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  • Genocidio: la parola vietata

    Genocidio: la parola vietata

    Nel frastuono assordante della guerra e nel pianto silente di chi ha perso tutto, un dibattito tormentato scuote le coscienze all’interno di Israele. Dalle aule universitarie e dai centri di ricerca, voci accademiche si levano per confrontarsi con una delle questioni più angoscianti del nostro tempo: l’ipotesi di genocidio nei confronti del popolo palestinese. È una discussione che lacera, che costringe a guardare in faccia verità scomode, avvolta nel pesante sudario del dolore per le vittime innocenti, sia israeliane che palestinesi. Gli eventi del 7 ottobre 2023 hanno inferto una ferita profonda, riaccendendo antiche paure e inaugurando nuovi orrori, rendendo ancora più urgente la necessità di comprendere e analizzare.

    Anche dentro Israele si comincia a parlare di “genocidio” in Palestina

    All’interno del mondo accademico israeliano, le posizioni divergono radicalmente. Un numero significativo di studiosi, inclusi noti “Nuovi Storici”, non esita a parlare di “genocidio”, “pulizia etnica” o di “aspetti genocidari” nelle azioni di Israele in Palestina. Tra questi, Ilan Pappé sostiene da tempo che nel 1948 sia avvenuta una “pulizia etnica” della Palestina, introducendo già nel 2006 il concetto di “genocidio incrementale” per descrivere le politiche successive di Israele. Vede negli eventi attuali la continuazione di una logica eliminazionista. Anche Avi Shlaim, altro influente Nuovo Storico, definisce le azioni israeliane a Gaza “pulizia etnica e genocidio”, inquadrandole in decenni di occupazione e nelle ripercussioni della Nakba del 1948. Per Shlaim, il blocco degli aiuti umanitari a Gaza, unitamente alle “dichiarazioni genocidarie di leader israeliani e alla vastità delle vittime”, ha rappresentato un punto di svolta.

    I bombardamenti di Israele hanno causato migliaia di morti tra i bambini

    Studiosi israeliani lanciano l’allarme

    Omer Bartov, stimato studioso dell’Olocausto, si è espresso a favore dell’applicazione del termine “genocidio” a Gaza), citando “la scala delle uccisioni e mutilazioni, e l’imposizione deliberata di condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione fisica”. Bartov critica l’uso “perverso” della memoria dell’Olocausto per giustificare tali azioni, affermando che la mentalità osservata in alcuni soldati israeliani a Gaza gli ricordava quella dei soldati della Wehrmacht in Russia. Presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, Amos Goldberg, anch’egli studioso dell’Olocausto, ha dichiarato esplicitamente: Sì, questo è genocidio” riguardo a Gaza. Sostiene che non sia necessario un paragone con Auschwitz per parlare di genocidio, indicando come prove “la completa distruzione di Gaza, le uccisioni indiscriminate, la carestia deliberata e l’annientamento delle élite” ed evidenziando “un’atmosfera radicale di disumanizzazione dei palestinesi” nella società israeliana.

    Il suo collega, lo storico dell’Olocausto Daniel Blatman, rincara la dose, affermando che Israele  sta “bombardando a morte bambini affamati” a Gaza e definendo il “Piano dei Generali” israeliano “un terribile crimine di guerra che spazia dalla pulizia etnica al genocidio”. Raz Segal, studioso di genocidio, è stato tra i primi a etichettare la guerra di Israele a Gaza come un “caso da manuale di genocidio“, basandosi sulle dichiarazioni di funzionari israeliani e su atti come uccisioni di massa e politiche di affamamento.

    Negare il genocidio di Israele in Palestina

    Diametralmente opposta è la posizione di un altro gruppo di accademici, che contesta fermamente l’etichetta di genocidio. La loro analisi si fonda spesso su un’interpretazione legale restrittiva della Convenzione sul Genocidio del 1948, la quale richiede la prova di un “intento specifico” (dolus specialis) di distruggere un gruppo in quanto tale. Molti sostengono che, per quanto distruttive, le azioni di Israele manchino di questo intento specifico e che le dichiarazioni ufficiali possano essere interpretate diversamente. Un argomento frequente è che la campagna militare israeliana miri ad Hamas, e non al popolo palestinese nel suo complesso, e vengono citati gli sforzi per minimizzare i danni ai civili come prova contraria a un intento distruttivo.

    Alcuni, pur ammettendo la possibilità di crimini di guerra, li distinguono nettamente dal genocidio. Israel W. Charny, ad esempio, considera le azioni di Hamas del 7 ottobre come “genocidio” e la risposta di Israele come “guerra” con molte vittime civili, suggerendo che Israele debba evitare un “picco genocidario”. Il professore di diritto internazionale Amichai Cohen, pur riconoscendo la “retorica odiosa proveniente da Israele” come un “punto debole”, ritiene problematica l’accusa di genocidio, suggerendo che le azioni di Israele possano essere spiegate da ragioni tattiche o strategiche.

    Lo sterminio della popolazione palestinese evoca la tragedia dell’Olocausto

    Lo spettro dell’Olocausto incombe sul dibattito

    L’ombra dell’Olocausto si proietta in modo complesso e doloroso su questo dibattito. Per studiosi come Bartov e Goldberg, la sua memoria è un monito universale: il “mai più” deve applicarsi a tutti, e le atrocità subite non possono giustificare l’inflizione di nuove sofferenze. Essi vedono nell’orrore del passato un imperativo etico a denunciare la disumanizzazione. Altri, invece, e più diffusamente nel discorso pubblico israeliano, invocano l’unicità dell’Olocausto per sostenere che le azioni di Israele non possono essere genocidarie, una prospettiva contestata da chi, come Goldberg, ribadisce che “Gaza non ha bisogno di essere Auschwitz per essere genocidio“.

    Le voci critiche vengono censurate

    Il contesto istituzionale in cui questo dibattito si svolge è tutt’altro che sereno. Pesanti accuse di “complicità istituzionale” delle università israeliane con le politiche statali e militari emergono da più fronti. Si descrive un ambiente in cui il “nazionalismo” sarebbe diventato l’”unico punto di riferimento”, limitando il pensiero critico e la discussione sulla sofferenza palestinese, spesso liquidata come “danno collaterale inevitabile”. La libertà accademica appare sotto forte pressione, con numerosi casi documentati di docenti e studenti, soprattutto palestinesi, sottoposti a procedimenti disciplinari, sospensioni e persino arresti per aver espresso posizioni critiche. Figure come la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, sospesa dall’Università Ebraica per aver definito la guerra a Gaza un genocidio, e la professoressa Nurit Peled-Elhanan, sospesa per aver fatto riferimenti alla violenza coloniale, sono diventate emblematiche di un clima che scoraggia il dissenso. Nonostante ciò, voci critiche continuano a farsi sentire, sia individualmente sia attraverso iniziative collettive.

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    Anche dentro Israele cominciano a crescere le proteste

    In questo scenario straziato, è fondamentale ribadire che ogni vita spezzata, ogni sogno infranto, ogni lacrima versata, da qualunque parte provenga, rappresenta una tragedia immane. L’empatia non può conoscere confini. La sofferenza dei civili palestinesi a Gaza, sotto i bombardamenti, privati di beni essenziali, è un grido che interpella la coscienza del mondo, così come il dolore delle famiglie israeliane colpite dagli attacchi del 7 ottobre e l’angoscia per gli ostaggi meritano ascolto e profondo rispetto.

    La pace giusta necessaria ma lontana

    Il cammino verso una pace giusta appare oggi più impervio che mai. Tuttavia, nel coraggio di chi, anche all’interno della società israeliana, osa interrogarsi, criticare e sfidare le narrazioni dominanti, si può forse scorgere un barlume di speranza. Ascoltare queste voci, comprendere la complessità delle loro argomentazioni e riconoscere il peso del loro tormento è un passo necessario per chiunque voglia tentare di navigare questo doloroso abisso, nella speranza che un giorno si possa spezzare la spirale di violenza e costruire un futuro in cui il “mai più” sia davvero una promessa universale.

                                                                                                     Tommaso Scicchitano

  • Quegli israeliani che aiutano i palestinesi

    Quegli israeliani che aiutano i palestinesi

    Immaginate di svegliarvi ogni giorno in una terra dove l’eco della guerra è la colonna sonora della vita, dove i muri non sono solo di cemento, ma barriere invisibili di paura e sospetto che dividono cuori e menti. In questo paesaggio irto di dolore, dove la speranza sembra un fiore calpestato, ci sono uomini e donne israeliani che scelgono la via più difficile: quella del dissenso, della mano tesa, della costruzione ostinata della pace. Non sono eroi da copertina, ma persone comuni – madri, padri, figli, soldati che hanno visto troppo, rabbini che interrogano la loro fede, medici che onorano il loro giuramento – che hanno deciso di non voltare le spalle all’umanità dell’altro, il palestinese, e alla propria. Le loro organizzazioni sono fari nella nebbia, spesso alimentati solo dalla fiamma della loro incrollabile coscienza.

    Gli israeliani che dicono basta alla guerra

    Il loro cammino è lastricato di sfide che spezzerebbero chiunque non fosse sorretto da una profonda convinzione etica. Ogni giorno, si scontrano con un’opinione pubblica spesso indifferente quando non apertamente ostile, plasmata da anni di conflitto e da narrazioni che dipingono l’altro come una minaccia perenne. Essere una voce per la pace, in un contesto simile, significa spesso essere etichettati come ingenui, nel migliore dei casi, o come traditori, nel peggiore. Significa sentire il peso dello stigma, talvolta l’isolamento persino all’interno della propria cerchia sociale, e affrontare campagne di delegittimazione orchestrate da chi ha interesse a mantenere vivo il fuoco del conflitto.

