«Facile fare il figo governando Milano, Sala dovrebbe provare a governare qualche mese in Calabria, in Sicilia o in Campania». Il giudizio di Roberto Occhiuto sull’ultima uscita del sindaco meneghino è lapidario. Giuseppe Sala aveva puntato il dito contro Meloni e i suoi dopo le parole del ministro Fitto sui ritardi dell’Italia con il Pnrr. «Un Governo saggio – le dichiarazioni del primo cittadino – li dà più alle realtà locali ed a quelle che hanno un ‘track record’ secondo cui possono investire. Io dico, allora, se ci sono dei residui, dateli a Milano. Sembro un provocatore ma non lo sono, perché ci sono una serie di progetti che ho nel cassetto e che, se mi fossimo finanziati, io ce la faccio entro il 2026. Le parole di Fitto di ieri “sui ritardi sul Piano” suonano un po’ come una resa. Ma siccome siamo ancora in tempo, estendiamo a tutti l’operazione verità e diamo i fondi a chi li sa investire».
Il sindaco Sala
Occhiuto contro Sala: la secessione coi soldi del Pnrr?
Pronta la replica dalla Calabria, con Occhiuto che ai microfoni dell’Ansa boccia sonoramente l’approccio di Sala sul Pnrr paragonandolo a un tentativo di secessione. Una buona fetta degli oltre 190 miliardi che l’Ue ha destinato all’Italia, dichiara, arriverebbero proprio «perché il Sud del Paese è in difficoltà e merita, dunque, l’attenzione e i finanziamenti europei per potersi allineare alle Regioni del Nord». Il forzista non usa troppi giri di parole: «Senza il Mezzogiorno avremmo ricevuto molto, ma molto meno. Affermare “diamo i soldi a chi li sa spendere”, vuol dire lasciare indietro un pezzo di Paese, coloro appunto che sono in difficoltà che invece, proprio per questo loro deficit, andrebbero supportati di più dal Governo e da tutta la comunità nazionale. E allora io dico che questa sì che sarebbe una secessione».
Puntuale come l’allergia a primavera, è arrivato anche stavolta il richiamo alla magia del Mediterraneo. È stato subito un fiorire di sigle accattivanti: Hub Mediterraneo, Stati generali del Mediterraneo, Missione Mediterraneo e via dicendo.
Se analizziamo i programmi di governo dal 1980 in poi, parliamo quindi di oltre 40 anni, troviamo sempre un rinvio alla necessità del nostro Paese di puntare verso scelte di posizionamento culturale e commerciale capaci di privilegiare la nostra natura mediterranea piuttosto che inseguire la locomotiva tedesca e nord europea con i suoi numeri, per noi, irraggiungibili.
Soprattutto per il Sud, si diceva e si dice, il Mediterraneo deve diventare un’opportunità strategica, dato il nostro posizionamento geografico e la presenza di infrastrutture importanti quali il Porto di Gioia Tauro.
Tutto bene se non fosse per un unico piccolo dettaglio che non appare ben considerato nelle riflessioni sinora espresse dalle forze politiche, sociali ed imprenditoriali: di quale Mediterraneo parliamo?
Il porto di Gioia Tauro
Ma che cos’è questo Mediterraneo?
Usciamo dall’equivoco e dalla genericità. Non esiste il Mediterraneo. Esistono diversi Mediterranei che dovremmo avere il coraggio, politico, di valutare e, parallelamente, di scegliere. Ci riferiamo al Mediterraneo Occidentale? E cioè a Marocco, Algeria e Tunisia?
Ci riferiamo al Mediterraneo Centrale? E cioè a Libia ed Egitto?
Ci riferiamo al Mediterraneo Orientale? E cioè a Israele, Libano, Siria, Turchia?
E nel caso del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, quale dovrebbe essere il criterio di selezione geo-politico di queste tre aree?
Se è vero, da un lato, che la recente crisi energetica e migratoria ha finito per sdoganare relazioni culturali (di facciata) con paesi mediterranei in possesso di DNA democratici non proprio affini alla realtà europea (Algeria e Turchia in primis), siamo proprio sicuri che la creazione di nuove relazioni commerciali possa bastare a fare del Mediterraneo una prospettiva di sviluppo stabile e concreta per il Sud?
Paese che vai, problema che trovi
La mia impressione è che non basti. Intanto Tunisia, Marocco, Israele, e per tanti versi anche la Turchia, sono nostri diretti concorrenti, spesso anche vincenti in termini di leadership di prezzo, in molti segmenti dell’agroalimentare (olivicoltura e agrumicolo soprattutto) e del turismo di massa (Egitto e Turchia soprattutto).
Dromedari sulla spiaggia di Sharm El Sheikh
La Libia non ha governance politica certa. La Tunisia è vicina al default. L’Algeria e il Marocco sono sempre a un passo dal dichiararsi guerra per la questione del Sahara occidentale. Nel Libano secondo Save the Children il 37% della popolazione ha addirittura problemi di nutrizione. Di Siria è quasi pleonastico parlare.
Mediterraneo, Sud e Calabria
Allora signori, per piacere, facciamo uno sforzo di onestà intellettuale. Che significa diventare hub del Mediterraneo? Che significa puntare al Mediterraneo? Parliamo di internazionalizzazione attiva o passiva?
