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  • Palazzo dei Bruzi, arriva il nuovo Garante che c’era già

    Palazzo dei Bruzi, arriva il nuovo Garante che c’era già

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    Galeotto fu… il garante dei diritti dei detenuti. Che la memoria a volte giochi brutti scherzi a Franz Caruso e l’amministrazione comunale di Cosenza lo avevamo già appurato in campagna elettorale quando avevamo chiesto al futuro sindaco (e i suoi sfidanti) i nomi dei sette colli raffigurati nello stemma municipale. Questa volta il vuoto dei ricordi pare aver colpito invece la consigliera comunale Chiara Penna, per poi contagiare anche il primo cittadino e il presidente dell’assise, Giuseppe Mazzuca.
    Da Palazzo dei Bruzi, infatti, è arrivato l’annuncio dell’imminente istituzione di una cosa già istituita da quasi due anni: il Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà, appunto.

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    Il carcere di Cosenza

    Penna firma la mozione

    La nota partita dal municipio è inequivocabile a riguardo. «Il consigliere e presidente della commissione legalità, Chiara Penna» è la prima firmataria di una mozione depositata affinché Cosenza si doti di questa importante figura. Caruso ha accolto «con entusiasmo» la cosa e si è subito attivato con Mazzuca perché se ne parli al più presto in sala Catera. L’idea, si apprende, arriverebbe dagli avvocati bruzi. «Lo stimolo proveniente dalla Camera Penale di Cosenza non poteva, per quanto ci riguarda – le parole di Caruso e Penna – che essere condiviso pienamente. L’iniziativa della Camera penale “Fausto Gullo” sarà immediatamente sottoposta ai diversi passaggi amministrativi-istituzionali necessari, onde procedere alla istituzione, mediante Regolamento, del Garante».

    Paganini non concede il bis, Palazzo dei Bruzi sì

    Tutto molto bello, anche perché – precisano ancora i due – «non bisogna dimenticare mai la reale scala dei valori di un ordinamento democratico e, soprattutto, bisogna vigilare affinché gli istituti penitenziari non siano luoghi di violenza e di sofferenza, ma di rieducazione.»
    Forse, però, non bisognerebbe dimenticare neanche che il municipio che si amministra si è già dotato, almeno sulla carta, del Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà.

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    L’articolo dello Statuto approvato nel 2021

    È successo, riportano le cronache e il sito istituzionale di Palazzo dei Bruzi, nell’ormai lontano (ma nemmeno troppo) 28 giugno del 2021. Il nuovo Statuto approvato in quella data, infatti, contiene un articolo, il numero 11, che lascia poco spazio ai dubbi. Si intitola, per l’appunto, “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale». E il primo comma recita: «Il comune di Cosenza istituisce il garante dei diritti delle persone private della libertà personale».

    Scherzi della memoria

    Il Garante, insomma, lo avevano già istituito i consiglieri verso la fine della scorsa sindacatura, giusto pochi mesi prima che cominciasse quella attuale. Al massimo, quindi, mancherebbe il regolamento. Fondamentale, certo, ma il vuoto di memoria – chissà se il relativo imbarazzo – resta.
    A confermarlo, il fatto che dal Comune siano arrivate ai giornali due versioni del comunicato di giubilo a distanza di un paio d’ore. Nella prima si parlava a chiare lettere di «modifica dello Statuto». Nella seconda una mano provvidenziale gli ha fatto cedere il posto alla «adozione di un apposito regolamento che dovrà essere deliberato dall’assise cittadina».
    Meglio così, commentano i più maliziosi nei corridoi del municipio, altrimenti come si istituisce una cosa che ci sarebbe già?

  • MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

    MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

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    Cosa può imparare da noi italiani – e calabresi in particolare – la Colombia?
    Parliamo di un Paese che ha (e ha avuto) gruppi criminali armati, alcuni anche ideologicamente orientati: ricordate le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e il negoziato di pace del 2016?.
    Non solo: la Colombia rimane ad oggi il primo produttore al mondo di cocaina, sfruttata e gestita da gruppi criminali organizzati più o meno territorialmente radicati.

    Calabria e Colombia: ridurre la violenza

    Presto fatto. La prima domanda emersa nella conferenza internazionale organizzata da Fundación Ideas Para La Paz, Global Initiative Against Transnational Organized Crime e Konrad Adenaur Stiftung (enti che si occupano di consulenza e ricerca su strategia internazionale e sicurezza), è: come si riduce la violenza della criminalità organizzata?
    Questa, nella loro prospettiva internazionale, diventa la domanda posta anche a me: come ha fatto l’Italia a ridurre la violenza mafiosa? E cosa può insegnare la Calabria con la mafia più importante d’Italia?

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    Esercito e polizia colombiani in un’operazione interforze

    Due giorni su Calabria e Colombia

    Le risposte sono difficili. Vi si sono impegnati, per due giorni, il presidente del Congresso colombiano Roy Barreras, il capo della Procura generale del Paese (la Fiscalia) Francisco Barbosa, l’ex capo della Polizia nazionale ed ex vicepresidente colombiano, Oscar Naranjo, insieme a Sergio Jaramillo, ex viceministro della Difesa ed ex Alto Commissario per la pace (per capirci, l’incaricato della gestione dei negoziati con le Farc fino all’agosto 2016).
    A loro si sono uniti accademici nazionali e internazionali (come chi scrive), giornalisti da tutto il Sudamerica, analisti ed esperti del territorio.
    Il tutto è terminato in una cena-discussione con il ministro della Giustizia, il Viceministro della difesa, e il capo dell’Unità investigazioni della Polizia colombina.

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    Un momento del convegno di Bogotà

    Faide, sequestri e stragi

    La violenza mafiosa, e della criminalità organizzata in generale, non è una caratteristica dell’Italia odierna, ma è parte di tutta la nostra storia.
    Oltre le stragi di Cosa Nostra, tutte le mafie hanno prodotto in diversi periodi livelli di violenza molto elevati.
    Nella guerra di ’ndrangheta tra il 1985 al 1991 a Reggio Calabria, i morti accertati furono poco più di 600, ma le stime oscillano tra i 500 e i 1000.
    La ’ndrangheta, infatti, ha costruito la sua reputazione sulla violenza.
    Ne sono esempi le faide per il controllo del territorio che hanno decimato intere famiglie (ad esempio quelle di Siderno, 1987-1991, tra i Costa e i Commisso, in cui vinsero questi ultimi), o che addirittura si sono manifestate all’estero (la strage di Duisburg del Ferragosto del 2007, segmento della guerra di San Luca tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari iniziata nel 1991).
    E ne sono altri esempi gli oltre 200 sequestri di persona in Aspromonte tra gli anni ’70 e i primi ’90, alcuni caratterizzati da inaudita bestialità.
    La violenza sistemica della ‘ndrangheta ha sicuramente lasciato un’eco nella popolazione che è parte del fenomeno mafioso calabrese e della sua reputazione.