    Sono migliaia le vittime innocenti della guerra tra cui moltissimi bambini

    Il difficile compito di essere voce di pace

    Pensiamo a chi opera in B’Tselem. Questi ricercatori, israeliani e palestinesi fianco a fianco, non si limitano a sfogliare documenti negli archivi. Percorrono strade polverose, entrano in case segnate dal lutto o dalla minaccia della demolizione, raccolgono con pazienza certosina le schegge di verità dalle voci spezzate delle vittime o dai testimoni oculari. Il loro lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati è un atto di accusa implacabile, ma anche un disperato tentativo di squarciare il velo della negazione che avvolge parte della società israeliana. E quando, dopo anni di meticolose analisi, arrivano a definire il sistema vigente come “apartheid”, lo fanno con il peso di chi sa che quella parola è una ferita aperta nella storia, ma necessaria per nominare l’ingiustizia. La loro ricompensa? Spesso, accuse infamanti e tentativi di minarne la credibilità internazionale, da cui, paradossalmente, dipende gran parte del loro sostegno.

    Anche ex militari tra i volontari

    Poi ci sono i soldati, giovani uomini e donne gettati nel crogiolo dell’occupazione. Alcuni ne escono induriti, altri con cicatrici invisibili nell’anima. È da queste ferite che nasce Breaking the Silence. Gli ex-militari che animano questa organizzazione hanno sentito sulla loro pelle il corto circuito morale tra gli ordini ricevuti e i valori su cui credevano si fondasse il loro paese. Rompere il silenzio, per loro, è un imperativo etico, un modo per liberarsi di un fardello e, contemporaneamente, per costringere la propria società a guardare ciò che preferirebbe ignorare. Raccontano la quotidianità degradante dei checkpoint, gli ordini ambigui, la pressione a disumanizzare l’altro per poterlo controllare. E mentre lo fanno, diventano bersaglio di una virulenta campagna d’odio da parte di chi li accusa di lavare i panni sporchi in pubblico, di indebolire l’esercito, di fare il gioco del nemico. Eppure, continuano, organizzando tour a Hebron per mostrare con i propri occhi la realtà sul campo, perché la verità, per quanto dolorosa, è il primo passo verso un possibile cambiamento.

    Gaza ridotta in macerie

    Avvocati per difendere i diritti dei palestinesi

    La battaglia per i diritti si combatte anche nelle aule di tribunale, sebbene spesso con la frustrante consapevolezza che la giustizia per i palestinesi è una chimera. Organizzazioni come Yesh Din (“C’è una legge”) e Adalah (Il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele) si ostinano a percorrere questa via irta di ostacoli. Forniscono assistenza legale a chi ha subito espropriazioni di terre, violenze da parte dei coloni o abusi da parte delle forze di sicurezza. Ogni singolo caso seguito è una goccia nell’oceano, ma testimonia la volontà di non arrendersi all’impunità, di affermare che ogni individuo ha diritto alla protezione della legge. I loro rapporti, che documentano la bassissima percentuale di incriminazioni a seguito di denunce palestinesi, sono un atto d’accusa verso un sistema che troppo spesso fallisce nel suo compito primario.

    La costruzione della pace passa attraverso il dialogo

    Ma la pace non si costruisce solo con la denuncia e la rivendicazione dei diritti. Si nutre anche di incontri, di dialogo, della faticosa ma indispensabile opera di umanizzazione reciproca. È qui che entrano in gioco realtà toccanti come il Parents Circle–Families Forum. Immaginate il coraggio di queste famiglie israeliane e palestinesi, unite dallo stesso, lancinante dolore per la perdita di una persona cara a causa del conflitto. Invece di lasciarsi consumare dall’odio e dal desiderio di vendetta, hanno scelto la via più impervia: quella di incontrarsi, di ascoltare la narrazione dell’altro, di piangere insieme le proprie vittime. Ogni loro incontro è un piccolo miracolo di riconciliazione, una dimostrazione vivente che il nemico ha un volto, una storia, un dolore identico al proprio. Non offrono soluzioni politiche preconfezionate, ma qualcosa di forse ancora più fondamentale: la guarigione delle ferite del cuore, senza la quale nessuna pace potrà mai essere duratura.

    Famiglie palestinesi e israeliane unite per la pace

    Ex combattenti e medici costruttori di pace

    Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono i Combatants for Peace, ex-combattenti di entrambe le parti che, dopo aver conosciuto l’orrore della violenza, hanno deciso di deporre le armi per diventare costruttori di pace. Il loro percorso di trasformazione personale è la testimonianza più potente che un’alternativa è possibile. Organizzano azioni congiunte nonviolente, proteggono i pastori palestinesi dalle aggressioni, riparano scuole. E ogni anno, la loro Cerimonia Congiunta del Giorno della Memoria, in cui israeliani e palestinesi commemorano insieme tutte le vittime del conflitto, è un pugno nello stomaco del nazionalismo escludente, un faro di speranza che indica la possibilità di un lutto condiviso e, quindi, di un futuro condiviso. Ci sono poi coloro che la solidarietà la praticano sul campo, con gesti concreti che alleviano le sofferenze quotidiane. I medici e volontari di Physicians for Human Rights–Israel portano cure e assistenza sanitaria nelle comunità palestinesi più isolate o a chi, come i migranti a Tel Aviv, è invisibile per il sistema.

    Rabbini al fianco dei contadini palestinesi

    I rabbini di Rabbis for Human Rights, fedeli ai principi più profondi della loro tradizione religiosa che impongono di perseguire la giustizia, si frappongono fisicamente tra i coloni e i contadini palestinesi durante il raccolto delle olive, diventando scudi umani per proteggere un diritto elementare: quello al lavoro e al sostentamento. Questi atti di coraggio quotidiano non cambieranno forse gli equilibri geopolitici, ma riaffermano, giorno dopo giorno, il valore insopprimibile della dignità umana. E mentre alcuni lavorano sul campo, altri, come gli attivisti di Peace Now, da decenni si dedicano all’infaticabile lavoro di advocacy politica, cercando di mantenere aperta la prospettiva di una soluzione a due stati, monitorando l’espansione degli insediamenti che, come un cancro, divora la terra e la possibilità stessa di una pace futura. È una lotta impari, contro forze politiche soverchianti e un’apatia diffusa, ma la loro perseveranza è la testimonianza di chi non si rassegna al “conflitto eterno”.

    Anche una associazione di rabbini a favore del popolo palestinese e contro la guerra

    Vivere da pacifista, da difensore dei diritti umani in questo contesto, è una scelta che ha un costo elevatissimo. Non si tratta solo delle minacce o delle intimidazioni. È il peso di sentirsi minoranza, di predicare nel deserto, di vedere le proprie motivazioni più profonde distorte e calunniate. È la fatica di reperire fondi, spesso provenienti dall’estero e per questo usati come arma per accusarli di essere “agenti stranieri”, in un paradosso crudele che vede il sostegno internazionale, necessario alla loro sopravvivenza, trasformarsi in un capo d’accusa.

    Pace tra Israele e Palestina: una forma di resistenza

    Eppure, in queste donne e in questi uomini, brilla una luce che nessuna campagna d’odio, nessuna delusione, nessuna minaccia sembra poter spegnere. È la luce della coscienza, della responsabilità verso l’altro, della convinzione ostinata che un futuro diverso non solo è possibile, ma è un dovere morale perseguirlo.

    Sono loro, con il loro impegno quotidiano, spesso misconosciuto e irto di pericoli, a tenere aperta una fessura di speranza nel muro dell’odio e della violenza. Sono i seminatori di un domani che, forse, non vedranno, ma per il quale continuano a lottare, con la tenacia di chi sa che anche il viaggio più lungo inizia con un piccolo, coraggioso passo. La loro esistenza e la loro resistenza sono, in sé, un messaggio potente: l’umanità può e deve trovare un’altra via.

                                                                                                        Tommaso Scicchitano

  • Il lavoro senza festa

    Il lavoro senza festa

    Il primo giorno di maggio, per secoli, è stata la festa in cui si celebrava la bella stagione, il Calendimaggio. Il Primo Maggio come lo conosciamo noi nasce insieme ai partiti che difendono i lavoratori. A fine ‘800, con l’Internazionale Socialista, di ispirazione marxista, si decide di dedicare un giorno alla rivendicazione universale delle 8 ore. Incredibile ma vero, l’intuizione arriva dall’America, che a inizio ‘900 era tra le patrie del movimento operaio, avendo un grande ruolo in tema di Diritti del lavoro e sindacalismo. Spunto propositivo, il triste epilogo di una grande manifestazione iniziata a Chicago proprio il 1° maggio del 1886. La manifestazione vide un’adesione incredibile tanto da meritare di essere ripetuta fino ai giorni nostri.

    La Festa dei lavoratori nasce dunque in relazione alla richiesta di tutele crescenti in capo ai poveri, quella classe operaia che ha ispirato battaglie sociali e conseguito diritti civili che ci è dato di fruire ad Aeternum, o quasi. In tempi non sospetti mi domandavo perché i protagonisti di quella festa fossero solo persone umili: mi incuriosiva intimamente il fatto che, a essere considerati lavoratori non fossero pure quelli che facevano un lavoro non manuale, quelli con la cravatta li chiamavo! A casa non mi si aizzava contro I padroni, provando piuttosto a ridimensionare la mia critica sociale prematura. Crescendo però, mi sono interessata sempre più alle questioni di matrice sociale, forse proprio perché non mi bastavano le risposte a domande pur lecite, questioni che credo vadano conosciute quanto più dall’interno, approfondite, a livello dottrinale e teorico e, all’occorrenza, denunciate in quanto non accettabili.