Mi spiego meglio: stiamo forse provando ad indossare, come italiani, l’abito di un neo-colonialismo strisciante travestito da solidarismo europeo? E l’Italia, oltre alle forniture di gas da ottenere da regimi dittatoriali, ha i mezzi e la finanza pubblica per interpretare questo ruolo senza sfiorare il ridicolo? E il Sud e la Calabria, alle prese con LEP che il ministro Calderoli intende assicurare stornando gli euro del Fondo Coesione non spesi (colpevolmente) dalle Regioni, che ruolo avranno? Venderemo le melanzane sott’olio ai tunisini o le settimane al mare, magari a Tropea, agli egiziani?
La Tropea da cartolina
Intanto la Cina…
Qual è la politica industriale che il Paese ha immaginato e per quale paese del Mediterraneo? Qualcuno si è accorto, ad esempio, che gli investimenti diretti cinesi nel Mediterraneo sono avvenuti in infrastrutture strategiche come i porti attraverso l’acquisizione di partecipazioni nelle relative società di gestione? Parliamo di Marsiglia, Ambarli, Valencia, Pireo, Port Said, Marsaxlokk, Cherchell, Haifa, Istanbul.
Certo, si dirà, questa non è una buona ragione per desistere ma, vivaddio, potremmo ragionare su singoli progetti e su singoli paesi e non ricorrere sempre alla formula salvifica di Mediterraneo che finisce per non significare nulla?
Obiettivi, non slogan
E allora perché non provare a costruire da subito un Master plan con indicazione di Paese, Settori, Progetti, Obiettivi e Sostenibilità finanziaria cercando di dare alla politica il senso del governo per obiettivi e non per slogan ormai quarantennali e davvero desueti?
Il Mediterraneo ringrazia per le risposte che la politica riuscirà, sicuramente, a dare.
Nelle sue ultime uscite Roberto Occhiuto si è sbilanciato sulla sua visione del futuro. In particolare, su quello che prevede la sua agenda per il lavoro.
Occhiuto snobba il salario minimo
Durante una recente intervista televisiva ha dichiarato che l’emigrazione intellettuale in Calabria «non si contrasta con il salario minimo», perché le persone laureate hanno l’obiettivo di «lavorare in un contesto che gli offra delle opportunità».
Il salario minimo è percepito quindi come uno strumento quasi controproducente per il mercato del lavoro calabrese. Una posizione di comodo, che non richiede alcuna iniziativa a breve termine e rimanda le eventuali soluzioni ad un futuro prossimo ipotetico. Quando cioè, sempre secondo Occhiuto, grazie alla sua azione rinnovatrice la Calabria diventerà «una Regione normale».
Fabbrichette ed ecomostri
Un concetto di normalizzazione che si iscrive a pieno titolo nella solita narrativa del Sud che aspira a diventare Nord, replicare modelli che si presume funzionino altrove. Lo stesso atteggiamento che alla fine del secolo scorso ha portato alla proliferazione di zone industriali in ogni fazzoletto di pianura calabra, in un’epoca storica dove la produzione industriale era stata già delocalizzata in Cina. Come eredità oggi restano gli ecomostri, prefabbricati in disuso, che occupano suolo naturalmente prospero e vocato all’agricoltura spontanea.
Il valore del lavoro a Nord e Sud
Malgrado il pensiero anticonformista espresso da Occhiuto, il decadimento del valore del lavoro è un problema a Nord, come a Sud. Qualsiasi indicatore statistico si consulti, appare evidente quanto gli stipendi in Italia siano inadeguati. Particolarmente frustrante la condizione di coloro che pur lavorando non riescono ad uscire dalla povertà, fasce di popolazione per le quali il salario minimo rappresenterebbe di certo una misura di contrasto strutturale alle ingiustizie sociali.
In Calabria, i salari sono tra i più bassi d’Italia, condizione che indebolisce e fragilizza la classe lavoratrice dipendente. Perdere il lavoro, in Calabria più che altrove, rappresenta un salto nel vuoto, verso condizioni economiche potenzialmente peggiori o verso il baratro della disoccupazione. Ciò rende i lavoratori ricattabili, dunque funzionali a chi detiene il potere politico-economico. La fragilità del lavoro lascia gli individui in preda alla solitudine e porta alla rinuncia a qualsiasi tipo di lotta per affermare le rivendicazioni collettive.
Eppure il presidente della Regione marginalizza la questione del salario minimo, quasi un vezzo che riguarderebbe esclusivamente il “mito” del rientro dei cervelli – per il quale invece servirebbero politiche attive specifiche – ignorando l’impatto reale sui suoi conterranei che vivono e lavorano in Calabria.
Occhiuto e il valore del salario minimo in Calabria
Basterebbe portare occhi e orecchie nei luoghi di lavoro per scoprire la realtà. Qui si incontrerebbero persone sovraqualificate che vivono di contratti a tempo determinato, di contratti atipici, di partite IVA, con stipendi che raggiungono difficilmente i mille euro. Precari nelle pubbliche amministrazioni come nei call center. Calabresi disposti a restare, che accettano compromessi al ribasso. E che forse, in fondo, sono gli unici a non credere che partire sia una scelta obbligata. Storie di cui dovrebbe farsi carico prima di sbilanciarsi in prese di posizioni tanto ortodosse quanto inconsistenti.
