Tag: politica

  • Piantedosi, Occhiuto e il passato che dimenticano

    Piantedosi, Occhiuto e il passato che dimenticano

    Credo e spero che in breve tempo si accerterà se la strage di migranti avvenuta nelle acque di Cutro poteva essere evitata, individuando gli eventuali colpevoli di mancato soccorso. Ma, a fronte della sensibilità umana e della responsabilità civile di chi ha prestato invece soccorso alle vittime del naufragio, una cosa assai grave è apparsa con certezza fin da subito: la grave inadeguatezza culturale e politica di chi ci governa.

    Le parole di Piantedosi

    Nel caso del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, già prefetto di Bologna e di Roma, non c’è da sorprendersi dell’oscenità delle sue dichiarazioni, trattandosi della stessa persona che quattro mesi fa, nello scorso novembre, sostenne la necessità di organizzare «sbarchi selettivi», consentendo di sbarcare solo a donne, bambini e persone in cattive condizioni psico-fisiche, respingendo invece i migranti in buona salute, cinicamente definiti: «carico residuale».

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    La bara di una delle bambine morte

    Non contento di questa sua esternazione, Piantedosi ha replicato nei giorni scorsi il suo raccapricciante punto di vista sui migranti, affermando che «la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli», attribuendo dunque la colpa della strage di Cutro alla “irresponsabilità” dei genitori migranti. Infine, in risposta alle critiche che sta ricevendo, Piantedosi non trova ora di meglio, in audizione alla Camera, che rivendicare con orgoglio il suo passato di “questurino”.

    L’ignoranza del fenomeno

    Ora, è evidente che il pregiudizio politico e l’avversione altezzosa nei confronti dei migranti si accompagna alla più completa ignoranza della drammaticità del fenomeno migratorio. È del tutto chiaro che le condizioni tragiche e disperate da cui spesso fuggono i migranti non consentono di scegliere le modalità di partenza e anche quando non si fugge da guerre e dittature sanguinarie le motivazioni che spingono a lasciare il proprio paese sono talmente forti da affrontare ogni rischio. Ma questo non appartiene soltanto alle migrazioni contemporanee. Basterebbe conoscere anche superficialmente la storia dell’emigrazione italiana, per capirlo.

    I migranti di “casa Piantedosi”

    Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera di mercoledì 1° marzo, ha ricordato a Piantedosi gli innumerevoli naufragi delle navi che portavano gli emigranti italiani nelle Americhe e le traversie inenarrabili patite da tante madri che cercavano di raggiungere coi loro bambini i mariti emigrati all’estero. Ma temo che sia un esercizio pressoché inutile. Se Piantedosi volesse conoscere un po’ di storia dell’emigrazione, gli basterebbe rivolgersi ai suoi compaesani di Pietrastornina, il paesino irpino da cui proviene, che nel 1911 contava oltre cinquemila abitanti e oggi ne ha poco più di un migliaio. E scommetto che gli sia ignota la storia di un altro paesino campano, non lontano dal suo, Castelnuovo di Conza, che detiene il primato nazionale del più alto numero di residenti all’estero in rapporto alla popolazione: oltre tremila in giro per il mondo e solo cinquecento a Castelnuovo.

    Precedenti illustri

    Quanto ai genitori che emigrando mettono in pericolo la vita dei loro figli, gli si potrebbe raccontare la storia di una donna di Oppido Lucano, Felicia Muscio, che con la sua piccola bambina, per raggiungere il marito già emigrato, nel 1897 si mise in viaggio alla volta di Iquique, nel nord del Cile, affrontando un viaggio pazzesco, che la portò prima in nave a Buenos Aires, poi in treno fino alle Ande; e infine, attraversando la Cordigliera, a dorso di mulo con la bimba in braccio, superando spazi immensi senza conoscere una parola di spagnolo, riuscendo in ultimo a raggiungere lo sposo.

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    Felicia Muscio

    Ma, ripeto, per uno come Piantedosi, è fatica sprecata cercare di fargli capire cosa sono le migrazioni: per lui – ma, temo, per l’intero governo – purtroppo l’odissea di Felicia Muscio sarebbe di fatto riconducibile alla cosiddetta «migrazione economica», dunque oggi, in quanto tale, andrebbe respinta nel luogo d’origine, come i «carichi residuali» di cui sopra.

    Anche Occhiuto ne sa poco

    Mi si potrebbe obiettare che il ministro Piantedosi è un caso limite, o che il suo lessico da “questurino” tradisce più miti intenzioni, o che altri governanti sono più avveduti e competenti. Mi piacerebbe fosse vero, ma nei giorni scorsi anche in Calabria ho ascoltato dai governanti cose sconcertanti. Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ad esempio, intervistato al TG3 il 27 febbraio, ha detto che «quando partivano i calabresi verso il Canada, l’Argentina, la Germania, andavano verso Paesi dove questo fenomeno era governato, oggi questo fenomeno non è governato».

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    Roberto Occhiuto e il suo slogan della campagna elettorale

    Chi glielo racconta a Occhiuto che Stati Uniti, Argentina e Brasile hanno accolto milioni di italiani perché ne avevano bisogno? Chi glielo spiega che in quell’alluvione migratoria c’era di tutto e che “governarla” era piuttosto complicato? E delle baracche che ospitavano i calabresi in Svizzera, in Germania e in Belgio, ne sa qualcosa? Invece di parlare di vicende che probabilmente conosce poco, perché non cerca di fare i conti con le sciocchezze e le insipienze del suo governo nazionale di riferimento?

    Ripartire dalla Costituzione

    Intanto, io credo che non ci resti che partire dai fondamentali, ricordando a chi ci governa che l’articolo 10 della nostra Costituzione si conclude con queste parole: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

    Vittorio Cappelli
    Storico delle migrazioni, Università della Calabria 

  • Migranti morti? Giorgia Meloni se ne va in India

    Migranti morti? Giorgia Meloni se ne va in India

    Non le è bastato essere donna e madre, nemmeno essere cristiana, per trovare il coraggio di venire Crotone, dove di donne e bambini ne sono morti parecchi.
    Giorgia Meloni vola in India e non guarderà mai la fila di bare dei migranti morti tra le onde per cercare di scampare a un inferno che non riusciamo ad immaginare. Lei che rappresenta il governo di questo Paese non andrà sulla spiaggia dove forse ancora ci sono i resti della tragedia. Gli occhi cerulei della finta underdog non si poseranno sulle tracce della morte degli ultimi della terra. Lei aveva mandato avanti il suo ministro, che alla fine era meglio che fosse restato a casa. Le parole di Piantedosi sono risultate raccapriccianti per disumanità al punto da causare imbarazzo pure tra i suoi sodali.

