarirà i reali sospetti sull’eurodeputato.
    Dai dubbi giudiziari alle certezze della politica, sono invece palesi i rapporti tra Cozzolino e la vecchia dirigenza del Pd Calabrese, che nel 2019 è ancora un gruppo forte di potere.
    Lo provano anche i consensi ottenuti da Cozzolino in Calabria: 21.570, circa un quarto degli 81mila e rotti complessivi.
    Ancora: questi 21mila e rotti diventano più vistosi se paragonati a quelli ottenuti da Cozzolino in Campania: 37mila circa.
    Non occorre essere esperti in statistica per capire che il Pd calabrese si sia mobilitato alla grande in favore dell’eurodeputato napoletano.

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    Cozzolino durante una recente visita in Calabria

    I grandi elettori

    Parliamo del Pd calabrese del 2019, che ancora amministra e tiene ben saldi i cordoni della borsa.
    Tra i grandi sostenitori di Cozzolino figurano ex big del livello di Carlo Guccione e Nicola Adamo. E, sostengono i bene informati, anche Mario Oliverio avrebbe fatto la sua parte. A scorrere l’elenco, si ha l’impressione di un partito di fantasmi, perché il potere di allora è semplicemente evaporato.

    L’altro segretario

    La forza del rapporto tra Cozzolino e la Calabria, in particolare il vecchio zoccolo duro del Pd cosentino, emerge da un altro nome: Vittorio Pecoraro, l’attuale segretario provinciale dei Dem cosentini.
    Pecoraro, formatosi a Roma, inizia la sua carriera come renziano al seguito di Stefania Covello. Poi prende la via di Bruxelles. Manco a farlo apposta, sulle ginocchia di Cozzolino, con il medesimo ruolo di Giorgi. Cioè come segretario accreditato.
    Nel 2021, tuttavia, il giovane cosentino lascia la struttura europea e passa a Invitalia.
    Siccome Roma è più vicina a Cosenza di Bruxelles, Pecoraro si mette a disposizione del partito, che punta su di lui per mettere fine al commissariamento con un congresso travagliato (e un po’ bizzarro).

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    Vittorio Pecoraro

    Largo ai giovani

    Quella di Pecoraro non è una scelta della base. Ma è dovuta, in buona parte, all’esigenza politica di curare il legame con l’eurodeputato, che in proporzione agli elettori, ha preso più voti da noi che a casa sua.
    Infatti, i risultati elettorali del giovane segretario sono stati piuttosto deboli: i suoi 28mila e rotti consensi ottenuti alle ultime politiche grazie alla coalizione a quattro guidata dal Pd, lo hanno piazzato terzo dopo la grillina Anna Laura Orrico e l’azzurro, anzi gentiliano, Andrea Gentile. E c’è di peggio: Gentile jr non si è limitato a superare Pecoraro ma, addirittura, lo ha doppiato coi suoi 65mila e rotti voti.

    Il legame vacilla

    A questo punto è lecito chiedersi: che succederà, ora che Letta ha scaricato Cozzolino? A livello giudiziario, niente.
    A livello politico, invece, emerge un paradosso: un ex uomo di Cozzolino guida una segreteria importante di un partito pronto a considerarsi parte lesa anche dall’eurodeputato, se del caso.
    Non resta che aspettare, con una buona dose di garantismo e di scaramanzia gli sviluppi del pasticciaccio europeo. Che, forse, non travolgerà politicamente il Pd calabrese solo perché è già travolto di suo.

  • Sanità liquida in Calabria: dove i privati hanno il monopolio

    Sanità liquida in Calabria: dove i privati hanno il monopolio

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    Il concetto di “liquidità” che caratterizza la nostra epoca è stato brillantemente elaborato dal sociologo Zygmunt Bauman. Secondo Bauman, la contemporaneità offre ai cittadini sempre meno riferimenti e certezze, mentre anche i diritti fondamentali soccombono alle regole del libero mercato. La sanità pubblica in Calabria è un ottimo esempio di passaggio dallo stato solido allo stato liquido. Prima di altre Regioni, in Calabria si è avviato il processo di “alleggerimento” dell’intero comparto sanitario, anteponendo i principi contabili al diritto alla cura.

