A vedere le bare e incontrare le famiglie dei sommersi non c’è andata. Partiamo da questo, che alla fine è il solo dato che vale la pena di affrontare. Giorgia Meloni ha portato il suo governo in Calabria, a Cutro, per fare una passerella mal riuscita.
Giorgia Meloni a Cutro: niente bare e qualche annuncio
Davanti ai cronisti ha difeso il suo ministro dalle dichiarazioni disumane. Ha spiegato che non è vero che non si è voluto fare qualcosa per salvare quei disgraziati, che dunque sono morti per colpa loro. Del resto la linea è quella: fermarli lì dove si imbarcano, con ogni mezzo. Per esempio, la Meloni ha pensato di fare un poco di buona comunicazione presso quei luoghi infernali da dove partono i migranti per spiegare loro che venire qui potrebbe essere mortale. Si potrebbe andare in Siria, o in Afganistan e dire a quella gente che prendere barconi semi galleggianti è pericoloso, meglio un aereo. Magari come deterrente si potrebbe diffondere un video con quelle bare che lei non ha voluto vedere. Le stesse che volevano d’urgenza spostare per levarle l’imbarazzo di quelle tragiche presenze.
Le novità dal Consiglio dei ministri
Qualcosa di nuovo tuttavia c’è stato. Per esempio è stato annunciato che ci sarà una restrizione nel rilasciare i permessi di soggiorno per protezione speciale. Si tratta di permessi rilasciati a quei migranti per i quali si afferma che il loro rimpatrio rappresenterebbe un pericolo per la vita, pur senza aver riconosciuto loro lo status di rifugiato politico o religioso. Fin qui non sono stati pochi i migranti che fuggendo da luoghi di guerra o tirannie, hanno potuto fruire di questa possibilità. In futuro a quanto pare non sarà più così. Però il CdM in trasferta calabrese ha detto anche che potrebbero aumentare le quote dei migranti che possiamo ospitare e questo risultato è stato sbandierato come un gesto di straordinaria generosità. Nei giorni in cui si contano i morti che ancora il mare restituisce alla pietà dei soccorritori, mettere sul piatto della bilancia un aumento del numero dei vivi che possono entrare è sembrato un gioco col pallottoliere.
Giorgia Meloni e la sceneggiata di Salvini a Cutro
Solo sulla spinta delle fastidiose insistenze dei cronisti presenti, il presidente del Consiglio ha detto che incontrerà i sopravvissuti alla tragedia e i familiari delle vittime, ma non subito. Più avanti magari, insomma poi vediamo, perché certe volte quelli che sono rimasti vivi fanno più impressione dei morti. E mentre Giorgia Meloni cercava di rintuzzare, rispondere, indignarsi, spiegare, il suo collega Matteo Salvini camminava tenendo in bella vista una cartellina che illustrava il progetto del ponte sullo Stretto e lo faceva in quella parte della Calabria più arretrata, dove non atterra un aereo, non arriva un treno e dove la strada è la più pericolosa d’Italia. Della serie: come vi sfotto io nessuno.
A Cutro alcune cose erano scontate. Ad esempio, la protesta pittoresca e ben orchestrata delle sigle autonome e delle associazioni più o meno antagoniste.
Il lancio dei peluche contro le auto blu e i cartelli esibiti nei pressi della sala comunale che ha ospitato il Consiglio dei ministri, sono stati più che eloquenti.
Facciamo una sintesi prima di procedere: Giorgia Meloni ha dato la sua versione, anche se con qualche “stecca” di troppo, e i giornalisti l’hanno contestata.
Ora riavvolgiamo il nastro.
Una contestazione a Cutro contro il governo Meloni
Meloni a Cutro: lancio di peluche e cartelli di protesta
Le immagini, riportate da tutti i media che contano con perfetto tempismo, sono chiare: lancio di peluche con chiara allusione ai dettagli più struggenti della tragedia, e slogan eloquenti.
Ne citiamo due, uno più inflazionato dell’altro: «Basta morti in mare», «Non in nostro nome». Retorica a parte, entrambi esprimono l’indignazione di chi chiede una risposta.
Ed esprimono una parafrasi di certo Sessantotto, in questo caso più addolorato che rabbioso. E ci sta.
Soprattutto, esprimono l’ansia di territori marginali – e perciò trascurati – che si ritrovano in primo piano solo quando capitano vicende eccezionali per la loro bruttezza.
Un’immagine simbolo della spiaggia della tragedia
Cutro protagonista
Cutro è protagonista e tutta la Calabria è Cutro: quella che si indigna, ma anche quella che vuole risposte. E le chiede in maniera dura.
Non era, va da sé, risposta quella di Matteo Piantedosi, che ha esibito un’empatia inesistente. Non sono risposte i rimpalli e i balbettii dei vertici amministrativi di chi avrebbe dovuto agire con più efficienza e velocità, magari calpestando i vincoli burocratici e legali che partono dall’Europa (in questo caso, Frontex), continuano nei corridoi dei ministeri e finiscono nei Comandi e nelle Capitanerie più periferici.
Sono risposte quelle della premier?
Meloni e il Cdm a Cutro
Il Cdm di Cutro è servito a due cose: diramare le prossime decisioni sulla questione migranti e difendere il proprio operato politico. Anzi, governativo.
Il contenuto dei primi è noto: superpene agli scafisti (trent’anni quando i migranti ci rimettono la pelle), superpoteri e superdoveri alle autorità italiane (cioè la possibilità di indagare anche in acque internazionali) e allargamento dei flussi migratori, giusto per bilanciare un po’ a sinistra cose dette a destra ma pensate altrove: cioè ai piani alti dell’Ue.
E l’autodifesa?
Le stecche di Giorgia
Una domanda di Virginia Piccolillo, tiratrice scelta del Corriere della Sera, scatena la polemica. Era una situazione di soccorso o di sicurezza?
Il problema è tutto qui. La presidente del Consiglio dà la risposta più comoda: Frontex ha fatto una segnalazione di polizia. Cioè: il caicco non era in difficoltà, poi è rimasto fermo a quaranta metri dalla riva per ore (ma non erano cento, i metri?) perché gli scafisti non volevano farsi beccare.