    Migranti? Per Giorgia Meloni meglio l’lndia

    Giorgia Meloni, dopo quelle parole risultate oltraggiose per il comune senso di pietà, si è trovata nella difficile situazione di decidere rapidamente se scendere in Calabria oppure eludere il problema. Immaginiamo le frenetiche riunioni, le febbrili telefonate per decidere velocemente che fare, tra chi diceva che era necessario venire e quanti sconsigliavano la trasferta calabrese. Deve essere prevalsa la scelta di non rischiare, quella spiaggia di dolore, quelle bare, si sono trasformate in un terreno troppo minato per il presidente del Consiglio, ancor di più dopo le parole del suo ministro, ma soprattutto dopo aver invocato blocchi navali, spesso senza avere il coraggio di chiamarli col loro nome.

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    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone

    Quei luoghi di dolore hanno visto invece Mattarella, ormai impegnato da tempo a ricordare ai distratti della destra che questo Paese ha una Costituzione e anche una storia, col rischio che quell’uomo dai capelli bianchi si trasformi nell’immaginario nazionale in un audace e improbabile attivista di sinistra. Alla fine Giorgia Meloni è volata in India e ha anche portato il suo omaggio al memoriale di Gandhi. Perché essere buoni a parole non costa nulla.

  • No alla Calabria tomba degli ultimi: dopo le lacrime, è l’ora della protesta

    No alla Calabria tomba degli ultimi: dopo le lacrime, è l’ora della protesta

    Dopo il tempo del dolore, che comunque non finisce, deve venire il tempo della mobilitazione e della denuncia politica. Per non rassegnarsi allo sgomento e far sì che quanto accaduto domenica sulla spiaggia di Cutro non si ripeta. Per spiegare che il naufragio e la morte dei migranti non sono state fatalità, ma potevano essere evitate, come sempre più chiaramente sta emergendo.

    L’Italia si mobilita

    Molte associazioni, così, si sono raccolte in rete e già il prossimo sabato si mobiliteranno in tutta Italia, tenendo manifestazioni in moltissime città. Questi eventi saranno raccontati da Radio Ciroma, emittente cosentina che organizzerà un ponte radio per tenere in contatto le molte piazze. In Calabria l’appuntamento è a Crotone davanti alla Prefettura, per dare un segno di solidarietà alle associazioni della città che hanno dovuto affrontare in prima linea la tragedia della morte dei migranti cercando di far convogliare lì il maggior numero di persone. Tuttavia, a causa di difficoltà logistiche, a Reggio e a Vibo si svolgeranno in contemporanea manifestazioni locali.

    Una manifestazione a Crotone per i morti di Cutro

    A Cosenza nella sede della Base, si sono riuniti i rappresentati di alcune associazioni, Radio Ciroma, il sindacato Cobas, il Centro antiviolenza Lanzino, Emergency, l’Anpi P.Cappello, il Filo di Sophia e Gaia, fino all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. L’intento è quello di compiere gli sforzi necessari ovunque ci si trovi per concretizzare l’idea che sta maturando, cioè di realizzare una manifestazione nazionale da tenere sabato 11, proprio a Crotone.

    La scelta della città calabrese non è solo legata, come è ovvio, al drammatico naufragio. Simbolicamente vuole rappresentare anche il luogo di partenza di una protesta non solo contro questo governo, ma pure per rivendicare attenzioni verso la Calabria, che come è stato detto «non vuole essere la tomba degli ultimi, né luogo di disperazione».

    Difficile, ma non impossibile

    I promotori sono consapevoli delle difficoltà organizzative che pesano sull’ipotesi di un incontro nazionale a Crotone, dove è difficile giungere da qualunque punto della regione, figuriamoci dal resto del Paese. Ma già sabato, nel corso delle manifestazioni che si terranno in tutta Italia, si misurerà la volontà di affrontare queste difficoltà, costruendo in rete un percorso che arrivi fino alla prefettura di Crotone.

  • Fratelli nella morte, l’umanità da ritrovare dopo la strage di Cutro

    Fratelli nella morte, l’umanità da ritrovare dopo la strage di Cutro

    Nel PalaMilone ci riscopriamo fragili e impotenti. Una dimensione collettiva e allo stesso tempo intima. La riscoperta agghiacciante dell’umano in una vicenda tutta disumana. È come se il pellegrinaggio continuo, i fiori, gli orsacchiotti lasciati lungo le grate esterne, i silenzi volessero restituire un senso di giustizia a ciò che è accaduto a Steccato di Cutro, alle parole fuori posto, a ciò che forse non riusciremo mai a scoprire di quella notte.

    Non è pietismo, non è un lavarsi la coscienza davanti alla morte. Sembra più una inconscia riscoperta di fratellanza e solidarietà. Una ritrovata identità mediterranea, un’appartenenza a un mare che unisce e rende sorelle e fratelli. Quello stesso mare che abbiamo reso una muraglia con le nostre politiche identitarie.
    Si percepiscono lontani gli slogan di questi giorni: «sono troppi», «perché partono», «non possiamo accoglierli tutti».

    Cutro e il PalaMilone come Sarajevo o Kabul

    È il tempo del silenzio, della mancanza di parola, della riflessione. Si entra con delle certezze, si esce svuotati alla vista di quelle bare poste sul campo da gioco del palazzetto. È lo stesso contrasto che si afferra a Sarajevo, a Buenos Aires, a Kabul. Campi di calcio trasformati in luoghi di martirio. Gli spalti vuoti di fronte restituiscono quel senso assordante di silenzio e tristezza. Si dovrebbe esultare su quei seggiolini, oggi si rabbrividisce davanti a tutta la scena.