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    L’esterno del locale in cui si è consumata la Strage di Duisburg

    Tre lezioni dall’Italia

    Cosa può insegnare l’Italia alla Colombia? Tre cose principalmente:

    • Una risposta dello stato molto forte, con un arsenale antimafia fatto di normative dirette (repressive) e indirette (di prevenzione) che contengono un messaggio primario: la violenza non conviene.
    • Una capacità delle organizzazioni criminali (non ideologiche né insurrezionaliste) di trovare altri mezzi per risolvere i propri problemi (tra cui il coordinamento, l’alleanza e soprattutto la corruzione).
    • L’accettazione di un livello di violenza “tollerabile” e la definizione (negoziazione interna) della soglia di tollerabilità. La violenza mafiosa non è sparita, ma il suo allarme sociale si: dà allarme quella violenza oltre un certo soglia, o in mercati “anomali” (sorprenderebbe violenza nelle attività semi-lecite delle mafie, ma non nel mercato della droga).

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      Scorcio di piazza Bolivar a Bogotà

    Tre lezioni calabresi

    Altre cose le può insegnare proprio la Calabria.

    • Innanzitutto, il decentramento della violenza nel crimine organizzato moderno: non c’è una testa pensante nella ’ndrangheta che commissiona o modula la violenza. Questo da una parte è un un vantaggio, dall’altra porta anche a reazioni molto diverse a seconda di luoghi e tempi in cui questa violenza si manifesta.
    • Si è anche parlato di quella violenza che per alcuni violenza non è, ma che tuttavia è pronunciata in certi posti della Calabria: l’estorsione ambientale. Questa si configura quando il clan è abbastanza potente da non avere più necessità di fare richieste palesi, con le relative minacce. Ormai basta il sussurro e l’allusione.
    • Per ritenere estinta o ridotta qualsiasi violenza la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. Laddove si riuscisse, come in Italia e Calabria, a ridurre il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità, la vittimizzazione diventerebbe più subdola quanto più l’organizzazione rimanesse economicamente e socialmente potente, come la ‘ndrangheta in alcune parti del nostro territorio.

    Paz Total: il sogno di Gustavo Petro

    Questa domanda sulla riduzione della violenza deriva dalla proposta ambiziosa, forse troppo, del nuovo presidente della Colombia, Gustavo Petro.
    Petro, ex guerrigliero del gruppo M-19, è stato eletto nel giugno 2022 con una piattaforma politica incentrata sulla promessa della Paz Total, la pace totale.
    Questa pace, secondo Petro e i suoi ministri, si può raggiungere negoziando con l’ultimo gruppo di guerriglia rimasto, l’Eln (Ejército de liberación nacional), come si è fatto con le Farc, ma anche con oltre altri 20 gruppi “ad alto impatto”, solo criminali, coinvolti nel mercato di cocaina, marijuana e altre attività illecite di criminalità organizzata.

    Gustavo Petro, il presidente della Colombia

    Tregua delle armi e legalizzazione

    Aprire i negoziati di pace – strumenti di solito legati ai conflitti internazionali – alla criminalità organizzata, che non è in conflitto con lo Stato colombiano ma è spesso violenta al suo interno, crea cortocircuiti concettuali e pratici.
    Già: cosa si offre a questi gruppi? Come si permette ad essi un incentivo a collaborare? In che modo si riduce la loro violenza? E si può impedire che “morto un gruppo se ne faccia un altro”?
    Quesiti molto politici (e metodologici) per la paz total immaginata da Petro. Ma Petro non vuole fermarsi qui: il suo esecutivo ipotizza anche una depenalizzazione della cocaina e della marijuana, che sono tra i business illegali più lucrativi del Paese, e non solo.
    La decriminalizzazione della cocaina, unita a un tentativo di pacificazione del crimine organizzato, avrebbe effetti rivoluzionari – positivi e negativi – sul mercato globale dei narcotici. Cioè sul settore più redditizio dell’economia criminale.

    Guerriglieri di Eln

    La ’ndrangheta senza Colombia

    E qui arriva la seconda domanda sottoposta alla prospettiva internazionale, e soprattutto relativa alla ‘ndrangheta.
    Eccola: cosa succederebbe a quegli importatori più attivi sul mercato internazionale della cocaina – cioè alcuni gruppi di ’ndrangheta – se si arrivasse, anche parzialmente, alla paz total in Colombia con qualche cartello?
    Meglio ancora: cosa accadrebbe alla ’ndrangheta e ai suoi traffici se si sconvolgesse – coi negoziati e la decriminalizzazione – il mercato colombiano?

    Broker ’ndrine e narcos tra Calabria e Colombia

    Le risposte non sono semplici: siamo nel regno delle ipotesi.
    Come detto nella puntata precedente di questo viaggio, i rapporti tra ’ndrine storiche e cartelli storici del narcotraffico in Colombia sono consolidati e intergenerazionali, intra-cartello (a monte e a valle), e basati su contratti a rinnovo automatico.
    La cocaina arriva dalla Colombia in Calabria grazie a broker specializzati con rapporti solidi in entrambi i territori. Dunque, è possibile immaginare che tali broker si muoveranno per restaurare l’“ordine”, a dispetto delle politiche di “pace” e decriminalizzazione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    Liberalizzare? Impossibile, in Calabria e Colombia

    È improbabile che si arrivi a una liberalizzazione delle droghe a livello internazionale. Perciò il mercato delle importazioni rimarrà inalterato, seppur con iniziali possibili difficoltà di procacciamento della merce.
    Infatti, la cocaina è un bene a domanda “rigida” (vale a dire che non solo non esistono beni simili sul mercato, ma a domanda pressoché fissa) perci l’offerta rimarrà quanto meno costante.

    Bolivia e Perù: gli astri nascenti della coca

    Quindi se la situazione diventasse più complessa in Colombia, anche temporaneamente, la Bolivia (dove la coca è anche spesso più pura) e soprattutto il Perù (dove i gruppi criminali hanno uno stile imprenditoriale) potrebbero sostituirla nella produzione e nell’approvvigionamento. Per farla breve, ai nostri ’ndranghetisti servirà rimanere flessibili, comprendere il sistema locale e offrire soldi e risorse anche all’estero per risolvere problemi.

