«Il Futuro è passato e noi non ce ne siamo nemmeno accorti», dice Vittorio Gassman nel 1974 in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Un film tanto profetico quanto definitivo sulle “progressive sorti” dell’impegno politico e della visione della storia, del suo divenire, dei destini pubblici e privati di generazioni che volevano tutto e subito.
Cesare Luporini interviene al XV Congresso nazionale del Pci (Archivio fotografico del Pci, Fondazione Gramsci)
Cesare Luporini, a proposito di progressive sorti, afferma che «Leopardi condanna la ragione come facoltà umana sviluppatasi e conquistata col progresso e genitrice di progresso, la ragione che è, nel senso illuministico della parola, filosofia. Questa ragione è facoltà di analisi, calcolo e riflessione. E secondo Leopardi, come riflessione essa arresta l’immediatezza dell’azione e le toglie il carattere eroico; come calcolo produce l’egoismo caratteristico del moderno uomo civile, in opposizione allo slancio, agli impulsi naturali, alle generose illusioni che guidavano i liberi cittadini antichi; come analisi essa scompone le cose (e i sentimenti) e per lei ciò che è grande diventa piccolo e le illusioni si rivelano per tali».
Il futuro e l’inarrestabile progresso
Il fluire del tempo, il futuro noi lo si concepiva in un sol modo: come positivo e inarrestabile progresso, certi, forse solo speranzosi o indottrinati, che le contraddizioni economiche e sociali che tale sviluppo avrebbe portato con sé avrebbero rinvenuto nella definizione di un nuovo uomo, di un nuovo sistema di relazioni e gerarchie la sintesi perfetta e lo sbocco del naturale esito delle cose.
L’impegno, lo strumento, l’orizzonte, la meta, in una sarabanda che incrociava eventi ed esperienze, confronti e soliloqui, certezze e scazzottate: non come eravamo, ma come saremmo stati.
Uno sguardo a misura d’uomo
Quando insorse il dubbio, si incrinò la speranza, si abbassò la linea dello skyline? Ciascuno di noi ha un proprio datario, qualcuno anche quello generazionale: alcuni si incrociano, si sovrappongono, altri divergono. Per certo, quando i paradigmi dell’elaborazione, della fede, quella laica, si avvitano su se stessi e il labirinto delle tesi e delle premesse finisce di cozzare di volta in volta contro muri ciechi sempre più respingenti, qualcosa subentra, qualcosa cambia, in corrispondenza altresì di anagrafi e di aggiornamenti, dell’irrompere di nuove culture.
Magari all’inizio impercettibilmente, poi piano piano in crescendo, si appalesa come sbocco naturale e ineludibile uno sguardo che definire maturo è scontato quanto inadeguato, consapevole altrettanto che maturo: non rassegnato, cioè, e né tantomeno liquidatorio, solo meno ideologico. Insomma, a misura d’uomo.
L’incarnazione del potere
Todo Modo di Elio Petri è del 1976. Ed è, ridotto all’osso, una rappresentazione algida del potere e degli uomini che lo incarnavano in quei decenni, dell’”imperativo categorico”, di scardinare quel sistema, di sconfiggere quegli uomini.
C’è Sciascia, dietro, logicamente, e un uomo di cinema che il cinema lo concepiva come militanza e strumento di cambiamento e di proselitismo, poco importano i rischi di autoreferenzialità, in una sorta di circuito chiuso con spettatori e cultori autocompiacenti.
Mastroianni e Volontè in Todo Modo
Lo presentammo esattamente cinque anni fa. Solo cinque anni fa, già cinque anni fa, accompagnandolo con una ricca discussione, Ugo Caruso, Alfonso Bombini, Franco Plastina e io in un luogo che non c’è più, almeno fisicamente, all’Acquario, a Cosenza.
Avvertimmo l’esigenza di farlo, forse l’urgenza, e parlammo, davanti a un pubblico devo dire non particolarmente numeroso ma in tutta evidenza molto coinvolto, non solo di cinema. Volevamo capire.
Se e in qual misura ci riuscimmo non so dire, per certo è una esperienza da riproporre, oggi, ovviamente aggiornata: materiale nuovo ce n’è in abbondanza.
Massimo Veltri Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica
Enzo Lo Giudice, paolano doc scomparso nel 2014, fu l’avvocato di Bettino Craxi ai tempi di Tangentopoli.
Infatti, era diventato noto, soprattutto negli ultimi anni, per la sua difesa a spada tratta nelle aule del Tribunale di Milano del leader del Garofano.
Eppure Lo Giudice non fu solo il difensore del segretario del Psi.
Lo Giudice marxista e rivoluzionario
Nel 1968, l’avvocato fu tra i fondatori della rivistaServire il Popolo e dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti). Quest’ultima era una formazione extraparlamentare piccola e combattiva, molto critica nei confronti de Pci. E vi militò, come padre fondatore, anche Aldo Brandirali, diventato in seguito esponente di spicco di Comunione e Liberazione.
Enzo Lo Giudice, così lo racconta Stefano Ferrante nel suo libro La Cina non era vicina, era un organizzatore di rivolte dei contadini calabresi e dei senza casa.
Ma riavvolgiamo il nastro. Sin da giovanissimo Enzo Lo Giudice coltivò la passione per la politica.
Figlio di ferroviere, aderì al Psi. Militò nella corrente di sinistra di Lelio Basso. Già collaboratore de La parola socialista, il periodico di Pietro Mancini, Lo Giudice passò nel Psiup. «Era un periodo – disse una volta – in cui rinnegavamo la linea revisionista di tipo elettorale che aveva corrotto il Pci dopo la svolta di Salerno di Togliatti nel 1944».
Avvocato e scrittore
Arrestato nel 1971 durante un comizio, Enzo Lo Giudice si alternò tra l’avvocatura (fu tra i difensori nel processo napoletano ai militanti dei Nuclei armati proletari), e la scrittura. Pubblicò il romanzo Donna del Sud e i saggi Sud e Rivoluzione, La questione cattolica, Processo penale e politica, Il diritto dell’ingiustizia, La democrazia impossibile o dell’utopia. Nel 1978 difese anche l’anarchico calabrese Lello Valitutti, testimone della morte di Giuseppe Pinelli ai tempi della strage di Piazza Fontana a Milano. Valitutti era finito in carcere perché accusato di appartenere al gruppo estremistico insurrezionale Azione rivoluzionaria.
L’anarchico Lello Valitutti
In ricordo di Bettino
Tra i promotori della Fondazione Craxi, Lo Giudice ha raccolto nel libroLe urne e le toghe (2002) alcuni contributi del segretario del Psi sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura in Italia.
Sull’argomento il nostro era ferratissimo: proprio Craxi gli aveva affidato le difese più ardue da tutte le accuse del pool di Mani pulite, in particolare quelle di Antonio di Pietro.
Quello tra Lo Giudice e Craxi fu un incontro di storie diverse: il rivoluzionario e il riformista si trovarono uniti in una battaglia impossibile a garanzia della libertà politica, in una Italia che voleva sostituire il giustizialismo alla giustizia.
Veleno su Tangentopoli
Da qui il giudizio tranchant di Lo Giudice su Tangentopoli, ribadito nel 2003 in una intervista a Critica sociale.
«Craxi – ha dichiarato l’avvocato – è stato giudicato colpevole in un processo senza contraddittorio sulla base di semi-prove precostituite fuori dal dibattimento, nel quale l’imputato è stato privato del principale diritto di difesa, quello di interrogare e fare interrogare i suoi accusatori».
Un processo “rosso” a Craxi
Più dura l’accusa politica: «La linea della sinistra è stata traslata nella giurisdizione che ha avuto come programma “la questione morale”, in forza della quale i giudici sono diventati sacerdoti ordinati dal popolo alla grande missione. Craxi era “un delinquente matricolato” e doveva essere condannato comunque».
Per questo suo impegno più “politico” che “legale”, Craxi volle manifestargli in una notte di dialoghi ad Hammamet tutta la sua amicizia: «Lei non riesce a darmi del tu – gli disse una volta – eppure io finalmente ho trovato un amico. Che io lo sia per lei, già lo so».
Bettino Craxi ad Hammamet
A tu per tu col leader in disgrazia
In alcuni scritti, in parte inediti, Lo Giudice parla del suo rapporto intimo e allo stesso tempo rispettoso col segretario del Psi. Soprattutto dei lunghi dialoghi intercorsi nel residence-prigione della Tunisia.