A molti calabresi basta semplicemente un lavoro, anche mal pagato, per convincersi a non lasciare la propria terra, perché ci sono sentimenti, ragioni e legami che contano molto di più delle “opportunità”. Chi rappresenta la massima istituzione regionale dovrebbe pensare prioritariamente a loro quando dibatte di salario minimo, a come restituire nell’immediato la dignità del lavoro a chi per scelta – o per necessità – resta in Calabria.
Calabria saudita
Nella stessa intervista sul salario minimo, Occhiuto definisce i flussi di migranti come un’opportunità da cogliere, «un modo per dare quella manodopera alle imprese che in alcune mansioni non riescono più a reperire». Concetto ribadito ed amplificato agli Stati generali del Mediterraneo a Gizzeria, dove indica ancora più chiaramente la via da perseguire: «Faccio un esempio: MSC, che è il più grande terminalista che opera presso il porto di Gioia Tauro, si appresta a realizzare la più grande fabbrica di container in India, perché lì il costo del lavoro è decisamente più basso, e quel Paese gli fornisce operai specializzati che in Italia non ci sono. Ecco perché un piano di attrazione degli investimenti deve tenere conto dell’incrocio fra domanda e offerta di lavoro, che si apra anche ad accogliere i lavoratori di altre realtà.” Insomma, il futuro mercato del lavoro in Calabria sembrerà più al modello Qatar che a quello scandinavo.
Il porto di Gioia Tauro
Ecco spiegate le contraddizioni e le motivazioni della netta presa di posizione contro il salario minimo. La Calabria che l’Italia non si aspetta (cit.) per crescere, competere ed attrarre investimenti avrà bisogno di lavoratori sottopagati. In mancanza degli schizzinosi italiani, ci sarà sempre un disperato che arriva dal mare.
Nulla di nuovo, la solita ricetta positiva neoliberista interpretata da un uomo bianco di mezza età.
Franco Malanga ha salutato a pugno chiuso e se ne è andato
Ha concluso una vita intensa, costellata di tante vicende pirotecniche. Sovversivo e comunista.
Malanga ha fondato sul finire degli anni ’70, quando militava nella sinistra “extraparlamentare”, la prima Casa del Popolo nel cuore dell’antico quartiere del Cancello di Paola.
Lì allora si tenevano le riunioni dei compagni, che provenivano da piccole formazioni come Potere operaio o il Pcd’I (marxista-leninista).
Un primo piano di Franco Malanga
Malanga: da Radio Bronx alle candidature
All’interno del locale c’era una piccola biblioteca di testi “alternativi”. Ci si ritrovava lì per organizzare dibatti e mostre con dazebao all’aperto. Franco, inoltre, contribuì a fondare, sempre a Paola, Radio Bronx e partecipò a manifestazioni “contro il sistema”.
Ironico e sarcastico, lo si ricorda anche a un corteo no global vestito con l’uniforme dell’Armata Rossa per irridere con goliardia l’“autorità costituita”.
Nel 2012 e nel 2017 Franco si è candidato al Consiglio comunale di Paola da indipendente per Rifondazione comunista, raccogliendo l’appello di chi lo voleva in lista come compagno di battaglia.
Malanga sovietico
Malanga e le sfilate in abiti imperiali
Franco Malanga, nella sua seconda vita, ha vestito anche i panni di Roberto il Guiscardo, di Carlo V e di Federico II.
Ha sostenuto l’impero, la monarchia e il Regno delle due Sicilie. Lui, con le sue sfilate in costume medievale, ha mobilitato centinaia di soldati armati di spade e durlindane che hanno attraversato le strade di ogni posto innalzando al cielo i propri stendardi. L’associazione dei Normanni, che ha animato per tantissimi anni, ha organizzato cortei storici in costume che hanno strabiliato le folle di tutta Italia.
Al cospetto della Regina
Resta memorabile la sfilata a Cosenza vecchia, quando Malanga venne accolto in pompa magna dall’allora sindaco Giacomo Mancini.
Ancora: fondò l’Ordine degli Amici di San Francesco di Paola, che si è spinto in Francia, precisamente a Frejus, per rendere omaggio alla città che ha consacrato il Taumaturgo come suo protettore.
Un’altra volta, Franco e i suoi figuranti hanno “osato” competere a Venezia con le maschere del Carnevale, uscendone trionfatori e premiati in Piazza San Marco per la bellezza degli abiti esibiti. Ma il top è stato a Londra, dove rese onore da pari, nientemeno che alla regina Elisabetta, che lo ricambiò con diversi doni e tantissimi elogi.
Malanga nei panni di San Francesco di Paola
A tu per tu con De Crescenzo e Piperno
Animatore di eventi culturali, Franco ha promosso i “Venerdì letterari”, ovvero dei cenacoli, in cui artisti di ogni genere esponevano la propria opera.
L’iniziativa ha avuto ospiti illustri: ad esempio, Luciano De Crescenzo, che ha ricevuto un premio speciale.
Rimane nei ricordi di tanti l’incontro con Franco Piperno, una notte d’estate di molti anni fa, quando il fisico espose le sue teorie sul firmamento e l’ordine delle stelle nella suggestiva area del castello diruto dei Normanni.
Malanga normanno
Malanga scrittore: di sé e della Paolana
Franco, infine, ha scritto dei libri, tra i quali una autobiografia e una storia della squadra di calcio della Paolana.