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    La bara di una delle bambine morte

    Si fa in tempo anche a scorgere qualche familiare che arriva accompagnato dai volontari della Croce Rossa. È una donna avvolta nel velo e si muove alla ricerca di un nome posto sul legno. Per altri invece c’è solo un numero, un identificativo. Altri parenti arrivati da Londra e dal Nord Europa attendono le ricerche, la restituzione di un corpo. Non è una speranza di vita ma una restituzione di dignità. Una piccola particella di giustizia in un mare di ingiustizia. 

    In quelle bare ci siamo noi, annegati tra le onde della disumanità. Vittime e complici di un sistema alla deriva dove l’egoismo si incarna nella difesa dei confini, nella separazione tra ciò che è di qua e da quel che c’è di là. È la fortezza Europa che si sgretola giorno dopo giorno. Sabato notte l’abbiamo vista sgretolarsi impietosa sulle nostre coste, sulle sconosciute spiagge di Steccato di Cutro, tra soccorsi mai arrivati, nella desolazione e la solitudine di una rotta che da Est taglia verso Ovest, nel frastuono del sabato italiano.

    Al di là del mare

    È contrasto anche qui. Le urla delle mamme alla ricerca dei figli dispersi si mischia alle ultime note dei locali della movida delle nostre città. L’ora è la stessa. Quella stessa ora in cui forte è la consapevolezza dell’essere nati dalla parte fortunata del mare. E allora perché sprecare parole sulla necessità di partire? Di cercarsi un futuro migliore? Perché non tacere? 

    L’uscita dal PalaMilone è solo la necessità di un abbraccio. La consapevolezza che girarsi dall’altra parte non può diventare un imperativo, anzi il contrario.
    «Non si può andare avanti così», dice qualcuno. È il momento della denuncia.
    È il momento delle responsabilità altrimenti ci rimarrà un’altra strage da ricordare tra le occasioni perdute in cui avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.

    Andrea Bevacqua
    Docente e attivista

  • Roberto Fico domani a Cosenza contro l’autonomia differenziata

    Roberto Fico domani a Cosenza contro l’autonomia differenziata

    Il presidente del Comitato di Garanzia del M5S ed ex presidente della Camera Roberto Fico domani, venerdì 3 marzo, sarà a Cosenza, a partire dalle 17:30 a Villa Rendano. Dove interverrà in occasione dell’incontro pubblico organizzato dal Movimento 5 Stelle: “Verso Sud. La strada per crescere non è l’autonomia differenziata”. A stimolare la discussione e moderare il dibattito sarà la parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico. Interverranno: Veronica Buffone, assessore al Welfare del Comune di Cosenza; Giuseppe Giorno, consigliere comunale di Luzzi.

    Il primo ciclo di appuntamenti, cui parteciperanno anche tutti gli eletti del Movimento 5 stelle in Calabria e gli attivisti, è in programma il 3 e 4 marzo, non solo a Cosenza, ma anche a Vibo Valentia e Roccella Jonica; il secondo, invece, arriverà a Corigliano Rossano, Crotone e Catanzaro il 14 ed il 15 aprile.

    «Riteniamo che il percorso intrapreso dal governo Meloni con la forzatura di una riforma così complessa e così poco condivisa possa condurre verso condizioni di svantaggio per il meridione e non sia positiva per la coesione del Paese». È quanto si legge in una nota stampa a firma dei portavoce eletti del Movimento 5 stelle in Calabria.
    «Ci confronteremo – continuano i parlamentari pentastellati – con cittadini, associazioni, sindacati, forze produttive e amministratori che vogliano dare un contributo di idee per rilanciare una controproposta rispetto al disegno di legge voluto dal ministro Calderoli e dalla sua maggioranza».

  • Poste, riaprono gli uffici di periferia: dalla Calabria non si scappa più?

    Poste, riaprono gli uffici di periferia: dalla Calabria non si scappa più?

    Nuova vita per gli uffici postali calabresi, specie per quelli periferici. Col progetto Polis, Poste Italiane sposa infatti il culto della restanza poggiando idealmente la matita sul foglio e ridisegnando la mappa dei servizi in un entroterra dove la bandiera bianca sventola ormai da troppo tempo.

    Chiude tutto, meglio fuggire?

    Sta nella chiusura dei servizi fondamentali la più lucida metafora di un mondo sulla via del tramonto. Ce lo dicono i numeri di una emigrazione che dopo le aree interne sta via via coinvolgendo anche quelle costiere in favore dei grandi agglomerati urbani e che nel periodo 2004/2020 ha fatto registrare centomila residenti in meno in una regione che, dati alla mano, non supera la soglia del milione e mezzo di abitanti realmente residenti. Razionalizzare è un verbo che nell’ultimo quarantennio, specie alle nostre latitudini ha perso la sua accezione positiva diventando quasi sempre anticamera al de profundis, sinonimo di smobilitazione, di resa. Chiudono le scuole, chiudono i principali servizi a testimoniare una rotta ben precisa, ed è in un contesto come questo che il valore di una governance di qualità diventa sempre più necessario per non abbandonarsi ai fatalismi diventati ormai quasi un patrimonio genetico, per non cadere in una retrotopia sempre a metà strada tra alibi e moto nostalgico.poste-uffici-calabria-emigrati

    Serve altroché la buona governance, servono esempi di buone pratiche che diventino nel tempo segnale di speranza, ciambella di salvataggio in un mare di rassegnazione. Servono uomini capaci di unire la ragione al sentimento. A volte per fortuna, ci sono però anche segnali in controtendenza che fotografano una situazione affatto irreversibile, come nel caso dei dati fornitici da Poste Italiane, relativi ad una presenza capillare che vuole andare oltre il valore pratico, consegnandoci un’inversione di tendenza in atto ormai dal 2018. Un trend finalmente positivo, frutto di scelte aziendali che sembrano aver anteposto la ragione alla fredda logica dei numeri.