In particolare, sono illuminanti le parole sul “dispiacere” che Craxi provava in “esilio” a causa della diaspora in atto nel partito.
Nei tanti momenti di sconforto, il pensiero che forse lo assillava di più era quello di non aver potuto compiere il “miracolo” dell’unità socialista – anche con il Pci che avrebbe dovuto “socialdemocratizzarsi” – per ricollocare l’antica famiglia della sinistra riformista nell’ambito della grande tradizione socialista italiana ed europea.
La rivoluzione abortita dalle toghe
«In una delle conversazioni notturne ad Hammamet – scrive Lo Giudice – Bettino Craxi mi confidò il suo cruccio: la falsa rivoluzione dei magistrati aveva interrotto l’impegno principale del suo lavoro politico, l’impresa storica della riunificazione di tutti i socialisti nel grande partito riformista, strumento di modernizzazione del paese». La prospettiva craxiana «era l’allargamento dello spazio in cui collocare la forza autonoma socialista che si liberava dalle regole rigide dell’economia capitalistica e dal massimalismo e dal dogmatismo della sinistra radicale».
I pubblici ministeri Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo insieme al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli
L’utopia umanitaria di Bettino
Ancora: «Craxi era convinto che i grandi interessi generali del popolo lavoratore avrebbero alla fine sostenuto il primato degli ideali socialisti. Il sistema della libertà e la carta dei diritti umani avrebbero potuto battere il fronte degli opportunismi politici». Queste riflessioni trovavano riscontro nell’analisi a posteriori di Lo Giudice in uno dei suo scritti: «Il nostro paese soffre per il basso livello culturale della lotta politica, dalla quale provengono odi, risse e veleni».
Perciò «nella confusione incestuosa di destra e sinistra si va aprendo uno spazio dove ha diritto di vivere l’autonomia socialista, unica alternativa valida, sia come teoria che come pratica politiche».
L’alternativa socialista secondo Lo Giudice
L’alternativa socialista, conclude l’avvocato, «ha un suo programma risolutivo di questa tenaglia economica che è grave perché non riduce ma amplia il divario ricchezza-povertà. Serve, dunque un soggetto politico che conti, capace di raccogliere l’esigenza del partito già manifesta e quella ancora potenziale ma che si avverte in ogni angolo del paese».
Malato da tempo Enzo Lo Giudice si è spento a Paola. La sua città lo ha onorato dell’intitolazione di uno spazio antistante il Tribunale.
Resta tuttavia ancora non “comprensibile” il motivo della celebrazione dei suoi funerali al Convento di San Francesco, per un ateo convinto come lui, che aveva sempre manifestato ostilità nei suoi scritti nei confronti della religione e dell’operato della Chiesa.
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma si potrebbe aggiungere anche sventurata la terra che ha bisogno di antieroi. E noi italiani ne abbiamo, di eroi e di antieroi, soprattutto quando si tratta del nemico numero uno per eccellenza dello Stato italiano e della sua storia: la mafia. Al netto delle congratulazioni per aver portato a termine con successo un’operazione complessa, come può essere la caccia e l’arresto dell’ultimo latitante stragista – l’ultimo antieroe – Matteo Messina Denaro, la cerchia vociante di alcuni analisti dell’antimafia – una nutrita compagine di magistrati, giornalisti, accademici, portavoci e analisti specializzati (inclusa chi scrive) – non può non lasciare perplessi e anche un po’ sopraffatti.
Messina Denaro, eroi ed antieroi
Abbiamo tutti troppo da dire per nessuna ragione, oppure c’è davvero troppo da dire? È appurato che sappiamo in questo caso chi è l’antieroe, l’incarnazione del male e l’obiettivo del disappunto e della rabbia (giustificata certamente) di un popolo che ricorda le stragi degli anni ’90. Ma siamo sicuri di sapere chi sono gli eroi di questa storia, a parte ovviamente il procuratore capo Maurizio De Lucia che, da grande conoscitore del fenomeno mafioso nella sua Palermo, ha dimostrato di avere il polso insieme al suo sostituto Paolo Guido e a tutti le forze dell’ordine dispiegate, di completare tale operazione. Sicuramente non ci sono eroi politici, ma ci sono eroi della memoria, coloro che, anche per la memoria, sono stati sacrificati. Ed è difficile districarsi tra complotti, speculazioni e scarsa memoria storica.
Paolo Guido, il magistrato cosentino tra i protagonisti dell’arresto di Messina Denaro
La storia si ripete
Scriveva Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo (1966): «Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». I «quarant’anni fa» di Sciascia non sono i nostri “quarant’anni fa” ovviamente, eppure la citazione ancora vale.
Totò Riina dietro le sbarre
Nella cattura di Matteo Messina Denaro ci sono tragedie e farse, corsi e ricorsi storici, che rimandano alla memoria di quel che accadde in seguito alla cattura di Totò Riina, e in parte a quella di Bernardo Provenzano. Ma c’è soprattutto la lingua, la lingua che si accompagna all’antimafia contemporanea che non è nata ovviamente il 16 gennaio 2023, al momento della cattura del super latitante stragista, ma che in seguito a quest’arresto è quanto di più visibile e riconoscibile.
Messina Denaro e le zone grigie
Ad esempio, si parla molto in questi giorni, ragionevolmente, delle protezioni che avrebbero – che hanno – permesso a Messina Denaro di nascondersi praticamente a casa sua per 30 anni. Ritornano nomi e cognomi di politici, regionali e nazionali, delle donne intorno al boss (aiutano i dettagli sulla presenza di viagra e preservativi nel covo di Campobello di Mazara…) e si fa un gran rumore parlando di poteri occulti, zone grigie e zone proprio nere, che avrebbero aiutato il boss a muoversi fuori dalla Sicilia e poi a proteggerlo sull’isola.
Ritorna, prepotente, il tema delle massomafie, entità invisibili, potentissime proprio perché dai confini imperscrutabili, popolate da classi dirigenti e dalla ‘borghesia mafiosa’, e che si proteggono grazie ad agganci più o meno regolari, spesso spurie, alla massoneria (deviata). Ha dichiarato per esempio Teresa Principato, magistrata oggi in pensione, a Repubblica, che è grazie a un network (non meglio specificato) di massoni che Messina Denaro sarebbe stato protetto; sull’Huffington Post abbiamo conferme, ma anche note critiche a questa tesi, sollevate da Piera Amendola; e ricorda il Quotidiano del Sud, che Messina Denaro era originario – e si nascondeva – in uno dei ‘feudi massoni’ per eccellenza, la provincia e la città di Trapani. Dulcis in fundo, il medico Tumbarello, indagato per aver curato il boss, era pure massone ed è stato già espulso dal Grande Oriente d’Italia.
Il medico Alfonso Tumbarello, espulso dalla massoneria dopo l’arresto del boss
Ma che cos’è questa massomafia?
Ma siamo sicuri che tale linguaggio sia neutro, oppure utile? Che esistano segmenti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni coinvolte in attività criminali anche di matrice mafiosa, è innegabile. Innegabile anche la densità di strutture massoniche (regolari, riconosciute) o para-massoniche (spurie, irregolari o coperte) in certi territori, soprattutto del Sud Italia, come – tra le altre cose – rivelato dalla Commissione Antimafia in una relazione del 2017. Sono comprovati i legami di una certa classe dirigente con i clan mafiosi; alcuni mafiosi sono stati anche massoni; alcune strutture massoniche o para- (o pseudo) massoniche sono stati luoghi di incontro e camere di compensazione di comitati d’affari illeciti a partecipazione mista.
Ma usare questa terminologia vaga, imprecisa quanto suggestiva, per imboccare dietrologie e poteri occulti alla base dei grandi segreti inconfessabili e soprattutto inconfessati (che a pensar male si fa sempre bene in Italia…) ha come risultato solo indebolire il discorso ed eventualmente dire niente. Chi sarebbero poi i massomafiosi? Cosa fanno, se esistono? Ma soprattutto, siamo davvero sicuri che l’appartenenza alla massoneria, regolare o spuria che sia, abbia davvero un peso nelle scelte che alcuni ‘potenti’ fanno di avvicinamento alla criminalità organizzata?
La confusione aumenta
Non sarà che un incrocio tra comportamenti, aspettative legate al territorio, voglia di affari e soprattutto disponibilità a trafficare favori, non siano molto più utili come criteri analitici che non uno status vacuo e vuoto come quello della ‘massomafia’? Esistono relazioni tra soggetti, individui (massoni e mafiosi) come organizzazioni, ad esempio clan e logge (coperte o no) – che convergono per interessi, scambi e alleanze di vario genere: ma spesso, quasi sempre, le logiche, le strategie, e gli obiettivi di tali soggetti rimangono distinte: bisogna leggere le (non tante ma dense) indagini che fanno un po’ di luce su queste realtà composite e complesse.
