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  • Autonomia scolastica: a rischio il 25% degli istituti

    Autonomia scolastica: a rischio il 25% degli istituti

    L’arsenale di armi puntate contro le aree deboli del Paese, e quindi contro il Mezzogiorno e la Calabria, si arricchisce. Accanto all’autonomia differenziata e alle gabbie salariali applicate agli insegnanti, ecco la proposta per il “dimensionamento e la riorganizzazione” delle scuole, già licenziata dal Governo e attualmente all’esame della Conferenza Stato – Regioni.

    Calabria: a rischio il 25% delle scuole

    Secondo il piano, le istituzioni scolastiche dotate di autonomia passerebbero, su tutto il territorio nazionale, da 8.158 a 7.461: meno 697 unità. Ma da un esame più approfondito della tabella pubblicata dal Corriere della Sera emerge che le regioni più colpite dal provvedimento sarebbero la Sicilia, la Campania e, sul podio come spessissimo accade per le cose negative, la Calabria, rispettivamente con – 146, – 109, – 79.
    Nella parte medio – bassa della classifica si piazzano Lombardia e Piemonte (-20), Liguria (-18), Emilia Romagna (-15). Il dato percentuale è ancora più indicativo: nella nostra regione le scuole autonome sarebbero alla fine il 25 % in meno. Di gran lunga il dato relativo più alto di tutti!

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    Un’aula deserta

    La bassa demografia uccide le scuole in Calabria

    Se il piano non dovesse essere approvato dalla Conferenza, lo Stato eserciterà il potere sostitutivo: perderanno l’autonomia gli Istituti con meno di 900 alunni. Mentre alcune Regioni si accingono ad impugnare la decisione davanti alla Consulta, è il caso di farsi qualche domanda. Se è vero che tali scelte sono la conseguenza diretta del calo demografico, che colpisce le regioni del Sud e con particolari virulenza e drammaticità la nostra, altrettanto lampante risulta la correlazione tra calo della popolazione e riduzione dei servizi, specie nelle aree interne.

    Le Poste: un esempio in controtendenza

    Queste azioni perpetuano un circolo vizioso: il cane si morde la coda perché nessuno gli offre la soluzione per smettere. Come, ad esempio, sta tentando di fare Poste italiane, che con il progetto “Polis” punta a promuovere la coesione economica nelle aree interne del Paese e a realizzare un nuovo punto di aggregazione per le persone. Si potranno ottenere i passaporti utilizzando l’Ufficio postale e sbrigare lì le pratiche burocratiche per il rilascio della carta d’identità. Un’applicazione da manuale del principio di sussidiarietà. Delle aree interne e dei piccoli agglomerati urbani, della necessità di preservarli, rilanciarli, tutelarli, si è molto scritto e detto. Lo spopolamento di interi pezzi di territorio è una delle ragioni del degrado, dal punto di vista geo morfologico, sociale, economico, civile, della lotta alla criminalità comune e organizzata.

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    La presentazione del progetto Polis di Poste Italiane

    La parola agli esperti

    Nel momento in cui si fanno scelte penalizzanti, come questa, si dà un segnale di assoluta incoerenza tra il predicato e il praticato. Salvo poi stracciarsi le vesti quando, anche a causa della mancata presenza dell’uomo, la nostra terra viene squassata, ad esempio, da incendi, alluvioni, immani fenomeni franosi. Abbiamo voluto coinvolgere nell’esame degli argomenti trattati in questo articolo il professor Vittorio Daniele, docente di Politica economica dell’Università di Catanzaro, e il professor Vito Teti, docente di Antropologia culturale dell’UniCal.

    Daniele: a furia di tagliare si fa il deserto

    «Il dimensionamento delle istituzioni scolastiche – esordisce il prof Daniele – riduce dirigenti e personale di segreteria. Il criterio è contrarre la spesa riorganizzando la rete degli istituti e il Sud ne è particolarmente colpito».

    Alla base della scelta vi è un fatto oggettivo: «La riduzione del numero di alunni dovuta alla bassa natalità, aggravata nel Mezzogiorno dall’emigrazione che riguarda in particolare i centri interni. La Calabria è la regione col più elevato tasso migratorio verso il Nord del Paese». Questa profonda modificazione demografica «porta allo spopolamento dei comuni interni. Nella logica della razionalizzazione economica, esso si accompagna con la riorganizzazione dei servizi pubblici nel territorio: la chiusura, cioè, di uffici postali, reparti ospedalieri, scuole, sedi di tribunali e, per la stessa logica, sportelli bancari: desertificazione demografica ed economica».

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    L’economista Vittorio Daniele

    Un circolo vizioso

    E, invece di invertire la rotta, si continua a percorrere una strada che, oggettivamente, porta ad un inasprimento del problema. «La chiusura dei servizi – continua Daniele – alimenta il processo perché riduce i posti di lavoro diretti e indotti che essi creano nel fragile tessuto economico di quei centri e, privando quei luoghi di servizi, spinge i residenti, soprattutto i più giovani, a spostarsi altrove. La necessità di ridurre la spesa pubblica, considerata dal lato dei costi ma non dei benefici complessivi per la popolazione, peggiora i problemi sociali ed economici di molti territori già economicamente marginali. Non può essere solo la logica ragionieristica dei costi a guidare l’azione pubblica». La politica pubblica deve porsi l’obiettivo, più generale, del «benessere della popolazione e la creazione di condizioni di effettiva uguaglianza».

    Teti: giù le mani dalle scuole in Calabria

    Il progetto di accorpamento scolastico, se portato a compimento, «causerà – secondo l’antropologo Vito Teti – difficoltà e disagi a ragazzi, studenti, cittadini, famiglie. Esso è ingiusto e contiene possibili profili di incostituzionalità perché comporterebbe una restrizione dei diritti in alcune aree del Paese». Verrebbero penalizzati i cittadini che vi abitano e che già hanno problemi di lavoro, di trasporti, di assenza o carenza di vie di comunicazione, di insufficienza dei servizi sanitari.

    Fuga dalla Calabria senza servizi e scuole

    «Essi – sostiene Teti – sono privati di qualcosa di essenziale per la vita dei centri abitati di piccole dimensioni. Rendere più difficile l’accesso all’istruzione scoraggia la tensione al miglioramento e restringe l’area dei diritti». La questione delle aree interne non è però limitata a quelle calabresi. «Investe tutto l’Appennino e le Alpi».

    Non finisce qui. Infatti, continua l’antropologo originario di San Nicola da Crissa, in provincia di Vibo: «La Calabria ha perso circa 100mila abitanti nell’ultimo anno. A questo fenomeno epocale non viene data però la giusta rilevanza. Interi paesi, entro 10 o 20 anni, moriranno. Un danno per questi e per quelli delle coste, e anche per i centri urbani più grandi». Non è solo una questione culturale e demografica. «I paesi interni – spiega Teti – sono anche dei presidi ecologici: non devono destare meraviglia fenomeni estremi e disastrosi come quelli di Soverato o di Crotone, o i continui e micidiali movimenti franosi o gli incendi che distruggono interi boschi».

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    L’antropologo Vito Teti

    Ci salverà il paesaggio?

    «Bisogna investire sulla tutela del territorio, sui boschi, sulla pietra. Il paesaggio dovrebbe costituire, se opportunamente popolato e quindi manutenuto, una risorsa, non un problema. In questa direzione ho suggerito provocatoriamente anni fa che ogni paese dovrebbe avere un piccolo museo per raccogliere la memoria e le speranze dei suoi abitanti e per fungere da luogo di cultura e di aggregazione: per guardare la partita, giocare a carte, presentare libri. Se si chiude tutto, nessuno vorrà restare o tornare in un posto invivibile per l’assenza di ogni servizio alla persona e alla collettività».

    La lotta ai terremoti crea lavoro

    Cosa si può e si deve fare, allora? «Non ci si può illudere  – commenta Teti – di risolvere il problema in 5 o 10 anni. Bisogna pensare a un progetto per creare posti di lavoro allettanti, utili, uno stimolo per i giovani a rimanere e, nel contempo, creatori di realtà dove essi abbiano voglia di rimanere. Occorre avviare un’opera di risanamento e quindi di tutela del paesaggio e dei centri storici. La Calabria è zona sismica, nella quale mettere in sicurezza edifici pubblici abitazioni private creerebbe lavoro produttivo, non assistenza, utilizzando manodopera locale e risorse materiali locali come legno e pietra. La nostra regione ha un’evidente vocazione turistica, ma se si svuota chi accoglierà i turisti?».