    Una festa ritualizzata che rischia di perdere senso

    Aldilà delle celebrazioni infatti, temo ci sia ben poco da esser contenti. Al pari di molte date emblematiche ahinoi, la Festa dei Lavoratori è stata ridotta a formalità pacchiana, se non ipocrita, tant’è che, di anno in anno, sono sempre più convinta del messaggio subliminale insito in quel “Primo maggio su coraggio …” di tozziana memoria, che mi restituisce insospettabile stima nel cantautore torinese! Quest’anno, per l’occasione, nelle parole della presidente del Consiglio possiamo scorgere, con uno slancio di ottimismo e poca critica, un anelito speranzoso: la situazione ci sovviene come ottimale, con un’occupazione senza precedenti che pure non risolve i problemi di chi non arriva a fine mese.

    Checché ne dica Giorgia Meloni la situazione nostrana a livello lavorativo è avvilente. Gli anni che viviamo hanno visto il susseguirsi di prassi e norme tese a svuotare qualsivoglia conquista pregressa in tema di diritto del lavoro: ad oggi il lavoro duro lo continuano a fare quelli che hanno meno tutele e i figli della classe lavoratrice faticano a posizionarsi in ruoli più elevati rispetto a quelli di chi, con grandi sacrifici, ha permesso loro di studiare per elevarsi a condizioni meno disagianti.

    Una manifestazione in occasione del Primo maggio

    Il lavoro sempre più povero

    Oggi lo so, come so che è difficile spiegare a una creatura di una decina d’anni che probabilmente sarà sfruttata! Come si fa a consegnargli l’ipotesi di dover sbattersi il doppio per guadagnare la metà di quelli che la dirigeranno al netto di competenze inferiori alle sue in ambiti che potremmo definire “sensibili” se non li avessimo svelati a noi stessi come “sommersi”? Oltre al danno c’è da considerare la beffa, nella misura in cui, a favorire lo sfruttamento, sono proprio quelli che sarebbero preposti all’advocacy dei lavoratori, primi tra tutti i settori che, proponendosi di supportare le categorie fragili, sfruttano e debilitano le risorse umane a propria disposizione, quale è l’ambito sociale.

    Ho sempre lavorato per organizzazioni non-profit, nessuna di destra, vedendomi riconoscere pochi diritti, economici e fiscali, misurando quanta poca tutela sia riservata al mio settore in questo Paese. Vero è che la destra al potere sta palesando la disaffezione ai non benestanti nel modo peggiore, andando a braccetto coi potenti che, ritenendo di comprare tutto, svendono chiunque non sia funzionale ad una capitalizzazione bieca.

    Le responsabilità della sinistra

    Nella medesima ottica critico le sinistre che lasciano che sia, divenendo complici delle destre quando si tratta di prendere decisioni impopolari. Nonostante la fisionomia sovranista, europea e non, abbia i tratti delle destre al potere, infatti, l’agire politico della controparte, non ha alcun tratto distintivo che favorisca una qualche indulgenza da parte mia, e mi riferisco alle leggi contro gli immigrati, alle tasse non proporzionali al reddito, alle battaglie civili sposate a voce bassa, in un piglio che volendo accontentare tutti, scontenta i più fragili. Per questo, “Odio gli indifferenti” oggi lo interpreto nel significato meno scontato, in riferimento non solo alla complicità, ma anche alla non differenziazione.

    L’egemonia dell’omologazione

    L’omologazione della classe dirigente, come l’omologazione degli individui, è il morbo contemporaneo di matrice capitalistica. L’odierna uguaglianza interclassista non è una conquista, ma un regalo del potere totalizzante dell’edonismo merceologico che le sinistre non hanno scongiurato allineandosi, nel dire e nel fare, a quelli che però, si riservano di additare come fascisti, come si trattasse di una sorta di innatismo che li assolve, perché mai potrà interessarli, un po’ nella falsariga della questioni che si chiamavano “di classe”.

    Pasolini lo denunciava parlando “un potere ancora senza volto”, falsamente tollerante, ma impositivo. “Un nuovo potere ancora non rappresentato da nessuno”, scriveva nel 1974, che palesa la mutazione completa (all’epoca in corso) della classe dominante che tende a omologare, attaccando ogni minoranza in un anelito di standardizzazione funzionale alla gestione della collettività silente. Questo nuovo potere genera e sviluppa nella società del capitale, una forma totalizzante, fascista, che consegue l’omologazione più repressiva. Pasolini parla poi dei codici culturali e addita la sovrapposizione dei comportamentiin capo a schieramenti, ufficialmente, contrapposti. Perché è pericolosa questo allineamento? Perché tende ad escludere ogni differenza, espellendo dal sistema chi non assomiglia allo standard funzionale all’esercizio del potere.

    Oggi che conosciamo il volto di quel potere, perché non corriamo alle contromisure? Perché imbambolati da piccole, false conquiste che ci illudono convenga stare buoni aspettando il miracolo ad personam! Si perché, nel frattempo, ci siamo lasciati convincere che è tutto un magna magna, che non conviene sposare alcuna causa che, prima o poi, si rivelerà ispirata ad un qualche interesse particolare: questo è il danno che ha fatto chi doveva tutelare i lavoratori per mandato, alias, favorire il radicarsi dell’idea che quelli che fanno politica sono tutti uguali e che, a questo punto, convenga votare chi è più spregiudicato e fottipopolo!

    La sinistra ha responsabilità nel non aver c contrastato il precariato

    Lo sfruttamento “bipartisan”

    Lo sfruttamento dei lavoratori in capo ad organizzazione di sinistra, non è forse la forma peggiore di fascismo? L’approccio patriarcale, il mobbing, l’abuso non sono appannaggio della destra: in cosa si distinguono i cittadini e le organizzazioni di destra da quelli di sinistra in questo buffo Paese? Non certo nelle tutele in capo ai lavoratori! Vogliamo ancora credere ad una superiorità di qualche tipo di uno schieramento che si rivolge (solo) ufficialmente alle classi popolari, o riteniamo sia giunto il momento di guardarci in faccia?

    A sfruttare i moti migratori sono state le organizzazioni di sinistra, a propinare i cosiddetti CO.CO.CO. CO.CO.PRO. e altre forme contrattuali ufficialmente illegittime, ma ancora in essere chez nous, sono organizzazioni di sinistra che hanno la gestione pressoché totale del settore: denunciare vuol dire non essere complici, ma viene considerato tradimento, esattamente come avveniva tra camerati, come vogliamo regolarci? Io ritengo non si possa più rimandare quel cambiamento che chiamano Rivoluzione e credo che a promuoverlo debba essere la mia generazione, terra di mezzo di troppi paradigmi subiti e poche conquiste conseguite, come le donne, che guideranno il cambiamento.

    Giovani e precariato

    Le principali frange sociali cui guardare alla ricerca di alleanze necessarie sono le Seconde Generazioni e i Precari, equivalente contemporaneo di Studenti e Operai. La Borghesia tende a ridurre tutto a se stessa, per questo le viene consegnata la gestione del potere. I gruppi sociali che identifico come portatori di cambiamento migliorativo, di contro, sono sfaccettati, accomunati solo dalla necessità di tutele che nessuno non interessato in prima persona gli consegnerà mai.

    La festa del lavoro nel titolo dell’Unità di molti anni fa

    In attesa di una nuova sinistra   

    Che le nuove alleanze siano vocate ad una parità di condizioni che ispiri la comune emancipazione. E che la nuova rappresentanza condivida i tratti, sociali e civici, delle minoranze che sono state sempre e solo funzionali alla propaganda di destra come di sinistra. Che la nuova sinistra si riappropri di valori sviliti, ma fondanti, decidendosi a concedere l’accesso alla rappresentanza, anche alla classe dei lavoratori, non gli attuali sindacalisti che oltre alla causa si sono venduti anche il cervello!

    E il Primo Maggio 2025 sia l’ultimo a vederci scontenti, figlie di un Dio minore, artefici del proprio riscatto, erroneamente delegato, per noia o per rassegnazione, alla classe politica più cialtrona e machista di sempre!

    Manuela Vena
    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo  di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale
    su donne,
    pace e sicurezza    

  • Morto un papa se ne fa un altro (calabrese)

    Morto un papa se ne fa un altro (calabrese)

    Morto un papa se ne fa un altro. Così recita un arcinoto proverbio, certamente pronunciato innumerevoli volte in questi giorni di lutto per la morte di Francesco, il “papa venuto dalla fine del mondo”, e di trepidazione per l’elezione del prossimo vescovo di Roma, successore di San Pietro.
    Chi è chiamato a “farlo” il prossimo pontefice, sta piano piano convergendo da ogni continente – settantuno i Paesi rappresentati, dal Brasile a Timor Est, da Capo Verde a Tonga –, verso il Vaticano, e più precisamente verso la Cappella Sistina. È lì che si sceglierà il duecentosessantasettesimo papa della Chiesa cattolica, e chissà che non sia calabrese.

    I 133 cardinali chiuderanno alle loro spalle la porta della principale cappella del Palazzo Papale nella giornata del 7 maggio, dopo aver celebrato la messa Pro Eligendo Romano Pontifice e pronunciato la tradizionale formula extra omnes.
    Quello in partenza si preannuncia un conclave abbastanza celere, sulla falsariga degli ultimi due – ma, in linea generale, è così dalla metà dell’Ottocento a seguire –, quelli che hanno portato al soglio pontificio Benedetto XVI e Francesco, durati poco più di ventiquattro ore e, rispettivamente, quattro e cinque scrutini.