Parlare di massomafia per spiegare i segreti d’Italia – come la cattura o la protezione di un boss stragista – attiva e consolida una narrativa ammantata di originalità e segretezza, ma che effettivamente altro non fa che nutrire una confusione concettuale: ammettere che un aggregato, la massomafia – impossibile da vedere, da studiare, da generalizzare – abbia poteri occulti e come tali non misurabili perché fonde due poteri spesso allineati (mafia e massoneria) che sulla segretezza e l’evasione hanno costruito fratellanze, è sostanzialmente un fallacia logica e metodologica.
E poi c’è la massondrangheta
Si confondono organizzazioni e comportamenti, criminali e non, fintanto che appaiono insieme, in unico calderone, invocando una realtà che non esiste se non in alcuni suoi attributi. Cum hoc vel post hoc, ergo propter hoc, si dice in logica, “dopo questo, dunque a causa di questo”. Si basa sull’idea che, quando due cose, vaghe, si presentano insieme, vengono pensate come correlate, ma in fondo così non è. La correlazione è forse probabile, ma non ci aiuta a capire alcuna verità sostanziale.
Se poi oltre alla massomafia esce anche la massondrangheta – perché è ‘naturale’ che la mafia calabrese, oggi considerata e definita la più potente, abbia la propria formula individuale di massoneria deviata mischiata con mafia – comprendiamo che la confusione sulla lingua della mafia è dunque sistemica.
Un’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista
La massondrangheta è tornata alla ribalta recentemente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustiziaMarcello Fondacaro durante il processo ‘Ndragheta Stragista: consolidata è oggi la narrativa autonoma della ‘ndrangheta rispetto alla mafia (siciliana), ergo anche quella della massondrangheta rispetto alla massomafia di siciliana memoria. Sicuramente vertici di Cosa nostra e ‘ndrangheta si sono incontrati, parlati, alleati. Sicuramente ci sono state delle sinergie, e direi, anche ovviamente è così: ci si aspettava forse che ai vertici di due organizzazioni criminali di questo calibro ci fossero uomini che non vedessero il beneficio di allearsi gli uni con gli altri? Sarebbe contraddittorio della loro ‘potenza’ e lungimiranza.
Messina Denaro e «un’unica famiglia»
Ed ecco che non sorprende che nella storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove si è già parlato dei rapporti del boss con la Calabria, alle commistioni di mafia, massoneria, massomafia e politica, non potevano mancare ‘ndrangheta e eventualmente massondrangheta. Avrebbe detto, Matteo Messina Denaro, nel 2015 che Cosa nostra e ‘ndrangheta dovevano «lavorare assieme per diventare un’unica famiglia»; Messina Denaro, consapevole o meno, va ad aggiungersi a quella schiera di analisti che, partendo da indubbie sinergie tra le mafie italiane (o tra i capi, o tra singoli clan) parlano da qualche anno di un’unica grande mafia a regia unica.
Matteo Messina Denaro tra gli uomini del Ros dopo l’arresto
Il processo ‘Ndrangheta stragista ci racconta certamente di una regia intenzionata a essere unica nel periodo stragista. Ma vale tale intenzione di alcuni a cambiare i connotati della ‘ndrangheta? A giudicare da quel che è venuto dopo, direi di no. Di nuovo calderoni dai confini impossibili, di nuovo gli aggregati dall’impossibile concettualizzazione che rischiano di far dimenticare non solo le specificità (territoriali quanto storiche) dei fenomeni, ma anche che le alleanze e le sinergie portano semmai a fenomeni terzi, plurali e integrati, di nuova fattezza, non a fenomeni ibridi e dall’identità confusa.
Più sostanza, meno suggestioni
Pasquale Gallone
Ricordiamo le parole di Pasquale Gallone, storico braccio destro del boss Luigi Mancuso, mandate in onda da LaCNews nel programma Mammasantissima; «Messina Denaro? È buono, fa sempre cose buone ma i siciliani… i siciliani hanno ‘a vucca, specialmente i palermitani e i catanesi. Per fare un calabrese ce ne vogliono 10 di siciliani!». Per quanto siano solo frasi in libertà queste parole consolidano comunque una precisa narrativa: riaffermare le identità d’origine (di ‘ndrangheta) e i confini della sinergia (tra ‘ndrangheta e Cosa nostra).
Quindi, aspettiamo di carpire ulteriori dettagli inutili quanto suggestivi su borghesie massomafiose, protezioni, e alleanze calabresi dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra. Aspettando di capire se costui è intenzionato a parlare almeno un po’ di tutti quei segreti che si dice si porti dentro. E proviamo – anziché cadere vittima del pourparler che fa sempre piacere a chi vive di eroi ed antieroi – a chiedere un po’ di sostanza alle cose che vengono dette. Nomi, cognomi e condotte delittuose se si può, fino a prova contraria ovviamente. E nei limiti dello stato di diritto e non solo della morale.
L’anagrafe ha archiviato un pezzo importante della storia calabrese contemporanea: l’architetto e urbanistaEmpio Malara.
Malara è scomparso la mattina del 19 gennaio alla non tenera – e, per molti, invidiabile – età di 90 anni, dopo averne passato molti a disegnare città, a valorizzarne altre e a sognarne altrettante.
Un architetto per due città
Vaga formazione anarchica e solida militanza socialista, il cosentino Empio Malara fece carriera nella Milano non ancora “da bere” degli anni ’70.
C’è da dire che si trovò bene anche in quest’ultima, dato che, grazie a una solidità professionale quasi senza pari e a una concezione visionaria dell’urbanistica, riuscì a superare indenne gli anni ruggenti del craxismo e la loro fine tragica.
Milanese d’adozione e cosentino legato alle origini, come i migranti vecchia maniera. E non a caso, i necrologi che lo ricordano sono usciti in contemporanea sulle testate calabresi (va da sé) e sul Corriere.
Empio Malara nel suo studio di Milano
Empio Malara “polentone”
L’urbanistica è questione di sensibilità ed empatia, coi territori e chi li vive.
Non a caso, a Milano Malara si concentrò sui Navigli, che voleva pienamente navigabili, anche a scopi commerciali.
Al riguardo, c’è da scommettere che dietro la rivalutazione dellecase di ringhiera, una volta sinonimo di povertà (di cui resta traccia nei racconti di Giorgio Scerbanenco) ma oggi molto “trendy”, ci sia il suo zampino.
In ogni caso, Malara ha avuto molti riconoscimenti dalla Milano profonda, a partire da un attestato di benemerenza civica.
La zona dei Navigli a Milano
Empio Malara “terrone”
La parabola professionale di Malara in Calabria evoca il titolo di un film: Ritorno al futuro.
L’urbanista, già archistar fu ingaggiato da Cecchino Principe per evitare che lo sviluppo di Rende, lanciatissima dall’Unical, diventasse caotico.
Sensibilità ed empatia significavano una cosa nella Calabria degli anni ’70: immaginare i desideri di sviluppo e crescita economica degli abitanti della zona.
La Rende avveniristica di Empio Malara
Malara disegnò una Rende futuribile, in cui i palazzoni coesistevano col verde e, soprattutto, non evocavano certe immagini lugubri da socialismo reale (o, spesso fa lo stesso, da edilizia meridionale doc). Uno dei suoi fiori all’occhiello resta Villaggio Europa: un quartiere popolare all’avanguardia, che comprendeva, al suo interno, scuole e strutture sportive.
Villaggio Europa a Rende
Nel suo caso, l’architettura diventava il forcipe dell’emancipazione sociale: la povertà non era sinonimo di degrado e la necessità di ricorrere all’edilizia popolare non obbligava ad accontentarsi.
Un progetto tra due epoche
Fin qui (e in estrema sintesi) i meriti. Purtroppo, il tempo denuda anche i limiti. La visione di Malara nacque in una fase storica in cui ancora non si parlava di “Grande Cosenza” né di città unica.
Cosenza era ancora al massimo della sua capacità urbana e Rende aveva appena iniziato il suo sviluppo prodigioso. Quindi la Rende ideata dal vecchio Principe e disegnata da Malara era bella ma non ambiziosa: era la prosecuzione ad est di Cosenza, troppo intasata e bloccata dai suoi colli per sviluppare a ovest.