    Reggio devastata dal terremoto del 1908

    Intanto «la scelta ecologica è fondamentale, soprattutto se messa in relazione con la crisi climatica. La Calabria, nonostante scempi ed errori, ha tanto, e non ha bisogno di ulteriore cemento. È necessario tornare alla terra, certo non in forme e modalità arcaiche; valorizzare i prodotti tipici, che non solo non vengono valorizzati ma neanche coltivati. Prodotti provenienti da altre parti del mondo vengono spacciati per locali. Abbiamo il mare, la montagna, la collina, e i relativi frutti». Si tratta di un unicum nel Mediterraneo, non solo in Italia».

    Storia di chi (non) torna

    «All’inizio vi è stata l’impressione che molti volessero tornare. Ma chi è rientrato a lavorare da remoto ha trovato difficoltà a rimanere in posti che offrivano poco o nulla a livello di servizi. Il lavoro a distanza va calato in una comunità complessivamente funzionante, dove ci sono negozi, luoghi di ritrovo, servizi pubblici e privati. Non si possono chiedere atti di eroismo alle persone, cioè tornare in luoghi invivibili. Se chi viene rimane deluso non lo farà più definitivamente, e la fiammella della speranza si spegnerà.

    E i musei come quello del mare a Reggio? Teti risponde: «Non conosco il progetto di Reggio. In linea di massima i musei sono un’ottima opportunità, ma se hanno certe caratteristiche. Ho proposto un museo per ogni paese. Musei che raccontino la storia e la memoria della collettività, che attivino forme di socialità e collaborazione culturale. La domanda da porsi è: quanti posti di lavoro crea una realizzazione? Se ne consegue la possibilità di rimanere per chi lo vuole, va bene. Ovviamente per chi vuole, non per chi desidera andare via ritenendo di poter migliorarsi altrove».

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    Il progetto del Museo del mare di Reggio Calabria

    Scuole e non solo: rimedi peggio del male

    Cosa resta da fare? «Da 40 anni – argomenta Teti – parlo di museo dell’identità calabrese e di contrasto allo spopolamento. Nessuno dava importanza a questi temi, a queste proposte. Ora che i buoi sono scappati si tenta di rimediare con risposte sbagliate o, come abbiamo visto, con provvedimenti peggiorativi. Abbiamo 800 km di costa. La crisi climatica può comportare grandi problemi, e già l’innalzamento del livello del mare ha generato spese enormi per la protezione delle vie di comunicazione e degli abitati costieri. Nonostante ciò, essa viene vissuta come una cosa lontana, che non ci riguarda. Se non si ha la consapevolezza necessaria, tutti i problemi sono irrisolvibili».

    Questa la conclusione di Vito Teti, implicitamente rivolta a tutti, ai cittadini come ai decisori pubblici. La Calabria era “sfasciume pendulo sul mare”, secondo Giustino Fortunato. Nel futuro, se non s’inverte il trend, diventerà «sfasciume deserto pendulo sul mare».

  • Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Un intero castello svevo in affitto a meno di 500 euro al mese può sembrare roba da Totò Truffa ’62, eppure a Cosenza potrebbe andare davvero così. A Palazzo dei Bruzi, infatti, hanno deciso di cercare nuovi inquilini per il maniero ultrasecolare che domina la città dall’alto di colle Pancrazio. E il prezzo richiesto pare proprio di quelli da non lasciarsi sfuggire.

    Castello Svevo: quante polemiche a Cosenza

    La storia recente del Castello Svevo di Cosenza è costellata di polemiche. Dopo un periodo – erano gli anni ’90 del secolo scorso – in cui si alternano matrimoni a iniziative pubbliche, la struttura resta a lungo abbandonata a se stessa. I ragazzini si intrufolano arrampicandosi lungo una delle torri, a proprio rischio e pericolo, alla ricerca tra le cadenti mura secolari di un riparo da occhi indiscreti. Si va avanti così a lungo, finché – sindaco Salvatore Perugini – il Comune decide di restaurare quello che resta il più importante monumento cittadino insieme al Duomo.

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    Una delle sale del Castello dopo ill restauro

    I lavori cominciano poco prima della fine del mandato del primo cittadino, nel 2008, ma per vederli completati tocca attendere parecchio. L’inaugurazione risale infatti al 2015, col nuovo sindaco Mario Occhiuto. A caratterizzarla, tanto entusiasmo e le immancabili lamentele. Fanno discutere gli infissi metallici utilizzati per le finestre del castello, ultramoderni rispetto alle mura circostanti. Poi, al ricordo degli osceni innesti in cemento armato realizzati negli anni ’80, di infissi non si parla quasi più.

    Il mostro sulla collina

    A tenere banco resta l’abominevole ascensore giallo paglierino realizzato su uno dei lati del cortile interno. Difficile immaginare qualcosa di più antiestetico in un contesto simile, tanto più alla luce delle giustificazioni date all’esplodere delle polemiche sull’impianto elevatore. Secondo il Comune, l’ascensore garantirebbe alle persone con disabilità motorie l’accesso ai piani superiori dell’edificio. Peccato che il tragitto da percorrere per raggiungere l’impianto sia impraticabile per qualcuno in sedia a rotelle. Hanno promesso di modificarlo, ipotizzato di abbatterlo, ma l’ascensore resta lì, come un esame proctologico a storia e panorama.

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    L’ascensore del Castello Svevo visto dall’esterno

    Neanche mille euro al mese

    Alle diatribe architettoniche i giornali di Cosenza aggiungono presto quelle sulla concessione del Castello Svevo. A occuparsi di valorizzare l’immobile dopo il restauro saranno, infatti, tre privati, dopo che la Regione ha messo a gara, cofinanziandola, la gestione della struttura. La Cittadella mette il 60%, circa 175mila euro; altri 155mila li sborsa la Svevo Srl, la società creata dagli imprenditori Sergio Aiello, Pietro Pietramala e Gianpaolo Calabrese per partecipare al bando regionale.
    Per i tre, poi, c’è il canone da versare al Comune di Cosenza, proprietario del Castello Svevo da fine ‘800, per i successivi cinque anni (e ulteriori, eventuali, due in caso di proroghe). Ammonta a circa 960 euro al mese.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Un intero castello normanno svevo, già dimora dello stupor mundi Federico II, “in affitto” al prezzo di un magazzino in un quartiere popolare di Cosenza non può passare sotto silenzio. Tanto più se a riscuotere l’affitto è un ente indebitato fino al collo. L’accordo sembra a molti fin troppo vantaggioso per la Svevo. Questa, in pratica, versa il canone (e paga le bollette) solo per «l’utilizzo degli spazi posti al piano terra ed al primo piano dell’immobile denominato “Castello Normanno Svevo”, per mq 227,22».

    Castello: gli obblighi della Svevo e quelli del Comune di Cosenza

    Il resto (enorme) resta a carico dello stesso municipio che lo ha fatto andare in malora nei decenni precedenti. E che ora, da contratto, dovrebbe pure scontare dal canone i costi per sorveglianza e pulizia degli altri spazi, apertura e chiusura, guardaroba, personale, attività promozionale in occasione di eventuali iniziative organizzate o autorizzate dal Comune stesso. Gli incassi, invece, vanno tutti alla Svevo, che gestisce le visite e organizza parecchie iniziative con biglietti che vanno dai 2 euro del ridotto per minorenni ai 20 per gli spettacoli teatrali o i concerti. E per i soliti 960 euro ha diritto, sulla carta, ad avere gratis anche la Villa Vecchia e il Cinema Italia qualora voglia organizzare qualcosa anche lì.

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    Il cinema Italia-Tieri

    Sembra un affare, eppure si scopre che di quattrini in municipio ne arrivano ben pochi. Se ne accorge… Gianpaolo Calabrese, che nel frattempo ha lasciato la società con Aiello e Pietramala per accomodarsi sulla poltrona da dirigente del Settore Cultura proprio a Palazzo dei Bruzi. Anche la (si suppone, non troppo difficile) scoperta di Calabrese interessa i cosentini per poco però. Il chiacchiericcio si concentra sulle sue illustri parentele – è nipote del Procuratore capo della città – e quanto abbiano influito sull’incarico ottenuto, più che altro. Del castello svevo si parla soprattutto per mostre, sfilate, concerti e festival, salvo sporadiche diatribe sui social in occasione di eventi con degustazioni enogastronomiche che gli accordi col Comune di Cosenza parrebbero invece vietare.