    Il “totopontefice” e cosa aspettarsi

    Sarà davvero un conclave breve come tanti osservatori e financo alcune berrette rosse prevedono? E poi, il prossimo Santo Padre sarà conservatore, progressista o realista? Quale nome papale sceglierà? Seguirà il sentiero tracciato da Francesco o assisteremo a una restaurazione in seno al Vaticano? E se a distanza di quasi mezzo secolo dovesse riaffacciarsi in San Pietro un papa italiano, questi sarà utilizzato per esibire una rinnovata centralità del nostro Paese sulla scena mondiale?
    Sono tutte sfumature di un esercizio oltremodo futile. Come futile – e pure un pelo sacrilega – è la tendenza dei giornalisti, dei vaticanisti e del popolo a volere indovinare il nome del prossimo rappresentante di Dio in terra. Ma si sa, in questa epoca di crisi del giornalismo ogni briciola di notizia è buona per riempire una pagina, cartacea o digitale che sia.

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    Il conclave riunito in Vaticano

    La storia dei conclavi moderni ce lo insegna: l’Habemus Papam – questa volta ad annunciarlo, al netto di una sua nomina, sarà il cardinale protodiacono Dominique Mamberti – lascia quasi tutti sorpresi e non è rara la circostanza che il nome del papa eletto risulti sconosciuto alla massa credente, che esso esuli dalle liste dei papabili al soglio pontificio diffuse dalla stampa. Si dice, d’altra parte, che chi entra in conclave papa ne esce cardinale. Vedremo se anche questo capitolo della secolare riunione plenaria – il primo conclave ufficiale della storia della Cristianità sarebbe quello che nel gennaio del 1276 condusse alla Cattedra di Pietro papa Innocenzo V – confermerà l’adagio.

    Un papa calabrese? I 10 precedenti

    Tralasciando pronostici e speculazioni e analizzando l’elenco dei duecentosessantasei papi finora a capo della Chiesa cattolica, scopriamo che la storia della principale confessione cristiana al mondo ha visto in diverse occasioni un Sommo pontefice di origini calabresi. Radici che, in vero, in taluni casi sono dubbie, non così tanto da non permetterci di annoverarli nell’inventario cui diamo il via.
    Terra di profonda spiritualità, fulcro di approdo e diffusione del Cristianesimo – Paolo di Tarso, uno dei primi santi e martiri della religione cristiana, vi transitò nella sua missione apostolica verso Roma –, la Calabria ha offerto alla Chiesa cattolica ben dieci papi, tutti di origine greca e greca-bizantina.

    Il primo dei papi calabresi della Chiesa risale addirittura al II secolo dopo Cristo, agli albori del Cristianesimo. Era il 127 circa, sotto l’imperatore romano Adriano, quando Telesforo di Terranova di Calabria – oggi Terranova di Sibari – della diocesi di Thurio veniva elevato al ministero petrino. Si trattava dell’ottavo pontefice della storia. Secondo quanto scritto nel Liber pontificalis – opera di riferimento che raccoglie le biografie dei papi dei primi secoli della Chiesa –, il pontefice della Sibaritide fu autore del canto del Gloria in excelsis Deo prima di morire martire fra il 137 e il 138. Telesforo, il primo papa calabrese, è venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica – che lo ricorda il 2 gennaio – sia dalla Chiesa ortodossa.

    Pontificati e persecuzioni

    Nel secolo successivo, popolo e nobiltà elessero due nuovo papi di origine calabrese.
    Nel 235 fu la volta di Antero, nativo di Petelia, già città magnogreca e poi municipio romano. Il diciannovesimo Santo Padre – citato anche dall’archeologo François Lenormant nella sua monumentale La Grande-Grèce – originario del territorio oggi corrispondente grossomodo a Strongoli, cittadina del Crotonese, durò appena una manciata di settimane, martirizzato pure lui il 3 gennaio 236.

    Un paio di decenni dopo fu eletto vescovo di Roma un altro papa della diocesi di Thurio, così come San Telesforo: si trattava di Dionisio (o Dionigi), papa fra il 259 e il 268, anno al termine del quale morì, pare in questo caso per cause naturali. Papa nei sanguinosi anni delle persecuzioni dei seguaci cristiani da parte dell’imperatore Valeriano, Dionisio definì in maniera più netta, secondo quanto scrisse Eusebio di Cesarea nella sua Historia Ecclesiastica, i confini delle varie diocesi, ammonendo i vescovi al rispetto di questi limiti. Fu sepolto nella cripta papale delle catacombe di San Callisto.

    Editti ed eresie

    Durò soli quattro mesi il pontificato del quarto Sommo pontefice nativo della Calabria. Parliamo di Eusebio da Altano, poi Casegghiano – località che doveva essere vicina a San Giorgio Morgeto –, divenuto papa nell’aprile del 309 ed esiliato, per decreto dell’imperatore Massenzio, ad agosto dello stesso anno in Sicilia. Sull’isola del Mediterraneo morì martirizzato nel 311. Soltanto due anni più tardi, nel 313, sarebbe stato emanato il celebre Editto di Milano, carta con la quale i due imperatori romani di allora – Costantino per l’Occidente e Licinio per l’Oriente – concedevano libertà di culto ai cristiani, favorendo così la propagazione nel mondo del Cristianesimo.

    costantino
    La statua dell’imperatore Costantino davanti alla Basilica di San Lorenzo a Milano

    Dopo il Sacco di Roma e con all’orizzonte la caduta dell’Impero romano d’Occidente, fra il 417 e il 418 si registra il papato di Zosimo. Nativo di Messurga, già enotria Reazio e contemporanea Mesoraca – come riportò alla fine del Sedicesimo secolo lo storico Scipione Mazzella nella Descrittione del regno di Napoli –, Zosimo si trovò a fronteggiare con fermezza l’eresia del pelagianesimo – dottrina dissidente sorta all’interno del Cristianesimo – e a scontrarsi con i vescovi delle Gallie, della Spagna e dell’Africa. In generale, il suo ministero fu piuttosto travagliato. Santificato dalla Chiesa cattolica, la celebrazione della memoria liturgica cade il 26 dicembre.

    Agatone, il papa calabrese emulo di Matusalemme

    Fra i secoli Settimo e Ottavo si susseguirono gli ultimi cinque papi venuti dalla Calabria.
    Ricordato per l’animo particolarmente caritatevole è Agatone, papa salito al soglio petrino nel 678. Di lui le generalità sono però assai confuse. In primis le origini: alcune fonti lo portano come siciliano, altre – fra queste l’autorevole Grande Dizionario Enciclopedico UTET – come nativo dell’area attorno a Reggio Calabria. E poi, ancor più incerta, l’età che aveva alla sua elezione. Pare che in quell’anno 678 in cui succedette a papa Dono, Agatone fosse già ultracentenario, essendo probabilmente il 575 il suo anno di nascita.

    Nonostante l’età eccezionalmente avanzata, il suo pontificato non sarebbe durato pochissimo: restò massimo vicario di Cristo fino al 681, anno in cui lo colse la morte a causa di una epidemia di peste. Dando credito alla sua leggenda agiografica, papa Agatone, venerato come santo taumaturgo dalla Chiesa cattolica quanto da quella ortodossa, deterrebbe due primati: quello del più anziano papa al momento della elezione e quello del più longevo al termine del pontificato.

    Leone II e Giovanni VII

    Un’altra disputa riguardo la provenienza emerge pure per il papa che seguì Sant’Agatone, Leone II, ottantesimo pontefice della Chiesa cattolica fra il 682 e il 683. E anche in questo caso la paternità è dibattuta fra Reggio Calabria e la Sicilia, che presenta sul tavolo ben tre possibili nidi: Messina, Piazza Armerina e Nicosia. Papato breve ma significativo quello di Leone II: nel corso del suo ministero fissò la dipendenza della sede vescovile autocefala di Ravenna da quella di Roma. Sarebbe, inoltre, lui ad avere inserito nel rito della messa il Bacio della pace, un segno antecessore dello Scambio della pace di oggi.

    Religioso erudito e di marcata sensibilità artistica, Giovanni VII nacque a Rossano nel 650, figlio di un funzionario bizantino. Fu lui l’ottavo papa che la Calabria diede alla Chiesa cattolica. Giovanni VII fu pontefice dal 1° marzo 705 al 17 ottobre 707, giorno della morte, confermato anche dallo storico e presbitero Gabriele Barrio e dal suo discepolo Girolamo Marafioti. Nel corso della sua parabola papale ebbe dei contrasti con l’imperatore di Bisanzio Giustiniano II e fece costruire la Cappella della Vergine Maria nella Basilica di San Pietro, sito in cui riposa.

    Una pausa di oltre 1250 anni

    Durò per oltre una decade il pontificato di un altro papa di origini calabresi, Zaccaria, nato nel 679 nella antica Siberene, città enotria da far coincidere presumibilmente con l’attuale Santa Severina, nel Marchesato. Figura influente della Chiesa e già vicino collaboratore del precedente pontefice, papa Gregorio III, Zaccaria fu consacrato il 10 dicembre 741, pochi giorni dopo la scomparsa del predecessore. Resse la Chiesa di Roma fino al 15 marzo 752, giorno in cui spirò. Il 15 marzo è anche la giornata in cui ricorre la sua commemorazione.