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    I partecipanti al convegno internazionale di Bogotà

    La lezione colombiana

    Dalla Colombia, però, abbiamo da imparare anche noi.
    A sentire l’insistenza con cui si parla di pace, inclusa quella dal crimine organizzato, è interessante riflettere sugli strumenti collettivi per ottenerla. Tra questi, la ricerca della verità, la riconciliazione tra vittime e carnefici, la memoria.
    Senza memoria (del dolore, delle armi, della violenza, dei traumi collettivi) non si può avere riconciliazione e non si può tentare la pace.
    Questo, forse, dovrebbe essere uno spunto di lavoro per la nostra classe dirigente, che si scorda come intere fette della popolazione, soprattutto del Sud (per esempio alcune comunità Aspromontane), debbano ancora comprendere e affrontare le ferite della violenza che fu, con memoria storica, verità e per riconciliarsi con l’eco della violenza attuale.
    Ma questa è un’altra storia.

  • Mario di lotta, Roberto di governo: gli Occhiuto divisi sull’autonomia

    Mario di lotta, Roberto di governo: gli Occhiuto divisi sull’autonomia

    Mario Occhiuto non riesce a separarsi dalla fascia tricolore di sindaco, pur essendo diventato senatore. Sarà per quella fascia che porta nel cuore che si mostra perplesso verso l’idea di una Autonomia differenziata, esattamente come la gran parte dei sindaci meridionali. Molti primi cittadini, infatti, hanno dato vita alla rete Recovery Sud, che vede nel progetto della Lega un grave pericolo.
    Il fratello Roberto, invece, che della Calabria è presidente, ne è entusiasta e perfettamente in linea con le indicazioni della destra che governa il Paese.

    Occhiuto contro: Mario vs Roberto

    La diversa posizione dei fratelli su un tema così centrale nel programma di governo, era sfuggita a queste latitudini. Non al Corriere della Sera, però, che dedica alla questione un articoletto, riportando virgolettati interessanti, proprio poche ore prima che il Consiglio dei Ministri dia il suo via libera alla riforma.
    Mario, l’ex sindaco, assai più che perplesso verso il progetto di Calderoli, quasi severo verso il fratello che sarebbe favorevole «perché parla da governatore», come se quel ruolo – cui aveva ambito lui stesso pochi anni fa – fosse distante e distratto rispetto ai reali bisogni dei territori.
    Moderata e con l’evidente scopo di stemperare le distanze la replica di Roberto, che spiega: «Mio fratello è critico perché non ha letto il nuovo testo di Calderoli, ha ripreso una mia dichiarazione precedente». Insomma dice cose senza essere del tutto aggiornato.

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    Roberto Calderoli, principale sostenitore dell’Autonomia differenziata

    Pace fatta?

    Il duello ha avuto un secondo tempo. Il presidente della Regione ha spiegato che «l’eliminazione della spesa storica è un passo avanti» da considerare in modo rassicurante. Il senatore è rimasto su posizioni critiche, sottolineando che i nodi essenziali «non sono stati risolti, e il progetto rischia di dividere l’Italia».
    Insomma separati e distanti, fino a quando l’ex sindaco ora senatore e il fratello governatore devono essersi finalmente parlati, provando ad accorciare le imbarazzanti distanze. «Il passo in avanti di cui parla Roberto c’è, e la riforma è una sfida da cogliere», sembra chiudere la questione in maniera conciliante Mario.

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    L’articolo apparso sul CorSera

    I dubbi restano

    Però, secondo il Corriere, il neo senatore non rinuncia a lasciare il campo con un’ultima stoccata che riguarda la vera posta in gioco. «Se non si riduce il gap tra Nord e Sud, se non si garantiscono risorse e non si rendono più efficienti le infrastrutture – spiega preoccupato Mario Occhiuto – i nostri ragazzi continueranno a spostarsi a Nord per lavorare e i nostri ospedali come i nostri asili forniranno un servizio insufficiente». Il duello politico – familiare si chiude qui. Sulla scena restano due Occhiuto: Mario di lotta, Roberto di governo.

  • Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    «Ma è sicuro di quel che dice?», chiede Remo Smitti, pm della Procura di Venezia.
    «Sicurissimo dottore, sono ottant’anni che faccio la guerra al mio cognome», risponde il teste.
    L’interrogato è Pietro Buffone, vecchia gloria della Democrazia cristiana, non solo calabrese. È il 23 novembre 1999. Siamo sempre a Venezia, in Corte d’Assise, dove si svolge un dibattimento delicatissimo, su un mistero “minore”, ma non per questo meno tragico della storia repubblicana.
    Tra gli incriminati, c’è una figura eccellente: Zvika Zarzevsky, più conosciuto come Zvi Zamir, ex capo del Mossad. Sullo sfondo, un disastro areo: il caso Argo 16.

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    L’aereo Argo 16 sulla pista

    Argo 16: uno schianto a Marghera

    È l’alba del 24 novembre 1973. L’Argo 16, un bimotore Douglas C47-Dakota in dotazione al 306° gruppo del 31° stormo dell’Aeronautica Militare.
    L’aereo è decollato da poco dall’Aeroporto “Marco Polo” di Venezia per raggiungere la base Nato di Aviano. Ma poco sopra Porto Marghera, a Mestre, succede qualcosa.
    Il velivolo perde quota, urta un lampione e precipita verso le strutture della Montedison.
    Evita per un soffio gli enormi serbatoi di combustibile dello stabilimento petrolchimico e si schianta sull’ingresso del Centro elaborazione dati della Montedison: il muso dell’aereo sfonda l’atrio e devasta gli uffici. Un pezzo della fusoliera si stacca nell’impatto e finisce nel cortile, dove demolisce venti auto parcheggiate.

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    L’ex capo degli 007 israeliani Zvi Zamir

    Lo strano incidente di Argo 16

    In quest’incidente terribile perdono la vita i quattro membri dell’equipaggio: il colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio, il tenente colonnello Mario Grande, secondo pilota, e i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini rispettivamente motorista e marconista.
    Ma è davvero un incidente? Secondo l’Aeronautica Militare, che ordina un’inchiesta frettolosa, sì. Ma c’è chi nutre seri dubbi: il deputato missino Beppe Niccolai, che deposita un’interrogazione scritta al Ministero della difesa il 10 agosto 1974.
    Seconda domanda: cosa c’entra Pietro Buffone in questa vicenda?