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    Una degustazione all’interno del Castello

    Un accordo per estinguere il debito

    Nonostante la Svevo presenti un malloppo di fatture da scomputare dal canone che supera di poco i 160mila euro, l’equivalente di 14 anni e mezzo di canone, Palazzo dei Bruzi batte ancora cassa agli “inquilini morosi” però. Si arriva così, con l’attuale amministrazione, a un nuovo accordo: la Svevo, che avrebbe dovuto lasciare a giugno 2022, gestirà ancora il castello fino a marzo 2023; in cambio verserà al municipio 14.400 euro di arretrati, l’equivalente di una quindicina di mensilità.

    Con marzo ormai alle porte, però, è tempo di trovare un nuovo gestore per il maniero tornato a nuova vita dopo il restauro. Così il Comune si è messo ufficialmente alla ricerca di un nuovo concessionario. Sebbene il municipio continui a non navigare nell’oro, questa volta rischia di incassare ogni mese ancora meno di quello che si prevedeva pagasse il vecchio gestore. La base (al rialzo) da cui si partirà per le offerte è meno della metà della cifra stabilita all’epoca per la Svevo. Se prima il canone annuo era di 11.523,60 adesso «l’importo a base di rialzo è il seguente: euro 5.000,00 (tremila,00)» (sic). La concessione, invece, dura sei anni.

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    I Bocs Art all’epoca in cui venivano ancora utilizzati come residenze artistiche temporanee

    Cosenza, punto e a capo: il castello svevo a metà prezzo

    C’è di nuovo che stavolta bollette e pulizie (anche degli spazi esterni) toccherà pagarle a chi si aggiudicherà la gestione della struttura. E niente Villa Vecchia o Cinema Italia per il vincitore: in compenso, potrà realizzare «almeno due eventi annuali, dalla durata di due giorni l’uno» ai Bocs Art sul Lungofiume, oggi moribondi a pochi anni dalla loro nascita. Basterà tenere aperto il castello almeno 250 giorni l’anno per un minimo di 6 ore al giorno e blindare l’accordo col Comune, in caso di vittoria, con una fideiussione pari al 10% dell’importo contrattuale. Che, salvo poco probabili rialzi monstre dei contendenti, potrebbe essere pari a poche centinaia di euro al mese. E poi dicono che i prezzi degli immobili sono alle stelle…

  • Vincenzo Morello, il giornalista senatore

    Vincenzo Morello, il giornalista senatore

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    Nella Bagnara del 1860, splendida come poteva essere allora, nasce Vincenzo Morello, unico maschio in una ricca famiglia di commercianti. Rampollo baciato già solo per questo dalla fortuna, non evita tuttavia gli studi. Finisce così dapprima al Collegio Donati di Messina, poi – percorso classico per quei tempi – a Napoli per laurearsi in Giurisprudenza. In verità, però, a Morello – avvocato tanto a Napoli quanto in Calabria – il diritto interessa ben poco, mentre è molto più attratto dal giornalismo.

    Rastignac, D’Annunzio e signora

    Nel 1881 fonda a Pisa la rivista Il Marchese Colombi e nel 1887 diventa collaboratore fisso del quotidiano La Tribuna. È tra queste colonne che incomincia ad utilizzare lo pseudonimo Rastignac, ispirato all’Eugène de Rastignac ideato dalla penna di Balzac.
    Lo definiscono «articolista principe del giornalismo italiano» e il suo nome comincia a svettare: è amico di Gabriele D’Annunzio e con lui condivide un profondo scetticismo nei riguardi della politica giolittiana e del parlamentarismo, inteso come «grande scuola di delinquenza nazionale». A dire il vero, con D’Annunzio condivide anche altro, ovvero l’amore per la stessa donna: quella Maria Hardouin di Gallese, moglie del Vate, la quale si toglierà la vita nel 1890.

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    Maria Hardouin di Gallese, moglie di D’Annunzio e amante di Morello

    Vincenzo Morello e il giornalismo

    Morello si lancia totalmente nel giornalismo e diventa redattore del Piccolo, su invito del direttore Rocco de Zerbi, dove intraprende una polemica contro il repubblicano Giovanni Bovio. È così feroce da procurargli in realtà una collaborazione ancora più prestigiosa, ovvero quella con Il Corriere di Roma, guidato all’epoca dalla vulcanica coppia Matilde SeraoEdoardo Scarfoglio, che di Morello fu in qualche modo il mentore.
    Sulle orme della vecchia Tribuna, nel 1890 fonda – assieme a Giulio Aristide Sartorio – la più celebre e popolare Tribuna Illustrata, il primo periodico illustrato italiano.
    Infine, nel 1894 (stesso anno in cui pubblica il volume Politica e bancarotta) fonda Il Giornale, assieme a Bobbi e Bellodi, posizionandolo politicamente intorno alle figure di Zanardelli e Crispi.

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    Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao

    Trombato alle elezioni

    Allora come oggi, raggiunte le vette del giornalismo niente è più semplice che fare anche politica. Nel 1895 Morello si candida alle elezioni per la XIX legislatura nel collegio di Bagnara, ma lo sconfigge il notabile locale Antonino De Leo. Questi – dicono le biografie – «alla forza delle idee aveva anteposto il potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo: accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che scavò una distanza insanabile con la sua città natale».

    L’Ora… di tornare al Sud

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    Torna dunque al giornalismo, pur continuando a sostenere Crispi e a opporre Giolitti. Stavolta nelle vesti di primo direttore del nuovo quotidiano palermitano L’Ora, che si presenta come giornale di opposizione al regime autoritario del generale Pelloux. A chiamarlo per tale ruolo, nel 1900, è l’industriale Ignazio Florio in persona. Qui Morello fa confluire le più note penne del giornalismo italiano e riesce a far diventare L’Ora un giornale moderno, capace di competere con i più grandi quotidiani nazionali.

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    Ignazio Florio junior

    Il ritorno in politica di Vincenzo Morello

    Ma Morello fu anche poeta, drammaturgo e critico teatrale. Se nel 1881 aveva pubblicato a Napoli le sue Strofe, più avanti dava alle stampe anche i volumi Leggendo (1886), Nell’arte e nella vita (1900), L’albero del male (1914), Il roveto ardente (1926), Dante, Farinata, Cavalcanti: lettura nella Casa di Dante in Roma (1927) e Germinal, in quel 1909 in cui comincia a dirigere le Cronache letterarie di Firenze.

    E poi ritenta la via politica: si avvicina così alle prime posizioni fasciste e nel 1923 viene nominato senatore nella XXVI legislatura del Regno, per la 20ª categoria: coloro che con servizi o meriti illustrano la Patria. Nel caso specifico, come «solenne riconoscimento delle singolarissime qualità dello scrittore e, più ancora, dell’opera da lui svolta, durante trent’anni di strenua attività nella stampa quotidiana, per la rivendicazione delle più alte idealità italiane».

    Troppo laico per la camicia nera

    Molto vicino al Duce, nella cui politica vede realizzate le proprie aspettative, Morello scrive sul mussoliniano Gerarchia. Il 16 dicembre 1925 lo nominano commissario della Società Italiana degli Autori ed Editori, di cui diventa presidente per il biennio 1928-1929. Dal 1926 è direttore del quotidiano milanese Il Secolo.

    Benché avesse osteggiato per una vita intera il parlamentarismo e benché fosse stato anche ben poco partecipe in Senato, Vincenzo Morello era ispirato da forti sentimenti patriottici. Intorno alla questione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica pubblica nel 1932 il volume Il Conflitto dopo la Conciliazione, nel quale condanna le concessioni concordatarie alla politica ecclesiale. Coerentemente al proprio spirito anticlericale e ai propri trascorsi massonici, aveva infatti dato le dimissioni dal Partito Nazionale Fascista già nel 1930, proprio all’indomani del Concordato e delle scelte del regime in materia di istruzione, matrimonio e proprietà.

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    Benito Mussolini, e il cardinale Pietro Gasparri al momento della firma del Concordato

    Essendo egli scettico in merito alla propria eventuale iscrizione all’Unione nazionale Fascista del Senato, i senatori De Vecchi e Vicini, per conto del Direttorio, lo invitavano ancora nel 1932 a partecipare alla successiva seduta di Palazzo Madama con la camicia nera d’ordinanza. Invano.

     

  • Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe poi l’abbandono. E nessuna soluzione in vista per il castello di Amantea, un rudere maestoso che domina la collina a strapiombo sul mare.
    Il castello e la torre – o meglio, i resti di entrambi – sono solo una parte, la più vistosa, di un problema più ampio: il pianoro su cui sorge l’antica roccaforte, circa 36mila metri quadri di terreno agricolo.
    L’insieme è un’unica proprietà privata, divisa tra tre eredi: Giuseppe, Giovanni e Giacinto Folino, che ne hanno quote diseguali.
    Dov’è il problema?