Cecchino e Sandro Principe
Invece, a partire dagli anni ’80, la città del Campagnano si pose un altro obiettivo: far concorrenza al capoluogo per servizi e qualità della vita. Il disegno di Malara restava, ma i motivi ispiratori erano stravolti.
Non è questa la sede per approfondire certe dispute. Ma resta evidente che, in questo dibattito tra un amministratore col pallino dell’urbanistica e un urbanista che ha dato forma a un disegno politico, si è riflesso l’eterno dibattito tra tecnici e politici.
Malara, milanese adottivo se n’è andato anche come cittadino onorario di Rende, reso tale dall’attuale amministrazione che vive un rapporto problematico col passato riformista.
Di Malara rimane, al netto di polemiche evitabilissime (anche da parte sua), il ricordo di una visione legata al sogno di uno sviluppo mai realizzatosi per davvero.
Una promessa tradita? Senz’altro. Ma anche una promessa grande.
Acque agitate a Crotone dopo le ultime nomine del presidente della RegioneRoberto Occhiuto. Non sono andate giù a molti e c’è chi parla di un Sergio Ferrari (presidente della Provincia e sindaco di Cirò Marina) imbufalito.
Già, perché Occhiuto due settimane fa ha scelto come propria consulente Flora Sculco, l’ex consigliera regionale dei “Democratici e Progressisti”, poi candidata non eletta tra le file dell’Udc.
Dovrà occuparsi, riporta l’atto di incarico, di «azione di raccordo politico istituzionale con il sistema delle autonomia locali del territorio della Provincia di Crotone, sui temi riguardanti la verifica della appropriatezza ed efficacia dell’attuazione del programma di governo, con particolare riferimento alla definizione e realizzazione degli obiettivi strategici afferenti il territorio della Provincia di Crotone in materia di comunicazione del territorio». Una bella gatta da pelare per Ferrari: con gli Sculco è agli antipodi.
Occhiuto, Ferrari e Crotone: le ultime parole famose
Soltanto lo scorso settembre Occhiuto a Crotone dichiarava che era un «riferimento per il territorio e gli amministratori locali». Non solo: gli riconosceva – informalmente, è ovvio – il ruolo di «consigliere regionale aggiunto del territorio»
All’indomani delle Provinciali del dicembre 2021, poi, il coordinamento regionale di Forza Italia (che ha a capo il presidente della commissione Bilancio della Camera, Giuseppe Mangialavori) aveva diramato una nota. Dal testo inequivocabile: «La vittoria di Sergio Ferrari segna un nuovo inizio per la Provincia di Crotone e, dopo il trionfo alle ultime elezioni regionali, conferma l’ottimo stato di salute del centrodestra in Calabria (…) è l’uomo giusto per imprimere una svolta e far rinascere la Provincia di Crotone».La nomina di Sculco, però, pare cambiare lo scenario. Tanto che Ferrari è pronto a rilanciare e presentare venerdì un “movimento dei sindaci” definito «apartitico».
Occhiuto e Mangialavori in campagna elettorale
Il casus belli
Alle Regionali che incoronarono Roberto Occhiuto, Sergio Ferrari si accreditò sostenendo i candidati di punta scelti da Mangialavori: Michele Comito e Valeria Fedele. Quest’ultima, senza aver mai messo piede a Cirò Marina, superò le 600 preferenze nel paese di Ferrari. Il sindaco lanciò così la propria candidatura alla presidenza della Provincia. E proprio in quella occasione emerse il forte contrasto con Enzo Sculco, fresco di mancata rielezione regionale della figlia tra le file dell’Udc. Uno smacco non da poco per lui, che del partito è responsabile organizzativo regionale (anche se oltre alla candidatura della prole non risulta abbia organizzato un bel niente in quasi due anni di incarico).
Flora ed Enzo Sculco
Sculco vide fin da subito come fumo negli occhi la candidatura di Ferrari. La bollò come «una scelta esterna, fuori dai partiti della coalizione». E stilò lui stesso una lista provinciale, “Crotone protagonista”. Annoverava solo 5 candidati su 10, di cui tre consiglieri comunali di Melissa, comune guidato dal “cigiellino” Raffaele Falbo ma a maggioranza sculchiana. Basti pensare che tra i candidati c’era anche Maria Carmela Sculco, sorella dello stesso Enzo.
Sfiducia di fatto
Fiutata l’aria, a due giorni dal voto Sculco dichiarò di votare Ferrari. La sua lista ottenne comunque il 5,5%, ma non riuscì ad eleggere nemmeno il favorito Antonio Megna, consigliere comunale di Crotone. Un segnale di debolezza rispetto a Ferrari, che asfaltò il sindaco della città pitagorica Enzo Voce toccando il 63,7%.
Ora Flora Sculco (con tanto di ufficio al decimo piano della Cittadella, si sussurra) dovrà occuparsi del “raccordo politico istituzionale con il sistema delle autonomie locali del territorio della Provincia di Crotone” con riferimento proprio all’attuazione del programma di governo regionale. Ferrari viene, di fatto, sfiduciato. Troppi gli imbarazzi causati dalla macchina amministrativa di Cirò Marina (dal “caso Padel” alle “parentopoli” su cui abbiamo scritto). Anche perché nelle ultime settimane se ne sono aggiunti altri: incarichi in municipio coi fondi Pnrr.
Capodanno col Pnrr
Dopo i colloqui del 27 dicembre, il 31 sono arrivati i contratti di collaborazione per i professionisti. Ma chi sono i beneficiari? Tralasciando la nuova esperta del settore informatica Ramona De Simone – che dal suo profilo LinkedIn risulta commessa da Trony dal 2017 – ci si imbatte in una nuova sfilza di parenti. L’esperta in tematiche ambientali sarà – era l’unica candidata – Anna Lisa Filippelli. È la figlia dell’ex senatore e sindaco di Cirò Marina, oggi consigliere comunale, Nicodemo, esponente del partito “Italia del Meridione” di Orlandino Greco.
Si resta ancora di più in famiglia con il settore giuridico. Lì gli esperti saranno, infatti, marito e moglie: Francesco Scarpelli e Maria De Mare. Lui solo esperto “junior” però, nonostante sia cugino della moglie del vicesindaco Pietro Mercuri.
Ritorno al passato
Come esperto in monitoraggio e controllo c’è Livio Zizza, marito di Caterina Fuscaldo. Che è figlia di Pino, responsabile ufficio segreteria del Comune, e nipote di Giancarlo,presidente del consiglio comunale durante la precedente amministrazione (sciolta per mafia) guidata da Nicodemo Parrilla. Quest’ultimo in Stige ha riportato una condanna in primo grado a 13 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La Procura ne ha chiesto la conferma nell’appello tuttora pendente.
L’esperta del settore geologia sarà invece Rosita Prato, nipote dell’ex dirigente comunale (dallo scorso marzo in pensione) Mario Patanisi e sorella dell’assessora – nel 2016 sempre con Parrilla – Assunta Prato.
Ferrari con Siciliani in un convegno di qualche anno fa
Nessuna parentela, invece, per l’esperta in opere pubbliche. L’architetta Vittoria Giardino, comunque, non è nuova in municipio. Risulta, infatti, già beneficiaria di incarichi professionali dal comune di Cirò Marina anche durante la giunta guidata da Roberto Siciliani, che vedeva proprio Ferrari assessore. Siciliani, lo si ricorderà, è stato condannato sia in primo grado che in appello nel filone con rito abbreviato di Stige: 8 anni di carcere per concorso esterno.
Occhiuto e il firma-gate di Crotone
Il commissariamento (o quasi) di Ferrari non è l’unica mossa di Occhiuto a Crotone. Senza Forza Italia (o alcuni filoni di essa) probabilmente il sindaco pitagorico Enzo Voce, espressione del movimento “Tesoro Calabria” di Carlo Tansi, sarebbe già un vago ricordo politico.
Vincenzo Voce, sindaco di Crotone
Subito dopo le Provinciali del dicembre 2021, spuntò fuori un documento nel quale 13 consiglieri richiedevano la convocazione di un consiglio comunale ad hoc preannunciando di voler sfiduciare Voce. Il sindaco “tansiano” replicò in una conferenza stampa che uno dei firmatari lo aveva chiamato per disconoscere la firma, motivo per cui si sarebbe recato in Procura a presentare un esposto per falso.
Si trattava di Andrea Tesoriere, consigliere comunale di “Forza Azzurri”, il gruppo comunale di diretta espressione del governatore Occhiuto, che dopo il “firma-gate” ritirò espressamente la firma.