    Il decimo e ultimo papa calabrese della storia della Chiesa – decimo in poco più di seicento anni, fra il II e l’VIII secolo, uno ogni sessant’anni suppergiù: media a dir poco notevole – è stato Stefano III, già cardinale di Santa Cecilia e Capo della Chiesa cattolica dal 1º agosto 768 fino al 24 gennaio 772. Pure nel suo caso, però, i natali sono contesi: alla presumibile nascita in territorio di Santo Stefano d’Aspromonte si affiancano, infatti, interrogativi circa una origine in realtà siciliana. Stefano III tentò di sanare gli attriti provocati dagli antipapi – pontefici eletti seguendo procedure diverse da quelle disciplinate dal diritto canonico –, e provò con scarse fortune a contenere la politica aggressiva del re dei Longobardi Desiderio.

    Un nuovo papa calabrese?

    Concludiamo questa divagazione papale con un nome: Domenico Battaglia.
    Dal 2020 arcivescovo metropolita di Napoli e dallo scorso gennaio nominato membro del Dicastero per l’evangelizzazione, Domenico Battaglia è nato a Satriano, centro del litorale jonico Catanzarese, nel 1963. Anche lui, don Mimmo, come lo chiamano i suoi fedeli, sarà fra i porporati che da mercoledì si chiuderanno nella Cappella Sistina, nel conclave più affollato di sempre, per eleggere il prossimo Santo Padre.

    Domenico Battaglia con Bergoglio: potrebbe essere lui l’undicesimo papa calabrese della Storia

    Una curiosità finale: don Mimmo Battaglia è stato l’ultimo cardinale creato da Francesco, che lo nominò berretta rossa di San Marco in Agro Laurentino nel concistoro del 7 dicembre 2024. E chissà che proprio dall’epilogo possa sorgere un nuovo principio.

  • Ombre sul Conclave: dossier, finanziamenti esteri e la guerra occulta per il nuovo Papa

    Ombre sul Conclave: dossier, finanziamenti esteri e la guerra occulta per il nuovo Papa

    Nelle sacre stanze dove il fumo annuncia il destino della Chiesa, si addensano nubi di intrighi e manovre occulte. Non è solo lo Spirito Santo a guidare le mani dei cardinali elettori verso la scelta del nuovo Pontefice; dietro le quinte, dossier segreti e campagne mirate tessono una fitta trama di influenze. Queste trame sono sempre più spesso finanziate da forze esterne, la cui identità si perde nelle pieghe del potere e del denaro globale. Sospetti puntano verso flussi di finanziamento transatlantici , i quali potrebbero alimentare non solo campagne di dossieraggio, ma anche consolidare blocchi di influenza interni al Collegio Cardinalizio, come suggerito da resoconti giornalistici che parlano apertamente di un “partito dei cardinali d’America” e delle sue strategie in vista di future successioni .

    Le ingerenze nell’era digitale

    L’eco di antiche ingerenze risuona ancora, ma le tattiche si sono affinate, abbracciando gli strumenti dell’era digitale e le strategie dell’intelligence. La storia insegna che il conclave non è mai stato immune da pressioni esterne. Oggi, le modalità sono cambiate, ma l’obiettivo rimane lo stesso: installare sul Soglio di Pietro un uomo allineato con specifici interessi politici, ideologici o finanziari. Un obiettivo che, in un’epoca di forte polarizzazione, può intrecciarsi con le ambizioni di figure politiche internazionali (come l’immagine controversa di Trump vestito da Papa potrebbe simboleggiare) e con le dinamiche interne al Collegio Cardinalizio. Qui emergono, secondo la stampa (, vere e proprie ‘cordate’ o ‘partiti’ su base nazionale, come quello americano, che discutono attivamente scenari futuri e possibili candidati, riflettendo forse agende esterne.

    Finanziamenti transatlantici e dossieraggi per disegnare nuovi scenari

    I cardinali spiati

    Emergono inquietanti resoconti sull’esistenza di “dossier” sui cardinali, compilati con cura . Un gruppo, con un budget significativo – le cui origini potrebbero risiedere in ambienti politico-finanziari internazionali – e l’ausilio di ricercatori (inclusi ex agenti FBI), si prefigge di “auditare” i cardinali elettori. L’intento dichiarato è fornire profili dettagliati, ma la finalità ultima appare quella di influenzare le dinamiche pre-conclave e il voto stesso, screditando candidati non graditi a specifiche fazioni interne o ai loro sostenitori esterni.

    Queste pratiche richiamano Vatileaks, ma si collegano anche a una più ampia “guerra occulta” esterna. Le fonti di finanziamento restano celate, ma gli indizi puntano a una pluralità di attori: gruppi organizzati con agende specifiche, disposti a investire risorse ingenti (potenzialmente attingendo a quei “fiumi di dollari” transatlantici), e forse anche fondi interni usati opacamente.

    Queste manovre riflettono strategie globali di influenza. In un’epoca segnata da una “guerra all’empatia” , non sorprende che tattiche di delegittimazione trovino terreno fertile anche negli ambienti ecclesiastici. L’uso di dossier si allinea a questa strategia più vasta.

    Trump ai funerali di Bergoglio

    Influenzare la scelta del nuovo Papa

    L’obiettivo di chi finanzia e diffonde questi dossier – siano essi attori interni o potenti lobby esterne (le cui agende potrebbero trovare eco nelle posizioni di fazioni specifiche all’interno del cardinalato, come quelle americane riportate dalla stampa) – è chiaro: orientare la discussione pre-conclave, influenzare le “cordate” cardinalizie (ora identificate anche su base nazionale) e spianare la strada a un candidato allineato. È una battaglia per il controllo che si combatte nel segreto, con l’ombra dei dossier, dei finanziamenti oscuri e delle emergenti fazioni cardinalizie nazionali a incombere sulle coscienze degli elettori.

    La nuova sfida della Chiesa: la trasparenza

    Mentre il mondo attende il fumo bianco, la Chiesa si confronta con sfide di trasparenza in un contesto dove manovre di potere, alimentate da interessi interni ed esterni e manifestantisi anche in divisioni nazionali tra i cardinali, minacciano di inquinare il processo sacro dell’elezione papale. Le immagini evocate non sono solo quelle celestiali della Sistina, ma anche quelle di corridoi ombrosi e carte che potrebbero cambiare il corso della storia secondo agende ben precise.

     

    Tommaso Scicchitano

     

     

  • La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

    La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

    Sostantivo femminile che fa riferimento alla restituzione o alla riconquista della libertà.
    Aldilà del vocabolario, per noi italiani il termine Liberazione evoca l’evento fondante quel Sistema Paese che, al netto di limiti, sviamenti e storpiature, da ottant’anni a questa parte ci contiene. Perché uso il termine contenere? Per sottolineare la stasi che ci ammorba, come cittadini e come collettività, pure scontenti, per quanto si dispiega sotto sguardi sempre meno partecipi, specie in occasioni di festività che, per aberrazione dei tempi, sono divenute divisive.

    Perché la Liberazione divide?

    Il 25 aprile 1945 è un giorno fondamentale nella storia del nostro Paese, perché si proclama la fine della guerra e la liberazione dal nazifascismo. Una data simbolo, da concepirsi quale culmine di un percorso sofferto e battagliero, ma soprattutto condiviso, svilita per un gioco dei ruoli tristemente interpretato da una classe dirigente che pratica sempre meno la credibilità e il rigore. Sta di fatto che, i sei lunghi anni di orrori e sofferenze indicibili per l’umanità, per noi italiani trovano una sintesi (virtuosa) in quel 25 aprile da ormai 80 anni.

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    Meloni osserva Mattarella durante le celebrazioni del 25 aprile

    Ogni anno, in questo periodo, ho modo di confrontarmi con chi, di contro, non gli riconosce importanza alcuna. Dato che il numero dei detrattori del 25 aprile aumenta col passare degli anni, risulta riduttivo addebitare questa posizione (evidentemente ideologica) alla mera ignoranza. Più che riduttivo, ingenuo. C’è qualcosa che ha a che fare con la narrazione temo, e con una faziosità fine a se stessa che non ha nulla a che vedere con un confronto costruttivo.

    Liberazione e rivoluzione

    Nel tentativo di comprendere la contronarrazione, volta a svilire le gesta storiche patrimonio di tutti gli italiani, quest’anno mi concedo una riflessione suggeritami dalla Pasqua Alta. Credo di poter dire, senza offendere nessuno, che Pasqua è la Liberazione dei Cristiani. In entrambi i casi si tratta di eventi che hanno a che fare con il concetto di rivoluzione, come mutamento, non automatico, dell’ordine costituito.

    Le rivoluzioni si fanno per cambiare ciò che scontenta agendo una trasformazione percepita come necessaria e migliorativa, giusto? Le fanno le collettività, le quali, hanno sempre dei leader che se ne fanno interpreti, divenendone icone nei casi più fortunati. Le rivoluzioni richiedono (anche) fede, a prescindere dalla quale non si avrebbe il coraggio e l’energia per opporsi allo status quo. La fiducia nel buon esito della Rivoluzione è deposta nei leader che la proclamano, e dipende, non poco, proprio dal modo in cui questa viene annunciata.

    Il Cristo di Faber

    Nel 1968 in tutto il mondo andava in scena il malcontento generale per uno stato di cose che vedeva scontenta la massa della gente comune, e si credeva di poter volgere al meglio. In quegli anni, oltre ai moti di piazza, furono non pochi i moti intellettuali, cioè, i moti di pensiero che ne suggellarono l’humus, motivandolo nel suo dispiegarsi.
    Negli stessi anni, esattamente nel 1970, Fabrizio De Andrè pubblicava il suo album più rivoluzionario, più che per i contenuti, per la tempistica. La buona novella ha ad oggetto gli episodi della vita di Cristo in una visione che pone l’enfasi su un’umanità che le sacre scritture ufficiali hanno sacrificato a vantaggio della venerazione.