Alla fine è naufragato per colpa degli scafisti che volevano darsela a gambe. Meloni ha recitato come un mantra l’ordinanza del gip di Crotone e il verbale di fermo dei presunti nocchieri della morte.
Peccato le stecche, non proprio leggere: la presidente prima dice che Frontex ha avvistato il caicco nelle acque costiere, poi si corregge, richiamata anche dal moderatore. Quaranta chilometri dalle acque costiere, il dato esatto, fa una bella differenza.
Il governo al completo durante la conferenza stampa
La risposta che manca
Ancora: ma voi credete che il governo non volesse intervenire? Chiede all’uditorio con la classica domanda difensiva. Già: solo che non riferisce quel che è successo tra la segnalazione di Frontex e le prime ore del 26 febbraio.
Non è una lacuna piccola. Innanzitutto per la tempistica: l’avvistamento è avvenuto alle 22,40 del 25 febbraio, il naufragio tra le 3 e le 4 del mattino del 26. Più di tre ore di differenza.
In seconda battuta, la lacuna è grossa proprio nei termini della sicurezza che sta tanto a cuore al governo: possibile che in tre ore nessuno si sia mosso di fronte all’ipotesi di uno “sbarco”, per dirla in burocratese?
Un primo piano di Giorgia Meloni
Una targa non basta
Apporre sul municipio una targa commemorativa della tragedia non basta. E non basta trasformare Cutro in Capitale simbolica per poche ore.
Andrò al PalaMilone, avrebbe promesso Giorgia alla fine della conferenza stampa. Poi la retromarcia: un invito a Palazzo Chigi ai familiari delle vittime.
Il che tradisce qualcosa di troppo: la considerazione della Calabria come territorio marginale che, in fin dei conti, porta troppe rogne e, persino, un po’ sfiga.
Infatti, hanno ribadito la premier e Salvini, «oggi abbiamo fatto venticinque salvataggi in mare». Solo in Calabria si muore, quindi.
E, a proposito di considerazioni: che dire del moderatore che chiede “professionalità” ai giornalisti ma poi dice “Curto” anziché Cutro?
Preferisco sia Claudio a parlare di sé affinché la terribilità di pene come l’ergastolo ostativo e il 41 bis non siano considerate una forza motrice in grado di annullare l’orientamento al crimine. Si può fare invece qualcosa in più, non in termini di terribilità nonostante un Parlamento a trazione giustizialista. E Claudio è un esempio concreto di “quel qualcosa in più” davvero funzionale a riconsiderare le proprie azioni e cambiare.
Il regime di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario è una misura la cui esigenza è incontestabile a mio giudizio. Ma riguarda solo coloro che si ritiene possano dare ordini dal carcere ai propri sottoposti. Quindi, è una misura strettamente necessaria all’interruzione dei rapporti tra figure apicali di associazioni criminali o terroristiche e loro affiliati all’esterno.
Individualisti e associazioni
Non ritengo, dunque, inutile questa misura in relazione alle motivazioni che l’hanno concepita. Il problema è che scuote le coscienze per come viene applicata. Si tratta di una vera e propria tortura e indigna oltremodo il fatto che l’abbiano inflitta persino a Cospito, che arriva da dieci anni scontati in AS2, che certamente si è reso responsabile di reati che prevedono pene elevatissime pure in assenza di vittime. Ma non si tratta di reati che prevedono il regime del 41-bis, che non si applica neppure agli associati alle organizzazioni criminali ma solo alle figure apicali, figuriamoci a un anarchico individualista.
41 bis: legittimo, ma con dei limiti
Va sottoposto a severa critica sia l’uso smodato e reiterato di questa sanzione sia come essa viene applicata perché è un regime di sostanziale isolamento e di afflizioni che non hanno alcuna logica. La sua messa in pratica ne ha di fatto smentito le intenzioni originarie. Intanto raramente si verifica una revoca di tale misura. La maggior parte dei condannati ne subisce automaticamente la proroga ben oltre il decennio e con il corollario costante di inutili vessazioni. Gravi malati oncologici ormai privi di qualsiasi autonomia e funzioni o persone con patologie psichiatriche irreversibili quali ordini dovrebbero impartire? Che senso ha il limite di un colloquio al mese con i familiari se la conversazione avviene per mezzo di un citofono con un vetro divisorio e tra l’altro tutto registrato? Perché limitare il numero di libri che si possono tenere in cella?
La Corte europea dei Diritti dell’uomo – I Calabresi
Come fa ad esserci una perdurante attualità criminale di fronte a un tempo così lungo per circa 750 persone? Questo è all’incirca il numero di detenuti al regime di isolamento. È vero che la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno dichiarato che il 41 bis è legittimo e compatibile con il divieto di trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità. Contestualmente, però, vi è sempre stata la sottolineatura sui limiti temporali all’applicazione del 41-bis, invocandone la temporalità, la provvisorietà e la sua revoca. Invece, si verifica sempre una superficiale e irragionevole quanto inutile replica negli anni.
Isolamento e diritti
Sono persuasa che andrebbero raccolte testimonianze e studiati i referti medici di persone che hanno vissuto questa condizione per mostrare lo stato di un corpo e di una mente dopo l’esperienza di decenni di isolamento. Le neuroscienze – con l’apporto di altre discipline quali la psicologia, la sociologia, la psichiatria, la medicina legale, le scienze del comportamento e la genetica comportamentale – dovrebbero mostrare le conseguenze di tale trattamento, altro che compatibile se non è applicato per come è scritto sulla carta.
Il problema è che la società non ha voglia di verità e giustizia. Ormai è troppo incattivita e asservita a una logica eminentemente repressiva della lotta alle mafie e per questo il ministro può girarsi tranquillamente da un’altra parte. Per l’opinione pubblica quanti si siano macchiati di determinati reati non sono più individui, cittadini, persone, esseri umani. E qualsiasi discussione costruttiva, così, diventa complicata se non impossibile. Invece i diritti umani fondamentali vanno riconosciuti a ciascuna persona, anche se si è macchiata di fatti gravissimi.