Stampelle e rimborsi: “Forza Voce”
Un anno dopo arrivò un’ulteriore stampella da parte di Fi, direttamente dall’ex parlamentare Sergio Torromino e dall’ormai ex coordinatore cittadino, Mario Megna, divenuto presidente del consiglio comunale.
Megna, già portaborse della consigliera regionale azzurra Valeria Fedele, è stato recentemente condannato dalla Corte dei Conti (sentenza 235/2022 del 29 dicembre 2022) al pagamento di 13.800 euro per danno erariale al Comune di Crotone. Lo stesso, lo scorso giugno, aveva chiesto l’autorizzazione al settore affari generali del Comune (determinazione 1054 del 24 giugno), per partecipare ad incontri istituzionali a Reggio Calabria presso la sede del Consiglio regionale, chiedendo il rimborso spese per viaggio e vitto.
Megna e Torromino
Piccolo particolare: da portaborse, la sua sede di lavoro, da contratto, è proprio il Consiglio regionale della Calabria. Insomma, Megna ha richiesto il rimborso dal Comune di Crotone per andare a quello che era il suo luogo di lavoro.
Oggi, invece, grazie al sindaco, avrà un compenso da 4.806 euro lordi al mese. E se Mangialavori ha preso le distanze, Torromino ha difeso l’operazione. In ogni caso, “Forza Voce”.
Lo chiamano Terzo polo: è la compagine nata dalla federazione del partito di Matteo Renzi con quello di Carlo Calenda. Qualche giorno ad un convegno di Renew Europeil primo ha annunciato che non vi è alternativa al “partito unico”. Il secondo ne ha tracciato l’orizzonte: entro primavera per un manifesto comune e a settembre una costituente del contenitore liberaldemocratico italiano. Con una postilla: «Se incominciamo a fare a chi più è liberale, i liberali rimangono un circolo di sfigati che fanno training autogeno tra di loro. Il circolo più è esclusivo meno persone ci sono dentro».
Le ultime parole famose
Insomma, al solito, l’ex europarlamentare del Pd e oggi senatore del Terzo Polo non le manda a dire. Così come è chiaro nel rapporto tra la sua forza politica ed il M5S.
«Lo dico agli amici del Pd, c’è solo un modo per gestire i 5 Stelle: cancellarli!» twittava Calenda lo scorso luglio. «Penso che il M5s dovrebbe sparire» affermava ad agosto. Mentre lo scorso mese, alla domanda se andrebbe al governo con il M5S, ha risposto: «Manco morto». Un disamore politico corrisposto, questo. Il presidente del M5S, Giuseppe Conte, giusto qualche giorno fa ha dichiarato: «Dico al Pd che il M5S non starà mai con Renzi e Calenda».
Con tutti tranne…
Insomma, quello che ha dettato Calenda pareva un percorso lineare. Lo ha ribadito anche sui territori, tant’è che lo scorso marzo annunciò a Catanzaro: «Ci sarà anche una lista di Azione nella competizione elettorale per le amministrative di Catanzaro di tarda primavera (…) Siamo pronti a dialogare con tutti, salvo che con l’estrema destra e il Movimento Cinque Stelle (…) non ci alleiamo con i 5 stelle e con la destra estrema perché è contrario ai nostri valori e ai nostri principi. Non lo facciamo a livello nazionale, non lo faremo a livello locale».
Raffaele Serò
Pochi mesi dopo alle Amministrative del capoluogonon vi fu traccia della lista di Azione. Divenne consigliere comunale, però, il segretario provinciale Raffaele Serò. Era nella lista Io scelgo Catanzaro della coalizione civica di Antonello Talerico, quest’ultimo poi approdato, invece, in Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Entrambi sostengono la maggioranza di Nicola Fiorita (esprimendo anche un assessore in Giunta, Antonio Borelli), così colorita e variegata che contempla anche il M5S, con buona pace dei niet di Calenda.
Donato in Azione
Non è l’unico grattacapo per Azione nel capoluogo, patria del trasformismo politico e della liquidità (se non liquefazione) dei partiti.
Ad agosto, dopo la scoppola elettorale alle Amministrative catanzaresi di giugno, il candidato sostenuto dalla Lega e da Forza Italia (e al ballottaggio anche da Fdi), Valerio Donato, già dirigente cittadino del Partito Democratico, ha aderito ad Azione, specificando di aver avuto una lunga interlocuzione «con i dirigenti nazionali e regionali di Azione».
A dicembre, poi, insieme ai consiglieri comunali Gianni Parisi e Stefano Veraldi, Donato ha annunciato la costituzione del gruppo consiliare “Azione-Italia Viva-Renew Europe” con egli stesso come capogruppo.
Alle spalle del segretario
Piccolo particolare: il collega consigliere-segretario provinciale di Azione, Serò (loro avversario elettorale fino a pochi mesi prima), non è stato nemmeno avvertito. Tant’è che ha sbottato: «Nella mia veste di coordinatore provinciale di Azione con Calenda comunico che alcun gruppo di Azione è stato costituito in Consiglio comunale da parte di terzi. Pertanto, non si comprende l’iniziativa dei consiglieri Valerio Donato, Giovanni Parisi e Stefano Veraldi, autori di una nota stampa con la quale danno atto di avere costituito il gruppo di Azione, addirittura estromettendo il sottoscritto e senza consultare lo scrivente».
Niente più gruppo
Risultato: nell’ultimo consiglio comunale Donato (che nelle more si è anche auto-candidato come membro del Csm) e i suoi hanno comunicato che non ci sarebbe stata la costituzione del gruppo di Azione. Insomma, un gran caos. Ad acuirlo, i continui punzecchiamenti stampa dell’ex esponente Udc, Vincenzo Speziali, vicino al terzo polo, per cui il “fascicolo Catanzaro” andrà certamente preso in carico. Non pervenuta politicamente e numericamente Italia Viva. Il coordinatore cittadino Francesco Viapiana alle amministrative ha ottenuto, nella lista Riformisti-Avanti!, poco più di cento voti.
Calenda con Donato e Veraldi
L’asse a Vibo
Se la maggioranza variegata a Catanzaro farà storcere il naso a Calenda e disinteressare Renzi, figuriamoci il rassemblement vibonese.
Alle imminenti elezioni provinciali il candidato sarà il segretario provinciale di Italia Viva Giuseppe Condello (sindaco di San Nicola da Crissa). A suo sostegno anche Azione, che vede come leader locale l’ex candidato a sindaco del Pd e oggi consigliere comunaleStefano Luciano (membro anche della segreteria regionale dei renziani).
Luciano nell’assise vibonese ha costituito il gruppo “Al centro” con i consiglieri comunali Giuseppe Russo, ex Pd ed ex Fi, e Pietro Comito, vicino al consigliere regionale di Coraggio Italia Francesco De Nisi.
Giuseppe Condello
A sostenere Condello ci saranno oltre al Pd (con critiche al segretario provinciale Giovanni Di Bartolo e canoniche spaccature) anche il M5S, che a Vibo esprime due consiglieri: Silvio Pisani e l’ex candidato sindaco e candidato regionaleDomenico Santoro, politicamente silente dopo l’ultima disfatta elettorale.
La liaison tra Azione e il M5S nel vibonese non è una gran novità: l’attuale responsabile organizzativo dei calendiani è Pino Tropeano, candidato regionale dei grillini nel non lontano 2020.
Terzo polo in Calabria: i renziani senza bussola
Una nota di colore: nel 2021 Giuseppe Condello, sfidò alle regionali, da candidato del Psi, il segretario provinciale di Iv a Catanzaro, Francesco Mauro, alfiere di Forza Azzurri.
Già, perché il coordinatore regionale di Italia Viva, l’ex senatore Ernesto Magorno, prima dichiarò di aver sostenuto Jole Santelli e, quindi, il centrodestra nel 2020 e poi si lanciò a favore della causa occhiutiana. «Pronto a essere candidato a presidente della Provincia di Cosenza. Data la mia disponibilità al presidente Occhiuto» dichiarò a fine 2021.
Renzi e Magorno in Calabria durante le ultime Politiche
L’anno successivo incontrò il presidente della Regione insieme al presidente di Italia Viva, Ettore Rosato. «Per confermare il sostegno di #ItaliaViva all’azione del governo», dichiararono. Qualche mese fa, nuovamente, Magorno ha aggiunto: «Italia Viva è il primo partito a essere stato ricevuto da quando è iniziata questa consiliatura regionale, un dato non da poco che ci pone come validi interlocutori della Giunta regionale».