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    La copertina dell’album di Faber

    L’atto rivoluzionario di De Andrè consiste nel cambio di prospettiva funzionale ad una nuova narrazione. De Andrè coglie nel messaggio di Cristo qualcosa di assai rivoluzionario, in linea con le istanze di inclusione sociale e pari opportunità che si affermavano in quegli anni. Non di meno in una scelta argomentale che denota il non allineamento ai paradigmi dell’epoca, che è un elogio senza precedenti al libero arbitrio, misura e paradigma della Rivoluzione Cristiana.
    Come i sessantottini – che lo criticarono malamente – Fabrizio De Andrè è animato dalla voglia di favorire un’evoluzione dello stato delle cose, cui sa essere propedeutico un approccio nuovo, un cambio di mentalità, simile a quello che caratterizza il Nuovo Testamento.

    Cambiare le regole

    In beffa al potere, che opprime gli ultimi, Cristo professa il perdono e la misericordia, ponendosi ad esempio per quelli che, in ogni tempo, vogliano conseguire medesimi cambiamenti di rotta sociale. Da occhio per occhio a porgi l’altra guancia il passo non è breve, l’intellettuale genovese lo sa, come sa che c’è bisogno di tempo affinché chi pretende di cambiare il mondo lo comprenda.

    Domandiamoci ora qual è l’elemento rivoluzionario nell’enunciazione di Cristo, se non l’aver elevato gli ultimi a primi, la povertà a virtù e l’umiltà ad arma di difesa contro l‘arroganza del potere? Forse capiremo che per incidere sul presente dobbiamo cambiare le regole, non subire quelle prestabilite da chi ha tutto l’interesse a praticare esercizi di rievocazione gattopardiana!
    La politica, come la religione, ha bisogno di seguaci e di consenso.

    Mentre assistiamo al dispiegarsi di tutta una serie di crisi, tra cui, quella della Rappresentanza, interroghiamoci sulla relazione tra questa e la (perdita di) fiducia. La popolarità resta uno degli attributi imprescindibili della leadership, ma che tipo di popolarità? I poveri cristi di oggi potrebbero pur credere a chi gli promette il paradiso, ammesso che qualcuno sia ancora capace di mostrare loro il volto più umano della politica, quello cioè che condivide la medesima natura dei suoi sostenitori. Una natura profondamente umana, che sappia interpretare la reciprocità.

    Il messaggio di Bergoglio

    Le Rivoluzioni hanno dunque a che fare con le narrazioni che, funzionano solo se autentiche. Lo ha dimostrato un ottantenne passato a miglior vita a cavallo tra la Pasqua e la Liberazione.
    Papa Bergoglio ha rinnovato l’immagine della Chiesa perché ha cambiato parole e sguardo sul mondo e si è messo dalla parte degli ultimi sin dalla scelta di darsi il nome del Poverello d’Assisi.

    Papa Francesco celebra la messa durante la sua visita a Cassano, nel 2014

    In questo frangente storico, costellato da conflitti e divisioni fratricide, facciamo nostro il messaggio di chi ha saputo concentrare l’attenzione sugli oppressi, tra cui le donne di ogni tempo, e saremo certi di non sbagliare nel nostro percorso di liberazione, che passa per la mediazione, ad ogni livello, specie in quello geopolitico che oggi manca di visioni umanisticamente propositive.

    Dialogo, non scontro

    Risulterà forse pretenzioso questo punto di vista, ma assistendo al teatrino indegno dei potenti della terra che si litigano la scena, incuranti della sorte dei popoli, veri destinatari di conflitti mal gestiti, oltre che anacronistici, l’attenzione che si è deciso di riservare all’Area più controversa del globo – qual è la sponda Sud del Mediterraneo – e al gruppo sociale più sottomesso di sempre – quali le donne – restituisce un’inattesa fierezza, quella conseguente le scelte non convenzionali, emulative di chi ha anteposto le ragioni del dialogo, a quelle dello scontro, non arrendendosi all’odio risultando, 2000 anni fa come oggi, rivoluzionario, consapevole dello spirito del tempo che pure si prende la briga di criticare.

    Come in questo lucido monito che, attraverso un linguaggio che non lascia spazio a troppe interpretazioni, chiede di elevare a norma morale la resistenza a strutture sociali alienanti: «L’algoritmo all’opera nel mondo digitale dimostra che i nostri pensieri e le decisioni della nostra volontà sono molto più standard di quanto potremmo pensare. Sono facilmente prevedibili e manipolabili. Non così il cuore». (Enciclica Dilexit Nos – 24 ottobre 2024)

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

  • Donne, pace e sicurezza| Il 2025 degli anniversari

    Donne, pace e sicurezza| Il 2025 degli anniversari

    Il 2025 sarà ricordato come l’anno delle celebrazioni. Digitando “2025” sui motore di ricerca si ottengono lunghe liste di anniversari: dal 60° della morte di Churcill, al 40° della nascita di Calvino. Se si cercano date specifiche in ambito di nostra competenza si dovrà procedere per parole chiave, come: parità di genere, diritti, libertà. Si scoprirà che ricorrono rispettivamente:

    • 10 anni dell’attentato alla redazione di Charlie Hedbo – 7 gennaio 2015
    • 35 anni dall’inizio della Guerra del Golfo – 2 agosto 1990
    • 60 anni dall’assassinio di Malcom X, attivista per i diritti umani afroamericano – 21 febbraio 1963
    • 100 anni dalla nascita di Pol Pot, dittatore responsabile della morte di 3 milioni di persone – 19 maggio 1965
    • 250 anni dalla nascita di Jane Austen, scrittrice britannica antesignana del femminismo – 16 dicembre 1775
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    Tra gli anniversari di questo 2025 ricorre anche il decennale della strage nella redazione di Charlie Hebdo

    Due importanti anniversari del 2025

    Sempre più affascinati dalla numerologia, che ci consegna l’anno in corso quale raro quadrato perfetto (45²) – rappresentando anche la somma dei cubi di tutte le cifre del sistema numerico decimale – continuiamo a cercare nei numeri qualche elemento di certezza che ci sollevi dalla vaghezza dei tempi. Dettagliando ulteriormente la ricerca di anniversari, nel 2025 troviamo il 30° dalla Conferenza di Pechino e il 25° dalla Risoluzione 1325/2000 dell’ONU.

     

    • Conferenza di Pechino 4-15 settembre 1995

    Quarta e ultima Conferenza mondiale sulle donne organizzata dalle Nazioni Unite, durante la quale i leader di 189 Paesi si riunirono, insieme a oltre 30.000 attiviste, elaborando una sorta di tabella di marcia per favorire la parità di diritti per donne e ragazze. Pietra miliare dell’uguaglianza di genere, eleva i diritti di genere al rango di diritti umani (a partire dai risultati della III Conferenza, Vienna 1993), affermando il diritto delle donne a vivere libere dalla violenza, cosa che la rende assai contemporanea.
    La Dichiarazione (e la Piattaforma d’Azione) di Pechino resta l’Agenda Globale più ampiamente approvata per i diritti delle donne.

    Le Conferenze internazionali sulla donna - Centro di Ateneo per i Diritti Umani
    Tra i più importanti anniversari del 2025 c’è anche il trentennale della Conferenza di Pechino
    • Risoluzione ONU su Donne, Pace e Sicurezza

    Il 31 ottobre del 2000 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dagli impegni annunciati dalla Dichiarazione e dalla Piattaforma d’Azione di Pechino, riconosce l’impatto (maggiorato) che la guerra ha sulle donne, ma anche la necessità che proprio le donne siano incluse nelle negoziazioni, essendo il loro contributo quello più innovativo e imprescindibile per una pace duratura. A oggi diversi paesi del mondo hanno reiterato la Risoluzione e la rispettiva Agenda, attraverso Piani d’Azione Nazionale su Donne, Pace e Sicurezza. Quello italiano è il più longevo e articolato.

    Ricordare per non ripetere gli errori del passato

    Ma a cosa serve ricordare? Nell’epoca dell’utilitarismo generalizzato, cerchiamo di capire quali sono i vantaggi dell’esercizio di memoria, individuale e collettivo. Partiamo dall’etimo.
    “Ricordare” deriva dal latino Recordari, prefisso Re e verbo Cordare, le cui origini riportano a Cordis che significa cuore.
    Ricordare significa dunque ritornare al cuore, che per i romani era il luogo della memoria.
    Convenendo sul fatto che, tenere a mente le esperienze passate significa valorizzarle, o anche solo prenderle in considerazione come precedenti degni di nota.
    Il ricordo è tra le esperienze umane più potenti e condivise, sia a livello personale che a livello collettivo. Non diamo tutti medesima importanza a medesime circostanze, ma in quanto cittadini di uno Stato, di una Comunità di Stati e del mondo, dovremmo concordare sulla rilevanza di alcuni accadimenti che hanno inciso sulla nostra storia rendendoci parte di un tessuto civico che si costruisce, anche, in relazione ai cosiddetti precedenti storici.

    Commemorare significa celebrare

    Le commemorazioni hanno lo scopo di onorare un passato da cui saremmo tenuti a imparare come cittadini e come collettività. Alcune commemorazioni, più di altre, contribuiscono a tracciare i tratti di un’identità condivisa che dovrebbe essere tanto più pacificata, in riferimento ad eventi storici che dovremmo essere in grado di valutare all’unisono, senza se e senza ma, come il 27 gennaio, Giornata della Memoria. Gli 80 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, avrebbero dovuto essere sentiti, unanimemente, come ricorrenza utile a validare un monito contro ogni forma di persecuzione di popoli e di gruppi sociali, una ricorrenza che avrebbe dovuto trovarci tutti dalla stessa parte, quella dell’umanità, ma così non è stato.