    Poste, gli uffici chiusi in Calabria

    Non più tardi di dodici anni fa un ideale viaggio dal Pollino all’Aspromonte, passando per la Sila e le Serre ci consegnava un disarmante quadro di smobilitazione degli uffici postali di frontiera. Basti pensare che (dati 2011) nella sola provincia di Reggio Calabria, un piano di razionalizzazione basato sulle utenze, aveva sancito il funzionamento a singhiozzo degli uffici di

    • Benestare,
    • Bova,
    • Bivongi,
    • Bruzzano,
    • Staiti,
    • Casignana,
    • Melia di Scilla,
    • Montebello Jonico,
    • Pazzano,
    • Platì,
    • Riace,
    • Roccaforte del Greco,
    • Samo,
    • San Lorenzo,
    • Sant’Alessio,
    • Sant’Agata del Bianco,
    • Camini,
    • Candidoni,
    • Canolo,
    • Ciminà,
    • Cosoleto,
    • Laganadi,
    • Martone,
    • Ortì,
    • Placanica,
    • Portigliola,
    • San Giovanni di Gerace,
    • Siderno Superiore,
    • Stignano,
    • Agnana

    03-uffici-poste-calabriaSi è passati poi nel giro di appena tre anni (dati ufficiali 2014) alla definitiva chiusura di

    • Anoia,
    • Campoli di Caulonia,
    • Plaesano di Feroleto della Chiesa,
    • Castellace,
    • Rosalì,
    • Barritteri di Seminara,
    • San Pantaleo,
    • Terreti,
    • Villa San Giuseppe,
    • Capo Spartivento,
    • Careri,
    • Piminoro,
    • Cirello di Rizziconi,
    • Condojanni,
    • Gambarie d’Aspromonte,
    • Pardesca di Bianco,
    • San Nicola di Ardore,
    • San Nicola di Caulonia,
    • Tresilico di Oppido Mamertina,
    • Villamesa di Calanna,
    • San Pier Fedele di San Pietro di Caridà

    E questo sia ben chiaro, solo per citarne alcuni. Un colpo di scure trasversale che tagliava di netto la dorsale reggina dallo Ionio al Tirreno.
    Non andava certo meglio risalendo verso la Sila e verso il Pollino dove il quadro si completava con cifre allarmanti che ridisegnavano la geografia antropica in un entroterra evidentemente sempre più povero.

    Piccoli comuni, si cambia

    Da cinque anni, la musica sembra essere cambiata grazie ad un percorso intrapreso da Poste in collaborazione con i piccoli Comuni. Oggi lo scenario tracciato ci parla di nuovi investimenti, di aperture, di potenziamenti di servizi già esistenti e creazione di nuovi nelle aree carenti. Uffici Postali rinnovati in molte comunità tra le più piccole della regione, iniziative che si inquadrano nel più ampio piano strategico Environmental, Social and Governance. L’obiettivo complessivo di Poste, di assumere un ruolo chiave nello sviluppo dell’intero sistema Paese, riveste nel caso della Calabria e nello specifico del suo entroterra una valenza eccezionale per quelle che sono le ricadute dirette in termini di servizi ma ancor prima per quelle indirette, per quel possibile effetto domino che molti si augurano.

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    Matteo Del Fante

    È stato chiaro già nel 2018 l’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante che nel presentare ai sindaci 10 impegni per i piccoli Comuni volle ribadire l’importanza strategica di mantenere aperti tutti gli Uffici Postali situati nei centri con meno di 5.000 abitanti. Un impegno, quello di Del Fante e dell’azienda, andato ben oltre le aspettative in premessa, prendendo corpo, come anticipato in apertura, nel progetto Polis, presentato qualche mese fa a Roma alla presenza di circa cinquemila sindaci.

    Poste: il progetto Polis e i nuovi uffici in Calabria

    Nello specifico il progetto Polis prevede una collaborazione tra enti comunali e uffici postali. In questi ultimi potranno essere erogati diversi sevizi della Pubblica amministrazione resi disponibili presso lo Sportello Unico nei piccoli centri. Si tratta di un intervento massiccio che si focalizza sui piccoli comuni, quasi esclusivamente al di sotto dei di 5.000 abitanti. Una attività di potenziamento che suona come riconoscimento ai tanti calabresi ostinati ed agli amministratori illuminati che negli anni sono rimasti come ultimi baluardi della tutela di territori sempre più marginali.

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    Cittadini protestano contro la chiusura di un ufficio postale in un piccolo comune

    Si rintracciano sensibilità comuni che si incrociano sulle strade calabresi, quelle a pettine che salgono dallo Ionio e dal Tirreno verso i monti o quelle che semplicemente tracciano i contorni di una regione lunga e assai variegata, per morfologia e cultura, accomunata per contro da analoghi problemi, mali cronici a cui ogni tanto qualcuno cerca di porre rimedio. Oggi la sensibilità di Poste Italiane, incrocia il cammino dei tanti scrittori, studiosi, camminatori, artisti, che ormai da anni sembrano aver riscoperto l’amore per i luoghi periferici, la consapevolezza di quanto sia necessario un esercizio di sensibilità e lungimiranza per regalarsi un orizzonte, per accantonare il retrogusto amaro che accompagna una terra dove sogni e speranze rimangono spesso incompiuti.

    Alla riscoperta delle radici

    Sono tanti, molti di più di quanto non si pensi, i calabresi che hanno capito come e quanto l’ideale sogno di riportare la vita in luoghi dove da tempo domina il silenzio, o di conservarla laddove ancora ne rimane traccia, non sia in realtà impresa impossibile. Riattribuire un ruolo centrale alla vita che torna o semplicemente a quella che resta non è utopia, è qualcosa di reale che passa dall’impegno e dall’assunzione di responsabilità.

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    L’antropologo Vito Teti

    Serve ripartire da un ritrovato senso dei luoghi, dal culto della restanza, non fosse altro che per il gusto di provare a mettere l’accento su un nuovo modo di concepire la pratica del rimanere, come mi suggerisce l’amico Vito Teti, che con grande gioia ho riabbracciato qualche giorno fa a distanza di qualche anno. Al contrario di quanto avveniva un secolo addietro – continua a ripetere Teti con l’amore e la determinazione che lo contraddistinguono – «oggi la più forte forma di sradicamento non la vive più chi parte, quanto invece chi decide di restare».
    Oggi possiamo affermare che chi resta, ha certamente qualche strumento in più, per continuare a vivere la quotidianità. Ma, ancor prima, per sperare in un futuro che non sia lontano dai luoghi della propria personale storia.