    Pietro Buffone: il sottosegretario dei segreti

    In quel periodo terribile, Buffone è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo di Mariano Rumor, che gli conferma l’incarico rivestito nel precedente governo Andreotti.
    Il deputato calabrese non è un sottosegretario qualsiasi, ma vanta un piccolo record: è il primo a gestire la delega ai Servizi segreti, fino ad allora riservata ai presidenti del Consiglio.
    Sull’argomento, Buffone è un esperto, visto che ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sul Sifar, il Servizio militare, che in quegli anni si chiama Sid, e sa vita, morte e miracoli dei nostri 007. Soprattutto, ne conosce i peccati.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    L’antefatto: terroristi palestinesi in Italia

    Il 5 settembre 1973 emerge una strana notizia: i nostri Servizi segreti sventano un attentato contro un areo di linea della El Al, la compagnia di bandiera israeliana.
    Il bersaglio reale degli attentatori sarebbe Golda Meir, la premier israeliana in visita in Italia.
    Grazie a una soffiata del Mossad, gli agenti segreti ammanettano cinque arabi, legati a Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese interna all’Olp di Yasser Arafat. Due di loro hanno il passaporto algerino e, su pressione di Gheddafi, vengono messi in libertà provvisoria il 30 ottobre.
    Il giorno successivo vengono “esfiltrati” in Libia. Li trasporta l’Argo 16, che fa un breve scalo a Malta, prima di portarli a destinazione.
    Oltre ai due libici, a bordo ci sono quattro funzionari del Sid, tra cui il capitano Antonio Labruna e il colonnello Stefano Giovannone.

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    Il generale Gianadelio Maletti

    Intermezzo: rivalità nei Servizi

    Tra i peccati delle nostre barbe finte uno è particolarmente grave. Anzi mortale: la rivalità interna.
    Il capo del Sid, nella prima metà degli anni ’70, è il generale dei Bersaglieri Vito Miceli, che si distingue per uno spiccato filoarabismo e per la vicinanza a Gheddafi.
    Il numero due del Sid è il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D e acerrimo rivale di Miceli.
    Maletti è il collegamento tra gli israeliani e il Sid. Questa schizofrenia dei nostri servizi trova un equilibrio nel 1973, grazie a una spregiudicata operazione condotta da Aldo Moro.

    Il lodo Moro

    Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro e capocentro del Sid a Beirut, è l’uomo chiave del lodo Moro, un accordo di diplomazia parallela (cioè fuori dai canali diplomatici ufficiali) e asimmetrica (cioè tra uno stato e organizzazioni non statali).
    Il contenuto dell’accordo è semplice ed efficace: l’Italia avrebbe tutelato gli uomini dell’Olp e questi si sarebbero astenuti dal fare attentati sul nostro territorio. Come, ad esempio, quello del 17 dicembre del 1973.

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    Aldo Moro

    L’attentato di Fiumicino

    Sono quasi le 13 del 17 dicembre 1973. Cinque palestinesi entrano nel terminal di Fiumicino e si mettono a sparare all’impazzata.
    Uccidono due uomini e raggiungono un Boeing 707 della Pan Am. Vi gettano dentro una bomba al fosforo e due granate. L’esplosione uccide trenta passeggeri, tra cui quattro italiani.
    Poi, gli attentatori salgono a bordo di un altro aereo: un Boeing 737 della Lufthansa diretto a Monaco. Prendono sei ostaggi e lo dirottano. Dopo un volo rocambolesco, l’aero atterra a Kuwait City, dove i cinque tornano in libertà.

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    L’attentato di Fiumicino

    Argo 16: il processo

    L’Argo 16 è un areo che scotta: non trasporta solo agenti segreti e presunti terroristi arabi. Ma si occupa soprattutto dei membri di Gladio, l’organizzazione Stay Behind italiana: li porta periodicamente a Poglina in Sardegna, dove c’è il loro centro d’addestramento.
    Anche per questo particolare utilizzo dell’Argo 16, l’“incidente” di Porto Marghera è al centro di dietrologie dure a morire. Soprattutto perché su questa vicenda non ci sono chiare verità giudiziarie.
    Il primo magistrato a occuparsene è il giudice istruttore Carlo Mastelloni, che mette sotto inchiesta Zvi Zamir, il suo braccio destro Asa Leven e 22 ufficiali della nostra Aeronautica.
    Il teorema di Mastelloni è inquietante: sono stati gli Israeliani.

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    Il magistrato Carlo Mastelloni

    Buffone il superteste

    Illuminante, al riguardo la testimonianza di Buffone, che conferma le dichiarazioni del generale della Guardia di Finanza Vittorio Emanuele Borsi.
    L’ex sottosegretario traccia un nesso inquietante tra il fallito attentato di Ostia, il disastro dell’Argo 16 e la strage di Fiumicino.
    Secondo quanto gli avrebbe confidato Maletti, il responsabile di questo intrigo sarebbe stato Miceli.
    Miceli avrebbe liberato i due libici, nonostante il contrario avviso di Maletti. E l’Argo 16 sarebbe stato sabotato dagli israeliani per ritorsione.
    Sempre Miceli avrebbe dato l’assenso all’attentato di Fiumicino, come risposta agli israeliani.

    Il processo finisce in niente

    Alla fine, il processo naufraga dietro la classica sequenza di insufficienze di prove, che per il codice di Procedura penale, entrato in vigore poco prima di Tangentopoli, equivale alla formula piena.
    Zamir e gli altri imputati la fanno franca, anche perché il segreto di Stato massacra l’istruttoria di Mastelloni. Tutto questo sebbene Maletti e Cossiga confermino, l’anno successivo le dichiarazioni di Buffone.

    Argo 16 e i documenti distrutti

    Il 29 gennaio scorso si è celebrato in sordina il decimo anniversario di Buffone, spentosi ultranovantenne nella sua Rogliano.
    Il caso Argo 16 è solo uno dei dossier su cui l’ex big ha messo le mani. Di molti altri non si sa nulla perché, una volta ritiratosi a vita privata, Buffone ha distrutto ogni documento.
    Nulla da nascondere a livello personale, ci mancherebbe. Solo il senso dello Stato di cui ha dato prova una persona in guerra perenne col proprio cognome.
    Una guerra vinta.

  • Raffaele De Luca, un calabrese nella tragedia dei Finzi Contini

    Raffaele De Luca, un calabrese nella tragedia dei Finzi Contini

    C’è un po’ di Calabria nelle grandi tragedie. Ad esempio, quella raccontata da Giorgio Bassani ne Il giardino dei Finzi Contini.
    Iniziamo dalla protagonista.
    Morta il primo marzo del 2009 a Milano a 90 anni, Matilde Bassani Finzi, cugina di Giorgio, ispirò Micol, il personaggio femminile del celebre romanzo.
    Questo secondo una tesi accreditata e mai smentita dalla Bassani.
    Secondo un’altra ipotesi, invece, l’ispiratrice di Micol sarebbe la contessa veneziana Teresa Foscolo Foscari.
    In ogni caso, nessuna delle due assomiglia a Dominique Sanda che ha impersonato l’eroina nel celebre film di Vittorio De Sica, il quale nel 1971 vinse l’Oscar come migliore pellicola straniera.