    Memoria minuitor nisi eam exerceas

    Il dominio pubblico non valorizza i buoni sentimenti quali denominatore comune su cui costruire visioni condivise, e anche la questione delle celebrazioni, affatto pacificata, riflette scuole di pensiero diverse, alla base delle quali ci sono altrettante visioni del mondo. Negli anni dell’intelligenza artificiale, però, una cosa è certa: le ricordanze attivano sentimenti di condivisione, un’empatia che ci contraddistingue come specie capace di immedesimazione ed emulazione. Marginalizzare quello che di più profondo ci caratterizza potrebbe rivelarsi controproducente, specie in ambito umanitario.

    Ciceróne, Marco Tullio - Enciclopedia - Treccani
    Un busto di Cicerone

    Cicerone sottolinea che «la memoria diminuisce se non la si esercita» e noi ne siamo testimoni vivi perché, non riteniamo sia importante trasmettere a chi verrà, il valore che alcune ricorrenze avrebbero dovuto evocare in noi, evidentemente disillusi rispetto alla possibilità di imparare dalla storia, e ingrati rispetto a quanti hanno creduto così profondamente nella pace, nella giustizia e nelle libertà da difenderli a costo della vita.

    Guerra all’indifferenza e restare umani

    Il 28 luglio di quest’anno avrebbe compito 55 anni Jean-Sélim Kanaan, morto nell’attentato alla sede ONU di Baghdat, in Iraq, nel 2003. Nel suo libro La mia Guerra all’Indifferenza ci lascia in eredità una disamina dei conflitti onesta e partecipata, denunciando l’incapacità e l’inettitudine delle Nazioni Unite nella difesa delle popolazioni civili e l’importanza del volontariato, a partire dalle esperienze fatte in Somalia e in Bosnia. La sua visione critica è un monito per noi peacekeeper che misuriamo sui nostri corpi la necessità di ridefinire regole che servono anche, se non soprattutto, in contesto bellico.

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    Vittorio Arrigoni a Gaza

    «Restiamo umani», si raccomandava Vittorio Arrigoni a chiusura dei suoi pezzi.
    Un invito a non dare per scontato che, in quanto esseri umani, siamo capaci di praticare l’umanità. Un ammonimento, in una fase in cui, agli addetti ai lavori, era già dato di osservare come le brutalità belliche cozzassero con le avanguardie dei nostri Paesi emancipati, così emancipati da perpetuare una logica coloniale all’occorrenza, nei rapporti con un Terzo Mondo che è bene resti tale, sulla falsariga imperiale che ci ha resi noti nel mondo, e che fatica a favorire paradigmi paritetici, ispirati alla cooperazione reciproca.

    I modelli in cui crediamo sono quelli sostenibili, quelli che ci ispirano e non ci lasciano cedere ad un a desolazione che, a tratti, neanche un certo impegno civico elude.
    Il 15 aprile – a 2 anni dall’inizio della guerra in Sudan – Vittorio avrebbe compiuto 50 anni, se non fosse stato ucciso a Gaza nel 2011 mentre si spendeva per praticare la solidarietà a popoli oppressi. Ma il suo appello resta, se ce ne vogliamo ricordare!

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

  • La guerra perenne alle donne

    La guerra perenne alle donne

    Nelle ultime settimane sulla stampa ha fatto capolino qualche timido e sporadico accenno alle violenze su donne e bambini in zone dove si combattono guerre. L’Enunciazione, nazionale e internazionale, si presenta per lo più accusatoria, in relazione a questa o quella milizia, prescindendo dal riferimento alla tragedia collettiva che si consuma, da sempre, sul corpo delle donne. Il panorama divulgativo che si dispiega in questi termini è inesatto e fazioso, a ribadire un certo approccio informativo che di tutelante e/o esplicativo ha poco o niente, in continuità al paradigma dominante vocato all’odio e alla semplificazione estrema. Occupandomi di questioni di genere, nell’affrontare certi argomenti, sono esercitata a tenere conto di tutta una serie di variabili che il lettore medio non è tenuto a contemplare, pur essendo parte in causa di una comunicazione che rischia di ridursi ad una fattualità vuota, proprio perché, drammaticamente banalizzata e deplorevolmente enfatizzata.

    Opera senza titolo di Pamela Pucci – Pittrice, scultrice, Arte Terapeuta

    Le prime vittime delle guerre sono le donne

    Proviamo a definire i termini della questione in maniera meno scontata. Nel 2000 il Consiglio di sicurezza delle nazioni unite elabora la Risoluzione 1325 per esplicitare l’impatto maggiorato che le guerre hanno sulle donne. Alla luce dello scandalo afferente agli stupri etnici nei territori serbo-bosniaci – che ha visto i Caschi Blu rovesciare il ruolo delle cosiddette Missioni di Pace – gli attori internazionali hanno rivolto un’attenzione senza precedenti alle donne esplicitando il ruolo significativo che, proprio loro, hanno nella prevenzione dei conflitti. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché, proprio coloro che subiscono le guerre a livello più profondo, sono escluse dai negoziati di pace? Facciamo un passo indietro.

    Il riferimento ad una ricaduta impari delle dinamiche belliche a livello femminile passa, in primis, da una fisicità che, essendo preposta alla riproduzione, ha ispirato la declinazione dell’abuso in senso genetico. Se annientare il nemico significa debilitarlo in maniera quanto più profonda e irreversibile, qual è lo smacco identitario più profondo per chiunque? Cosa c’è di più temibile, per un popolo, della soppressione (sistematica) della propria discendenza?

    Da Gaza alla Siria, fino all’Ucraina, sono le donne a pagare il prezzo più alto durante le guerre

    I civili in mezzo ai conflitti

    Consideriamo poi che, in una retrospettiva basica, gli scontri bellici odierni si caratterizzano per le ricadute, quasi esclusive, sui civili, con quanto ne consegue. Domandiamoci ora: cosa fanno, gli attori coinvolti in guerra, per tutelare la popolazione da una violenza sessualizzata basata sul genere? Quanto ci è dato di apprendere dai canali news, lascerebbe pensare non ci siano contromisure di sorta rispetto ad uno dei tanti aspetti da considerare in contesto bellico.

    Privilegiando una prospettiva che si concentra sul presente, dichiaro subito che, a motivare questo moto argomentativo, è lo stupore personale rispetto alla non considerazione di un dettato sovrannazionale che, per una volta, si rivela estremamente adeguato all’analisi di un contesto che merita di essere concepito in tutte le sue specificità. Al netto della perplessità sull’assurdità di moti bellici odierni (che scarsa stima restituiscono ad un’umanità contemporanea, ahinoi, poco avvezza all’esercizio umanistico prima che umanitario) siamo tenuti ad una disamina onesta di quanto osserviamo, in relazione a quanto conosciamo in materia di diritti e tutele, in un panorama generale che pare riservare poco spazio alle vittime.

    Le guerre descritte come  “inevitabili”: Siria, Yemen, Ucraina e Gaza

    Dalla Siria allo Yemen, passando per l’Ucraina e senza dimenticare Gaza, come si dispiegano quelle azioni di confronto armato, che pure ci vengono presentate quali ineluttabili? Quali sono gli spazi discrezionali, in termini di riduzione del danno, all’interno dei quali, si sarebbe nella possibilità di agire, con ricadute non trascurabili a livello pragmatico e trasversale?

    Se come soggetti della società civile organizzata, preposti alla tutela di categorie portatrici di fragilità sociale, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo in termini dottrinali, come osservatori internazionali siamo consapevoli che, in una parentesi che si caratterizza per l’instabilità crescente dello scacchiere internazionale, la non importanza riservata ad alcune materie risulta preoccupante, oltre che peccaminosa.

    Le vittime abbandonate

    Nel denunciare l’imperdonabile disaffezione riservata alle donne, anche quando in evidente stato di oppressione generalizzata – quale è quella propria delle guerre – riteniamo importante fare un focus su una materia che ci vede attivi da molti anni, e che si ispira al perimetro della più importante tra le iniziative internazionali di genere. Raccontare la Women, Peace and Security Agenda ci permetterà di intervenire nel dibattito in maniera originale, ispirandoci ai valori che sono alla base del nostro impegno, primo tra tutti, la tutela dei diritti delle donne.

    Convinti come siamo che l’intera gamma dei diritti umani trovi la propria esaustività in una prospettiva di genere ancora sottodimensionata, ci impegniamo a dare visibilità ad un ambito, tanto di nicchia, quanto di interesse generale, per promuovere una causa la cui premessa maggiore sta proprio nello squilibrio argomentativo che la caratterizza.

    Le guerre non ridefiniscono solo i confini, ma perpetuano i soprusi, e donne e bambini sono coloro che ne subiscono di più

    La guerra è uno strumento per marcare i confini e perpetuare i soprusi

    La rubrica Donne, Pace e Sicurezza vuole esercitare il confronto tra quanti, convinti come noi che la guerra sia solo la modalità più (stolta e) rodata per perennare i soprusi e rimarcare i confini, non cedono allo sconforto, consapevoli che non arrendersi al presente vuol dire, prima di tutto, impegnarsi per cambiare le cose, partendo proprio da visioni marginalizzate, ma non superflue.