  • Eichmann: la banalità del male agli occhi di un calabrese

    Eichmann: la banalità del male agli occhi di un calabrese

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    «Ero stato felice a Gerusalemme, con la mia povertà, come non mai, perché ero stato libero di osservare la vita in silenzio, senza essere distratto dalla molestia delle faccende quotidiane»
    Gerusalemme, la Terra Promessa, città santa tre volte: per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Città contesa, ricca di contrasti, di contraddizioni, da sempre al centro di accese tensioni e sanguinosi scontri.
    Questa città nel 1961 fu teatro del processo ad Adolf Eichmann.

    Processo a Eichmann: La Cava inviato speciale

    Il celeberrimo ufficiale nazista, pianificatore della soluzione finale, colpevole dello sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, finì a processo proprio in un centro culturale gerosolimitano trasformato per l’occasione in tribunale; un evento che registrò un grandissimo coinvolgimento dei media mondiali.
    Le udienze – che si svolsero dall’11 aprile al 15 dicembre ’61 e terminarono con la condanna a morte, non eccessivamente scontata alla vigilia– furono seguite da giornalisti provenienti da ogni continente.
    Tra questi anche il grande scrittore calabrese Mario La Cava, inviato speciale del quotidiano lucano Corriere Meridionale.

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    Al centro, Mario La Cava

    Il viaggio in Israele 

    La cronaca di quell’esperienza in cui La Cava «intuisce che l’incontro con la banalità del male lo riguarda direttamente come individuo», in una terra molto più lontana e misteriosa – e quindi seducente – di quanto non possa comunque apparire ancora oggi, ritorna in Viaggio in Israele pubblicato, in ultima edizione, da Edicampus.
    In questo prezioso volume – che gode delle attente curatela e introduzione di Milly Curcio e di un saggio di Luigi Tassoni – lo scrittore nato a Bovalino l’11 settembre 1908 tesse un filo che lega due mondi vicini e lontani, divergenti e convergenti.
    Due realtà unite dal Mediterraneo che sciaborda sulle sponde ioniche della Calabria e su quelle israeliane.

    Una civiltà arcaica in abiti moderni

    Il processo Eichmann, infatti, per l’intellettuale assunse presto le fattezze del fortunoso pretesto per raccontare una civiltà arcaica e nuova al contempo, che lo sorprende per l’affinità col popolo della sua Calabria.
    Una civiltà arcaica e nuova. Questa civiltà sorse soltanto nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele nella partizione a tavolino – osteggiata dagli antisionisti e dagli arabi – dell’antichissima Palestina, deliberata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite.
    Non solo: per La Cava il viaggio in Israele divenne l’indagine silenziosa – parola chiave della sua peregrinazione – di un universo fino ad allora appena fantasticato.

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    Immagine d’epoca di Tel Aviv

    Un calabrese in Israele per il processo Eichmann

    Lo scrittore, già noto e apprezzato in quell’epoca – l’autore de I Caratteri negli ultimi anni Cinquanta aveva dato alle stampe Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero –, affidò a un anonimo protagonista, suo alter-ego, il racconto di quella esperienza illuminante.
    E, come per ogni viaggio di scoperta che si rispetti, gli inconvenienti – magari inconsciamente cercati – non tardarono. Sulla nave diretta ad Atene (scalo verso la Terra Promessa), il protagonista-autore si imbatté in un tale Toto C., pingue ebreo italiano, sedicente chirurgo esperto di procurati aborti, fuggito dal Bel Paese perché la donna che aveva sposato era oramai irrimediabilmente invecchiata e ingrassata. Non era più attratto da lei e perciò aveva pensato bene di rifarsi una vita nel novello Stato di Israele.

    Il fascino della Terra Santa

    La sosta nella capitale greca si protrasse più del dovuto per l’“oscuro scrittore” e il nuovo conosciuto, sicché, perduta la nave, ripartita dal Pireo senza di loro, si trovarono costretti a raggiungere Israele in aereo. A spese dell’ingenuo La Cava, che atterrò in Terra Santa avendo già speso gran parte del denaro portato con sé. Questo contrattempo segnò il suo intero soggiorno. E non per forza in negativo.

    Lo scrittore si trovò beatamente spaesato in Israele, a contatto con una umanità povera ma non misera, ricevuto con l’ospitalità che tanto gli ricordò la sua regione in case di ebrei e di arabi. Si perse in pranzi pantagruelici, contemplò sinagoghe, biblioteche, kibbutz, porti, spiagge e coltivò stupore e malinconia per ogni cosa: il cielo ingombro di uccelli, le distese di eucalipti, il suggestivo “disordine silvestre” intorno alle città, il brulichio delle stradine, le barbe più belle sulla faccia della terra.
    Narratore-viaggiatore, nello Stato ebraico Mario La Cava indagò con lo sguardo curioso le genti, le loro costumanze e il paesaggio tutt’attorno, nel sacro rispetto di ciò che si percepisce né inferiore, né superiore, ma unicamente diverso da sé. E neppure così tanto.

    Soldati israeliani nella Gerusalemme anni ’60

    Tel Aviv, Petah Tikva, Gerusalemme – in cui ammise di avere trascorso i giorni «più ricchi di intime vibrazioni» della sua intera vita –, Rehovot, Nazareth, Haifa, Beer Sheva, capitale del deserto del Neghev; in questo lungo errare l’intellettuale bovalinese tornò sovente col pensiero alla Calabria, ricordatagli non solo dall’accoglienza e dai volti mediterranei, ma anche dal mare, dai colli e dai monti di quella terra che pareva lo volesse riavvicinare alla patria lontana.