    La Micol del romanzo

    Secondo la critica Micol è una delle figure più tragiche ed enigmatiche della letteratura italiana contemporanea.
    L’amore di lei per lo studente universitario Giampaolo Malnate, amico di suo fratello Alberto, che muore giovanissimo, e l’affettuosa tenerezza per il compagno di infanzia Giorgio, figlio di un commerciante, sono il centro di una vicenda che termina tragicamente con la deportazione della famiglia Finzi Contini nei lager.

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    Vittorio De Sica

    Bassani, De Luca e i Finzi Contini

    Matilde Bassani, la “vera” Micol, è stata una figura romantica e importante della Resistenza, del socialismo e del movimento femminista.
    Veniamo alla calabresità della vicenda. Da partigiana, Matilde Bassani – possibile ispiratrice de Il Giardino dei Finzi Contini aderisce a Bandiera Rossa, gruppo combattente rivoluzionario fondato da Raffaele De Luca, avvocato calabrese vissuto a Paola per molti anni e personaggio di spicco dell’antifascismo romano. La vera storia non risulta meno affascinante di quella vissuta da Micol nel romanzo.

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    Il tesserino da giornalista di Matilde Bassani Finzi

    Le gesta di Matilde iniziano il 23 marzo 1943, mentre si reca in Vaticano per farvi accogliere due rifugiati polacchi. È subito fermata dalle SS, ma riesce a fuggire, sebbene le sparino a un ginocchio.
    Suo padre, professore di tedesco all’Istituto tecnico di Ferrara, viene licenziato nei primi anni ’20, perché anche lui antifascista. Lo zio Ludovico Limentani, fratello della madre Lavinia, fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali contro il regime.

    In azione a Firenze

    Matilde nell’agosto ’44 va a Firenze con un gruppo di compagni di Roma, mentre ancora infuriano i combattimenti, per portare armi ai partigiani della brigata Bruno Buozzi.
    Il gruppo giunge a destinazione grazie all’efficace lasciapassare della Central D Section del Psicological Werfare Branch.
    A conferma dell’esoso prezzo pagato dai Bassani, occorre ricordare il sacrificio di suo cugino, Eugenio Curiel, combattente nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel ’45. Nonostante le dure condizioni della vita in clandestinità, Matilde conosce l’amore della sua vita, Ulisse Finzi, che sposa il 4 aprile 1945.

    Soldati della Wehrmacht a Roma

    Di ritorno a Roma

    Insieme a lui e ai fratelli Andreoni, Matilde fa parte del Comando superiore partigiano a Roma.
    Di lei scrive Concetto Marchesi, suo professore all’Università: «Il suo nome suonava allora come quello di una intrepida compagna che dava agli anziani l’esempio della fermezza, dell’intelligenza e dell’onore».
    Dopo la liberazione di Roma, il Comando collabora con gli Alleati, fornisce assistenza ai partigiani in cerca di vitto e alloggio, vestiti, denaro, cure mediche, e lavoro.
    Matilde porta notizie alle famiglie dei combattenti che ancora si trovavano nei territori occupati, e fa propaganda tramite volantini, manifesti e il giornale Il partigiano. Scrive anche articoli per Italia Combatte, un foglio che viene paracadutato dall’aviazione nei territori controllati dai tedeschi.

    Giorgio Bassani

    Il lungo dopoguerra di Matilde Bassani

    Socialista, di stampo riformista emiliano, Matilde mal sopporta il verticismo dei dirigenti del Pci, con cui ha a che fare che nel secondo dopoguerra quando milita nell’Unione donne italiane e si ritrova accanto alle minoranze comuniste, agli anarchici e ai socialdemocratici.
    Sempre nel dopoguerra, Matilde si impegna nelle lotte “femminili”: partecipa alla fondazione del Cemp (Centro per l’educazione matrimoniale e prematrimoniale) che ha tra i suoi obiettivi la diffusione della contraccezione, anche giovanile, e si attiva poi nei referendum per la difesa del divorzio e dell’aborto.

    Raffaele De Luca, avvocato anarchico e massone

    L’adesione a Bandiera rossa, rimane un fatto singolare da inquadrare nella sua educazione anarchica, libertaria e socialista, in sintonia col suo fondatore. Raffaele De Luca, al contrario di Matilde Bassani, nulla a che vedere con Il giardino dei Finzi Contini.

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    Raffaele De Luca

    A lui qualche anno fa lo storico e scrittore Alfonso Perrotta ha dedicato il libro L’umano divenire. Nato a San Benedetto Ullano nel 1874, il padre era bracciante e la madre filatrice, De Luca si laurea in Giurisprudenza a Napoli.
    Dapprima anarchico, in seguito si iscrive al Psi, candidandosi alle Politiche del 1921. De Luca è anche fondatore delle logge massoniche paolane “Germinal” e “Giuseppe Garibaldi”.

    Alle prese coi fascisti

    Organizzatore delle lotte dei contadini e dei ferrovieri, l’avvocato è aggredito in più occasioni dai fascisti.
    È sorvegliato speciale di Polizia e dalla scheda del suo casellario si apprende che ha rapporti con Pietro Mancini.
    Nel 1941 è costretto a trasferirsi a Roma. Lì fonda il gruppo comunista Scintilla e, nel 1943, il Movimento Comunista d’Italia. È direttore del giornale Bandiera Rossa.

    Vivo per miracolo

    Per la sua propaganda antifascista è arrestato in seguito a una delazione e finisce a Regina Coeli. Il Tribunale militare tedesco lo condanna a morte nel gennaio del 1944. Sollecitato a firmare la domanda di grazia oppone un netto rifiuto.
    Evita comunque la fucilazione per l’intercessione di alcuni antifascisti che operano nel carcere. Esce di prigione all’indomani della liberazione di Roma.

    Palmiro Togliatti

    Partigiani sconosciuti

    In Bandiera Rossa di De Luca militano 1183 partigiani. Di questi, 186 muoibono in azioni di lotta (il numero è tre volte superiore a quello del Pci), e alcuni di loro sono “giustiziati” alle Fosse Ardeatine. Altri 137 finiscono nei campi di concentramento.
    Il loro resta un tributo forte alla Resistenza, ma non così “ufficiale” da essere menzionato nella storia “organica” della Liberazione.
    Alla fine della guerra molti di questi militanti chiedono la tessera del Pci. Al riguardo, si registra una singolarità: una domanda di iscrizione “collettiva”, cosa inusuale per il rigido statuto del partito.
    A De Luca invece, resta un’amarezza: la sua domanda è accolta dalla Federazione romana del Pci, ma subito dopo è rigettata dalla Direzione nazionale e da Palmiro Togliatti in persona.