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    Il rudere della torre sullo sfondo del mare

    I problemi del castello di Amantea

    Ricapitoliamo: una grossa proprietà limitata da due vincoli pesanti. Il primo è la sua natura agricola, che consente un’edificabilità molto limitata.
    Il secondo è dovuto alla presenza dei ruderi, che ovviamente sono classificati come beni d’interesse storico-culturale.
    Mantenere questo popò di roba senza metterla a frutto è un problema per chiunque.
    A tacere dei costi di manutenzione, effettuata poco o nulla nell’ultimo ventennio e non per responsabilità dei proprietari. Cosa si aspetta ad acquisirla nel patrimonio pubblico?
    Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, un po’ di storia.

    Il castello e l’assedio di Amantea

    Il castello è legato a una vicenda storica importante: l’eroica resistenza dei manteoti, guidati dal capitano Rodolfo (o, secondo alcune fonti, Ridolfo) Mirabelli, alle truppe napoleoniche.
    L’assedio dura poco più di un anno tra alterne vicende.
    Alla fine i francesi, comandati dal generale Jean Reynier, espugnano il castello in maniera spettacolare.
    Dapprima, a fine gennaio 1807, bombardano a tappeto le mura e la cittadella interna con due cannoni pesanti e un obice, posizionati nelle colline circostanti.
    Poi, il 5 febbraio, arriva il colpo di grazia: una mina da 1.900 libbre (633 kg) di polvere da sparo esplode sotto una parete del castello, che crolla. A questo punto, chi può scappa e Mirabelli tratta con gli assedianti. Amantea capitola due giorni dopo. Tuttora la zona di questa prima breccia si chiama ‘a Mina.

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    I resti delle mura difensive

    Un lungo declino

    Tutto questo spiega perché il castello è un rudere. Ma non aiuta a capire come mai sia finito in mani private.
    Il motivo è semplice: già c’era. Infatti, i terreni protetti dalla rocca sono in origine proprietà, in larga parte, dei Frati Minimi che li coltivano addirittura a grano.
    Le successive espropriazioni favoriscono il passaggio di mano in mano del pianoro, ruderi inclusi, fino alla famiglia Folino. Ed eccoci di nuovo al XXI secolo.

    L’esproprio infelice del castello di Amantea

    Il primo che prova a espropriare è Franco La Rupa. Il votatissimo (e poi discusso e infine plurinquisito) ex sindaco di Amantea, ordina l’occupazione dell’area del castello il due ottobre del 2000.
    Per il Comune, l’occupazione è il primo step di un processo più complesso, che dovrebbe finire con l’espropriazione, per realizzare il rifacimento del centro storico della cittadina. Peccato solo che la procedura non sia a prova di bomba.
    Infatti, la famiglia Folino impugna il provvedimento e stravince.
    La prima volta al Tar di Catanzaro, nel 2001, e la seconda al Consiglio di Stato, nel 2006.
    Dalla duplice vittoria emerge un dato: il Comune ha occupato illegittimamente una proprietà privata.

    Il rudere della torre in primo piano

    Il duro negoziato

    Questa vittoria non comporta l’automatica restituzione del bene.
    L’era La Rupa è finita. Al suo posto c’è Franco Tonnara, che tenta un negoziato con la proprietà attraverso il proprio assessore ai Lavori pubblici: Sante Mazzei, che tra l’altro conosce bene il problema, perché è stato sindaco poco prima di La Rupa.
    Il Comune propone non l’acquisto, bensì l’acquisizione del castello ai proprietari.
    La differenza tra questi due concetti non è proprio leggera: l’acquisto è una normale compravendita, l’acquisizione, invece, è un esproprio soft. In parole povere: il Comune prende il bene con un decreto, ma lo paga secondo una stima effettuata da uno o più esperti.
    L’esperto ingaggiato dal municipio è Gabrio Celani, che valuta tutto. Ma, pare, in maniera insoddisfacente per i proprietari.

    Riprende il duello sul castello

    A questo punto, la faccenda, già non semplice di suo, si complica di brutto.
    Innanzitutto, per le vicissitudini politiche della giunta Tonnara, che subisce un commissariamento per mafia e torna in carica dopo un lungo duello giudiziario. Il quale, tuttavia, non serve granché: gravemente malato, il sindaco muore e si torna a una gestione provvisoria.
    Anche l’aspetto giuridico non è da meno, perché i Folino propongono un compromesso: il Comune acquisisca pure, loro faranno un ricorso solo per il prezzo.
    Ma anche quest’ipotesi salta.

    Le erbacce infestano il pianoro del castello

    La vittoria inutile

    Si arriva al 2021, un anno decisivo nella storia contemporanea del castello. Il 10 marzo 2021, la famiglia Folino, difesa dall’avvocato Stanislao De Santis, ottiene la sua terza vittoria contro il Comune, difeso dall’avvocato Gregorio Barba.
    Stavolta il Tribunale amministrativo mette nero su bianco che l’occupazione iniziata nel 2000 è illegittima.
    E mette il municipio con le spalle al muro: o acquisisce il bene oppure lo restituisce e paga i danni, che verranno quantizzati dal giudice, e i canoni, stimati nel 5% del valore commerciale del pianoro, del castello e della torre. Il risarcimento non si annuncia leggero, perché il valore commerciale non è piccolo.
    Nel frattempo, il rudere perde qualche pezzo e il terreno stesso denuncia un immediato bisogno di manutenzione. Che però i proprietari non possono assicurare, perché il bene risulta tuttora occupato.

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    Altri resti del bastione

    I nuovi negoziati

    I bene informati riferiscono di una ripresa dei contatti tra i proprietari e il Comune, che nel frattempo è uscito dal recente commissariamento per mafia ed è amministrato da Vincenzo Pellegrino, eletto lo scorso giugno.
    Non si sa a che punto sia l’abboccamento. Quel che è certo è che c’è un bene di grande valore culturale che dev’essere messo in sicurezza e – magari attraverso un restauro conservativo – potrebbe essere messo a frutto e restituito alla comunità.
    Certo, la situazione finanziaria di Amantea non è florida e i problemi politici sono all’ordine del giorno, come dimostra il recente tentativo di “secessione” di Campora, la frazione ricca e popolosa che confina con Falerna. Ma si apprende pure che i proprietari sarebbero disposti ad accontentarsi.
    La parola, a questo punto, dovrebbe passare al buonsenso.

    (Le foto dei ruderi del castello sono opera di Giuliano Guido. Le pubblichiamo su sua gentile concessione)

  • Simona Loizzo e quel dono ai bimbi mai nati

    Simona Loizzo e quel dono ai bimbi mai nati

    Un pensiero gentile per iniziare, e non perché chi lo ha avuto è stata seguace dei Gentile: la riqualificazione a proprie spese dell’ala del Cimitero di Colle Mussano destinata a bimbi non nati.
    È l’ultima notizia, in ordine cronologico, che riguarda Simona Loizzo.simona-loizzo-bambini-mai-nati-dono-loro-cimitero

    I bambini mai nati 

    Non buttiamola in politica, perché alla fine dei conti non l’ha fatto Loizzo, la quale si è limitata a una proposta via pec al Comune. Che ha approvato.
    Eppure, a prescindere da tante polemiche esplose un po’ dappertutto, resta un dato: il regolamento di polizia mortuaria prevede l’istituzione di aree per la sepoltura dei feti e di sicuro non è bello che quella del Cimitero di Cosenza sia non curata a dovere.
    Niente pubblicità né comunicati stampa roboanti, ma solo una testimonianza: la delibera pubblicata sull’albo pretorio del Comune.

    La carriera a zig zag di Simona Loizzo

    Simona Loizzo ha avuto una parabola politica curiosa: emerge alle cronache come responsabile provinciale del Pdl lo scorso decennio.
    E poi sembra inabissarsi con la creatura di Berlusconi.
    Torna alle cronache a inizio 2021 in seguito alla tragica morte del marito.
    Questa visibilità la rimette al centro dell’arena politica. Tant’è che nel totosindaci per le ultime Comunali, che inaugurano il dopo Occhiuto, spunta il nome dell’odontoiatra cosentina. Col relativo corredo di dietrologie.

    Simona Loizzo con Matteo Salvini

    Loizzo: un cognome che pesa

    Dirigente dell’Unità operativa complessa di Odontoiatria presso l’Annunziata di Cosenza, Loizzo ha una lunga storia, anche alle spalle.
    Ci si riferisce alla tradizione familiare: Simona è figlia di Bruno Loizzo, storico primario di Pediatria nel medesimo ospedale, e nipote di Ettore, big della massoneria non solo calabrese. Inutile ripercorrere le tappe della militanza massonica dello scomparso gran maestro aggiunto del Goi, tra l’altro rimbalzata abbondantemente su tutte le cronache dell’epoca.
    Però il fardello del cognome, che evoca sanità e politica, c’è e pesa. Soprattutto nel caso della Loizzo, che le fa entrambe.