Queste sono solo alcune caratteristiche di un personaggio poliedrico e coerente allo stesso tempo, che ha arricchito con le proprie “imprese” la vita della sua comunità. E questa omaggia il suo figlio estroso con dispiacere. Ma anche con un certo compiacimento: chissà come sarà l’ultima sfilata di Franco in cielo, dove lo accoglierà con gioia e letizia un illustre concittadino, San Francesco di Paola.
C’è sempre uno più puro che ti epura: stavolta non lo dice Pietro Nenni e non si riferisce agli ultrà sinistra vintage.
Si applica, più prosaicamente, al Movimento 5Stelle e, in questo caso, a Davide Tavernise, capogruppo pentastellato in Consiglio regionale.
Tavernise, per farla breve, ha querelato il trentenne Michele Amantea per diffamazione. E fin qui la storia non fa notizia. Le cose cambiano se ci mettiamo di mezzo una canzone carica di satira e vernacolo, entrambi al vetriolo.
Tavernise vs Amantea: le note della discordia
Querelante e querelato hanno dei tratti comuni: sono coetanei e di Mirto Crosia. Dopodiché le similitudini si fermano.
Tavernise è rimasto in Calabria e ha fatto una carriera politica lampo (in perfetto stile grillino), Amantea vive e lavora a Milano da anni, dove si dedica anche alla sua grande passione: la musica.
Al riguardo, gli addetti ai lavori lo conoscono come No Sfondo & Volp Fox, il nome d’arte con cui produce le sue canzoni, piene di rabbia e di denuncia, appena stemperate dall’ironia.
L’ultimo brano di No Sfondo, Chiné (cioè “Chi è?”), è finito nel mirino di Tavernise, che si è identificato nei versi e ha reagito con le carte bollate.
Michele Amantea, in arte No Sfondo & Volp Fox
Sfida tra populisti
Che ha detto, anzi cantato, di tanto grave No Sfondo da meritare una querela?
Nelle rime di Chiné, in effetti, ci sono affermazioni piuttosto dure. Eccone una: «’u vi chi ara fine/sei un disonesto/hai censurato gli ultimi/e con me fai lo stesso».
Oppure: «Il primo gesto/per il bene collettivo/è stato di comprarti/un macchinone suggestivo».
Il tutto rappato su un motivo ska, che culmina in un coretto strafottente: «Chiné, chiné/stu consigliere regionale chiné». E via discorrendo.
Nulla di più e nulla di meno di quel che normalmente ci si rinfaccia nei comizi delle campagne elettorali, che nei nostri paesi sono aspre e pittoresche in egual misura.
Ma, soprattutto, nulla di diverso dalle accuse che fino a non troppo tempo fa erano il carburante della comunicazione grillina. Accuse che ora vengono spesso rivolte agli ex seguaci di Grillo.
Ma è davvero Tavernise?
Classe’91 e laurea in Lettere all’Unical, Tavernise proviene da una lunga gavetta nel M5S più “tradizionale”: per capirci, quello dei Vaffa Day e delle denunce online e non solo.
Difficile dire se il target di No Sfondo sia proprio il capogruppo pentastellato. E, soprattutto, se sia solo lui: in questi versi ognuno può identificare il politico che vuole.
Ma questo lo decideranno i giudici, a cui eventualmente toccherà pronunciarsi anche sulla diffamazione, finora solo presunta.
Chi di populismo ferisce…
Chiné è uscita a inizio 2023, Amantea ha ricevuto di recente la notifica di querela, depositata lo scorso undici gennaio.
In attesa degli esiti giudiziari (si spera favorevoli al cantautore, per puro garantismo), resta una considerazione: Tavernise si è arrabbiato perché convinto di aver ricevuto accuse tipicamente grilline.
Chi di populismo ferisce, di populismo muore, insomma.
E che dire ai due protagonisti di questa vicenda curiosa, cantautore e politico, se non: canta che ti passa?
Senatore, calabrese e cosmopolita.
Potrei fermarmi qui, data l’attuale incompatibilità tra “senatore calabrese” e “cosmopolita”.
E invece: Fedele Giuseppe De Novellis apparteneva nientemeno alla leva del 1854, e brillò parecchio in cosmopolitismo. Al contrario, i suoi emuli e umili colleghi, nati magari un centinaio d’anni dopo e con molte più possibilità, al massimo sono andati all’estero con la moglie. Magari in qualche banalissima meta creduta intellettualmente originalissima, o a visitare la figlia in quasi-Erasmus. Ma le loro mete preferite restano i lidi estivi assai più vicini. Ad esempio – ironia della sorte – proprio il luogo di nascita di De Novellis: Belvedere Marittimo.
Villa De Novellis, a picco su Capo Tirone
Il Belvedere antico di Fedele De Novellis
Cosa poteva essere Belvedere nel 1854? Un piccolo paradiso appollaiato sulla rocca tra monti e mare, tra le quinte del Monte La Caccia e la buca del suggeritore – o forse è il caso di dire il golfo mistico – della scogliera di Capo Tirone, in cima alla quale sorge ancora la villa estiva che appartenne alla famiglia del senatore.
Non è qui però che la nobildonna Adelaide Leo dà alla luce il figlio del galantuomo Gennaro De Novellis, dieci giorni prima di Natale: Fedelenasce nel principale palazzo di famiglia – l’attuale municipio – nel rione Santa Maria del Popolo, dove sorge la chiesa omonima in cui il piccolo viene battezzato appena apre gli occhi.