    L’amarezza finale

    Molto probabilmente, questo rifiuto si collega alla militanza massonica e al “frazionismo” dell’avvocato paolano: due cose incompatibili nell’organizzazione monolitica del Pci. Umiliato da questo diniego, Raffaele de Luca, molla la politica. Muore il 6 aprile 1949.

    Alessandro Pagliaro

  • Solo tre operai nei dirigenti del PD al Sud: c’è il calabrese Wladimiro Parise

    Solo tre operai nei dirigenti del PD al Sud: c’è il calabrese Wladimiro Parise

    Wladimiro Parise è uno dei tre operai che fanno parte della classe dirigente del Partito democratico al Sud. Eugenio Marino (di Crotone), responsabile organizzazione dei democratici per il Sud e le isole lo ha scoperto dopo aver condotto uno studio in merito alla classe dirigente delle regioni meridionali.
    La notizia è a apparsa oggi sulla home page di Repubblica.it in un articolo a firma di Concetto Vecchio.
    Wladimiro Parise è stato segretario del Pd a Casali del Manco, più di diecimila persone a pochi chilometri da Cosenza. E, soprattutto, luogo simbolo della sinistra calabrese. Un territorio che ha espresso nomi del calibro di Fausto Gullo, costituente e “ministro dei contadini”. Qui il partigiano Cesare Curcio ha nascosto Pietro Ingrao e Rita Pisano è stata mai dimenticata sindaca comunista. Oggi anche questa ex roccaforte rossa è un po’ in crisi di identità.
    Si chiama Wladimiro perché il padre volle il nome di Lenin. Altri tempi, altre storie, altra politica. Quando le sezioni erano una scuola di partito per tutti: dalla classe operaia ai contadini, passando per gli intellettuali. Parise è uno di quelli che rompe la statistica di un partito che la geografia del voto individua nelle Ztl e composto in larga parte dal mondo delle professioni, avvocati in primis.
    Parise ha 50 anni, fa parte dell’assemblea regionale dei Dem ed è tra i membri della segreteria a Casali del manco. Uno che ha mangiato «pane e politica», dice a Repubblica.it.

  • Consiglio regionale, tre poltrone in attesa di giudizio

    Consiglio regionale, tre poltrone in attesa di giudizio

    All’inizio erano cinque, ora sono tre. Ma continuano a ballare.
    Sono le poltrone di Palazzo Campanella, tuttora oggetto di ricorsi giudiziari sulla base della stessa accusa: l’ineleggibilità dei titolari attuali durante le ultime elezioni che hanno portato all’attuale composizione del Consiglio regionale della Calabria. Parrebbe, suggeriscono i bene informati, che la Corte d’Appello di Catanzaro dovrebbe finire di decidere a brevissimo, forse in settimana, su questi duelli di Tribunale, iniziati tutti nella primavera del 2022 con risultati alterni.

    Dal Consiglio regionale a Roma: Loizzo lascia la Calabria

    Uno degli aspetti più eclatanti delle Regionali 2021 fu il “siluramento” del leghista cosentino Pietro Molinaro, che fece ricorso contro la ex capogruppo Simona Loizzo.
    Molinaro perse presso il Tribunale di Catanzaro lo scorso 9 marzo e, ovviamente, impugnò.
    Per fortuna sua, del suo partito e della sua collega, le Politiche dello scorso autunno si sono rivelate decisive: Simona Loizzo è diventata deputata e Molinaro le è subentrato in Consiglio regionale.
    Anche la Lega tira un sospiro di sollievo, visto che l’elezione della dentista cosentina ha fermato le diatribe interne al gruppo regionale.

    Simona Loizzo

    Fedele, l’unica perdente (finora…)

    L’azzurra Valeria Fedele risulta la più subissata (e danneggiata) dai ricorsi.
    Contro di lei si sono scatenati in Tribunale Antonello Talerico e Silvia Parente. E Talerico, difeso dagli avvocati Luisa e Anselmo Torchia e Jole Le Pera, l’ha spuntata in primo grado.
    Il Tribunale di Catanzaro ha ritenuto credibile con un’ordinanza la presunta ineleggibilità di Fedele, che al momento della campagna elettorale era direttrice generale della Provincia di Catanzaro e non si era dimessa.
    Il duello continua, perché la Fedele – già vicinissima a Mimmo Tallini e poi a Giuseppe Mangialavori – si è affidata a un esperto: l’avvocato cosentino Oreste Morcavallo, che si dice fiducioso per l’Appello.

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    Valeria Fedele

    Tutti contro Comito

    La Fedele non è l’unico bersaglio di Talerico e Parente. Il duo ha preso di mira anche l’attuale capogruppo azzurro Michele Comito.
    Comito è un pezzo grosso della Sanità vibonese: è, contemporaneamente direttore del Dipartimento emergenza-urgenza e accettazione e Direttore dell’Unità operativa complessa di Cardiologia-Utic dello “Jazzolino” di Vibo Valentia.
    Per lui il Tribunale di Catanzaro si è pronunciato con un’ordinanza a favore: Comito non è ineleggibile, sostengono i giudici, perché si era messo in aspettativa per tempo.
    Anche nel suo caso, si attende la sentenza d’Appello.

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    Michele Comito

    Faide azzurre e inciuci a Catanzaro

    Anche a livello regionale il centro della Calabria si rivela complessissimo, come se già non bastasse il caos delle ultime Amministrative di Catanzaro.
    Infatti, se il doppio appello di Talerico e Parente dovesse andare a segno, la mappa politica cambierebbe in maniera sensibile. Soprattutto, sarebbero due belle botte per Mangialavori.
    Infatti, Comito è vicino al coordinatore regionale azzurro ed è cognato dell’ex capogruppo regionale forzista e ora deputato Giovanni Arruzzolo.