    L’incontro con Adolf Eichmann nel processo

    Mario La Cava partecipò ad alcune delle udienze conclusive dell’epocale contraddittorio riservato a Eichmann, tra le pagine più affascinanti dell’opera originata da quei giorni d’estate del ’61.
    «Mi pareva che soltanto con quell’incontro io sarei penetrato negli abissi del male e attendevo quella prova quasi come una rivelazione, nella quale meglio avessi potuto conoscere me stesso».
    In prima fila, in una atmosfera da teatro, in attesa dell’atto finale della tragedia, La Cava cercò con lo sguardo gli occhi Adolf Eichmann, occhi che «nemmeno per un momento si prestarono ad essere guardati». Il volto affilato dell’ufficiale delle SS, le sue labbra sottili, taglienti, «le labbra di chi non aveva mai sorriso ad alcuno».
    Lo scrittore strabiliò dinanzi alla impressionante sicurezza, al manifesto agio di Eichmann, autentica reincarnazione del Diavolo, in quella situazione drammatica. E scrisse: «Sembrava che non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento».

    Il gelido nazista

    Di fronte alla speciale corte gerosolomitana che gli contestava crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nello specifico contro gli ebrei, Eichmann asserì di avere eseguito ordini superiori, fedelissimo a un principio, un ideale, un capo che non esistevano più.
    Agli occhi di La Cava, il criminale nazista apparì interessato esclusivamente a difendere da una parte «il buon nome del popolo tedesco di fronte alla storia» e dall’altra la sua verità suprema, che serbò dentro sé e che non permise a nessuno di scardinare e scoprire, lasciando così non pienamente soddisfatto il popolo di Israele, in cui comunque il narratore non riscontrò alcun furore particolare. Comprese che soltanto il silenzio dei sopravvissuti alle persecuzioni poteva essere «la risposta più confacente» alla sciagura cui la comunità ebraica era andata incontro.

    Una domanda senza risposta

    «Che uomo fu dunque Eichmann?» si domandò Mario La Cava. L’interrogativo rimase irrisolto; la condanna a morte dell’ufficiale, eseguita a Ramla, meno di cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme, il 31 maggio 1962, mise la parola fine alla parabola di Eichmann fondendo nello stesso tempo l’unica chiave con la quale sarebbe stato possibile aprire il suo forziere di segreti.
    Cos’è Viaggio in Israele?, si domanda invece oggi il lettore. Un saggio? Un romanzo storico? Un reportage?
    Pubblicato per la prima volta nel 1967 da Fazzi, editore di Lucca, e ristampato nel 1985 dall’editore cosentino Brenner – con la speranza di fare ottenere migliore fortuna a quello che lo stesso autore aveva definito uno «strepitoso insuccesso» –, il libro del tentato vis-à-vis di La Cava e Eichmann e dell’avventura israeliana dello scrittore, non è facilmente confinabile dentro un recinto.

    Eichmann in cella in attesa dell’impiccagione

    Una testimonianza importante

    Anche questo interrogativo resta insoluto. Se proprio volessimo arrischiare una definizione, accollandoci tutte le responsabilità del caso, potremmo identificarlo come un diario letterario, che attinge tanto dall’autobiografia quanto dal romanzo.
    Nell’opera, Mario La Cava ci ha fatto dono di una testimonianza originale per comprendere l’inquietudine precedente alla cosiddetta Guerra dei sei giorni – breve ma decisivo conflitto del giugno 1967 che portò Israele a conquistare buona parte dei territori contesi – e che vige tuttora in quell’angolo del pianeta.

    Le contraddizioni di un popolo tollerante e rigido insieme, le prime tensioni sociali, economiche e politiche, la complessità dei rapporti tra ebrei e arabi, paragonati, sotto il punto di vista sentimentale, ancora una volta ai calabresi, costretti a vivere da subordinati per il bene nazionale; aspetti che fanno del diario letterario – ci siamo convinti, sì – di La Cava uno scritto dalla «forte connotazione etica», come afferma Tassoni, da leggere, fedeli alle indicazioni dell’autore, in silenzio, con l’animo lene, spoglio dei pregiudizi e dell’arroganza propri di chi, postero ai fatti che è intento a leggere, crede di avere in mano la verità.

  • Autonomia differenziata, parla Esposito: Bonaccini? È come Calderoli

    Autonomia differenziata, parla Esposito: Bonaccini? È come Calderoli

    L’autonomia differenziata? «Ci spingerà ancor più verso la desertificazione».
    Parola di Marco Esposito, firma storica de Il Mattino, esperto di economia (esordì con Milano Finanza) e osservatore attento delle politiche nazionali più pericolose per il Sud.
    Lo ribadiscono due saggi, diventati instant classic: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020), nel quale fa il punto, con grande acume critico, sui pregiudizi antimeridionali ma anche sugli eccessi di certo meridionalismo.
    Il primo obiettivo polemico di Esposito è stato il federalismo fiscale. Quello attuale è l’autonomia differenziata. Su cui ha parlato di recente a Cosenza.
    Ma, specifica il giornalista napoletano, «io non ho pregiudizi verso l’autonomia differenziata in sé».

    Allora dov’è il problema?

    «Nella sua applicazione, ovviamente. Non ho alcun pregiudizio nei confronti delle autonomie. Semmai, occorre capire che non si può parlare di decentramento o accentramento in astratto: dire a priori che un sistema accentrato alla francese sia meglio di un sistema federale, come quello tedesco, è una sciocchezza»

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    Marco Esposito

    Però sei in prima fila nel contrasto al ddl del governo Meloni…

    «Certo, ma questo contrasto è anche critica allo status quo. Noi ci opponiamo all’autonomia differenziata perché, così com’è concepita, aumenterà i divari nel Paese, che invece vanno colmati»

    Calderoli e vari esponenti dell’attuale coalizione di governo negano o minimizzano questo rischio.

    «È scontato che l’oste difenda il proprio vino, in questo caso ben fermentato in cantine leghiste. Mi permetto di ricordare che, dietro questo ddl ci sono i referendum promossi in Veneto e Lombardia nel 2017. Entrambi su iniziativa di Roberto Maroni e Luca Zaia, che provengono dalla vecchia Lega di Bossi»

    Ma non si può gettare la croce solo sulla Lega. Anche la sinistra, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione ha calpestato qualcosa…

    «Per l’autonomia differenziata, ricordo una foto del 28 febbraio 2018. Questa foto ritrae Stefano Bonaccini assieme a Maroni e Zaia durante la firma dei tre accordi sulle autonomie assieme a Gianclaudio Bressa, allora sottosegretario in quota Pd del governo Gentiloni»

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    Tutti assieme appassionatamente: da sinistra, Maroni, Bressa, Zaia e Bonaccini

    Vogliamo ricordare il contenuto di quegli accordi?