De Novellis deputato a vita
Dopo i classicissimi studi in Giurisprudenza a Napoli – a quel tempo obbligatori per chi poteva – il giovane De Novellis intraprende una carriera lunga e brillante.
Per cominciare, ricopre ininterrottamente un seggio alla Camera dal 1892 al 1913, grazie ai voti del collegio di Verbicaro per il gruppo parlamentare di Sinistra guidato da Giuseppe Marcora.
Parlamentare d’assalto
Fedele De Novellis
Da deputato riveste anche la carica di Segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera dal 1906 al 1909. La sua attività legislativa non è proprio frenetica: presenta solo un progetto di legge, nella XXIII legislatura, per costituire in Comune autonomo San Nicola Arcella, All’epoca tempo frazione di Scalea.
Interviene però, e molto, sul bilancio sugli esteri, sugli affari interni, sui lavori pubblici e sulla giustizia. Ovviamente, non si scorda del suo collegio e lavora tanto sulle comunicazioni stradali e ferroviarie con “le Calabrie”. Inoltre, si interessa dell’amministrazione della provincia di Cosenza, della fillossera nel circondario di Paola e dell’alluvione di Cosenza. Mica acqua fresca, rispetto alla poco frenetica e poco memorabile attività degli imbarazzanti epigoni.
Un diplomatico col grembiule
Affiliato alla massoneria, diventa anche Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, decorato del Gran Cordone.
Ma la nota più sorprendente è appunto il cosmopolitismo conferitogli, se non altro, dalla sua successiva veste professionale. Ovvero la prestigiosa sequenza di cariche diplomatiche ricoperte.
Già funzionario della Prefettura di Roma, De Novellis diventa addetto di legazione al Ministero degli affari esteri. Appena trentenne è a Belgrado (1884), poi a Lisbona (1886), a Costantinopoli (1888) e a Berlino (1891).
Infine viene nominato Segretario onorario di legazione (1892) e poi Inviato straordinario e ministro plenipotenziario di II classe a Christiania (oggi Oslo) nel biennio 1912-1914.
Palazzo De Novellis, oggi sede del municipio di Belvedere Marittimo
De Novellis scrittore geoplitico
Non posso né voglio dilungarmi sula produzione letteraria di De Novellis. Tuttavia, segnalo qualche titolo per farne capirne lo spessore: Leggi e condizioni economiche della Serbia (1886), Sulla questione cinese (1899), La convenzione anglo-francese. Marocco e Tripolitania (1905), Il Pacifico e le sue lotte (1909), L’Asia centrale e le sue lotte (1910), L’Europa in Africa (1911), Il commercio italiano di esportazione in Norvegia (1914).
Insomma, quanto di più distante – parrebbe – dall’ombelicale bruzio e dalla fuffa degli scaldapoltrone.
De Novellis a Palazzo Madama
Collocato a riposo, De Novellis diventa a cinquant’anni senatore di terza categoria (quella composta dai deputati con sei anni di esercizio o dopo tre legislature) nel gruppo liberale democratico (poi Unione democratica).
In questa veste si prodiga essenzialmente in questioni finanziarie ed è membro di tre commissioni parlamentari. Cioè la Commissione per il regolamento interno, la Commissione d’inchiesta sulle gestioni per l’assistenza alle popolazioni e per la ricostituzione delle terre liberate (1920-1922) e, infine, la Commissione d’inchiesta sull’ordinamento e funzionamento delle amministrazioni centrali, sui servizi da esse dipendenti e sulle condizioni del relativo personale (1921).
Un’immagine antica di Palazzo Madama
Gli ultimi anni
Nonostante la nomina senatoria fosse all’epoca sempre ad vitam, De Novellis smise di intervenire in Senato già prima dell’avvento del fascismo. Ben sette anni prima di spegnersi, a Roma, nel maggio del 1929, presso la sua residenza nel quattrocentesco Palazzo Orsini, poi Taverna, al prestigioso civico 36 di via Monte Giordano (dove vissero Torquato Tasso e, molto tempo dopo, nomi enormi dello spettacolo e dello sport internazionale).
De Novellis: una meteora. Di cui la Calabria ha perso lo stampo, senza neppure dolersene.
Mettiamo il caso tu abitassi in un paese montano della Calabria e sia in emergenza. Chiami il 118. L’ambulanza si ferma a metà strada per dei guasti al motore. Devi aspettare l’arrivo di un’altra macchina. Rifai il percorso all’indietro. Altri 50 minuti. Poi ti dicono: «Signora, è arrivata troppo tardi».
È il 5 novembre 2021. Melissa, una bambina di Parenti (CS) con una paralisi cerebrale infantile, ha una crisi epilettica fortissima. Il medico di paese corre nell’immediato a prestare soccorso. Testa prima una bombola di ossigeno presente in casa, poi la utilizza sulla bambina per tamponare precariamente la crisi respiratoria che le ha causato l’ingurgito del vomito.
Si attende l’arrivo dell’ambulanza, ma la situazione è instabile e problematica. Solo dopo 1 ora e 40 minuti dalla chiamata al 118, Melissa arriva in ospedale. Troppo tardi però. La bambina finisce in rianimazione e lì rimane per 10 giorni prima di ritornare a casa.