    Antonello Talerico

    Il suo siluramento sarebbe una bella vendetta, innanzitutto per Talerico, in guerra con Mangialavori sin dalle ultime regionali e poi candidatosi a sindaco di Catanzaro dopo averne dette di tutti i colori.
    Dopo aver ricevuto il corteggiamento di Calenda, Tal         b v     vxerico si è sistemato in Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Con questa sigla, il dissidente forzista fa parte della maggioranza di centrosinistra che sostiene l’amministrazione di Nicola Fiorita a Catanzaro.
    Ma, oltre a Talerico, è approdato alla corte di Lupi anche Mimmo Tallini, che considera Mangialavori qualcosa di peggio del fumo negli occhi…

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    Silvia Parente

    Consiglio regionale: corsi e ricorsi in Calabria

    Giusto un dettaglio piccante per gli amanti delle curiosità: Silvia Parente è la figlia di Claudio Parente.
    Anche Parente padre non è un tifoso di Mangialavori: infatti, nel 2014 tentò contro di lui un ricorso elettorale che arrivò in Cassazione. E perse.
    Ora Silvia, prima dei non eletti, fa la stessa cosa. Quando si dice “corsi e ricorsi storici”…

    Giuseppe Mangialavori

    Gelardi salvo anche in Appello

    A nord della Calabria, le Politiche hanno evitato guai al Carroccio.
    Invece, nel Reggino la Corte d’Appello ha calato il sipario sul duello tra Stefano Princi, dipendente del Comune di Santo Stefano d’Aspromonte e già fedelissimo di Nino Spirlì, e l’attuale capogruppo leghista Giuseppe Gelardi.
    Quest’ultimo, difeso da Rosario Maria Infantino, aveva già ottenuto verdetto favorevole dal Tribunale lo scorso 9 marzo. Secondo i giudici di Catanzaro non costituiva motivo di ineleggibilità il fatto che Gelardi non si sia messo in aspettativa da dirigente scolastico.
    E Princi – difeso da Jole Le Pera, Anselmo Torchia e Maria Carmela Sgro – ha impugnato.
    Ma niente da fare: il secondo grado conferma Gelardi.

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    Giuseppe Gelardi continuerà a sedere nel Consiglio regionale della Calabria

    In Calabria è guerra tra grillini per il Consiglio regionale

    L’unico duello non di destra è quello interno al Movimento 5stelle, tra la ex capolista grillina della Calabria centrale Alessia Bausone e il consigliere regionale Francesco Afflitto, medico in forze presso l’Asp di Crotone.
    Bausone, difesa da Giovanni Cilurzo, ha perso il primo grado lo scorso 14 marzo e si prepara all’Appello contro Afflitto, difeso da Eugenio Vitale e Antonio Amato.

    Un po’ di suspense

    Le sentenze dovrebbero arrivare a breve e, forse, alla spicciolata: la Corte d’Appello non ha unificato i ricorsi, che comunque riguardano casi e situazioni ambientali diversi.
    L’eventuale vittoria dei ricorrenti si risolverebbe in un maxi rimpasto nei due gruppi della maggioranza, dove risulterebbero ridimensionati i leader regionali.
    Tutto questo al netto di altrettanto eventuali (e non improbabili) ulteriori ricorsi in Cassazione.
    Una cosa alla volta…

  • Comuni al verde, sanità in rosso: conti in Calabria, la Regione glissa

    Comuni al verde, sanità in rosso: conti in Calabria, la Regione glissa

    L’unica notizia uscita dal convegno Bilancio regionale 2021 e Corte dei Conti: quello che i calabresi non sanno, tenutosi a Villa Rendano lo scorso 20 gennaio, è che il Consiglio regionale non ha detto una parola.
    Ed è gravissimo: i rilievi pesanti fatti a dicembre dalla magistratura contabile meritavano più di una riflessione politica in Calabria.
    Vi ha provveduto, in parte, la Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che ha radunato attorno al classico tavolo un economista, Giuseppe Nicoletti, un veterano del sindacato, Roberto Castagna, e due sindaci, Stanislao Martire e Pietro Caracciolo, rispettivamente di Casali del Manco e Montalto Uffugo.
    Il tutto, sotto la moderazione del giornalista Antonlivio Perfetti.

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    Il tavolo dei relatori

    Corte dei Conti: la Calabria si confronta 

    Le affermazioni della Sezione regionale della Corte dei Conti sono piuttosto note.
    Ma l’analisi di Nicoletti mette a nudo i problemi con particolare crudezza, perché si basa sulla comparazione tra la Calabria e altre due regioni di media grandezza per rapporto abitanti-territorio: la Liguria e le Marche.
    In apparenza, i dati sembrano simili; tutte e tre le Regioni hanno difficoltà a riscuotere i tributi, e soffrono, inoltre, di forti vincoli ai bilanci, oscillanti in media sul 70%, dovuti alle spese sanitarie.
    Allora, dov’è l’inghippo?

    La povertà fa la differenza

    Quel che ci danneggia, prosegue Nicoletti, è la sostanziale povertà del sistema socio-economico: il reddito medio del calabrese (ci si riferisce solo ai contribuenti e non al “nero”) è di 13.837 euro annui, contro i 22.250 della Liguria e i 19.750 delle Marche.
    Quindi, non riuscire a recuperare un miliardo e mezzo sui sette e rotti di entrate tributarie accertate non è grave: è tragico.
    Soprattutto perché l’aspetto più debole è costituito dalle entrate “libere”, cioè utilizzabili senza vincoli, solo il 12%, dalla spesa per il finanziamento del debito sanitario, non ancora quantificato (155 milioni) e dall’emigrazione sanitaria (242 milioni). Manca poco all’asfissia.

    Le lacune del sindacato

    Roberto Castagna, il segretario generale dei pensionati della Uil, fa in parte un mea culpa: il sindacato è intervenuto tardi nel dibattito dopo aver latitato.
    Il che non è poco, in una Regione dove la tenuta sociale e il sistema dei diritti sono a forte rischio. E questo senza invocare il peso della criminalità organizzata.
    Si rende necessaria, a questo punto, una forte presenza delle sigle dei lavoratori, soprattutto nei settori “caldi”, dalla pubblica amministrazione alla Sanità, appunto.

    L’ira dei sindaci

    Sempre a proposito di Sanità, la provocazione più forte “volata” dal dibattito riguarda le frizioni campaniliste tra Catanzaro e Cosenza per il Corso di laurea in Medicina.
    La proposta, lanciata dal moderatore, di aprire un dibattito tra i rettori di Unical e Magna Graecia, ha punzecchiato a dovere i due sindaci.
    Parteciperemo senz’altro e in prima fila, affermano Martire e Caracciolo.
    La condizione finanziaria della Calabria pesa tantissimo sui Comuni, che restano spesso col classico cerino in mano.
    Così è per molte imposte, di cui sono i riscossori, così per i servizi.

    L’Università della Calabria

    Acqua e rifiuti

    I servizi idrici sono un punto dolente fortissimo, su cui Martire e Caracciolo hanno insistito tantissimo: con che risorse possiamo provvedere alla manutenzione della rete idrica se la maggior parte delle somme va alla società di gestione?
    Discorso simile per i rifiuti: i Comuni si accollano lo spazzamento e la gestione delle discariche. Per questo motivo l’ipotesi, avanzata da Roberto Occhiuto, di centralizzare a livello regionale la riscossione, più che perplessità desta allarmi. E via discorrendo.