Insomma, l’Italia Viva di Magorno è (al pari del capogruppo regionale del M5S, Davide Tavernise) il maggiore spot politico permanente della giunta Occhiuto.
C’è chi dice no
Di diverso avviso l’ex parlamentare grillina Federica Dieni. Giusto l’altro giorno, in riferimento alla pista di pattinaggio a Milano voluta da Fausto Orsomarso, ha dichiarato: «Ma c’è una voce di opposizione in consiglio regionale? Qualcuno che presenti un’interrogazione sulla opportunità di questa scelta? Ecco, se c’è batta un colpo».
Non è la prima volta che Dieni lancia stoccate alla giunta e a Roberto Occhiuto, come quando gli disse: «Occuparsi del territorio non è una concessione». Non proprio in linea con i dettami magorniani.
Federica Dieni
Terzo polo in Calabria, gli strascichi delle politiche
Alle elezioni politiche dello scorso settembre il terzo polo si è fermato in Calabria al 4%, non eleggendo alcun parlamentare. I capilista alla Camera erano Maria Elena Boschi e, a seguire (appunto…) Ernesto Magorno. Già con il deposito delle liste nacque una polemica proprio nell’establishment vibonese che, sentendo odore di disfatta, mise le mani avanti: «Ci è stato spiegato che l’accordo nazionale prevedeva postazioni utili in Calabria solo per il partito Italia Viva di Renzi e pertanto non abbiamo potuto fare altro se non accettare con serenità quanto deciso, rinnovando l’impegno a favore del nostro territorio con la determinazione di sempre ad ascoltare e tentare di risolvere i numerosi problemi dei cittadini vibonesi».
Si salvi chi può
L’affondo dei calendiani sa tanto di sassolino dalla scarpa: «Siamo però con i piedi per terra e dunque affronteremo questa tornata elettorale tentando di guardare oltre il 25 di settembre nella consapevolezza che oggi gli amici di Italia Viva hanno una maggiore responsabilità sul risultato elettorale, posto che hanno avuto il grande privilegio di essere favoriti da un accordo elettorale nazionale che ha penalizzato in Calabria il partito di Azione, riducendone al minimo l’agibilità anche in termini di richiesta del voto». Insomma, si salvi chi può.
Giada Vrenna, ex renziana di Crotone
Terzo polo ma non troppo a Reggio Calabria
E se a Crotone il coordinatore cittadinoUgo Pugliese ha sfiduciato Giada Vrenna, ormai ex consigliera comunale di Italia Viva, non va meglio nel reggino. Il sindaco f.f. di Reggio Calabria, Paolo Brunetti, risulta in quota Iv, mentre quello metropolitano, Carmelo Versace è di Azione. «Brunetti e Versace sono i più capaci, è stata effettuata una scelta saggia. Da parte mia, sarei onorata e orgogliosa di rappresentare la Calabria» disse la Boschi in campagna elettorale. Invece, nessuno slancio in termini di percentuale è venuto dal territorio, con perfidi detrattori che sussurrano: «I due sindaci hanno sostenuto il Pd». Insomma, terzo polo, che pasticcio!
C’è un ritardo in Calabria di cui nessuno parla e che sembra interessare poco tutti gli analisti e gli esperti di sviluppo. Parliamo del capitale civico.
Un insieme di regole e comportamenti virtuosi, di prassi sociali non codificate, di rispetto implicito dell’altro qualsiasi esso sia, di eleganza sociale legata alla convivenza urbana e rurale. Qualcosa di diverso e, forse, di più importante della semplice e “banale” legalità. Sono regole e prassi che qualificano un territorio e spesso ne marcano la differenza in termini di vantaggio competitivo.
L’educazione che non c’è
La Calabria sembra, nella media, drammaticamente priva di questo capitale che spesso rende il nostro territorio non attrattivo. La spazzatura non conferita correttamente o lanciata dal finestrino dell’auto, il cameriere sgarbato nella famosa località turistica, il furbetto della fila o del parcheggio, l’arroganza di un medico o di un infermiere al pronto soccorso, i telefoni dei pubblici uffici che suonano a vuoto per ore, le strisce pedonali intese come ostacoli alla pole position di chissà quale Gran Premio… potremmo continuare all’ infinito.
Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)
La quotidianità di noi calabresi, ammettiamolo, è caratterizzata da una assoluta mancanza di capitale civico con cui conviviamo quasi rassegnati. Eppure occorrerebbe partire proprio da progetti di rafforzamento di questo specifico capitale per disegnare una nuova stagione o filosofia di interventi. Non ci sono PNRR o POR capaci di incidere concretamente sul territorio se manca questo capitale. Ma in tutti i programmi di sviluppo non vi é traccia di questo enorme problema. A scuola, negli anni 70, si insegnava educazione civica, una sorta di alfabetizzazione giuridica sulla Costituzione della Repubblica italiana. Utile ma non sufficiente.
Altro che legalità, serve il rating di capitale civico
Occorrerebbe premiare i comportamenti virtuosi, usare i social come vetrine educative, puntare su rating di capitale civico negli esercizi commerciali, negli uffici pubblici, nella sanità, nelle prassi urbane. Non basta un rating di legalità, un certificato antimafia o un DURC a sintetizzare la qualità di un territorio o di un contesto produttivo se, poi, la media dei comportamenti sociali esprime miseria e inciviltà.
Si può e si deve “vascolarizzare” il tessuto regionale di civismo, di intelligenza sociale, di educazione sentimentale verso gli altri.
Credo sia questa la vera innovazione, la prima priorità del territorio regionale. Ridurre il gap di capitale civico che ci separa dalle altre regioni. Non solo più ricche o più sviluppate. Solo tristemente più civili.
Inutile negarlo o autoassolverci: siamo civicamente arretrati.
Ci informa la stampa odierna di esasperate invettive, alcune forse anche mal riportate dai social, di non pochi cittadini e di qualche papas che hanno finito per insaporare le insulse polemiche sollevate per un diffamante… panino “ghiegghio”! Direi che siamo alle solite litanie, arrivando a trattare in maniera ridicola le cose serie e in maniera troppo seria le cose più ridicole.
Turismo: gli Arbëreshë come la sardella?
Secondo il comunicato emesso da un «lobbista» (così si autoqualifica) cui è stato incautamente affidata questa sballata campagna pubblicitaria, il panino “ghiegghio” viene addirittura contrabbandato come simbolo arbëresh. Andrebbe così ad aggiungersi agli altri 99 strabilianti MID (marcatori identitari distintivi) , in buona compagnia con le altre 2 minoranze linguistiche storiche regionali. Ma anche in bella compagnia con Pitagora, il bergamotto reggino, la cipolla rossa di Tropea, il pomodoro di Belmonte, la sardella di Crucoli, la nduja di Spilinga, ecc.
Ad escogitare la lista sembra essere stato con immaginifica fantasia l’assessorato al Turismo della Regione Calabria, che l’ha presentata alla BIT di Milano, nel marzo 2022, per alimentare i flussi turistici nella nostra regione.
L’ex assessore al Turismo, oggi senatore, Fausto Orsomarso presenta il suo progetto sui MID
Gianluca Gallo e le minoranze
Invece di assistere a queste regressive polemiche capaci solo di accelerare le battute delle tastiere, basterebbe forse più utilmente chiedere all’assessore regionale Gianluca Gallo, con delega alle Minoranze linguistiche, di provvedere, per rispetto per lo meno del ruolo istituzionale affidatogli nonché per un doveroso riguardo verso le minoranze di cui si deve occupare , di provvedere a cancellare subito le 3 comunità linguistiche minoritarie dall’elenco – questo sì, vergognoso! – dei 100 MID del turismo regionale.
Gianluca Gallo
Gli arbëreshë, gli occitani e i grecanici non sono dei folkloristici intrattenitori ad alta attrattività e(t)nogastronomica al servizio del turismo calabrese, ma cittadini italiani come gli altri, che aspettano purtroppo invano dopo 75 anni dalla promulgazione della Costituzione e a 25 anni quasi dalla approvazione della legge 482/99, che vengano garantiti loro i diritti a loro spettanti , a partire da quelli linguistici, al pari degli altri cittadini italiani, trattandosi di diritti di uguaglianza – e non certo di privilegi! – che la Costituzione repubblicana garantisce loro.