Ad aprile del 2022 Melissa ha un’altra crisi epilettica. Il 118 viene chiamato alle 5, ma l’ambulanza si rompe a metà strada. Si deve attendere l’ambulanza privata, che riesce ad arrivare in Pronto soccorso alle 08.30.
«Ho paura di dormire in pigiama»
Quelle crisi Melissa le ha superate, non certo per la tempestività dei soccorsi. Quelle ore, però, pesano come un macigno.
Dalla prima crisi i genitori di Melissa hanno paura di dormire in pigiama. Meglio farlo vestiti: «Riusciamo in questo modo a non perdere tempo, mettere la bambina in macchina e raggiungere l’ambulanza». La paura è che arrivare in ritardo stavolta possa rivelarsi fatale. Ma la lotta non è solo quella per la vita. È anche battaglia ad un sistema che guarda a questi luoghi con indifferenza.
Strade che franano e malasanità in Presila
Le corse di Melissa in ospedale hanno riportato all’attenzione i disagi propri di territori come la Presila, loro malgrado simbolo di malasanità e viabilità precaria. La distanza che divide Parenti, il paese dove vive Melissa, dal Pronto soccorso più vicino è di 33 km. Servono 50 minuti per percorrerli. In caso di emergenza si impiega il doppio: dalla chiamata al 118 all’arrivo in ospedale trascorrono, solo se si è in buoni rapporti con la Fortuna, ben due ore.
A far dilatare il tempo è in primis l’attesa dell’ambulanza, che impiega circa un’ora e 40 minuti per raggiungere il paese e ritornare in ospedale. Conteggio non proprio realistico perché ad aggravare la situazione si ci mettono le condizioni disastrate in cui versa un tratto di strada da cui è obbligatorio passare.
Il tratto di strada in questione è soggetto a periodiche frane. Le soluzioni finora? Chiusura temporanea nei periodi più critici o riduzione ad una sola corsia, con tanto di semaforo per gestire il senso alternato. In queste condizioni, nei casi di emergenza, si deve percorre una strada alternativa che raddoppia il tempo di arrivo. Questo con la bella stagione: nei mesi invernali le temperature possono scendere parecchio sotto lo zero e le strade si trasformano in piste di ghiaccio. Con tutto quello che ne consegue.
Riaprire il Pronto soccorso di Rogliano
La riapertura del Pronto soccorso dell’Ospedale Santa Barbara di Rogliano – chiuso nel 2010 – sembra essere per i cittadini la soluzione più ovvia.
Il reparto farebbe da avamposto all’omologo di Cosenza. Risolverebbe così due problemi: da una parte il sovraffollamento del Pronto soccorso dell’Annunziata, dall’altra la gestione momentanea delle emergenze provenienti dai paesi della Presila. Ma questa riapertura non s’ha da fare.
L’ospedale di Rogliano
Il motivo non è ben chiaro, la struttura e le strumentazioni presenti al suo interno si prestano alla richiesta dei cittadini. Eppure, in un recente incontro tenutosi tra commissari e cittadini proprio davanti all’Ospedale Santa Barbara di Rogliano lo scorso 1 marzo, la richiesta dei cittadini di Parenti di riaprire il Pronto intervento sembrerebbe caduta nel nulla.
Presila a rischio spopolamento, non solo malasanità
Risolvere, seppur in parte, uno dei due problemi – sanità e viabilità – potrebbe alleviare le angosce di chi vive in questi territori e non solo. Lo scorso 22 luglio i cittadini sono scesi in strada al grido di «Nessuno tocchi la sanità». Si sono anche mobilitati per acquistare loro un’ambulanza. I costi elevati di gestione e la mancanza di personale specializzato, però, li hanno costretti a rinunciare. L’ambulanza di stanza a Parenti andrebbe a gestire le emergenze di chi vive nelle contrade limitrofe che, tra l’altro, si trovano ad una distanza dall’ospedale ancora superiore. Ma non dovrebbero essere i cittadini a farsene carico.
Lo striscione affisso dai cittadini su un guardrail
E poi c’è sempre il problema delle strade. In queste condizioni il rischio di spopolamento è alto. La viabilità, infatti, ha anche un costo sull’economia di un paese fatto da imprenditori e artigiani che hanno deciso di investire nel territorio che ora sembra tradirli. Restare in condizioni simili preoccupa, ma per molti è obbligatorio.
Anche se si continua a definirle “del PD”, le primarie svoltesi quasi due settimane addietro sono state, per fortuna e per scelta lungimirante e azzeccata, “del Centrosinistra”. Senza trattino.
Per chi ha a cuore le sorti della parte progressista dello schieramento politico italiano, e non i propri interessi personali o della “ditta”, tale modalità di partecipazione all’elezione del vertice del PD è l’unica capace di assicurare il più ampio coinvolgimento del popolo della Sinistra, con vantaggi immediati e di prospettiva per essa e per la democrazia italiana. Per la democrazia italiana per una ragione oggettiva, certificata dai numeri.
La Sinistra degli enunciati
Tante le ipotesi in questi anni per spiegare l’astensione crescente che ha caratterizzato le elezioni nel nostro Paese. Tra queste, la disillusione degli elettori di Sinistra, allontanatisi legittimamente dalle urne perché orfani politici di un soggetto che portasse avanti le battaglie ideali del progressismo, schiava com’è del neo liberismo figlio dei vari Blair, Clinton, D’Alema, e via dicendo.