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    Zigmunt Bauman, sociologo e teorico della società liquida

    Il sistema sanitario calabrese, già lontano dall’eccellenza, è stato sottoposto ad una pesante cura dimagrante fatta di chiusure, tagli lineari, depotenziamenti e blocco delle assunzioni, che – tra l’altro – non ha affatto migliorato la situazione finanziaria. Tra gli effetti di questi processi, le strutture sanitarie, sempre più a corto di personale e macchinari efficienti, hanno visto crescere le liste d’attesa fino a negare la possibilità di curarsi tempestivamente. In un contesto di grande incertezza e smarrimento, un cambiamento (forse irreversibile) è avvenuto: la sanità privata ha monopolizzato il “mercato” degli esami diagnostici e delle visite specialistiche.

    Fare sistema o fregare il sistema?

    La favola del pubblico e del privato che in ambito sanitario “fanno sistema insieme” si fa sempre più fatica a raccontarla (ed ascoltarla). I massimalisti del neoliberismo vorrebbero addirittura un mercato concorrenziale tra sanità pubblica e sanità privata, delegando il potere di scelta ai pazienti-consumatori. Le ambiguità e le contraddizioni di un approccio di questo tipo sembrano evidenti: come può il diritto universale alla salute conciliarsi con le logiche del profitto e la volubilità del mercato? Nell’ultimo ventennio si è già assistito al perverso tentativo di aziendalizzare la sanità pubblica, creando un sistema ibrido che stimola la commercializzazione della salute e che restituisce dei risultati non proprio incoraggianti.

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    L’ex presidente della Regione e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti

    La cura Scopelliti

    La cura Scopelliti, basata sullo smantellamento degli ospedali territoriali con la promessa (mai realizzata) di creare strutture assistenziali intermedie, ha aperto voragini nell’offerta dei servizi erogati dalla sanità regionale. Nelle strutture pubbliche, come soluzione alle conseguenti lunghe liste d’attesa, la prassi è divenuta re-indirizzare i pazienti verso la sanità privata convenzionata, che si è posizionata in maniera predominante sul mercato. Essendo parte integrante ed adottando la stessa tariffazione del Sistema sanitario regionale (comprese le esenzioni ticket), le organizzazioni della sanità privata non perdono occasione per ribadire il loro soccorso alla sanità pubblica, musica per le orecchie di quelli che “ben venga il privato, se il pubblico non funziona”.

    Sanità, Calabria nel gioco dei privati

    L’impatto con la realtà avviene quando le strutture private convenzionate raggiungono il tetto delle prestazioni annuali rimborsate dalla Regione ed allora, o chiedono al paziente di pagare il prezzo intero, o decidono di sospendere temporaneamente i servizi, alimentando così una sorta di circolo vizioso. La sanità privata convenzionata, tra l’altro, ha la facoltà di scegliere à la carte quali prestazioni erogare, pertanto, si concentra negli ambiti che richiedono un numero esiguo di personale qualificato ed un rimborso conveniente da parte della Regione. Tutte logiche che mal si conciliano con il principio universalistico del diritto alla cure.

    L’emorragia di personale sanitario

    Una delle principali motivazioni del collasso della sanità pubblica calabrese è sicuramente la penuria di personale: tra 2009 ed il 2020, il blocco delle assunzioni ha provocato una diminuzione del 18% del personale sanitario pubblico, che equivale a 2.674 operatori in meno. In aggiunta alla migrazione sanitaria dei pazienti, anche medici ed infermieri, stanchi di doppi turni e vessazioni, hanno avviato un esodo verso altre Regioni e verso la sanità privata convenzionata, che, nello stesso periodo, ha visto aumentare il personale sanitario del 15%.

    https://icalabresi.it/fatti/sanita-calabrese-otto-commissari-per-restare-anno-zero/
    L’ex ministro della Salute, Roberto Speranza con Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria

    Il limite delle assunzioni

    Ai rigidi paletti fissati dal Piano di Rientro si è aggiunta la negligenza dei commissari ad acta, che non si sono preoccupati di assumere neanche quando i parametri statistici lo avrebbero permesso. Gli effetti a medio-lungo termine saranno forse irreversibili. Scarso appeal della Regione e concorsi che vanno “a vuoto” rappresentano il mantra del commissario Occhiuto, ma neppure una inversione di tendenza ed una maggiore attrattività permetterebbero alla Calabria di recuperare il terreno perso. Infatti, anche il nuovo ministro della Salute Orazio Schillaci ha confermato di non voler mettere mano al limite delle assunzioni che fissa il tetto massimo del personale sanitario ai livelli del 2018, prevedendo dal 2025 una riduzione della spesa sanitaria fino ai livelli pre-Covid.