Il panino ghiegghio e quello lëtir
Questi diritti, come ben documenta il volume, edito nella collana “Albanistica” della nostra Fondazione, di Nicola Bavasso, La minoranze “tagliate” della Calabria: gli Arbëreshë. Perché è fallita la legge 482. Possibili strategie di uscita dall’impasse per le minoranze linguistiche interne (Lungro, 2021), sono purtroppo rimasti sulla carta, nell’indifferenza generale. Anche quella di chi ora si occupa e si preoccupa parossisticamente solo di come bisogna chiamare (o non chiamare!) i panini e non certo perché a livello nazionale, regionale e locale – per non parlare della latitanza della scuola pubblica e del servizio pubblico radiotelevisivo – non si applicano in Calabria le leggi che pure ci sono.
Nel frattempo, in risposta alla proposta del panino “ghiegghio” lanciamo provocatoriamente una parallela e altrettanto ironica campagna per promuovere come arbëreshë un panino lëtir (traducibile in “italiota”).
Per la stessa azienda proponente avrebbe sicuramente un impatto oltre che gastronomico anche social molto più efficace, oltre che più incisivo e divertente, vista la più vasta e maggioritaria platea di fruitori, senza evocare né “scomuniche” né crociate (preferisco le ottime “crocette di fichi” calabresi)!
Italiani e arbëreshë
Ma senza dimenticarci di pensare al nostro futuro, partendo dai seri e solidi progetti in itinere, come la proposta MOTI I MADH ora all’attenzione dell’ufficio UNESCO del Ministero della Cultura. Si è avviato un piano di cooperazione transnazionale con l’adesione del Ministero della Cultura albanese. Vede l’intera minoranza arbëreshe d’Italia rappresentata, con l’adesione da ben 53 comunità del nostro Meridione attraverso il coordinamento della Fondazione universitaria Papas Francesco Solano, perché la straordinaria cultura immateriale espressa nei secoli dagli Arbëreshë d’Italia abbia finalmente il riconoscimento dovuto attraverso l’iscrizione delle pratiche rituali italo-albanesi della primavera nel registro delle buone pratiche dell’UNESCO.
Vallje, danze arberëshë, a Cerzeto (CS)
È ora di uscire dall’inverno delle polemiche inutili e dannose e di pensare alla primavera della nostra rinascita. Lasciamo ai creativi imprenditori del fast food regionale di offrirci, se vogliono, i panini con o senza ghiegghi oppure lëtinj: ma poi è davvero importante sapere come un fast-food lëtir vuole chiamare i suoi panini? Restiamo comunque sempre e comunque orgogliosamente italiani e arbëreshë! E nella storia, se qualcuno ne dubita, lo abbiamo anche concretamente dimostrato sul campo e non con le tastiere dei PC, dei tablet o degli smartphone!
Francesco Altimari Presidente Fondazione Universitaria “F.Solano” – Docente Unical
Non è la prima volta che il Consiglio di Stato azzera decisioni amministrative che sembravano scontate.
Così è avvenuto per l’affaire Temesa, cioè il divorzio tra Amantea e la sua popolosa frazione di Campora San Giovanni, che tiene banco da mesi nelle cronache regionali e ha incuriosito anche la stampa “che conta”.
Alla fine, Palazzo Spada ha accolto le contestazioni del Comune di Amantea, che invece il Tar aveva rigettato per due volte. Il referendum previsto per il 22 gennaio è bloccato e la città tirrenica, al momento, è salva. La parola torna al Tribunale amministrativo, che dovrà pronunciarsi nel merito.
Tre contro uno
Ma cosa contesta il Comune tirrenico al comitato Ritorno alle origini di Temesa, al Comune di Serra d’Aiello e alla Regione Calabria? Il ricorso al Consiglio di Stato batte su quattro punti, che si riepilogano per sommi capi.
Il primo è il debito che obera le casse amanteane. Al riguardo, c’è già un’istanza di dissesto del commissario prefettizio che risale al 2017. La cifra, tuttora, non è quantificata con certezza. Ma i “si dice” sono inquietanti: il debito monstre oscillerebbe tra quaranta e cinquanta milioni.
Che fine farà questo buco? Resterà tutto ad Amantea oppure sarà diviso in proporzione agli abitanti? La legge regionale che indice il referendum tace.
Consiglieri di Stato in seduta
Il rebus degli abitanti di Amantea
Sul secondo punto, le cose si complicano. Innanzitutto, perché c’è un balletto di cifre sull’attuale demografia amanteana.
Secondo i dati provvisori dell’Istat, i residenti sarebbero 13.850. Nell’ultimo ricorso al Consiglio di Stato, il Comune ne dichiara 13.272. Questa battaglia si gioca sulle decine: nel primo caso, in seguito alla secessione di Campora, Amantea si terrebbe di poco sopra i 10mila residenti, nel secondo rischierebbe di scendere sotto soglia.
Ciò renderebbe inammissibile il referendum, perché il Tuel vieta la costituzione di Comuni sotto i 10mila abitanti.
Ma il problema non riguarda solo le cifre lorde.
Lo scoglio degli stranieri
La difesa di Amantea contesta, al terzo punto, che si debbano calcolare gli stranieri residenti, cioè iscritti all’anagrafe.
Questo perché la legge parla di “cittadini residenti”.
La cifra che balla, in questo caso, si aggira attorno ai 400 abitanti. Non proprio bruscolini.
Campora San Giovanni, panorama notturno
Il problema dei votanti
Quarto punto: per creare il nuovo Comune di Temesa, sono chiamati al voto gli abitanti di Campora, circa 3.100, quelli di Coreca e Marinella e i residenti di Serra d’Aiello.
Sul primo aspetto, emerge una contraddizione: se Campora si staccasse, Amantea si fermerebbe alla foce del fiume Olivo, quindi manterrebbe Coreca e Marinella.
Ma gli abitanti di queste due frazioni, a differenza del resto di Amantea, sono chiamati comunque a votare.
E non finisce qui: considerato che a Campora sono ubicati il porto e il Pip, due strutture strategiche che riguardano tutta la città, perché è esclusa dal referendum la maggioranza dei cittadini?
La salvezza dal Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha ribaltato le decisioni del Tribunale amministrativo di Catanzaro e risolto per via burocratica un problema politico.
Certo, occorrerà aspettare la sentenza del Tar per dire l’ultima. Ma tutto lascia pensare che i confini di Amantea resteranno intatti.
È vero, infatti, che Amantea ha tentato due ricorsi d’urgenza, cioè di bloccare il referendum finché non si fosse chiarita la situazione legale. Ma è altrettanto vero che i motivi inseriti nei ricorsi sono, per dirla in avvocatese, “di merito”. Cioè toccano la sostanza del problema e quindi anticipano la sentenza.
Scorcio del centro storico di Amantea (foto di Camillo Giuliani)
Campora e Amantea: ora tocca ricucire
Amantea ha trovato a Roma il giudice che i tedeschi cercavano a Berlino.
Ma ciò non vuol dire che la situazione resti rose e fiori, perché, giova ripeterlo, alla base dei malumori dei camporesi c’è un problema politico.
Infatti, perché due big regionali come Franco Iacucci e Giuseppe Graziano hanno sposato la causa di Temesa?
Le dietrologie, al riguardo, si sprecano in riva al Tirreno. Ma salvarsi in Tribunale non basta. Ora è il momento di ricucire i rapporti.
E questo Enzo Pellegrino, l’attuale sindaco di Amantea, lo sa benissimo.
Adriano Sofri nel suo La notte che Pinelli (Sellerio, Palermo 2009) rievoca gli anni bui della strage di Piazza Fontana.
Il 12 dicembre del 1969 le bombe piazzate nella Banca dell’Agricoltura di Milano fecero 17 morti e 88 feriti. La Polizia seguì subito la pista degli anarchici. E i sospettati furono fermati e tradotti in Questura nel giro di poche ore.
Tra questi c’erano Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda e Pasquale “Lello” Valitutti.
L’interno della banca dopo l’esplosione
Una delle vittime dell’attentato portata fuori dall’edificio
La prima pagina del Corriere della Sera dopo la strage di piazza Fontana
La notizia dell’arresto di Valpreda
Pietro Valpreda perquisito
Valpreda dopo l’arresto
Giuseppe Pinelli insieme a sua moglie e le loro due figlie
Le bare delle vittime della strage nel duomo di Milano per i funerali di Stato
La sepoltura di Giuseppe Pinelli
Lello Valitutti, il supertestimone calabrese
Quest’ultimo fu testimone di ciò che accadde nelle concitate ore della notte del 15 dicembre, quando il ferroviere Pinelli, dopo tre giorni di interrogatori stressanti, precipitò dalla finestra dall’ufficio – in cui si sostenne fosse presente il commissario Luigi Calabresi – e si schiantò dal quarto piano.