Tony Blair, Fernando Cardoso, Massimo D’Alema, Bill Clinton, Lionel Jospin e Gerhard Schroeder
Ampliamento dei diritti civili e sociali; contrasto alle diseguaglianze; tutela dei titolari di nuove forme di lavoro, e non solo di occupati nei settori tradizionali; redistribuzione della ricchezza prodotta; lotta alla disoccupazione; garanzie sulla qualità e l’estensione dei servizi pubblici. Su questi temi, e su tanti altri, i progressisti (sulla carta) si sono limitati agli enunciati. O, peggio ancora, hanno agito in continuità con le forze conservatrici e liberiste.
Per la prima categoria possiamo citare, ad esempio, la questione dello Ius soli: nel momento decisivo, abbiamo assistito ad una ritirata indecorosa ed incomprensibile. Per la seconda l’infausta decisione sull’articolo 18. E va bene che a compierla fu il partito di Renzi, ma altrettanto vero è che non si registrò quella sommossa che sarebbe stato lecito attendersi, se non da parte di alcuni.
La sorpresa Schlein
Le primarie aperte, e il fatto che si siano mosse verso i seggi un milione e centomila persone, sono gli elementi che hanno generato il benefico stravolgimento dell’elezione di Elly Schlein. Importante in sé, per la piattaforma schiettamente di Sinistra sulla quale ella ha basato la sua campagna, ma non solo. La sua vittoria, se Schlein manterrà il profilo che l’ha sempre contraddistinta, riporterà a casa e alle urne gli orfani politici di cui sopra.
Elly Schlein festeggia la vittoria alle primarie
Lo dimostrano i sondaggi e, ancora di più, l’impennata di iscritti al PD, determinata dalla speranza che esso trovi una sua precisa identità e intraprenda un cammino che sia in sintonia con un soggetto di centrosinistra alternativo rispetto alle politiche liberiste. Sono trascorse appena due settimane dall’exploit di Schlein, e perciò non è certo tempo di bilanci. Tuttavia, i segnali positivi non sono mancati. Sia quelli indirizzati all’interno dello schieramento progressista, sia quelli con destinatario il Governo.
La destra fa la destra (italiana)
A proposito del Governo, una considerazione è necessaria. Esso è un esecutivo di destra, che si muove e agisce come un esecutivo di destra. E di una destra con una precisa identità e una matrice ben identificabile. Non è la CDU tedesca, e Meloni non è Merkel. Storie personali e politiche diverse; riferimenti culturali e politici sideralmente distanti: radici nella destra fascista italiana per Meloni; nel centrodestra tedesco, che ha fattoda quasi 80 anni i conti col passato della Germania e non è mai sceso a patti con l’estrema destra, per la Merkel.
Mi stupisce lo stupore – ipocrita e finto in certi casi – col quale vengono accolti scelte, posture, atteggiamenti della destra al governo. Non esclusivi di Meloni, beninteso; gli altri partiti della maggioranza non hanno nulla di diverso dai fratelli e dalle sorelle d’Italia. Anzi, forse sono gli esponenti del partito di maggioranza relativa e la loro condottiera a sforzarsi, con scarsi risultati, nel non apparire eredi diretti di una dottrina che ha sconquassato l’Italia, l’Europa, l’intero pianeta.
Le prime mosse? Niente questione morale
Ma torniamo a Schlein e al nuovo corso del Partito democratico. La segretaria del PD ha preso posizione sui più importanti temi sul tappeto, compreso quello scottante, decisivo e divisivo della guerra in Ucraina. Ella ha evitato la prassi di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Rifuggendo meritevolmente il vago, si è detta favorevole a proseguire con l’appoggio al Paese aggredito, coerentemente col suo voto in Parlamento. D’altro canto, ha tenuto a segnalare la necessità di uno sforzo diplomatico dell’Unione europea per trovare una via d’uscita a un conflitto che rischia di sfociare in un’escalation micidiale e globale.
Palazzo San Giorgio, il municipio di Reggio Calabria
Ma la nuova segretaria del PD non ha toccato un tema che ci riporta alle vicende calabresi e reggine in particolare. Si tratta della questione morale, sulla quale vi è a mio avviso l’esigenza di un forte segnale di discontinuità. Il Comune di Reggio versa da tempo in una condizione di minorità dal punto di vista amministrativo e politico, con il sindaco – del Comune e della Città metropolitana – e diversi esponenti della Giunta e della maggioranza sospesi in applicazione della legge Severino. In più, un consigliere, ex capogruppo del PD, è il principale accusato perché avrebbe imbastito un sistema di brogli nelle elezioni comunali nelle quali è stato eletto lo stesso sindaco Giuseppe Falcomatà.
Falcomatà e il caso Miramare
Tornando a quest’ultimo, qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza d’appello che ha riformato quella di primo grado portando la condanna da un anno e quattro mesi a un anno per il processo “Miramare”. Sono stati condannati invece a sei mesi gli assessori, la segretaria comunale, la dirigente del settore interessato e l’imprenditore. Nelle motivazioni, Falcomatà è individuato come «vero regista della vicenda». I giudici lo evincono dai messaggi Whatsapp scambiati tra i membri di Giunta in prossimità della seduta dell’esecutivo: essi documentano in modo pregnante il suo interesse personale all’esito della pratica, percepito dagli assessori come “un suo desiderio” da assecondare.