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    Ettore Loizzo, ex gran maestro aggiunto del Goi

    La meteora

    Si può comparire e scomparire. E viceversa, come le meteore o le comete che seguono orbite tutte loro.
    Quella di Simona Loizzo è tutta particolare e fatta di numeri importanti e inaspettati.
    Nel 2021 non si candida a sindaca, forse anche perché nel centrodestra la lotta per Cosenza è considerata non proprio vincente.
    Ma performa lo stesso, grazie a scelte intelligenti: aderisce alla Lega di Salvini e ne tampona la perdita di voti con una  buona performance elettorale.
    Con le sue 5.360 preferenze diventa capogruppo dei salviniani a Palazzo Campanella. In più gestisce direttamente la lista della Lega alle Amministrative di Cosenza, che prende 1.500 voti.
    La prova delle urne è forte.

    Simona Loizzo alla Camera

    In nove mesi si fa un bambino. Nello stesso arco di tempo, Loizzo bissa e si candida alla Camera, dove entra sulla scia del successo del centrodestra.
    La permanenza della Loizzo a Palazzo Campanella si svolge tra qualche polemica ed è segnata da un’iniziativa forte: è suo il disegno di legge regionale per la città unica di Cosenza, su cui si dibatte in questo periodo.
    Da deputata, invece, si è mossa a tutto campo: ha promosso l’istituzione di un gruppo inteparlamentare per la Sanità digitale e una Commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid. In più è autrice di un ddl per inserire la Magna Grecia nel patrimonio dell’Unesco. Difficile dire se sia vera gloria, ma quantomeno è proattiva.

    Simona Loizzo durante il dibattito sulla città unica

    Il camposanto

    Il problema dei bambini mai nati potrebbe non essere il primo né l’unico del Cimitero di Colle Mussano.
    Il burocratese delle varie regolamentazioni di solito è crudo: non si parla di feti ma di “prodotti abortivi” e, solo nel caso dei parti, di “nati morti”.
    Comunque sia, nulla può giustificare la trascuratezza nei confronti di un’area la cui presenza è un atto di pietà che ha uno scopo minimo: dare dignità ai piccoli resti per distinguerli dai rifiuti ospedalieri.
    Una donazione privata per la riqualifica di quest’area, tra l’altro effettuata con molta riservatezza, resta meritoria. A prescindere da chi la faccia.

    Per concludere una riflessione: Simona Loizzo ha raggiunto la massima visibilità. Ci sarà un riflusso, magari dovuto ai malumori suscitati in Calabria dal ddl sull’autonomia differenziata oppure la Loizzo politica resterà una presenza fissa del panorama calabrese?

  • RITRATTI DI SANGUE | ‘Ndrine e Servizi: la stagione dei sequestri

    RITRATTI DI SANGUE | ‘Ndrine e Servizi: la stagione dei sequestri

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    La vecchia ‘ndrangheta dei don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo, spazzata via dal nuovo che avanza, dalla famiglia De Stefano, soprattutto. Ma anche dai Piromalli di Gioia Tauro. Negli anni ’70 si registra il cambio di passo della ‘ndrangheta. I vecchi capi, ancorati al traffico di sigarette e contrari a quello della droga, cadono uno dopo l’altro. Si apre così una delle stagioni più oscure della storia recente del Paese. Con manovre torbide tra uomini delle ‘ndrine, faccendieri e pezzi dello Stato.

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    Girolamo “Mommo” Piromalli

    La ‘ndrangheta vuole darsi una svolta. È, in particolare, don Mommo Piromalli, leader carismatico di Gioia Tauro, a tracciare la via. E, immediatamente, la seguono in molti. In particolare Paolo De Stefano, boss dell’omonima, potentissima, cosca di Reggio Calabria.

    La lungimiranza di don Mommo mostra alla ‘ndrangheta quanto possano essere redditizi i sequestri di persona (oltre cinquanta dal 1970 al 1978). E, soprattutto, quanto sia conveniente investire i proventi di questi nell’edilizia. È una vera e propria escalation. E, in Aspromonte, segregato, finisce anche Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano.

    Le parole dei pentiti

    «Per quanto mi risulta, la morte di Antonio Macrì ebbe una duplice motivazione: la prima, più generale, dovuta al fatto che egli si opponeva al riconoscimento della Santa entrando per questo in conflitto con Mommo Piromalli; la seconda perché aveva protetto e continuava a proteggere a Mico Tripodo e quindi si era creato quali nemici coloro che si opponevano al potere del Tripodo a Reggio Calabria» dice il collaboratore di giustizia Gaetano Costa, in un interrogatorio del 12 marzo 1994 confluito agli atti dell’indagine “Olimpia”.

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    Don Mico Tripodo

    Un pensiero ribadito anche da un altro pentito, Giuseppe Albanese, nel tratteggiare la nascita della “Santa”, la sovrastruttura della ‘ndrangheta che permette di gestire i rapporti con mondi occulti come quelli della massoneria e dei servizi segreti deviati. «La “Santa” si proponeva qualunque forma di illecito guadagno, la commissione di delitti che in passato la ‘ndrangheta non consentiva (sequestri di persona e traffico di droga) e il santista aveva l’opportunità di avere contatti con esponenti delle istituzioni, contrariamente con quanto avveniva in passato».

    “Due Nasi”

    Personaggio emblematico di questo nuovo modo di fare è ‘Ntoni Nirta, detto “due Nasi” per il suo vezzo di portare sempre con sé un’arma a doppia canna. Nirta sarebbe stato anche un confidente dei carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino, che poi farà grande carriera all’interno dell’Arma dei Carabinieri. Chiaramente entrambi hanno smentito tale circostanza.

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    John Paul Getty III

    Nirta è tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior (nipote del magnate statunitense, ma naturalizzato britannico, Paul Getty), rapito a Roma il 9 luglio 1973, ma viene assolto per insufficienza di prove.
    Il ragazzo, sedici anni, viene liberato dopo 158 giorni: il riscatto costa alla famiglia 1 miliardo e 700 milioni, a Paul Jr il taglio del lobo di un orecchio.
    Quello è forse il sequestro di persona più celebre: a Bovalino, nella Locride, esiste un intero quartiere denominato “Paul Getty”, proprio perché sarebbe stato interamente edificato con i soldi del riscatto pagato dal miliardario.

    Il caso Paul Getty

    Dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70, la ‘ndrangheta avrebbe rapito quasi 500 persone. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta fa i soldi in quel modo: sequestri di persona e traffico di sigarette. Sarà la prima guerra di ‘ndrangheta, con l’uccisione dei boss Macrì e Tripodo a sancire il cambio di rotta sugli affari, con l’ingresso, prepotente, del traffico di droga, voluto dal “nuovo che avanza”, rappresentato dai De Stefano, soprattutto.

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    Cesare Casella

    Ma tra gli anni ’60 e gli anni ’70, il business è quello: furono nel mirino dei sequestratori i professionisti e gli imprenditori più benestanti della ‘ndrangheta; unico sequestro avvenuto in un arco temporale diverso, quello (tra i più celebri) del giovane Cesare Casella, del 1988 e durato 743 giorni. Le persone sequestrate venivano nascoste nel territorio aspromontano, le ‘ndrine coinvolte erano quelle di Platì e San Luca che operavano in Piemonte, quelle del reggino e del lametino in Pianura Padana e infine quelle di Gioia Tauro e della Locride a Roma.

    La stagione dei sequestri: la ‘ndrangheta e i servizi segreti

    La stagione dei sequestri, comunque, non sarebbe stata solo una questione delle ‘ndrine. Ancora una volta, le cosche calabresi e i pezzi deviati dello Stato si sarebbero seduti allo stesso tavolo. È il collaboratore di giustizia Nicola Femia ad aprire nuovi inquietanti scenari. Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori per porre fine a quella fase, che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.

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    Nicola Femia

    «Mazzaferro – spiegherà Femia in un’udienza pubblica – si incontrava con uomini dello Stato o mandava il suo autista, Isidoro Macrì». Un rapporto, quello tra il boss e gli 007, che sarebbe servito per acquisire informazioni reciprocamente, ma anche per permettere allo stesso Mazzaferro di mantenere l’impunità.
    Una lunga stagione, che verrà interrotta perché quelle azioni attiravano troppo l’attenzione dei media e dello Stato che in quel periodo portò in Aspromonte anche l’esercito.