Sulla dinamica di quel “volo” sono state condotte numerose inchieste da cui sono emerse altrettante “verità”. I poliziotti presenti parlano di suicidio. Al contrario, gli anarchici e tanta parte dell’opinione pubblica sostengono l’ipotesi dell’assassinio.
A distanza di 53 anni, resta il mistero: tra i “testimoni” di allora, infatti, qualcuno ha abiurato e qualcun altro ha revisionato la propria storia.
Una versione che non cambia
Chi, invece, ripete la stessa versione dei fatti, è Lello Valitutti di origine calabrese, citato più volte nel libro di Sofri. Suo padre Francesco è stato per tantissimi anni leader storico della Democrazia cristiana a Paola. La madre, Anna Maria Del Trono, apparteneva a una famiglia bene di Cetraro.
Lello racconta, il 18 marzo 2004, durante l’iniziativa Verità e giustizia promossa dal circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa e dal Centro Sociale Leoncavallo, la sua verità su quella tragica notte.
Lo fa con espressioni misurate ma suggestive: «Da questo corridoio passano, portando Pino, Calabresi e gli altri, e vanno nella stanza vicino. Chi dice che Calabresi non era in quella stanza sta mentendo, nel più spudorato dei modi. Calabresi è entrato in quella stanza, è entrato insieme agli altri, nessuno è più uscito».
E ancora: «Ve l’assicuro, era notte fonda, c’era un silenzio incredibile, qualunque passo, qualunque rumore rimbombava, era impossibile sbagliarsi, lui era in quella stanza. Dopo circa un’ora che lui era in quella stanza, che c’era Pino in quella stanza, che non avevo sentito nulla, quindi saranno state le 11 e mezzo, grosso modo, in quella stanza succede qualcosa che io ho sempre descritto nel modo più oggettivo, più serio, scrupoloso, dei rumori, un trambusto, come una rissa, come se si rovesciassero dei mobili, delle sedie, delle voci concitate».
La strage di Stato
Questo racconto di Lello Valitutti è apparso per la prima volta nel celebre libro La strage di Stato, la controinchiesta che fece scalpore quando uscì nel 1970, perché puntava il dito sui neofascisti di allora. La storia, dopo l’assoluzione del ballerino anarchico Pietro Valpreda e i processi di Catanzaro, ha dato ragione a Eduardo Di Giovanni e Marco Ligini, gli autori dell’opuscolo, che nel frattempo si erano dovuti difendere dalle accuse di diffamazione.
Lello Valitutti e Gerardo D’Ambrosio: botta e risposta
Un’altra volta, e precisamente nel 2002, Valitutti fu chiamato in ballo in modo errato dal giudice Gerardo D’Ambrosio, all’epoca dei fatti titolare dell’inchiesta, che in un’intervista al settimanale del Corriere della Sera, Sette, dichiarò: «Poi, ottenni un’altra prova sull’innocenza di Calabresi». «Quale?», domanda il giornalista. «La testimonianza di uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti: aveva visto Calabresi uscire dalla stanza prima che Pinelli cadesse».
Gerardo D’Ambrosio all’epoca delle indagini sulla morte di Pinelli
Valitutti rispose all’istante. In una lettera scritta all’allora direttore diLiberazione, Sandro Curzi, pubblicata il 17 Maggio 2002 dichiarò: «Vedo, ancora una volta, distorta la verità. Io sono l’anarchico Pasquale Valitutti e ho sempre sostenuto il contrario. Lo ripeto a lei oggi: Calabresi era nella stanza al momento della caduta di Pinelli. Se tutto è ormai chiaro, come dicono, perché continuare a mentire in questo modo vergognoso sulla mia testimonianza? Io sono ormai stanco, malato e fuori da qualsiasi gioco. Ma alla verità non sono disposto a rinunciare».
Le vecchie lotte
Per comprendere ancora meglio il carattere di Valitutti, il suo rigore e l’inossidabile fede negli ideali anarchici, basta consultare il carteggio intercorso, durante la sua detenzione a Lucca, con Franca Rame e Dario Fo, che si battevano per la sua liberazione.
Lello era accusato di appartenere ad un gruppo denominato Azione rivoluzionaria. «Compagni – scrive – adesso vogliono farmi pagare le vecchie lotte per Pinelli e Valpreda, le carceri che ho combattuto insieme a tanti di voi. Gli elementi che hanno contro di me sono: la conoscenza con uno dei colpevoli del tentativo di sequestro Neri a Livorno e alcuni miei spostamenti che ritengono sospetti».
Lello Valitutti, Dario Fo e Franca Rame
Anche in quelle circostanze, non rinunciò a un rapporto franco con i propri interlocutori, manifestando disappunto, perché a suo dire, la Rame, non si stava impegnando troppo per sostenere la causa dei detenuti politici come lui. Dario Fo gli rispose in una lettera del 27 gennaio 1978: «Ti rispondo a nome di Franca perché, come saprai è ricoverata in ospedale a causa dell’incidente che ha avuto a Genova. È stata investita da una macchina e ha subito la frattura del braccio sinistro. Sinceramente non capisco il termine delusione che usi nella lettera che indirizzi anche a Franca. Lo sai benissimo che non si è tirata mai indietro. Quindi nel tuo caso è solo perché è bloccata all’ospedale e sta proprio male se non ha potuto far niente. Hai ricevuto il vaglia che ti è stato spedito il 18? Faccelo sapere per favore».
Dario Fo sul palco nel suo Morte accidentale di un anarchico
Parla la mamma
Tra i documenti custoditi nell’archivio storico della coppia di attori, c’è anche un appello della madre di Valitutti, indirizzato «ai giornali, ai compagni, agli amici», che denuncia le gravi condizioni di detenzione del figlio in attesa di giudizio a Volterra. «Vive in una cella munita unicamente di letto e luogo di decenza – scrive Anna Maria Del Trono – senza un lavandino, senza una seggiola, senza alcun mezzo di informazione, continuamente ammanettato. È ovvio che tale stato di completo isolamento possa considerarsi un omicidio nei confronti di un giovane già così provato nella salute. Ritengo responsabili della sua salute coloro che permettono che mio figlio soffra ingiustamente un trattamento indegno non dico di un uomo, ma di una bestia».
Malato in carcere
Sempre nell’epistolario, Pasquale Valitutti, una volta chiariti i motivi del mancato impegno di Franca Rame e Dario Fo, descrive il peggioramento della sua salute: «Sono affetto da una grave depressione nervosa con gravi conseguenze fisiche, L’avv. Lo Giudice sta raccogliendo un’ampia documentazione medica e al più presto presenterà una domanda di libertà provvisoria».
Enzo Lo Giudice e Antonio Di Pietro negli anni di Tangentopoli
Ma Lello in cella non pensa solo sé. Si preoccupa anche degli altri compagni rinchiusi in tutte le carceri d’Italia che devono difendersi in Tribunale. Ed esorta tutti quelli che vogliono contribuire a «far avere dei soldi al mio avvocato. Vi prego di non mandare nulla a me: l’avvocato difende altri compagni ed è giusto che a lui vadano i soldi. Mandateli a tramite vaglia o assegno, specificando che siete miei amici».
Il giornalista Toni Capuozzo, in collegamento dal Brasile, nel commentare le dichiarazioni del governo italiano circa la mancata estradizione di Cesare Battisti, elencava i nomi di una serie di latitanti italiani che abiterebbero ancora in Brasile, tra cui l’anarchico Pasquale Valitutti.
Libero e combattente
Capuozzo non sapeva che Lello Valitutti da molti anni vive libero a Roma e partecipa, nonostante le gravi condizioni di salute, insieme a Licia Rognini, la moglie di Pinelli, alle iniziative che si tengono in memoria del suo amico e compagno volato in cielo a testa in giù.
Lello Valitutti contesta Salvini a Roma in una manisfestazione del 2016
Valitutti, malgrado sia costretto da diversi anni sulla sedia a rotelle, continua a partecipare a manifestazioni di piazza, anche alle più dure e pericolose. Una volta è stato immortalato con una bomboletta spray in mano mentre spruzzava vernice su una camionetta della Guardia di Finanza. Un’altra foto lo ritrae mentre fronteggia un plotone di celerini in assetto antisommossa, con il pugno chiuso nella sua continua lotta anarchica antisistema.
Alessandro Pagliaro
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