L’Università della Calabria
Innumerevoli nostri studenti del Pup (Polo universitario penitenziario, ndr) dell’Università della Calabria provengono da più di un decennio di 41-bis e condanne all’ergastolo ostativo. E 35 detenuti attualmente al 41 bis sono iscritti a percorsi di studio universitari in vari Atenei italiani. La carcerazione delle persone ha uno scopo e non può essere vendetta. Non sta scritto da nessuna parte che le persone sottoposte al regime del 41bis debbano essere escluse dall’offerta trattamentale per il reinserimento che spetta a tutte le persone ristrette. Non deve rammaricarsi l’opinione pubblica: nessun contatto o celle aperte o riduzione della vigilanza, niente di più falso.
Il caso Cospito
L’illegittimità del provvedimento di applicazione del 41 bis a Cospito è la motivazione alla base della sua protesta. A mio avviso giustamente rifiuta di accettare passivamente una pena così ingiusta. Sia lo Stato che l’Amministrazione penitenziaria sono responsabili delle condizioni di vita e di salute di Alfredo Cospito. Ma lo Stato non può coartare la volontà di Cospito di protrarre sine die il suo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze: è un suo diritto lasciarsi morire. Che poi la sua battaglia personale si sia tramutata in una battaglia contro il 41-bis perché stranisce?
Inoltre, non si possono criminalizzare tutti coloro i quali contestino l’ingiusta applicazione del 41 bis a Cospito magari srotolando striscioni contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo.
Uno striscione di protesta contro il trattamento riservato all’anarchico Alfredo Cospito
Chiunque sia sano di mente non tollera, non accetta e non condivide azioni violente contro cose o persone e neppure chi incita alla violenza. Ma non può neppure accettare la tesi che dall’isolamento nel quale si trova Cospito abbia dato seguito a una trattativa tra anarchici e mafiosi. È stato scritto che Cospito sia d’accordo con ‘ndranghetisti o camorristi. Semplicemente Cospito durante un’ora d’aria ha parlato con le selezionate persone lì collocate, degli argomenti principali di cui si parla in qualsiasi regime e sezione. Doveva stare muto? Non aveva come limitazione di stare pure in silenzio, almeno fino a oggi non è stata escogitata anche questa privazione. Anche noi universitari in carcere parliamo con persone condannate per mafia. Non siamo accondiscendenti con i loro eventuali desiderata e neppure empatizziamo con i mafiosi solo perché dialoghiamo con loro.
Il cimitero dei vivi e la sentenza Viola
Le carceri italiane sono ancora cimitero dei vivi per circa mille condannati alla pena inestinguibile, il fine pena mai. Diverse decisioni della Cedu ci dicono che le carceri devono essere umane. Si pensi alla famosa “sentenza Viola”, che aveva condannato l’Italia per trattamento inumano riservato al detenuto Marcello Viola che non poteva collaborare con la giustizia essendosi sempre dichiarato innocente. E poi, successivamente, i diversi ricorsi dell’Italia sempre respinti in sede europea. Con la sentenza Viola, lo Stato di diritto ha superato quella tensione che in nome dell’emergenza nel 1992 ha stravolto principi costituzionali introducendo in una stagione indubbiamente tragica, dopo le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una legge ritenuta indispensabile in quel momento per contrastare la mafia anche attraverso una risposta legislativa illegittima che portò in quel momento a derogare sul rispetto della Costituzione.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
In ogni caso oggi siamo lontanissimi dalla stagione delle stragi mafiose. Se il rispetto dei valori costituzionali dei due magistrati Falcone e Borsellino è nota anche alle generazioni dei più giovani grazie anche al dibattito costante all’interno delle scuole, la misinformazione dei media e persino di alcuni magistrati che attribuiscono la paternità dell’ergastolo ostativo a Falcone e Borsellino, accosta costantemente i loro nomi alle narrazioni repressive della lotta alle mafie quando invece le loro posizioni sono sempre state conformi al dettato costituzionale, in linea con l’idea di un carcere compatibile con la Costituzione.
Collaborare è importante, ma non sempre si può
Se non si può escludere che un ergastolano ostativo che non collabori mantenga contatti con i sodalizi criminali dei territori di appartenenza è irragionevole però la presunzione di attualità dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata se non collabora. È importante la collaborazione, nessuno lo mette in dubbio. Ma una sana democrazia non può usare la collaborazione come arma di ricatto.
Vi sono innumerevoli ragioni che inducono un condannato a non collaborare e che, come ribadito dalla Cedu (Viola contro Italia) e dalla Corte costituzionale, possono non essere dettate dalla intenzione di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata. Potrebbero, bensì, dipendere dall’esigenza di proteggere la propria famiglia dalle vendette criminali. Oppure i condannati non possono rendere alcuna collaborazione utile perché tutti i nomi e ogni aspetto delle passate vicende criminali sono ormai note alla magistratura magari perché rese da altri coimputati pentiti. O, ancora, il loro apporto criminale nell’ambito del clan è stato marginale, di semplice manovalanza e dunque tale da non conoscere fatti o persone utili alla collaborazione. Se poi consideriamo i casi di coloro che, pur condannati, si professano innocenti, come potrebbero collaborare se non accusando falsamente qualcun altro?
Franca Garreffa Sociologa Dispes, Università della Calabria
Sono talmente stremati, arrabbiati e sfiduciati i familiari dei naufraghi che, poco fa, hanno provato a bloccare un camioncino di una nota azienda di acqua davanti ai cancelli del PalaMilone. Pensavano che nel retro del mezzo ci fossero le salme dei loro cari. Ma il Governo, nello specifico il Viminale, in un primo momento, ha deciso contro la loro volontà di trasferire i corpi dei migranti nel cimitero di Borgo Panigale (Bologna) e in altre città d’Italia che si sono rese disponibili a ospitarle. Da lì poi, forse, ricomincerà eventualmente la trafila dei trasferimenti. Tuttavia la vicenda è finita in stand by, grazie alla mediazione del Prefetto e del sindaco di Crotone: nessun “trasloco” l’assenso dei familiari. Bologna accoglierà ventiquattro salme, quattordici delle quali già partite. Per altre diciassette, che dovrebbero tornare in Afghanistan, si attende il completamento delle pratiche burocratiche.