    Dove finiscono i soldi?

    Femia ricorda gli incontri a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: «Sono andato dentro le mura praticamente. Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui». Quelli non sono solo gli anni dei sequestri, ma anche dello sviluppo delle rotte del narcotraffico con il Sud America. E così, in Colombia, i miliardi delle cosche si sarebbero trasformati in tonnellate di droga.

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    Paolo De Stefano

    Il sostituto procuratore antimafia di allora, Vincenzo Macrì, ipotizzò che il motivo dietro la brevità dei sequestri, a parte casi eclatanti, fosse probabilmente una presunta connessione diretta fra Stato, “organi occulti” e criminalità che si accordavano sul pagamento. Una circostanza che ha confermato, molti anni dopo, lo stesso Femia: «Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri. All’epoca erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo».

    ‘Ndrangheta, servizi e sequestri

    Femia parla anche di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: «Dopo il sequestro Casella, i capi si riunirono per far cessare la stagione dei sequestri, per via della troppa attenzione da parte dello Stato. Ma Vittorio Jerinò fece ugualmente il sequestro Ghidini per fare un dispetto al fratello Giuseppe, di cui era sempre stato invidioso».

    Una liberazione non facile, quella della Ghidini, avvenuta dopo un periodo molto intenso di trattative tra la ‘ndrangheta e pezzi dello Stato: «Vincenzo Mazzaferro fu scarcerato velocemente dal carcere di Roma dove era detenuto per risolvere la situazione». Tra gli uomini dello Stato coinvolti nelle trattative, Femia ricorda poliziotti, carabinieri organici ai servizi, avvocati, ma anche giornalisti.  

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    Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza

    La liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire. Soldi che, a dire di Femia, avrebbero diviso tra loro Mazzaferro, Jerinò e i Servizi Segreti: «Il coinvolgimento dei Servizi Segreti nei sequestri è una cosa che nel nostro ambiente sanno anche i bambini» afferma Femia. Una trattativa Stato-‘ndrangheta inquietante, anche per quello che sarebbe avvenuto in seguito. Vincenzo Mazzaferro verrà ucciso pochi anni dopo: «Nessuno della ‘ndrangheta voleva la sua morte», afferma Femia. E allora, il sospetto: «I protagonisti di quelle vicende sono tutti morti, ma senza una spiegazione di ‘ndrangheta».

  • Regione: fuori Fedele, dentro Talerico

    Regione: fuori Fedele, dentro Talerico

    L’attuale composizione del Consiglio della Regione Calabria ha ormai vita breve, dopo la pronuncia della magistratura sul caso Talerico vs Fedele. Il primo – così come un’altra esclusa, Silvia parente – contestava l’eleggibilità della seconda, la cui candidatura era arrivata mentre ricopriva il ruolo di direttrice generale della Provincia di Catanzaro. I giudici del tribunale ordinario del capoluogo gli avevano già dato ragione in primo grado. E oggi la Corte d’Appello, a cui Fedele si era rivolta, ha confermato quella decisione: «Sono ineleggibili a consigliere regionale i titolari di organi individuali ed i componenti di organi collegiali che esercitano poteri di controllo istituzionale anche sull’amministrazione della Provincia».

    Uno di troppo

    A questo punto Talerico dovrà solo notificare la vittoria in tribunale al presidente dell’aula Fortugno, Filippo Mancuso. Poi, tramite la giunta elettorale, toccherà a quest’ultimo procedere alla surroga della uscente Fedele con l’avvocato catanzarese. Che, dal canto suo, ha già messo in chiaro le cose: di entrare in Regione da consigliere di Forza Italia non ci pensa nemmeno, sebbene illo tempore fosse candidato proprio in una lista berlusconiana. Scarso feeling con il coordinatore regionale del partito Giuseppe Mangialavori, ha tenuto a chiarire non appena conquistata l’agognata poltrona.

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    Occhiuto e Mangialavori in campagna elettorale

    Non c’è due senza tre

    Non sarà il problema principale per Roberto Occhiuto, ma è pur sempre un forzista ufficiale in meno in squadra. E sebbene il neo eletto abbia confessato a LaCNews24 l’intenzione di confrontarsi col governatore e Mancuso per comprendere quali possano essere i suoi «spazi di agibilità politica», il futuro di Talarico non pare tinto di azzurro. Il suo colore, più probabilmente, sarà il blue navy scelto da Carlo Calenda e Matteo Renzi per il loro Terzo Polo. In Regione, d’altra parte, un gruppo che fa riferimento proprio a Calenda è già nato di recente e può contare su Giuseppe Graziano e Francesco De Nisi. E siccome non c’è due senza tre, con l’addio di Fedele e l’arrivo di Talerico potrebbe presto ampliarsi.

    il consigliere regionale Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)

    Fedele vs Talerico: le ripercussioni oltre la Regione Calabria

    Anche a Palazzo De Nobili l’uscita di scena di Valeria Fedele – almeno fino all’eventuale contrordine della Cassazione, cui si rivolgerà nel tentativo estremo di riprendersi la poltrona a Reggio – non passerà inosservata. Il neo consigliere regionale – che dopo averlo sfidato alle amministrative ora sostiene Nicola Fiorita e i suoi, usciti vincitori dalle urne – ora avrà un peso politico molto maggiore. Ed è difficile escludere folgorazioni sulla via di Talerico tra qualche collega in aula. Una maggioranza nella maggioranza che farà piacere a Calenda, a Fiorita e Occhiuto chissà.

    Catanzaro abbaia e Reggio morde: il consiglio regionale resta sullo Stretto
    L’aula del Consiglio regionale della Calabria
  • Il ras della Sila: “u nivureddu” di Longobucco che diventò principe d’Etiopia

    Il ras della Sila: “u nivureddu” di Longobucco che diventò principe d’Etiopia

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    Durante il fascismo la Calabria è nel destino di chi subisce il confino di polizia. Si stima che tra il 1926 e il 1943 i confinati in Italia siano 18.000 e di questi il 15% si ritrovi lì.
    La propaganda antifascista in quegli anni è tra i peggiori crimini da prevenire: bisogna domare ogni istinto ribelle. Non importa aver commesso un reato per finire al confino, basta un semplice sospetto di pericolosità. È una misura di prevenzione che si applica con un mero allontanamento, ma di fatto priva della propria autodeterminazione chi se la vede infliggere. Il regime preferisce luoghi dell’entroterra, isolati durante i mesi invernali, difficilmente raggiungibili, scarsamente politicizzati. Ed è così che a Longobucco, paesino di poche anime sulla Sila cosentina, si scrive un’inaspettata favola da Mille e una notte.
    Ma senza lieto fine.

    Abis… Sila

    L’Italia è appena uscita vittoriosa dalla campagna d’Africa, ma nella nuova colonia non mancano i malumori verso l’invasore. Un esempio? L’attentato a Rodolfo Graziani, figura di spicco del fascismo italiano, accusato di crimini di guerra e viceré d’Etiopia. Graziani rimane ferito nell’agguato, la dura repressione alla resistenza anticoloniale non si fa attendere e provoca migliaia di vittime.
    I fascisti decidono di allontanare figure della classe dirigente etiope per scongiurare il rischio che animino nuove insurrezioni contro il regime.
    E così una parte degli etiopi finisce al confino in Sila, a Longobucco. Sebbene l’isolamento del paese si presti ad aspre detenzioni, la permanenza si rivela migliore del previsto.

    I deportati etiopi al confino a Longobucco sono infatti personalità vicinissime a Hailé Selassié, l’imperatore che dopo l’occupazione fascista aveva scelto l’esilio volontario. Hanno un livello socioculturale elevato e intrattengono contatti epistolari con Mussolini e alti prelati nel tentativo di cambiare la propria sorte.
    È in effetti la Santa Sede a muoversi per garantire loro un soggiorno meno duro. A testimoniarlo, una lettera di monsignor Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, al nunzio apostolico monsignor Francesco Borgongini Duca. Montini evidenzia le difficoltà economiche del figlio dell’ex ministro di Etiopia e chiede una soluzione al problema.

    Al confino a Longobucco: «Purché non siano serviti da bianchi»

    Data l’attenzione che i confinati etiopi riscuotono, le autorità fasciste assumono nei loro confronti un atteggiamento moderato. I nuovi arrivati non tardano ad accorgersene e si uniscono ai longobucchesi per ottenere maggiori compensi dalle casse del regime.
    Gli italiani chiedono i pagamenti per i servizi offerti ai confinati e gli etiopi avanzano richieste per abiti, cibo e integrazioni degli assegni. Anche in virtù di questo scambio reciproco, le autorità trasgrediscono all’obbligo di non far incontrare i confinati con la popolazione locale.