    Il PNRR? Altro passo verso la privatizzazione

    Le misure finanziate dalla Missione 6 del PNRR non preannunciano alcun cambio di passo, la sanità pubblica sembra destinata ad essere travolta da una aggressiva privatizzazione dell’intero sistema. Infatti, gli investimenti sull’edilizia sanitaria e sull’acquisizione di apparecchiature, lasciano scoperto il nervo del capitale umano. Affinché il PNRR sortisca qualche effetto positivo bisognerà reclutare molte unità supplementari di personale sanitario, ma nulla si prevede in questo senso.

    In Calabria, la nuova geografia sanitaria prospettata dal Piano del commissario Occhiuto offre spunti per nuove incertezze: una programmazione nell’ottica di “portare a casa” risorse da iscrivere sui capitolati di bilancio, piuttosto che sull’analisi dei fabbisogni sanitari e dello status quo delle strutture esistenti.

    Sanità, la Calabria a conti fatti

    I numeri rendono difficile immaginare un funzionamento immediato ed a pieno regime delle nuove strutture assistenziali territoriali. 61 Case di Comunità e 20 Ospedali di Comunità da attivare entro il 31 dicembre 2026, traguardo assai improbabile se si pensa che, nella maggior parte dei casi, non esiste neppure uno studio di fattibilità preliminare per la realizzazione delle opere. La messa in funzione delle nuove strutture assistenziali richiederebbe inoltre diverse unità supplementari di personale: a conti fatti, (al netto del personale da integrare negli ospedali propriamente detti) bisognerebbe inquadrare almeno 350 infermieri e 120 operatori socio sanitari, senza contare medici, assistenti sociali e personale amministrativo.

    L’impossibilità di attivare i servizi con risorse proprie potrebbe spingere la Regione ad affidarsi ancora di più ai privati. Infatti, un particolare non trascurabile è che gli ospedali di comunità e le case di comunità sono modelli particolarmente affini ai settori che la sanità privata convenzionata predilige: riabilitazione, esami diagnostici e visite specialistiche. Ad altre latitudini già si osserva questa dinamica: la Regione si occupa dell’edilizia sanitaria ed i servizi vengono affidati a cooperative, medici a gettone e sanità privata convenzionata, una modalità ormai collaudata per “fare sistema insieme”, mentre l’accesso alle cure, sempre più liquido, inizia già ad evaporare.

    Enrico Tricanico

  • «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    L’autonomia differenziata? «Se passasse, sarebbe la rovina del Sud». E, fin qui, è un luogo comune.
    Ma in questo caso è nobilitato da chi lo esprime: Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e sostenitore originale di una teoria economica importante e anticonformista sul ritardo storico del Sud. Questo sarebbe dovuto non tanto a fattori contingenti o a handicap politici quanto a un elemento fisiologico: la posizione geografica, a causa (o per colpa) della quale il Mezzogiorno è fuori dai traffici economici più importanti.
    Daniele ha sostenuto questa teoria in due volumi: Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (2011), scritto assieme a Paolo Malanima, e Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (2019), editi entrambi da Rubbettino.
    Al che sorge un dubbio: se il Meridione è condannato alla subalternità dalla posizione, a che serve insistere sul problema delle autonomie?
    La risposta è sofisticata ma non incomprensibile: «Lo Stato e la politica hanno dei ruoli importanti, tra cui il dovere di incidere sull’economia. Quindi, anche di correggere e attenuare i gap territoriali».

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    L’Italia smembrata dagli egoismi politici

    Autonomie differenziate: è un tormentone tornato di moda quasi a ridosso delle ultime politiche. Se passasse questa riforma, avanzata tre anni fa, che succederebbe?

    «Il Sud regredirebbe di brutto, perché i trasferimenti pubblici calerebbero in misura consistente. Si consideri che le regioni meridionali, la Calabria in particolare, dipendono molto da questi trasferimenti, in cui lo Stato fa da mediatore».

    È opportuno chiarire meglio questo meccanismo, su cui si sono creati tanti equivoci.