Salme dei migranti di Cutro trasferite per l’arrivo del Governo?
La scelta originaria, si diceva, è del ministro Piantedosi. E, proprio come le sue parole all’indomani della tragedia di Steccato di Cutro, ha alimentato da subito le polemiche. Un vero capolavoro di ipocrisia del Governo, secondo molti: soltanto una settimana fa, dopo la visita del capo dello Stato, l’Italia aveva promesso di farsi carico di costi e trasferimenti nei Paesi d’origine, in accordo tra ambasciate e familiari.
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone
Invece, no, non si può più aspettare. Perché domani ci sarà il Consiglio dei ministri – dove pare che neanche il sindaco padrone di casa sia stato ammesso – e sarebbe un grande imbarazzo per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, arrivare in un luogo che sa ancora di morte e disperazione. Così come potrebbe imbarazzare il confronto con l’omaggio silenzioso del Presidente Mattarella alle vittime. Rischierebbe di evidenziare, se possibile, ancor di più il ritardo dell’Esecutivo nel far sentire la propria presenza sul luogo della tragedia. Ma, a quanto pare, sono cambiate le carte in tavola.
La protesta dei familiari
Molti dei parenti delle vittime chiedono, pretendono, che, dopo 13 giorni di attesa, le bare vengano riportate da Crotone il prima possibile nei Paesi di origine. Lì dove è giusto che vengano pianti dalla loro comunità e celebrati riti funebri secondo il loro credo.
Da stamattina hanno occupato il piazzale davanti al Palazzetto e promettono di andare avanti a oltranza.
Tre migranti pakistani, sopravvissuti alla tragedia di Cutro, arriveranno tra martedì e mercoledì a San Benedetto Ullano, paese arbëresh in provincia di Cosenza. Sono stati affidati all’associazione don Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa. Il presidente è Giovanni Manoccio, sempre in prima linea sul tema dell’accoglienza e della difesa di chi fugge da guerre e povertà. A ICalabresi spiega il senso del suo impegno decennale.
Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro
Dal 2010 opera l’associazione don Vincenzo Matrangolo…
«Abbiamo iniziato questa avventura di accoglienza nel 2010 ad Acquaformosa. Era come nuotare in mare aperto. Non c’erano figure professionali. Ma c’era la consapevolezza che potevamo farcela. Ragazzi molto motivati e alcuni professionisti disponibili. Erano anni di grande esposizione mediatica del Comune. Tanti giovani lavoravano in questa impresa sociale. L’associazione poi si è allargata in 5-6 comuni poi diventati 10. Con una caratteristica fondamentale: l’accoglienza dei paesi arbëresh. Cinquecento anni prima i nostri avi avevano vissuto la drammaticità di questi momenti. Noi abbiamo ridato ai territori quello che abbiamo avuto dalla Calabria. Siamo stati vecchi ospiti di questa terra. Il progetto ha accolto nel corso degli anni oltre 1600 persone, provenienti da 70 nazioni, 140 etnie. Poi ancora vulnerabili, vittime di tratta. Davvero un campionario incredibile di esperienze. Oggi l’associazione ha 110 dipendenti. Questa economia sociale ha fatto sì che tanti nostri giovani laureati siano rimasti nei loro paesi. E tanti ragazzi che non lo sono hanno avuto una possibilità. Un modello di vita per loro, perché lavorare nell’immigrazione non è facile».
Studenti stranieri per uno stage ad Acquaformosa dialogano con la mediatrice culturale dell’associazione “Matrangolo”
Come inizia la sua storia di accoglienza?
«Il giorno dello sbarco della Vlora io ero a Bari. Ricordo ancora una madre che partoriva nel porto. I cittadini pugliesi che donavano cibo e vestiti. Ero un giovane assessore. Andammo alla prefettura di Cosenza e facemmo in modo che molti di loro restassero nei nostri paesi. Molti hanno messo famiglia e radici qui da noi. Quel giorno del 1991 a Bari non lo dimenticherò mai. Gente in fuga per la libertà. Da lì nasce la mia volontà di accogliere».
Cosa c’è dietro quelle parole di Piantedosi sui migranti a Cutro?
«È la loro cultura. La conseguenza di ciò che avevano fatto poco prima, iniziando la battaglia contro le Ong. Diventano sempre più inumani per dimostrare al loro elettorato razzista e xenofobo che loro non sono come quelli di prima. Una logica conseguenza di un non politico che utilizza un linguaggio meramente burocratico».
Quel che resta di una tutina da neonato sulla spiaggia della tragedia a Cutro
Il centrosinistra ha pure le sue responsabilità
«Molti sindaci del centrosinistra hanno fatto tanto nelle loro comunità accettando la sfida dell’accoglienza. Ma se penso a Minniti e agli scellerati accordi con la Libia… Ha affrontato l’immigrazione con un approccio securitario.
Mi auguro che i nostri politici, destra e sinistra, cancellino la Bossi-Fini. Poi serve diversificare tra progetti di accoglienza pubblici e privati. I secondi sono la negazione dell’accoglienza. Su questo il mio partito, il Pd, ha fatto pochissimo. La sinistra ha perso un’occasione».
Giovanni Manoccio e la neo-segretaria del Pd, Elly Schlein all’Università della Calabria
E adesso con Elly Schlein cosa cambia?
«Credo in un rovesciamento di posizioni. In questi giorni ho parlato con Elly Schlein, la neo-segretaria che, tra l’altro, ho sostenuto al congresso. Da europarlamentare mi invitò a Bruxelles. Si interessava di queste cose. Anche la sua visita a Crotone, privata e senza rilasciare interviste, dimostra un approccio diverso del Pd rispetto a tali problemi.
La Schlein deve sostituire quelli della mia generazione. E muoversi sull’onda di un entusiasmo palpabile tra la gente. La conosco dai tempi di Occupy Pd. Io c’ero quel giorno a Roma, e ho rischiato di essere arrestato (ride ndr). Non volevano farci entrare nella sede del Partito democratico».