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    Telegramma del prefetto Palma col permesso di uscita per i confinati. A sinistra, scritto a penna e sottolineato, si legge: «Il Duce consente purché non siano serviti da bianchi. Prego assicurarsi».

    Gli etiopi arrivano lassù con l’etichetta di irriducibili e pericolosi, ma l’interesse e la propensione a creare un clima cordiale per il quieto vivere rendono possibile l’incontro tra le due culture. Un certo peso pare averlo anche il fatto che, sebbene privati della libertà di lasciare Longobucco, siano prigionieri molto particolari rispetto ad altri al confino: vestono in doppio petto, nella villa che gli ha assegnato la Prefettura ci sono molti libri e si organizzano concerti. E poi, si racconta, ricevono un assegno di mille lire al mese, la somma che gran parte degli italiani dell’epoca sogna ascoltando l’omonima canzone alla radio.

    Se, da principio, c’è chi li guarda circospetto, presto gli etiopi al confino diventano parte della comunità di Longobucco. Notabili africani e contadini silani vanno d’amore e d’accordo, al palazzo e ri nivuri (dei neri, ndr) le donne del paese portano minestre e verdure, le sarte cuciono per loro degli abiti in occasione delle festività. Colori, lingue, profumi per sette anni si incrociano nei vicoli.

    È nato nu criaturo, è nato niro

    Di quella convivenza la traccia più nitida resta Michele Antonio Scigliano, figlio della relazione illegittima tra Giuseppina Blaconà, una contadina di Longobucco, e il ras Ubie Mangascià al confino in Sila. Lui ha bisogno di una brava cuoca; lei ha il marito Vincenzo Scigliano al fronte, proprio in Etiopia, e bisogno di un lavoro. S’incontrano, si piacciono. E il 19 febbraio del 1939 a Longobucco nasce un bambino. Con la pelle scura come suo padre, povero come sua madre.

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    1953, l’ambasciatore etiope (di spalle) a Roma torna in visita a Longobucco, dove era stato confinato

    Per il paese e il regime è uno scandalo. Il ras Mangascià viene trasferito da Longobucco a Bocchigliero e lì rimane fino al 1943, quando gli alleati riportano gli etiopi al confino nella loro terra. Tornato in Africa, Mangascià diventa ministro delle Poste e consigliere della Corona, sposa una principessa del luogo molto vicina all’Imperatore.
    Non dimentica però – e come lui altri confinati, che torneranno in Sila negli anni successivi – gli affetti lasciati sulle montagne calabresi, almeno non del tutto. Invia un po’ di denaro per contribuire alla crescita del figlio, chiede a Giuseppina di trasferirsi col bambino ad Addis Abeba, ma lei rifiuta.

    ‘U nivureddu, da boscaiolo a miliardario

    Michele Antonio, nel frattempo, cresce con la sola madre. Per tutti è u nivureddu. Conduce una vita di stenti, cerca di racimolare qualche quattrino con i lavori più umili, tra qualche gesto di inclusione e le chiacchiere di paese che lo dipingono come figlio del peccato.
    Appena maggiorenne si sposa con Filomena, povera come lui. Poi la sua vita cambia all’improvviso.

    Nel municipio di Longobucco arriva una lettera, è dell’ambasciata d’Etiopia. Informa i cittadini che si andava cercando il figlio del ras. Qui le versioni della storia arrivate fino ad oggi divergono: secondo alcuni nella missiva si parla della morte del principe e della concessione dell’eredità al figlio Michele Antonio Scigliano; secondo altri di riferimenti a eventuali lasciti non ci sarebbe ombra. Fatto sta che u nivureddu per tutti è diventato miliardario.

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    Deportate etiopi insieme a donne di Longobucco

    La notizia della chiamata di Michele Antonio in Etiopia elettrizza i longobucchesi che risfoderano la loro arma migliore: la solidarietà. Preparano (a loro spese) feste e banchetti, gli comprano vestiti nuovi. Nasce addirittura un comitato – ne fanno parte, tra gli altri, il sindaco Giacinto Muraca e il vicesindaco Antonio Celestino – per chiedere un mutuo in banca allo scopo di gestire le spese di viaggio.
    Il neo miliardario – secondo chi sostiene che il comunicato parli dell’eredità – va in giro promettendo, oltre alla restituzione dei soldi spesi in suo onore e per la sua partenza, anche gloria e splendore per Longobucco, il paese che aveva accolto il padre e cresciuto lui.

    Il principe non cerca moglie

    Giunto in Etiopia, però, l’unico pensiero è la sua nuova vita da principe. Di lui – tantomeno del denaro da restituire – in paese non si saprà più nulla. Qualcuno ancora oggi dice che lo abbiano ammazzato dei sicari assoldati da ulteriori eredi che non volevano dividere con lui il malloppo. Altri che la sorella di Ubie Mangascià abbia fatto cancellare dal testamento quel nipote mezzosangue.

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    Michele Antonio con sua moglie Filomena e loro figlia Giuseppina

    Filomena, intanto, per la vergogna è tornata da sua madre a Rossano portando con sé i due figli. Al Corriere della Sera, che va a intervistarla nel 1963, racconta di essere andata a trovarlo in Africa pochi mesi prima. Michele Antonio – riferisce al cronista – pare avere problemi col testamento che gli ha cambiato la vita, ma va in giro su macchinoni in dolce e numerosa compagnia. Promette anche a Filomena denaro che non invierà mai. Si mostra freddo, ma non troppo. «I fimmini tutti l’ommini ce l’hanno… però Antonio non si è scordato di me e l’ha dimostrato!», spiega al giornalista la donna accarezzando nel pancione il loro terzo bambino che dovrà presto sfamare in qualche modo. Il marito le ha chiesto di chiamarlo Mangascià.

    Longobucco e il confino

    Gli etiopi non sono i primi dissidenti a essere finiti al confino a Longobucco, né gli ultimi. Passano da lì in quegli anni i personaggi più disparati, da Lea Giaccaglia ad Amerigo Dumini. E il paese fa da cornice anche alla tragica morte di tre confinati, due uomini e una donna. Le autorità archiviano il caso in tutta fretta, derubricandolo a omicidio-suicidio frutto della gelosia. Si tratterebbe, al contrario, di un delitto politico legato al mondo del nazionalismo croato di estrema destra, all’epoca alleato dei nazifascisti.

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    Il “Palazzo e ri nivuri” oggi

    In Sila, però, il passaggio di queste genti ha lasciato ben poco di tangibile, solo racconti. Rimangono in filigrana nella storia di un paese, che per poco tempo, vide l’Africa a spasso nei suoi vicoli.
    I longobucchesi di quegli anni non ebbero la sensibilità intellettuale di comprendere la portata del fenomeno, non conservarono abiti, ricetti, oggetti o lettere. Ma, in tempi non sospetti, custodirono, per tramandarcelo, il bene più prezioso: l’umanità.

     

  • Autonomia differenziata: occhio ai furbetti della politica industriale

    Autonomia differenziata: occhio ai furbetti della politica industriale

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    Una domanda, sinistra e fatale, si aggira fra le tante (troppe) perplessità generate dall’ondata testosteronica leghista in materia di autonomia differenziata: la politica industriale toccherà alle Regioni o manterrà un profilo nazionale?
    Non sembri una domanda oziosa perché dalle diverse, possibili – e affatto semplici – risposte discenderanno conseguenze non proprio banali per i sistemi produttivi nazionali e regionali.

    Ora, sebbene il testo del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri, parli genericamente della possibilità offerta alle Regioni a statuto ordinario di godere di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in tutta una serie di settori tra cui anche alcuni attualmente di competenza esclusiva dello Stato”, il rischio che corre la politica industriale è altissimo.

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    L’attuale Consiglio dei Ministri in riunione

    Autonomia differenziata: la lista (leghista) dei desideri

    Se guardiamo le 23 materie potenzialmente oggetto di autonomia comprendiamo subito che quasi tutti gli strumenti, tradizionali, di politica industriale sono compresi nella famigerata lista delle 23 aree oggetto del desiderio leghista.
    Solo per citarne alcune: innovazione, trasporto, ricerca scientifica e tecnologica, porti e infrastrutture, governo del territorio, comunicazione, credito regionale, energia, istruzione, salute.
    Praticamente tutto. Troppo.

    Ricchi e poveri? Non solo

    Il rischio è quello di creare un sistema infernale di dialetti regionali su materie che richiederebbero al contrario linguaggi unitari e, soprattutto, dimensioni da ottimizzare su scale territoriali sempre più larghe.
    Non si tratta solo di ricchi e poveri, di LEP perequati o di spesa storica e fabbisogni standard. La questione, sulla politica industriale, è ancora più sottile e pericolosa perché impatta sul modello di governo di tutte le filiere produttive.