     

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

     

     

  • Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    In un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica a firma di Fiammetta Cupellaro
    si tornava a parlare dei gradi temi che riguardano le politiche di coesione e sviluppo dell’Italia. Tra questi, le aree interne di cui ormai tutti conosciamo i dati horror: dal numero di Comuni coinvolti, 4mila (il 48,5% del totale di quelli italiani), al tasso di invecchiamento della popolazione e del loro abbandono, in un Paese che già soffre di un livello di emigrazione giovanile preoccupante.

    Riguardo i giovani, il Meridione registra un -6,3% contro il -4,3% del Centro e il -2,7% del Nord. Al Sud i Comuni in declino sono per oltre i due terzi nelle aree interne. Ed è dalle stesse aree meridionali che proviene la metà dei flussi migratori nazionali (46,2%), confermando il triste primato che tutti conosciamo da almeno settanta anni a questa parte. Tra 20 anni l’80% dei Comuni delle Aree interne sarà in declino e la Calabria entro il 2050 scenderà sotto 1,5 milioni di abitanti, con una perdita di circa 368.000 persone rispetto al 2023.

     

    La Calabria che si svuota

    L’ultimo rapporto Demografia e Forza Lavoro del Cnel sottolinea poi come la Calabria sia quella che soffre di più con una continua erosione del suo capitale umano e con un ritardo feroce nel recupero dell’occupazione rispetto ad altre aree, interne e non, del Sud.
    Bassa natalità, alto tasso di emigrazione giovanile, poca offerta di lavoro. Elementi che cozzano con la nuova narrazione di una Calabria proiettata nel futuro che cerca di vendersi a tutte le fiere internazionali come nuova mecca di un turismo ancorato al rafforzamento del sistema aeroportuale regionale in atto.

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    Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia

    Ci si chiede allora: su quale modello di sviluppo sta puntando la Calabria? Può il turismo Ryanair rappresentare il motore della produttività regionale? Qual è il ruolo di piccoli comuni e aree interne in questo processo? E, più in generale, come il governo intende rimettere al centro la metà delle aree del Paese in via di desertificazione demografica, sociale ed economica?

     

    È chiaro a tutti che la questione meridionale, spesso derubricata a retaggio del passato, sia più contemporanea che mai e rappresenti una delle principali zavorre per la competitività di un Paese che ha lasciato le politiche di sviluppo e coesione territoriale a bagnomaria

    Le aree interne e la risposta della bomboniera

    Le prime a cadere sono state le aree interne, abbandonate a loro stesse, e in costante emorragia di risorse pubbliche, private e capitale umano. Da qualche anno a questa parte, a queste aree interne è stata data la risposta della cosiddetta “bomboniera”: trasformare lande abbandonate e cosiddetti “borghi” in paeselli vetrina ad uso e consumo dei turisti della domenica. Un giro in moto, una camminata, una mangiata, una dormitina in un b&b del luogo, qualche foto da condividere sui social con relativo hashtag. Poi tutti a casa. Una strategia del mordi e fuggi non sorretta da flussi turistici in grado di creare un’economia stabile e attrattività strutturale per aree che restano con pochi servizi, e deficit logistici enormi.

    L’Europa e lo Stato

    Lo dicono chiaro anche le scelte politiche effettuate: l’inutile legge salva-borghi, lo squilibrio dei finanziamenti PNRR tra territori di serie A – “borghi pilota” a rischio abbandono finanziati con decine di milioni di euro e un fondo complessivo nazionale di 420 milioni con Gerace che è assegnatario di 20 milioni -, e territori di serie B – 229 borghi ”qualunque” con un fondo di 580 milioni su base nazionale cui la Calabria partecipa con 133 progetti.

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    La sede del Parlamento europeo

    Un piano di attrazione degli investimenti non esiste. Men che meno la capacità amministrativa per lasciare l’attuazione degli interventi finanziati in mano a piccoli comuni, sempre a corto di personale: ingegneri e architetti lavorano a scavalco e gestiscono uffici tecnici di diversi comuni. E i finanziamenti europei programmati nel settennato 2021-2027 per lo sviluppo e il potenziamento di tale capacità amministrativa non sono strutturali. Ci investe l’Europa, ma lo Stato no. E, come è noto, per gli organismi di attuazione dei fondi comunitari conta più dimostrare di saper raggiungere i target di spesa, la quantità, piuttosto che la qualità di quella spesa.

    Si investe male, poco e in modo sperequato rispetto ad un fabbisogno che solo in minima parte riguarda la rigenerazione urbana, la creazione di parchi di varia natura, di percorsi tematici, di azioni di valorizzazione un tanto al chilo che si rivelano progettualità alimentate col respiratore artificiale. Incapaci di stimolare una crescita strutturale basata su politiche di sviluppo di lungo periodo.
    Il modello “bomboniera” non serve a nulla.

    Strategie per le aree interne

    Oltre un anno fa Poste Italiane inaugurava il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale: 1,24 miliardi di euro per il potenziamento dei servizi digitali alla cittadinanza tramite i 6.933 uffici postali coinvolti nei Piccoli Comuni con meno di 15 mila abitanti. Un progetto di cui non si conosce il livello di attuazione e che comunque non prende di petto il problema dell’occupazione, della logistica e dell’accessibilità che, ad esempio, nella nuova programmazione 2021- 2027, Regione Sicilia ha caratterizzato come Obiettivo di Importanza Strategica.poste-uffici-calabria-riaprono-e-dai-paesini-non-si-fugge-piu

    Bisognerebbe in ordine sparso:

    1. aggregare i servizi tra comuni contigui delle aree interne con l’obiettivo di realizzare un’unione tra enti;
    2. riprogrammare politiche e interventi di sviluppo per il miglioramento delle condizioni di vita e di mobilità nei territori. L’anticamera per attrarre capitali umani e finanziari;
    3. diversificare gli investimenti pubblici, sganciandosi dall’assunto che il turismo (quale turismo?!?) sia panacea di tutti i mali;
    4. Puntare sulla creazione di filiere del lavoro guardando alle caratteristiche e alla vocazioni dei territori;
    5. Stimolare l’attrazione di investimenti privati per la creazione di imprese e posti di lavoro, unico argine allo spopolamento.

    Due “sorprese”

    I dati ISTAT esposti all’inizio danno un elemento curioso quanto ovvio: la speranza di vita nei Comuni Ultraperiferici del Mezzogiorno è più alta di quella riscontrata nei Poli di attrazione dell’emigrazione. In certe aree del Sud, come la Calabria, c’è l’aspettativa di vivere di più.
    C’è poi un altro date interessante sul patrimonio culturale: su 4.416 tra musei, gallerie, aree archeologiche e monumenti e complessi monumentali pubblici e privati italiani, quasi quattro su 10 (39,4%) si trovano nei piccoli Comuni delle Aree Interne, gestiti più o meno alla buona, stagionalmente, spesso ad accesso gratuito, con una striminzita offerta di attività ad essi collegate, poco digitalizzati e senza poter contare su grandi risorse. Un capitale immobilizzato a metà che deve essere sbloccato.

    Collegando questi elementi con investimenti in infrastrutture digitali, in un’agricoltura e allevamento moderni, in servizi avanzati, in produzione di energia pulita, in forme di turismo residenziale e non stagionale, qualcosa potrebbe muoversi.

  • A due anni dalla strage di  Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    A due anni dalla strage di Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    Due anni sono trascorsi dalla tragica notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando un caicco carico di speranze e sogni naufragò nelle acque di Steccato di Cutro, portando con sé la vita di 94 migranti, tra cui 35 minori. Oggi, quella spiaggia calabrese è stata teatro di commemorazioni e riflessioni profonde, mentre il Mediterraneo continua a essere scenario di tragedie umane. Secondo i dati congiunti di OIM, UNICEF e UNHCR, negli ultimi due anni oltre 5.400 migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo, un numero che sottolinea l’urgenza di interventi concreti per prevenire ulteriori perdite.

    Cutro: la tragedia che poteva essere evitata

    In occasione di questo secondo anniversario, dieci organizzazioni non governative, tra cui Emergency, Medici Senza Frontiere e Open Arms, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta. Esse sottolineano come la tragedia di Cutro avrebbe potuto essere evitata e chiedono l’istituzione di un sistema europeo di salvataggio in mare, evidenziando la necessità di un approccio coordinato e umano alla crisi migratoria. Alle prime luci dell’alba, una veglia si è tenuta sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Candele accese e una corona deposta in mare hanno onorato la memoria delle vittime. Presenti familiari, superstiti e membri della comunità locale, uniti nel dolore e nella speranza di un futuro migliore.

     

    Tenere viva l’attenzione e impedire altre stragi

    La Rete 26 febbraio, l’associazione No profit che è sorta all’indomani della strage e che ha come scopo quello di sensibilizzare l’opzione pubblica verso le politiche migratorie,  ha organizzato una serie di eventi tra Cutro, Crotone, Cosenza e Botricello, con l’obiettivo di mantenere viva la memoria e promuovere un dialogo costruttivo sulle politiche migratorie. Queste iniziative mirano a trasformare il dolore in azione, affinché tragedie simili non si ripetano.
    La segretaria Dem Elly Schlein, ha espresso preoccupazione per le domande ancora senza risposta riguardo alla gestione dei soccorsi durante il naufragio di Cutro. La sua dichiarazione richiama l’attenzione sulla necessità di chiarezza e responsabilità da parte delle istituzioni.

    L’anniversario di Cutro non deve essere solo ricordo

    Questo anniversario non è solo un momento di ricordo, ma un appello urgente all’azione. Le vite perse a Cutro e nel Mediterraneo esigono un impegno collettivo per garantire rotte sicure e legali per chi cerca una vita migliore, affinché il mare smetta di essere un cimitero e torni a essere un ponte tra i popoli.