    «Fissano i fabbisogni standard delle Regioni sulla base di due elementi: la demografia e il gettito fiscale. Se i requisiti sono questi, è ovvio che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che sommate sono più di un terzo della popolazione nazionale, faranno la parte del leone». Teniamo presente inoltre, che l’autonomia differenziata include Sanità, Scuole e Infrastrutture, che riceveranno più o meno finanziamenti a seconda dei territori»

    E quindi, per tornare a Bonaccini?

    «Quando Bonaccini afferma che non saranno toccati i Lea (Livelli essenziali di assistenza) e i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) dice una fake, né più né meno di Calderoli»

    Insomma, questa riforma sembra fatta apposta per danneggiare il Sud

    «Questa riforma riflette la volontà di dare maggiori diritti lì dove ci sono maggiori ricchezze. Che il Sud sia danneggiato da tutto questo, è una conseguenza. Ma non solo il Sud: l’Italia presenta, anche nel Centro-Nord, una geografia economica a macchie di leopardo. Quindi alcuni territori settentrionali, penso al Piemonte, subiranno dei danni»

    Stefano Bonaccini

    Ma il problema non è solo economico…

    «No. Questo ddl mette a repentaglio la coesione del Paese. Se i residenti della Lombardia ricevono più cure o cure migliori rispetto a chi vive in Calabria o in Campania, il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione va a farsi benedire»

    Non che ora questa situazione non ci sia…

    «Sì, ma l’autonomia differenziata la istituzionalizza. E lo fa senza interpellare gli amministratori più a contatto coi territori e i loro problemi»

    Cioè?

    «I sindaci e gli amministratori locali. L’autonomia differenziata, così com’è concepita, si basa sulla dialettica tra governo centrale e Regioni. Quindi, il sindaco di Napoli o quello di Reggio Calabria, due città metropolitane importanti, non hanno diritto di parola?»

    A proposito di sindaci: la “rivolta” contro l’autonomia differenziata ne vede molti sulle barricate, almeno al Sud

    «Sì e per due motivi: conoscono i problemi del territorio e sono eletti direttamente dai cittadini. Ricordo che quando sollevai il problema dei finanziamenti agli asili nido, presero posizione molti amministratori locali»

    Roberto Calderoli

    Però è strano che un giornalista debba dire ai politici come risolvere i problemi

    «Il giornalista che riesce a smuovere le coscienze fa il suo dovere. Non altrettanto si può dire dei politici che non prendono iniziative forti»

    È solo colpa dei politici?

    «Diciamo che il metodo di selezione della classe politica nazionale non aiuta. I parlamentari sono letteralmente cooptati dalle segreterie, quindi obbediscono a logiche di scuderia in cui le esigenze dei territori pesano poco. Inoltre, la tendenza ad allinearsi è dovuta anche a un certo meccanismo mediatico: se si sostengono certe tesi, si finisce sulla stampa e nelle tv che contano. Quando ci si lega ai territori, invece, si ottiene al massimo una visibilità di tipo locale»

    Tuttavia neppure i sindaci sono immuni da questo rischio

    «Più il Comune amministrato è grande, più i sindaci tendono ad allinearsi a logiche partitiche. Ma la dimensione locale e il contatto coi territori fanno da freno. Non è un caso che proprio i sindaci costituiscano oggi una sorta di opposizione civica»

    E i presidenti di Regione?

    «Il loro ruolo è più politico, quindi la tentazione di allinearsi per salire di gradino nella carriera è maggiore»

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    Una manifestazione contro l’autonomia differenziata

    Torniamo all’autonomia differenziata. C’è un aspetto del ddl su cui insistono in pochi: l’impatto sulla struttura costituzionale

    «è una vera e propria riforma dello Stato, operata al di fuori della Costituzione e in cui il Parlamento ha un ruolo marginale»

    Chiariamo di più

    «Allora, l’Italia è un Paese a regionalismo unitario. Tuttavia, le Regioni a statuto speciale hanno più poteri dei Lander tedeschi, che fanno parte di un sistema federale. Per capirci la piccola Valle d’Aosta ha più autonomie dalla Baviera, che è la zona più ricca d’Europa. Con le autonomie differenziate si arriverà al paradosso per cui alcune Regioni a statuto ordinario avranno, nei fatti, più potere di gestione delle Regioni a statuto speciale. Se questa non è una riforma costituzionale…»

    Che tuttavia esclude le istituzioni che dovrebbero farla…

    «Appunto. Il ddl minimizza il ruolo del Parlamento e degli attori istituzionali e “vola” sulle teste dei cittadini. Non proprio quello che dovrebbe accadere in una democrazia»

  • Strage di migranti, basta criminalizzare la solidarietà

    Strage di migranti, basta criminalizzare la solidarietà

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    «Potete respingere, non rimandare indietro», scrive Erri De Luca in Sola andata. Respingere sì, anche far morire, ma indietro non è possibile perché si scappa da un inferno che nel calduccio delle nostre case, nell’opulenza della nostra società, non possiamo nemmeno immaginare. Si muore in mare a poca distanza dalle nostre coste, come avvenuto poche ore fa. E la notizia giunge nel mezzo del pranzo domenicale, magari appena rientrati da una bella messa, commentando com’è stato bravo il parroco nell’omelia.

    Ma la morte a un passo non scuote più a sufficienza e la distrazione cui siamo precipitati consente a chi ci governa di dire che il problema sono le partenze. Meloni e Piantedosi hanno trovato la soluzione: restino a casa loro. È il mantra della destra da sempre, che ha trovato spazio nell’ipocrisia anche dei governi che di destra non volevano essere, ma che avevano ripudiato la solidarietà e messo in tasca gli affari con i governi tagliagole dei paesi da cui questa umanità sofferente prova a scappare. 