Autonomia differenziata o secessione?
«Una condanna a morte per il Sud. Un processo lungo. Quando ero sindaco di Acquaformosa mi sono accorto che ogni anno arrivavano circa 240 euro per ogni cittadino. E in Lombardia ed Emilia c’erano invece punte di quasi 500 euro di trasferimenti statali pro capite. Quindi? Il welfare pubblico funzionava con questi soldi. Consentivano di gestire asili nido, scuole materne, le strutture del dopo di noi.
Come fa il Sud a recuperare questo gap se passa la logica dell’autonomia differenziata? Colpirà il welfare, la salute delle persone, i servizi sociali, la scuola. Così si compie un delitto ai danni delle regioni del Sud».
Roberto Occhiuto alla fine non ha opposto resistenza al ddl Calderoli
«Un presidente calabrese che cerca di stravolgere la realtà non fa bene né a se stesso né alla regione. La classe dirigente locale è arroccata su stessa. Vive dei poteri logorati, che sono quelli regionali. I nostri ragazzi se ne vanno, i nostri ospedali chiudono, i nostri edifici scolastici non sono a norma».
Sono finiti i tempi del Decalogo di Firmoza? Oppure lei vede similitudini con quello che accade oggi?
«Quel decalogo era una provocazione. Ma a rileggerlo si intravede tutto quello che emerge con l’autonomia differenziata. Era anche una trovata mediatica per denunciare l’isolamento istituzionale e politico di paesi dell’Italia interna come Acquaformosa».
Si terrà tra tre giorni, giovedì 9 marzo, il Consiglio dei ministri a Steccato di Cutro. Che il summit dell’Esecutivo fosse prossimo era ormai cosa nota, dopo le dichiarazioni della presidente Giorgia Meloni a riguardo. La conferma ufficiale è arrivata, però, soltanto negli ultimi minuti, con una nota di Palazzo Chigi. Nessun dettaglio al momento su sede e orario dell’incontro. Né, tantomeno, sui temi all’ordine del giorno della riunione.
Mentre ancora il mare restituisce i corpi di due bambini, Giorgia Meloni annuncia che il prossimo Consiglio dei ministri si terrà a Cutro. Con colpevolissimo ritardo chi ci governa si accorge della tragedia e del peso insostenibile della sua assenza sul luogo del dolore. «Venga come madre», invoca Carmine Voce, sindaco di Crotone. Verrà, forse, indossando la veste ufficiale, con al suo fianco il ministro per il quale quella umanità disperata è un fastidioso carico residuale, dimostrando che lo Stato può essere «il più gelido degli gelidi mostri», come annunciava senza sbagliare Nietzsche.
Giorgia Meloni e il Consiglio dei ministri in Calabria
Un Consiglio dei ministri a Cutro non è un gesto simbolico per dimostrare di esserci. Dopo le parole non rinnegate del ministro dell’Interno e dopo non aver avuto il coraggio di partire tempestivamente per guardare in faccia l’orrore generato da una politica di negazione dell’accoglienza, risulta un oltraggio per le associazioni che si sono impegnate per fornire assistenza, uno schiaffo per i moti spontanei di solidarietà venuti da tutta la comunità, perfino per le donne e gli uomini in divisa che di notte e senza mezzi adeguati hanno recuperato dal mare poveri corpi. Insomma, uno scherno per la Calabria.
Un momento dei soccorsi
Cosa decideranno nel corso di quel Consiglio che si terrà poco distante da dove la notte del 26 Febbraio donne, uomini e bambini sono morti annegati perché crudelmente si è voluto da tempo trasformare i soccorsi in operazioni di polizia? Quali provvedimenti saranno assunti? È possibile che il ministro Piantedosi non possa esigere ulteriori espedienti per rendere ancora più difficile le operazioni di salvataggio da parte delle navi delle Ong. Pare, infatti, che la Meloni stia accarezzando l’idea di mettere momentaneamente da parte lespietate norme salviniane verso i migranti.
Opportunismo politico e senso dell’umanità
Non si tratta di un sussulto di umanità, più probabilmente di opportunismo politico: dalla spiaggia di Cutro ancora si odono le urla di quanti sono morti annegati e il clima non sarebbe favorevole al governo. È probabile tuttavia che venga ribadito che l’obiettivo resta quello di «non farli partire» e che chi ci prova deve assumersi la responsabilità delle conseguenze. Oppure verranno a Cutro a spiegarci quanto sarà bella l’autonomia differenziata per la parte della Calabria che è in fondo a ogni classifica, nella regione più povera del Paese, dove la qualità e perfino la durata media della vita è inferiore rispetto al resto d’Italia?
La Via Crucis dei cittadini comuni dopo la tragedia di Steccato di Cutro
Intanto cresce la rete di associazioni sorta attorno alla mobilitazione successiva alla tragedia del 26, una moltitudine di persone provenienti da storie ed esperienze differenti e tuttavia accomunate dall’impegno di non voler smarrire il senso dell’umanità.
Saranno queste persone a organizzare una manifestazione nazionale sabato 11 Marzo al fianco della comunità di Cutro. Saranno loro a fare la differenza.
Le urla di dolore si sentono ormai in tutta Italia mentre il numero dei cadaveri ritrovati dopo ilnaufragio di Cutro cresce e si avvicina alle tre cifre. In quella che passerà alla storia anche come la strage di Crotone c’è sicuramente un mai-visto-prima. E non solo per l’orrore degli eventi in sé, ma anche per ciò che si è appreso dopo gli eventi: le notifiche di soccorso mancate, il rimpallo tra Frontex e Guardia Costiera, gli interventi (alcuni a sproposito) della magistratura, la confusione tra interventi di polizia e interventi di sicurezza in mare. Senza dimenticare i commenti dei politici. Posticci, artefatti, qualcuno forse sincero, qualcuno addirittura criminale, laddove il crimine commesso si può ipotizzare come vilipendio della vita umana e della capacità, anzi del diritto umano, di auto-determinazione.