    «Nessuna Regione del Sud prende soldi direttamente da quelle del Nord. Il Meridione riceve da ciò che lo Stato preleva dal gettito fiscale di tutte le Regioni in base a una ripartizione elaborata sulla base di un criterio: assicurare servizi uguali a tutti i cittadini italiani».

    E quindi?

    «Le tre Regioni del Nord che desiderano l’autonomia sono grandi contribuenti, dati i loro livelli di reddito. Si pensi che la Lombardia pesa per il 22% del Pil nazionale, cioè quanto l’intero Meridione. Se aggiungiamo Emilia Romagna e Veneto arriviamo al 40%.
    Alla base di queste richieste c’è un malcontento generato da un meccanismo economico: le Regioni settentrionali ricevono dallo Stato meno di quel che versano. Viceversa quelle del Sud, la Calabria in particolare, ricevono più di quel che versano. Questa differenza di trattamento si giustifica per garantire l’eguaglianza dei cittadini, che hanno diritto a ricevere cure, istruzione e infrastrutture di eguale valore».

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    Il vecchio spot della Milano “da bere”, simbolo del primato economico lombardo

     

    Un importante fattore politico, che rischia di venir meno.

    «Anche a dispetto del comma due dell’articolo tre della Costituzione, che come sappiamo impone allo Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono o limitano la piena eguaglianza».

    Sorge un dubbio: tutti i Paesi europei hanno divari interni, anche importanti. Possibile che le autonomie siano solo un problema italiano?

    «Le disparità e i relativi malumori esistono dappertutto. Ma i divari economici non implicano affatto differenze nei servizi pubblici. Non è così in Germania, dove il dislivello tra Est e Ovest continua a pesare. Non è così in Spagna, dove pure è avvenuto, circa quattro anni fa, un tentativo di secessione della Catalogna. Non è così neppure nel Regno Unito, nonostante i significativi divari economici regionali. Si noti che in Spagna e Germania, i Länder e le Comunità autonome hanno notevole autonomia, anche finanziaria, e competenze in numerose materie. Ma sono previste efficaci forme di perequazione che assicurano un’uniformità dei servizi».

    «Per esempio, in Spagna il Fondo di garanzia dei servizi pubblici fondamentali ha il fine di assicurare alle diverse Comunità le medesime risorse per abitante, con riguardo a servizi pubblici fondamentali come l’istruzione, la sanità e i servizi sociali essenziali. Il modello tedesco di federalismo è, invece, un modello cooperativo ben funzionante».

    Ciò implica un calo nella qualità della vita.

    «Esattamente. E invito a una riflessione: in altre nazioni europee avanzate, sarebbero tollerate le disuguaglianze nei servizi pubblici che caratterizzano l’Italia? Penso che le funzioni essenziali, soprattutto la Sanità, dovrebbero essere riaccentrate. In un paese disuguale, l’autonomia, a ogni livello, nella sanità come nella scuola, tende ad accrescere le disuguaglianze. E ciò anche per un’evidente differenza nel grado di efficienza delle Regioni nella gestione dei servizi pubblici: si pensi alla sanità in Calabria e in Emilia Romagna. Non è solo una questione di risorse, ma di capacità. In Calabria, la gestione dei servizi pubblici è stata spesso piegata a spicciole logiche politiche e clientelari».

    ».

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    Una protesta contro la Sanità calabrese

    Ma questo non cozza con la sua teoria? Se i nostri territori sono naturalmente depressi perché marginali, a che serve assicurare servizi che non avrebbero comunque ricadute economiche significative?

    «Economia e politica sono interdipendenti. Quindi, ridurre il gap nei servizi significa anche rendere più appetibili i territori a livello economico. In ogni caso, lo Stato ha il dovere di assicurare uguali servizi in tutto il suo territorio e ciò, indipendentemente, dal livello di reddito dei cittadini».

    Il Paese andrebbe davvero in pezzi se passasse l’autonomia differenziata?

    «Non credo ci sarebbe alcuna secessione, neppure “mascherata”. Si esaspererebbero le disparità e i dislivelli, già notevoli. Ma l’Italia continuerebbe a esistere, coi problemi di sempre: un Sud sempre più ridotto a serbatoio di forza lavoro e un Nord produttivo».

    La soluzione?