    Bufale e aridità

    Non importa che la percentuale di migranti ospitati nel nostro Paese sia molto più bassa di quella presente nel resto d’Europa, né che spesso l’Italia sia soprattutto un luogo di transito. Quel che conta è costruire abilmente un racconto che accechi gli animi prima che gli occhi, consegnandoci un’orda pericolosa che spinge alla porta sbarrata della fortezza Italia per espugnarla, contaminarla di culture che sono diverse. Ed ecco la bufala dei presepi in pericolo, della cristianità da proteggere come in una rinnovata battaglia di Lepanto, del lavoro da tutelare. Mentre il crudele mondo della realtà ci sbatte in faccia storie di disgraziati schiantati dal lavoro nei campi del meridione d’Italia, tornati indietro ai tempi del caporalato, sfruttati per una manciata di euro. Morti di fatica, morti di freddo, morti bruciati per scampare al freddo. 

    Migranti morti a Crotone, vittime predestinate

    I migranti sono le vittime predestinate di un meccanismo che colpisce solo gli ultimi. Sopra di loro ci sono gli scafisti, ma anche loro sono pesci piccolissimi in un mare dove girano squali famelici, intoccabili, anzi nemmeno nominabili, anzi forse con cui si fanno pure buoni affari. Una piramide criminale che sta dietro al fenomeno migratorio in cui nemmeno la ‘ndrangheta vuole entrarecome ha spiegato Anna Sergi su ICalabresi  pur se quei disgraziati vengono sbarcare e certe volte a morire proprio in Calabria.

    Per ogni governo e per questo in corso ancor di più, è più facile pensare a improbabili blocchi navali, magari da realizzare fornendo noi stessi le navi a quei paesi canaglia i trafficanti di uomini operano. È più facile criminalizzare la solidarietà, consegnare all’opinione pubblica le Ong come complici dei trafficanti. Il difficile è rassegnarsi al fatto che le migrazioni sono un fenomeno sociale vecchio quanto il mondo: si è sempre tentato di andare via dai luoghi dove non si poteva più vivere, per una guerra, per la fame, per una dittatura. E oggi vengono da noi, perché ci piaccia o meno, da questa pare c’è il mondo ricco.  

  • Valditara e il fascismo, la capriola del ministro

    Valditara e il fascismo, la capriola del ministro

    «In Italia non c’è nessuna deriva violenta, né alcun pericolo fascista», dice Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, dopo il pestaggio squadristico di Firenze e dopo la lettera della preside della scuola i cui studenti sono stati aggrediti. Poi aggiunge che se qualcuno non è d’accordo sarà «necessario prendere misure».
    In un colpo solo il ministro fa una capriola e dice una cosa e il suo contrario. Prima rassicura, poi non resiste e tira fuori la faccia feroce. Una volta si sarebbe chiamata “politica del doppiopetto”, un atteggiamento apparentemente democratico ma che maschera tentazioni illiberali. Al di là dei fatti, che pure vanno ricordati, le cose appaiono parecchio complesse.

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    La lettera dopo la quale Valditara ipotizza di «prendere misure»

    Il gruppo cui fanno parte i picchiatori trova posto in una sede di Fratelli d’Italia, che con molto ritardo e imbarazzo ha preso blandamente le distanze dagli squadristi che ospitano in casa propria. Del resto nel mese di novembre una delegazione di Azione giovani, cui fanno parte i picchiatori, fu ricevuta da Paola Frassinetti, sottosegretaria all’Istruzione. Tuttavia il cuore del problema pare un altro: c’è da sempre un convitato di pietra nella società italiana. Ed è il Fascismo, con i cui orrori non abbiamo mai fatto davvero i conti.

    Fascismo, quello che Valditara non dice

    Il fascismo nacque con un atto di codardia, Mussolini pronto a scappare in Svizzera nel caso l’armata Brancaleone che marciava su Roma fosse stata fermata. E si concluse con un atto di uguale viltà, con il Duce travestito da soldato tedesco per fuggire in Germania. In mezzo c’è l’orrore di un colonialismo straccione e genocida, per il quale nessuno ha mai pagato; la cancellazione dei diritti basilari di una società, la persecuzione degli oppositori, la chiusura di giornali, partiti, sindacati; la cancellazione di più di una intera generazione di giovani italiani, mandati a morire sul Don o in altri luoghi, per inseguire un sogno vanaglorioso; le leggi razziali e la complicità nella morte di migliaia di italiani di religione ebraica; e poi la ferocia dei repubblichini, il sadismo della banda Koch, le lunghe ombre eversive del dopoguerra, con tentazioni golpiste.

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    Mussolini e Hitler

    Al posto di questi fatti è stata, con un certo successo, raccontata una storia diversa. Fatta di italiani brava gente, non cattivi come le SS, di cose buone che pure sono state fatte, come sistemi pensionistici che in realtà hanno avuto origine assai differente. Sulla leggenda della puntualità dei treni vale la pena di ricordare la battuta tagliente di Pessoa che diceva che «se vivi a Milano e fascisti ammazzano tuo padre a Roma, potrai arrivare certamente in orario per il suo funerale».

    Il coraggio di fare i conti col passato

    Ci siamo raccontati un sacco di bugie, perché fare i conti con la nostra storia è difficile, ci vuole coraggio e ci è mancato. La conseguenza è che i fascisti possono affermare che il fascismo non c’è. E lo fanno mentre mostrano il manganello e preparano l’olio di ricino. Vorrebbero che nelle scuole si insegnasse quel che dicono loro, che si leggessero i giornali che sono loro graditi, i libri e gli autori non ostili. Anzi meglio levarli proprio i giornali e i libri: portano sempre una loro intima pericolosità. Al pensiero critico preferiscono il pensiero obbediente.

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    E invece dobbiamo portare nelle aule i libri e i film e i giornali che insegnano la libertà. E dobbiamo raccontare il fascismo nel suo autentico orrore, anche per non tradire il lascito di Parri che implorava di «non stendere un comodo lenzuolo di oblio su questa pagina di vita italiana».
    Alla fine, come sempre, si deve decidere da che parte stare. La scuola deve stare ogni giorno dalla parte della Costituzione, quella che dice che siamo antifascisti.