Ignoranza e razzismo
È quasi criminale in questo senso il commento del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha affermato davanti alla tragedia: «Io non partirei se fossi disperato, sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso».
In questa affermazione il ministro sembra confondere il diritto all’auto-determinazione e alla partenza in caso di “disperazione” (dal conflitto, dai disastri naturali, dalla povertà) con la prospettiva – spesso vuota – di una certa parte di neoliberisti ossessionati dalla retorica dell’individualismo e fortemente concentrati sull’idea che individualismo escluda ogni forma di debolezza o dipendenza.
Matteo Piantedosi
Ma in questo commento, e in altri simili tra cui quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha ricordato come il governo stia cercando di aiutare questi migranti a non partire e cadere vittima di trafficanti e criminali organizzati vari con decreto flussi e corridoi umanitari del caso – c’è solo tanta ignoranza su come funzionano effettivamente i traffici criminali verso le coste del Sud, inclusa la tratta di umani. E c’è una buona dose di razzismo.
La crimmigration? Paura dell’altro
Il razzismo di cui si parla qui non riguarda i colori della pelle – non sempre e non solo, almeno – ma passa da una parola apparentemente neutra – quella di ‘migrante’. Il termine migrante, quando non seguito da specificazioni, attiva istantaneamente una serie di pregiudizi, culturali, razziali, sociali, che spesso fanno dimenticare o passare in secondo piano l’umanità dietro questa etichetta.
Carola Rackete, capitano della nave Seawatch impegnata nel salvataggio di migranti
Si è parlato di fondamentalismo culturale, oppure di razzismo istituzionalizzato, all’interno di un fenomeno più ampio dove il potere costituito usa i cardini e gli strumenti del sistema penale per affrontare un problema di controllo dei confini e della migrazione. È la cosiddetta crimmigration – “crimmigrazione” – ed ha risultati simili ovunque nel mondo: si deumanizzano le vittime e si giustifica il loro trattamento – chiamato “di sicurezza” ma effettivamente “punitivo” – come risposta legittima, meritata e appropriata alla “violazione della legge” legata alla violazione dei confini.
Brandire una bandiera di legalità astratta, dunque, aiuta a criminalizzare le ONG in mare, ad arrestare la Carola Rackete di turno e chi come lei si appella al diritto naturale alla vita e non al rispetto dei confini imposti da uno stato cieco, si ribella a chi chiude i porti, e rifiuta di far finta che il diritto universale e internazionale non imponga il salvataggio delle vite umane a prescindere dalla volontà dei vari governi della fortezza-Europa.
Il nebuloso concetto di sicurezza nazionale, come europea, sta al centro della crimmigration. Ma di base la crimmigration – al suo cuore – è solo la paura dell’altro.
L’ossessione della sicurezza
Crimmigration è un termine coniato in criminologia nel 2006che descrive la progressiva criminalizzazione di rifugiati, migranti richiedenti asilo, e in genere migranti che arrivano per mezzi considerati illegali, grazie a due processi interconnessi.
L’aumento di politiche di controllo della migrazione alle frontiere (per esempio bloccando le navi delle ONG all’arrivo nei porti). Queste politiche sarebbero volte a ridurre i flussi migratori, quasi per magia. Ma è provato che non portano a una diminuzione della migrazione in sé, quanto in realtà aumentano soltanto le possibilità di immigrazione clandestina (ergo criminalizzata).
Militanti di Casa Pound contro l’immigrazione clandestina
La retorica della migrazione come cancerogena per le società riceventi è diventata cavallo di battaglia di partiti populisti che ricorrono all’istigazione all’odio quando i numeri e i dati non sono facilmente interpretabili a loro favore: ricordate il muro tra Messico e Stati Uniti paventato dall’ex-presidente USA, Donald Trump?
Trump ad Alamo, in visita a un sito di muro al confine tra Texas e Messico
E così stereotipi che troppo spesso non hanno fondamento scientifico diventano verità incontrovertibili; diffuse paure dell’altro diventano ossessioni per la sicurezza e repulsione dell’altro; erronee comprensioni di come funziona il crimine, soprattutto quello organizzato, assegnano etichette di criminali un po’ a caso.
Gli altri (non) siamo noi: il complotto dello straniero
La paura primaria dei migranti – così etichettati, ricordiamo, nel tentativo di essere “politicamente corretti” e mostrarsi neutri – va a toccare corde profonde quanto irrazionali: lo straniero diverso (non come noi); i migranti poveri che commettono crimini, stupri, furti (non come noi); i migranti che rubano il lavoro agli Italiani (non come noi). C’è chiaramente un’errata percezione dei migranti come ‘altri’ e ‘diversi’ che passa da un’errata percezione di noi, e del riconoscimento del noi negli altri.
Il ministro Salvini durante un’iniziativa della lega di qualche anno fa
Questa distorsione è costituente e costitutiva del modo di presumere che il “migrante” che arriva per vie illegali e/o disperato a chiedere asilo e soccorso, sia “povero”, “ineducato” e soprattutto inferiore. Questa distorsione risponde a una logica che in criminologia si chiama “complotto dello straniero” oppure alien conspiracy theory, che immagina l’ordine sociale dipendente dalla omogeneità e dalla staticità del concetto di sicurezza. Dico immagina perché l’ordine sociale può solo utopisticamente considerarsi mai tale. Bisogna rovesciare il paradigma con i dati alla mano: non è l’arrivo di migranti che crea ‘disordine’ e ‘insicurezza’, ma la cattiva gestione del sistema accoglienza, la criminalizzazione ingiustificata di chi attraversa i confini per motivi umanitari – che sia migrante o capitano di nave a bandiera ONG, e soprattutto l’aizzare le folle all’odio dell’altro anziché promuovere l’empatia e la compassione umana universale.
La crimmigration ferma la solidarietà
Oltre a consolidare queste basi concettuali, la crimmigration ha poi ulteriori effetti nefasti: per esempio, la solidarietà interrotta. Quella delle ONG criminalizzate, quella dei morti in mare per soccorsi che non arrivano in tempo, quella della burocrazia dei visti più becera che si affida ad algoritmi e non a principi di umanità nel fare scelte che cambiano la vita delle persone.