    «Dubito che i meccanismi di perequazione per le regioni con minore capacità fiscale, siano in grado di garantire uniformità dei servizi con la realizzazione dell’autonomia differenziata. Non solo per una questione di risorse, ma anche per le differenze nelle capacità gestionali delle Regioni meridionali. Penso che le politiche nel campo della sanità, dell’istruzione e delle infrastrutture di collegamento dovrebbero essere centralizzate: se ne dovrebbe occupare lo Stato. Per il resto, ognuno faccia da sé. Ma questi servizi devono essere uguali dappertutto».

    L’Istruzione: un altro settore che soffre il decentramento

    Secondo le teorie che ha aggiornato ed esposto in due libri diventati classici, il divario Nord-Sud non è l’effetto di patologie storiche ma è fisiologico. Cioè, è dovuto alla posizione geografica.

    Q«ueste riflessioni hanno un precedente illustre nel grande economista cosentino Antonio Serra, che agli inizi del Seicento indicava chiaramente come la situazione territoriale del Regno di Napoli, una penisola nel centro del Mediterraneo, quindi lontana dai grandi traffici, fosse un oggettivo svantaggio. Attenzione: quando scriveva Serra il processo storico che avrebbe reso le rotte mediterranee secondarie rispetto a quelle atlantiche era ancora agli inizi. Purtroppo, i fatti continuano a dargli ragione».

    Il Sud, quindi, non ha potuto o non è riuscito a svilupparsi?

    «Il Nord è stato avvantaggiato dalla dimensione del suo mercato interno e dalla vicinanza ai grandi mercati del centro-Europa con cui si è economicamente integrato. Il Sud, distante oltre mille chilometri da quei mercati e a lungo penalizzato dalla carenza di infrastrutture, è rimasto periferico. La geografia non è stata l’unica causa, ma ha contato molto nel determinare il ritardo del Sud e, seppur meno che in passato, conta ancora».

    Quanto c’è di vero nella tesi che il ritardo del Sud si debba a scelte politiche delle classi dirigenti settentrionali?

    «È innegabile che l’industrializzazione del Nord, specie nella prima fase, sia stata sostenuta dall’azione statale. Il Sud, per lungo tempo, è stato trascurato. Il divario tra le due aree, inizialmente piccolo, è aumentato in tutta la prima metà del Novecento. Poiché il processo di sviluppo tende ad autoalimentarsi, quel divario, storicamente accumulatosi, non è stato più colmato».

    Una vecchia immagine-simbolo della questione meridionale

    E le classi dirigenti meridionali che colpe hanno?

    «Hanno tante colpe, sebbene non tutte quelle che gli sono attribuite. C’è un dato fondamentale, evidente da almeno venti anni: le classi dirigenti meridionali hanno molto peso sul proprio territorio, sia perché sono mediatrici di risorse pubbliche sia per l’assenza di contropoteri sociali ed economici, ma sono modeste su scala nazionale e irrilevanti a livello europeo. E questo ha pesato, va da sé, anche per le autonomie differenziate».

    Come?

    «Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono state esaudite non appena hanno alzato la voce perché il Sud era sguarnito. Non c’è praticamente un leader meridionale di peso in grado di contrastare le tentazioni autonomiste».

    Eppure, il partito maggioritario della coalizione di governo ha nel suo bagaglio culturale una tradizione nazionalista che dovrebbe contrastare certe spinte centrifughe.

    «Se ci si riferisce a Fratelli d’Italia, sarei molto cauto: il partito di Giorgia Meloni ha preso il 26% su una percentuale di votanti pari al 64% degli elettori (percentuale molto più bassa al Sud). Quindi, siamo al 16% degli italiani. Ancora: Fdi ha riscosso molto più consenso nel Centronord che al Sud. E si consideri che i ministeri chiave, cioè Affari Regionali e Autonomie, Infrastrutture ed Economia, sono in mano alla Lega. Siamo sicuri che gli eredi della Fiamma Tricolore abbiano la forza e la determinazione necessarie per difendere le prerogative dello Stato e le esigenze del Sud?».