     

    L’attuale frontiera tecnologica, digitale e sostenibile, mira infatti all’integrazione tra filiere puntando sulla cosiddetta intelligenza artificiale generativa. Un sistema integrato di soluzioni produttive che vedono impianti istruiti (attraverso il machine learning) ad eseguire operazioni anche in remoto e soprattutto ad impatto ambientale potenzialmente neutro.machine-learning

    Occhio ai furbetti

    Le domande sono quasi scontate:

    • Chi governerà e con quali priorità la politica industriale derivata dall’intelligenza artificiale?
    • Quali LEP fungeranno da indicatori della perequazione tecnologica in materia digitale tra le Regioni? Assisteremo ad alleanze strategiche tra regioni produttive a maggiore specializzazione e intensità tecnologica?
    • Queste alleanze possono alterare i meccanismi di ripartizione fiscale delle risorse su scala nazionale? Corriamo il rischio di creare nuovi centri e nuove periferie geopolitiche?
    • Corriamo il rischio di trasformare il Paese in macro aree con tentazioni ultra autonomiste e miraggi di alleanze extra nazionali giustificate, o peggio ancora, mascherate da specializzazioni produttive e numeri su PIL mozzafiato?

    Sono solo domande certo. La veemenza leghista sui tempi non promette niente di buono. Occorre serenità, tempo, riflessione politica e analisi rigorosa sugli scenari potenziali. Magari per evitare che i soliti furbetti approfittino dell’autonomia differenziata per fare della politica industriale una questione “loro”. Tutta loro. Solo loro.

  • Nardello e gli USA, “l’Area 51” dell’Aspromonte

    Nardello e gli USA, “l’Area 51” dell’Aspromonte

    Dopo una prima parte di inverno in sordina, gelo e neve sembrano volersi fare strada e l’Aspromonte si colora di bianco a quote via via più basse. D’altronde il bianco da queste parti rimane colore dominante in ossequio ad una radice linguistica greca dove asper non vuole essere abbreviazione di asperrimo, quanto invece eloquente riferimento cromatico.
    Fu infatti proprio il bianco dei calanchi e quello delle nevi nell’immediato entroterra il colore che accolse i primi greci sulle nostre coste. E fu perciò proprio da quel primo sguardo, da quel colpo di fulmine, che prese origine l’appellativo che oggi in tanti erroneamente accostano alla natura impervia dei luoghi.

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    Il bianco dei calanchi di Palizzi accolse i marinai greci in Calabria

    È strana la neve, fenomeno meteorologico accompagnato sempre da una dicotomia: tormento per i pastori di alvariana memoria – assai meno per quelli 2.0 – e occasione di gioia per i bambini e di comprensibile sollievo per gli operatori turistici. Ma, se vogliamo, la neve ha anche un’altra sua valenza che in questa fase storica in cui il concetto di educazione al bello è spesso abusato, assume un valore pratico a cui si aggiunge un retrogusto poetico. È quasi come se la neve conservasse nella forma dei suoi cristalli, una cifra stilistica spesso sconosciuta all’uomo. Copre, uniforma, rende tutto uguale la neve, cancellando le storture prodotte dall’uomo.

    L’Aspromonte delle cattedrali nel deserto

    E di storture ne ha viste nel tempo questa montagna, violentata nello spirito e nella forma, nell’immagine e nei contenuti. Le ferite sono in superficie e ben visibili. Non si fatica, infatti, a trovare in un contesto di rara e ancora selvaggia bellezza elementi che parlano di degrado, di abbandono, di incuria. Cattedrali nel deserto che rimangono a perenne testimonianza di scelte scellerate, di miraggi mai realizzati, di improbabili intuizioni naufragate prima ancora di prendere il largo.

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    Uomini della Polizia nella Locride durante la stagione dei sequestri di persona (foto Gigi Romano)

    Dalla ghost town di Cardeto Sud, apoteosi di speculazione edilizia nata verso la metà degli anni Settanta, ai ruderi di Piani Moleti in territorio di Ciminà. Dall’ex base NAPS dei Piani di Stoccato in territorio di Oppido Mamertina poco più su della frazione di Piminoro (nata per ospitare i nuclei speciali antisequestri), alla struttura sportiva di Canolo nuova, sui pianori di Zomaro, concepita negli anni Ottanta con la velleità di ospitare la preparazione atletica di squadre di calcio professionistiche, mai entrata in funzione e divenuta nel tempo luogo di pascolo per mandrie più o meno sacre.
    È lungo l’elenco di incompiute, lunga la classifica di ecomostri rimasti a deturpare, a segnare in calce un’epoca che piaccia o meno, va accettata e riconosciuta. Sappiamo bene come utopia e poesia spesso debbano cedere il passo ad una realtà che quasi mai è come vorremmo.

    Monte Nardello, un luogo strategico

    Qualche mese fa, prima che l’inverno si decidesse a fare sul serio, ho rivisitato un luogo, che al pari di quelli prima indicati, testimonia di una incuria e un degrado che reclamano giustizia. Questa storia, fa riferimento ad un punto geografico preciso dove si cristallizza un’epoca, una fase storica a molti sconosciuta e assai particolare, durante la quale l’Aspromonte diventa crocevia di rotte internazionali. Il luogo di cui parliamo è monte Nardello. Siamo a circa 1.750 metri di quota in territorio del comune di Roccaforte del Greco. Risalendo il crinale di qualche centinaio di metri, siamo a ridosso del Montalto, da dove lo sguardo abbraccia idealmente lo Ionio e il Tirreno, facendo cogliere in tutta la sua maestosità la misura di una collocazione geografica strategica.

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    La zona in cui sorge la base

    Per capire cosa succede a Nardello, facciamo un passo indietro. È il 1965, sull’Aspromonte succede qualcosa che, fino a qualche anno prima, in una montagna ancora quasi completamente in bianco e nero sembrava impensabile: su quei monti arrivano gli americani.
    Il progetto, mai del tutto realizzato, si chiama Aspromont Horizon. È il nome dello studio che, fin dalla fine degli anni ’50, elaborano gli Stati Uniti, pensando proprio all’Aspromonte, ma anche alla Sicilia con le basi di Catania e Trapani, come crocevia strategico in tema di raccolta ed elaborazione di dati sensibili.

    Un’Area 51 in salsa calabrese

    Dall’altra parte del mondo siamo in piena guerra fredda ed in ballo c’è il controllo delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo. In questo contesto geopolitico prende vita la storia di Nardello, divenuto nell’immaginario collettivo di quegli anni, luogo quasi mistico. Su di esso aleggiava una lunga serie di storie più o meno fantasiose che andavano dagli esperimenti con gli ufo, all’utilizzo di missili. Insomma, una sorta di Area 51 in salsa calabrese.
    La cosa più fantascientifica da quelle parti, però, pare avere poco a che fare con guerre e invasioni aliene. Nei giorni in cui la base apre alcuni spazi al pubblico sono tanti i ragazzi che dalla città e i paesi vicini si avventurano sul Monte Nardello per ascoltare la musica americana, altrimenti inaccessibile per loro, dal juke box insieme ai soldati.
    Dopo circa vent’anni di attività, si arriva al 1985, quando l’utilizzo sempre più massiccio dei satelliti determina ufficialmente la fine dell’operatività della struttura.

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    La base di Monte nardello in una immagine di qualche decennio fa

    Abbandonata sul finire degli anni ottanta, nel 1993 viene ufficialmente dismessa e trasferita al Ministero della Difesa italiano, cadendo in totale stato di abbandono. Nei decenni successivi si è assistito ad un saccheggio selvaggio di tutto ciò che poteva essere sottratto, in sfregio a qualsiasi riguardo, a conferma di come nel sentire comune, la res publica si trasformi spesso e facilmente in res nullius.
    Oggi i luoghi dell’ex base USAF, un’area di circa tre chilometri e mezzo di diametro, in un contesto lunare, disegnato da centinaia di alberi abbattuti dagli incendi degli ultimi anni, si presenta come una distesa desolata.

    Nardello, cosa resta dopo Aspromont Horizon

    A preoccupare, più degli alberi abbattuti, sono i residui di amianto che suggeriscono lo spauracchio del disastro ambientale. Da anni le associazioni ambientaliste segnalano il pericolo. Ma Nardello, nell’indifferenza generale, continua a rimanere là, silenzioso testimone di un sogno americano che ha ceduto il passo ad un neorealismo postmoderno calabrese.