L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano
La solidarietà interrotta di stelle cadenti come Mimmo Lucano, in attesa di processo di appello dopo essere stato condannato in primo grado per illeciti amministrativi visti con le lenti di una forma di associazione a delinquere mirata all’accoglienza e al fare dell’accoglienza un modo per salvarsi anche a casa propria, passando forse dalla disobbedienza civile. La solidarietà interrotta causata dalla crimmigration passa da uno step fondamentale: chi aiuta i diversi non riconosce e non salvaguardia il noi e questo, di nuovo, fa paura, sebbene sia proprio dal riconoscimento dell’altro che, dicono i filosofi, appare lo specchio di chi siamo noi.
L’insostenibile pesantezza della compassione
Ma tutto questo – solidarietà criminalizzata, paura del migrante ‘diverso’ e politiche di crimmigration che interrompono la solidarietà – dovrebbe correggersi, o auto-correggersi, di fronte a tragedie come quella di Cutro. Dove altro si vede l’umanità e l’uguaglianza degli uomini – migranti – se non in queste morti? E invece no. Invece guardiamo le bare che si accumulano, e la compassione collettiva (quella individuale è intima) rimane superficiale.
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone
Diceva Milan Kundera: «Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il proprio dolore pesa tanto quanto il dolore che si prova con qualcuno, per qualcuno, un dolore intensificato dall’immaginazione e prolungato da cento echi». E nell’insostenibile pesantezza della compassione per l’altro, ecco che emerge chiaramente l’insostenibile leggerezza scelta da alcuni uomini e alcune donne del nostro governo, umani solo a metà.
Roberto Fico a Cosenza va subito al dunque: «Il governatore Occhiuto indebolisce la Calabria e i calabresi» con il parere favorevole all’Autonomia differenziata. Quella di Calderoli, l’autore del ddl in questione. Ecco pronto l’altro affondo confezionato dall’ex presidente della Camera: «La Lega ha fallito al Sud e per questo li hanno ricacciati al Nord». Poi arriva il bersaglio grosso per il presidente del comitato di garanzia del Movimento 5 Stelle: «Dobbiamo attaccare FdI e il presidente del Consiglio». Perché in merito alla riforma che rischia di dividere l’Italia in due non avrebbe arginato il Carroccio.
E adesso che il Pd ha cambiato segretario con una (per ora solo annunciata) svolta a sinistra tutto sembra più facile? Fico sottolinea: «So che la Schlein ha delle sensibilità comuni su molti temi quindi vedremo come verranno declinati all’interno del partito democratico. Penso alla transizione ecologica, al salario minimo. Siamo all’inizio di un percorso e dobbiamo valutare».
La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico con l’ex presidente della Camera, Roberto Fico (foto Alfonso Bombini)
Il tour di Fico contro l’Autonomia differenziata
“Verso Sud. La strada per crescere non è l’autonomia differenziata”. È questo il titolo dell’incontro di ieri a Villa Rendano, organizzato dal Movimento 5 stelle. Prima tappa del tour calabrese di uno degli esponenti di punta dei pentastellati.
A coordinare i lavori e intervenire per prima è stata la parlamentare Anna Laura Orrico: «Il centrodestra vuole un’Italietta di interessi particolari e regionalismo». Ribadisce i problemi dei piccoli comuni calabresi alle prese con le difficoltà tecniche del Pnrr: «Saranno costretti a rinunciare a 10 milioni di euro». Il Disegno di legge Calderoli «ingigantisce le disuguaglianze». Il rischio è pure la «differenziazione degli stipendi degli insegnanti».
Veronica Buffone, assessore al Welfare del Comune di Cosenza
Senza mezzi termini l’assessore al Welfare del Comune di Cosenza in quota 5 stelle, Veronica Buffone: «Avremo cittadini di serie A e serie B con la riforma Calderoli, che attacca le fasce più deboli e si basa sulla spesa storica». Giuseppe Giorno, consigliere comunale di Luzzi, tuona: «La Regione Calabria è disastrosa in merito a questa vicenda».
Per il consigliere regionale del M5S, Davide Tavernise «la chiamano autonomia differenziata ma in realtà è secessione» e intanto «Occhiuto segue i comandi del suo partito».
Tra gli interventi spicca quello di Umberto Calabrone, segretario regionale della Fiom Cgil. Che sottolinea l’inadeguatezza e la poca lungimiranza della classe politica rispetto al Ddl Calderoli. Hanno preso la parola anche i parlamentari grillini Antonio Caso e Carmela Auriemma. Fino alla chiosa di Roberto Fico: «Nessuno vuole l’autonomia differenziata se gliela spighi bene».
Nicola Calipari. Un eroico funzionario dello Stato. Oppure la persona giusta nel luogo e momento sbagliati.
Morto nel compimento del proprio dovere oppure vittima di una tragica fatalità. Il calendario scorre e segna, oggi, diciotto anni dalla morte dello 007 originario di Reggio e cosentino adottivo. Ma anche poliziotto cosmopolita, con esperienze all’estero, iniziate nel 1988 in Australia presso la National Crime Authority alla quale fornì la propria collaborazione su un argomento che ogni sbirro calabrese sa a menadito: la ’ndrangheta.
Ma riavvolgiamo il nastro.
Il rapimento
L’Iraq non è una zona sicura. Non lo è, soprattutto, nei primi mesi del 2005, un anno e mezzo dopo la fine della fase principale della Seconda guerra del Golfo, che ha cancellato il regime di Saddam Hussein e destabilizzato il Paese. L’Iraq di quegli anni, insicuro per i militari, è addirittura pericolosissimo per i civili.
Funzionari, volontari o giornalisti.
Di questa pericolosità fa le speseGiuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto e collaboratrice di Die Zeit. La giornalista piemontese, nel febbraio 2005 è a Baghdad, per scrivere dei reportage sulla guerra. Il 7 febbraio 2005 viene rapita vicino alla zona universitaria.
Poco meno di un mese prima, il 5 gennaio 2005, viene rapita un’altra giornalista: la francese Florence Aubenas, inviata e firma di primo piano di Liberation.