  • Guarascio, che batosta a Reggio: salta l’appalto da quasi 120 milioni

    Guarascio, che batosta a Reggio: salta l’appalto da quasi 120 milioni

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    Tempi duri per Eugenio Guarascio. A Cosenza, come presidente della locale squadra di calcio deve fare i conti con le contestazioni dei tifosi. A Reggio Calabria, invece, ha visto sfumare un appalto da quasi 120 milioni di euro potenziali che, soltanto pochi mesi fa, considerava ormai cosa sua. Ecologia Oggi Spa, l’azienda del patron rossoblu, non si occuperà infatti della raccolta dei rifiuti in riva allo Stretto, come pure la ditta dell’imprenditore lametino aveva dichiarato con una nota a fine ottobre. La gestione della spazzatura reggina resterà di competenza della piemontese Teknoservice, che se n’era già occupata negli ultimi tempi e continuerà a farlo per i prossimi 48 (che potranno diventare 60) mesi.

    L’appalto finisce in tribunale

    L’assegnazione a Teknoservice e non ad Ecologia Oggi del servizio è figlia di una lunga battaglia giudiziaria che ha visto pronunciarsi il Tar prima e il Consiglio di Stato poi. A scontrarsi, da un lato il Comune e l’azienda piemontese, dall’altro quella calabrese. Guarascio contava molto sull’aver fatto un’offerta migliore dal punto di vista economico. La cosa, però, non si era rivelata sufficiente perché da quello tecnico la proposta di Teknoservice risultava decisamente superiore a quella dei rivali. Il problema per i piemontesi, però, era che la commissione chiamata a valutare le offerte e aggiudicare l’appalto non era stata sufficientemente accurata nel motivare le proprie valutazioni. E così, di fatto, le aveva rese contestabili.

    Teknoservice già al lavoro

    L’aggiudicazione definitiva dell’appalto, pertanto, era rimasta sub iudice. Teknoservice aveva iniziato a lavorare solo grazie a un’ordinanza emanata dal Comune per tamponare l’accumulo di rifiuti che la mancata assegnazione del servizio avrebbe comportato. Poi, nelle scorse settimane, la sentenza del Consiglio di Stato sembrava aver riaperto i giochi per Ecologia Oggi. In realtà, le cose non stavano come Guarascio e i suoi avevano dichiarato. I giudici avevano sì respinto i ricorsi dei piemontesi e Reggio, ma anche chiesto al Comune di motivare meglio i perché della prima scelta pro Teknoservice. E le motivazioni sono arrivate: non c’erano difformità nell’offerta rispetto a quanto richiesto, come lamentava Ecologia Oggi.

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    Un mezzo della Teknoservice

    Il Comune conferma: l’offerta tecnica era regolare

    L’ulteriore istruttoria seguita alla sentenza ha consentito – si legge in una determina pubblicata a San Silvestro – di«affermare la validità dell’Offerta tecnica della Teknoservice srl, rispetto alle finalità prefissate dalla stazione appaltante, essendo stato dimostrato, in punto di equivalenza funzionale e di effettiva idoneità al conseguimento dei prefissati obiettivi di raccolta differenziata, che le modalità di raccolta ivi proposte soddisfano pienamente le indicazioni operative recate dalla lex specialis (che di per sé ammetteva varianti ed ottimizzazioni rispetto al progetto posto a base di gara, purché funzionali agli obiettivi dell’Amministrazione comunale».

    Costa meno, ma Ecologia Oggi è fuori

    Quanto proposto da Teknoservice, insomma, non sarà economico quanto il progetto di Ecologia Oggi (il ribasso rispetto alla base d’asta si ferma a un 1,08%) ma decisamente più efficace rispetto alla concorrenza per ottenere i risultati auspicati dell’amministrazione reggina. «Tant’è vero – si legge ancora nell’atto del Settore Ambiente – che la considerevole diversità quali-quantitativa delle due offerte tecniche si traduce in un forte distacco nei punteggi attribuiti ad esse (59,480 per Teknoservice Srl contro 46,218 per Ecologia Oggi Srl)».

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    Un estratto dell’atto che assegna l’appalto a Teknoservice

    Non esistono, quindi, motivi ostativi all’aggiudicazione della gara, i precedenti rilievi risultano sanati dall’istruttoria extra. A raccogliere i rifiuti per i prossimi 4 anni sarà dunque Teknoservice, in cambio di circa 93,5 milioni di euro, oneri di sicurezza inclusi. Ai quali si aggiungerà un’ulteriore ventina abbondante di milioni nel caso il contratto sia esteso a un quinto anno.