    La grande malata: i conti della Sanità in Calabria

    Solo di recente la Calabria ha istituito i “tavoli” di confronto tra sindaci e Regione. E il coordinamento tardivo, ovviamente, non aiuta a lenire la situazione.
    Soprattutto se si pensa che i veri problemi sono altrove. E li rivela un acronimo sinistro: Lea, cioè livelli essenziali di assistenza, dove siamo gli ultimissimi, con un punteggio di 125 su un minimo di 160. Per la Sanità può bastare. O forse no: manca alla conta la quantificazione effettiva del debito. E i 500 milioni rilevati all’Asp di Reggio non fanno sperare bene.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Fondi europei e Calabria: i conti non tornano

    Altra nota dolente, i finanziamenti statali ed europei, che sono l’unica vera risorsa di cui disponiamo. La Calabria spende poco (circa 300 milioni l’anno) su un budget di 2 miliardi e rotti. Peggio ancora per le somme da recuperare per sospetta frode o irregolarità: 260 milioni.
    In una situazione così, i conti non bastano: occorrono gli scongiuri.

  • Regione che vai, stipendio che trovi: più soldi ai prof delle scuole, ma solo al Nord

    Regione che vai, stipendio che trovi: più soldi ai prof delle scuole, ma solo al Nord

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    Provate ad immaginare di essere un insegnante in un paesino della Locride, o della Sibaritide, magari una maestra in una scuola elementare che assieme alla caserma dei Carabinieri è il solo presidio dello Stato in un luogo di povertà educativa, sociale, materiale e dove i nomi di certe famiglie nemmeno si pensano e la parola ‘ndrangheta non viene pronunciata. Provate a pensarvi tutti i giorni su un qualche trenino che sembra uscito da un film ambientato nel Far west per arrivare in un’aula dove c’è ancora la vecchia lavagna con i gessetti e avere lo scopo di guidare per mano quei bambini verso una opportunità diversa.

    Valditara e gli stipendi a scuola: Nord vs Sud

    Quanto dovrebbe guadagnare quella maestra? Quale dovrebbe essere lo stipendio di quell’insegnante? Certo, nella Calabria profonda il costo della vita è significativamente più basso che a Milano o a Reggio Emilia, ma nemmeno il lavoro è uguale: è più difficile.
    La scuola in certi paesini calabresi è un fortino assediato e qualcuno deve andare a raccontarglielo al ministro Valditara che invece vorrebbe fare la differenza, in sottrazione, tra i docenti del Sud e quelli del Nord.

    Il ministro ha poi parzialmente rettificato, praticando un vecchio esercizio caro alla destra, quello di buttare il sasso e poi dire che si è equivocato. In realtà, a ben guardare la rettifica non smentisce l’idea di nuove gabbie salariali. Nell’interpretazione che ha fornito il ministro, il contratto nazionale – bontà sua – non si toccherebbe, ma le risorse per pagare meglio i prof del Nord potrebbero giungere dai privati, oppure dalle amministrazioni pubbliche, notoriamente più ricche di quelle meridionali.
    Insomma, la disuguaglianza retributiva, scacciata dalla porta, rientrerebbe dalla finestra lasciata apposta spalancata.

    Se questa è autonomia differenziata

    Si tratta, a ben guardare, di una delle forme dell’Autonomia differenziata, applicata di traverso alla scuola pubblica, da sempre luogo di conquista per la destra. E mentre si dibatte su quanto sia ingiusto, oppure opportuno, praticare la proposta del ministro, si elude il tema centrale: qual è il valore del lavoro di un prof? Quanto “costa” (per usare un concetto caro alla destra liberista) la trasmissione dei saperi? Quanto costa la riproduzione dei valori di democrazia, uguaglianza, libertà, soprattutto in quei contesti dove essi sono minacciati ogni giorno?
    Insomma, quanti soldi dovremmo dare a quella maestra che ogni giorno racconta ai suoi scolari, in un’aula della Calabria profonda, che davanti ai problemi «uscirne da soli è egoismo, farlo assieme è politica», cioè partecipazione e democrazia?

  • Pari opportunità: né partiti né colore… tranne in Calabria

    Pari opportunità: né partiti né colore… tranne in Calabria

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    Ci sono temi che non sono di destra o di sinistra, perché sono bisogni e diritti garantiti dalla Costituzione. Per esempio, la Sanità. Ci sono temi che non dovrebbero entrare nel maledetto spoils system, perché quello che i cittadini si aspettano dalla politica è che metta la persona giusta al posto giusto, e non il più fedele. Ci sono temi universali che toccano la pelle delle persone, che non dovrebbero mai essere oggetto di una contesa personale di coalizione, di corrente, di vicinato. Per esempio, le Pari Opportunità.

    Pari opportunità: il caso De Blasio

    E invece stavolta è successo, alla Regione Calabria, un grottesco incidente: Daniela De Blasio, nominata alla presidenza della Commissione, si è dimessa dopo 24 ore. Fattore scatenante, un comunicato di Fratelli d’Italia che rivendicava la carica. Motivo ufficiale e diplomatico, l’impegno della manager reggina – un lungo curriculum sui temi di genere, incarichi di rilievo nazionale, lo Sportello Donna – accanto alla vicepresidente Giuseppina Princi.

    La sede del Consiglio regionale della Calabria

    Un incidente di percorso per una Giunta che sta lavorando molto sul piano dell’immagine, sua e della Calabria. Ma questa vicenda è un case-history sul quale forse è il caso di fare un ragionamento. Sono vicende così che allontanano i cittadini dalla politica. Dove domina il gusto del parlare, dei comunicati ermetici e comprensibili solo agli addetti ai lavori.

    Le poltrone di Fratelli d’Italia

    Capita che il presidente del Consiglio regionale, il leghista Mancuso, faccia i complimenti a De Blasio per la nomina alle Pari opportunità, e che poi arrivi in tempo reale il comunicato polemico di Fratelli d’Italia. Che testualmente scrive: «Non siamo attaccati alle poltrone, però non possiamo rimanere impassibili». Tralasciando l’uso del termine “poltrona” e cioè il contrario di una concezione della politica al servizio del cittadino: anche in termini di comunicazione, sembra che la pari opportunità sia quella di dividersi le cariche, quindi l’uso di quel termine è un autogol.

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    De Blasio e Mancuso

    Io da cittadino avrei voluto sapere e capire perché la dottoressa De Blasio non va bene, e quali sono le idee dei partiti in un comparto così sensibile, dove la disoccupazione femminile è sopra il 30 per cento, a livelli peggiori rispetto a dieci anni fa. De Blasio ha preso 10 voti su 11 in Commissione, quindi una nomina bipartisan, assenti solo i due consiglieri di FdI. Una scelta con una sua logica e con un certo consenso.
    Invece, tanto tempo perduto, e una sfiducia nel Palazzo che cresce.