La giornalista Giuliana Sgrena
Terra pericolosa
Calipari è l’uomo giusto al momento e nel posto sbagliati. Lo 007 calabrese si trova in Iraq alle dipendenze del Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, di cui fa parte dal 2002, dopo una brillante carriera in Polizia.
E c’è da dire che opera bene: gestisce alla grande le trattative per la liberazione di Simona Parri e Simona Torretta, due giovani cooperanti italiane. Fa altrettanto bene nei casi di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, tre vigilanti italiani, anch’essi sequestrati da sedicenti jihadisti.
Le cose, invece, vanno meno bene per il vigilante Fabrizio Quattrocchi, rapito il 13 aprile 2004 e ucciso in favore di telecamera il giorno successivo. E per il giornalista e blogger Enzo Baldoni, rapito il 21 agosto 2004 e ucciso presumibilmente cinque giorni dopo.
A tu per tu con la Jihad
Per Calipari l’affaire Sgrena è praticamente routine.
Con una variante: di tutti i rapiti, la giornalista piemontese è la figura più nota. Per lei, infatti, si mobilita una buona parte dell’Italia “che conta”, a partire dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Non solo: anche una fetta dell’Islam sunnita scende in campo.
Ma cos’hanno in comune tutti questi rapimenti?
Un’immagine dell’Iraq post Saddam
Terroristi farlocchi
C’è un sospetto pesantissimo: tutte le sigle, più o meno “integraliste”, sarebbero in realtà gruppi criminali comuni.
Le richieste, dopo i rapimenti, sono praticamente simili: via le truppe italiane. Ma tutto si sarebbe risolto col classico pagamento di un riscatto. Anche, secondo alcune fonti, per la Sgrena. Il problema si complica: come fa un Paese occupante a trattare senza perderci la faccia? Per questo la parola passa ai Servizi segreti.
E non si sarebbe saputo niente, se Nicola Calipari non ci avesse rimesso la pelle.
Ma riavvolgiamo ancora il nastro.
Il supersbirro odiato dalla ’ndrangheta
Classe ’53, formazione cattolica e laurea in Giurisprudenza, Nicola Calipari entra in Polizia nel 1979, dove fa una carriera fulminante, prima a Genova poi a Cosenza, dov’è capo della Squadra mobile negli anni terribili della guerra di mafia.
Di lui ha parlato il pentito Dario Notargiacomo, già “notabile” della cosca Perna-Pranno. A suo dire, proprio Franco Perna lo avrebbe voluto morto.
E forse la trasferta in Australia è dovuta alla necessità di sottrarre Calipari ai killer, che avevano fatto già fuori Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza.
Tornato in Italia, il superpoliziotto riprende la carriera a Roma, dove scala di nuovo i gradini fino a lambire incarichi governativi. Resta un interrogativo: come mai un poliziotto diventa uno 007 per il Sismi anziché per il Sisde (i Servizi segreti civili)?
Mistero. O forse no. Forse aveva ragione Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati a dire che i militari sono pessimi agenti segreti. Ed ecco che i Calipari prestano aiuto. Anche a prezzo della vita.
Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati
L’epilogo
La sera del 4 marzo 2005 Nicola Calipari è in auto. Siede sul sedile posteriore, vicino a Giuliana Sgrena, appena liberata. Alla guida c’è Andrea Carpani, maggiore dei carabinieri, anche lui in forza al Sismi. L’auto è diretta all’aeroporto di Baghdad e, per arrivarci, passa per la Route Irish, dove c’è un check point statunitense.
L’autista e i due passeggeri non hanno il tempo di capire cosa sta succedendo: prima li abbaglia un potente fascio di luce, poi diventano bersaglio di raffiche di proiettili.
Sgrena e Carpano restano feriti. A Calipari, che si getta addosso alla giornalista, va peggio: un proiettile lo colpisce alla nuca e muore sul colpo.
Il mistero della Seconda repubblica
La morte dello 007 apre un braccio di ferro militar-diplomatico tra Italia e Usa.
L’inchiesta appura che a sparare le pallottole fatali è Mario Lozano, un mitragliere dei marines, che finisce sotto processo nel suo Paese e in Italia. Americani e italiani litigano come possono, cioè nei limiti consentiti dal comune impegno militare che costa tante vite a entrambi. Secondo gli americani, l’auto su cui viaggiano Calipari e Sgrena era in eccesso di velocità e non si sarebbe fermata all’alt. Secondo gli italiani, invece, il veicolo viaggiava a velocità contenuta (circa 50 chilometri orari) e, ha aggiunto Sgrena, non ci sarebbe stato alcun check point visibile.
Mario Lozano, il marine che uccise Calipari
Il sospetto atroce
Tra le due versioni si insinua un sospetto: gli americani non gradiscono la facilità con cui l’Italia paga i riscatti alle sedicenti sigle jihadiste autrici dei rapimenti e dei relativi ricatti.
E non a caso si è ipotizzato il pagamento di 5 milioni di euro per la liberazione della giornalista. La vicenda giudiziaria, iniziata tra mille polemiche e coi riflettori puntati, si è risolta in nulla: gli Usa assolvono Lozano dall’accusa di omicidio, ma l’Italia non può procedere, perché la competenza giudiziaria sulla vicenda, verificatasi in Iraq, è americana.
Cosa resta dell’eroe
Il ruolo e l’attività di Nicola Calipari sarebbero dovute restare anonimi, come da tradizione dei Servizi segreti, non solo italiani.
E invece no: Calipari muore da eroe e, col suo sacrificio, riabilita i Servizi, bersaglio fino ad allora di una letteratura giornalistica a dir poco avversa e spesso a ragione.
Secondo Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di intelligence, la morte di Calipari segna uno spartiacque. E probabilmente accelera la riforma dei nostri Servizi. Ma questa è un’altra storia. Calipari ha lasciato due figli e una vedova, Rosa Villecco Calipari, diventata poi senatrice del Pd, cioè in quell’ambiente postcomunista che, tranne poche eccezioni, aveva preso di mira i Servizi. Anche questa è un’altra storia.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.