Il collegio giudicante ha rilevato che questi e altri contatti «documentano senza possibilità di equivoci le tensioni e le accese discussioni che hanno accompagnato e seguito la trattazione della pratica Miramare prima ancora della riformulazione del testo definitivo, evidente frutto di una soluzione di compromesso nell’intento di tutti di assecondare i desiderata del sindaco. Le richiamate emergenze concorrono senz’altro a dimostrare l’interesse personale perseguito dal Falcomatà con la delibera in oggetto, che ciascun imputato, ognuno nel proprio ruolo, ha concorso a realizzare».
Giuseppe Falcomatà
Secondo i giudici d’appello, alla fine, si configura la commissione del reato d’abuso d’ufficio per «l’affidamento in via diretta dell’uso dei locali di un prestigioso immobile comunale, per svolgere eventi finalizzati a valorizzare le risorse culturali, territoriali e turistiche della città ad un’associazione del tutto sconosciuta nel panorama degli enti no profit cittadini, senza la benché minima valutazione comparativa di proposte progettuali di altri soggetti interessati, omettendo il necessario vaglio di congruità tecnico ed economica dell’unica istanza considerata, violando le norme sulle competenze attribuite dall’art. 42 Tuel al Consiglio comunale». Questo, in sintesi, il quadro comportamentale criminoso cristallizzato dal collegio giudicante nelle motivazioni alla sentenza.
Sciogliere il Consiglio a Reggio Calabria?
Veniamo al dato politico – amministrativo e, direi, etico e morale. Il Comune di Reggio e la Città metropolitana sono retti da quasi due anni da due supplenti, e da un esponente della destra è venuta la richiesta di scioglimento del Consiglio in applicazione dell’art. 141 del Testo unico sugli Enti locali. A mio avviso, rilevare nella situazione del Comune di Reggio la sussistenza degli elementi contenuti nella norma in questione potrebbe essere solo il frutto di una forzatura, anche in considerazione della gravità della sanzione che ne scaturirebbe. Tuttavia, il ragionamento non si può chiudere a questo punto. Bisogna senz’altro sottolineare la pretestuosità della posizione favorevole allo scioglimento del Consiglio dettata da situazioni passate, determinate dalla destra, ben più gravi di quella che ci occupa.
La sede della Corte di Cassazione a Roma
Il ragionamento deve però proseguire passando dal piano giuridico a quello politico, etico e morale. Nel quale entra in scena Elly Schlein e l’auspicato nuovo corso del Partito democratico sotto la sua guida. Dopo le puntuali, precise, gravi motivazioni dei giudici di secondo grado, è possibile ancora fare finta di niente? Anche considerando la vischiosità del reato di cui parliamo, e del dibattito aperto sulla sua consistenza giuridica (soprattutto dalla destra, in verità), reato che comporterebbe, ad avviso dei sostenitori della sua abrogazione, la quasi paralisi dell’attività amministrativa per il cosiddetto “terrore della firma”? È ammissibile puntare sulla presunzione di innocenza fino alla pronuncia della Cassazione dopo una simile condanna per fatti giuridicamente acclarati, posto che il giudizio della Suprema Corte non investe i profili fattuali ma quelli di legittimità?
Il primato (e gli strumenti) della politica
Ci si lamenta spesso del ruolo di supplenza assunto dall’apparato giurisdizionale rispetto alla politica. Esso si manifesta, tuttavia, proprio quando la politica non interviene con gli strumenti a sua disposizione, anche in presenza di fatti e atti gravi, che contribuiscono ad accrescere la sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Che è poi una delle cause della disaffezione e della diserzione dalla politica attiva e dalla sua manifestazione più importante: il voto.
Per tutti questi motivi, sarebbe opportuno, urgente, un intervento della nuova segretaria del Partito democratico. Per porre fine ad una vicenda che si trascina da troppo tempo e che non ha senso alcuno procrastinare. Per dare un segnale forte di cesura rispetto al passato. Per costruire una proposta politica credibile, per la città di Reggio, in grado di mettere almeno in discussione uno sbocco favorevole alla destra che, alle condizioni attuali, appare ai più scontato.
La maternità non è un destino e neppure una tappa obbligata per ogni donna, magari per ricevere l’etichetta di “vera donna” un uomo. Si può essere donna senza essere madre e, viceversa, chi ha figli non è solo mamma: le due identità non sono perfettamente sovrapponibili.
Per la destra conta solo la maternità
Eppure, il rapporto tra donne e maternità sembra inscindibile.
Almeno per una parte politica. Infatti, se si osservano i programmi elettorali del 2022 dei tre principali partiti di destra italiani, è facile notare che si parla di donne solo in riferimento alla loro funzione familiare e materna.
Nulla di nuovo.
Da dee a maledette
Nel 1949 Simone de Beauvoir pubblicava Il secondo sesso, uno studio rigoroso in cui si ripercorre la storia della condizione femminile.
Nel saggio de Beauvoir racconta quella che potremmo definire la “maledizione della maternità”.
Fintanto che gli uomini vivevano in comunità nomadi la donna godeva di prestigio sociale proprio in virtù della sua capacità procreatrice, grazie alla quale era avvicinata alla terra e a Madre Natura. Col formarsi delle prime comunità stanziali, però, la maternità fu la causa principale per la quale la donna iniziò ad essere relegata nella sfera domestica. Col passaggio dall’età della pietra all’età del bronzo la “maledizione” prese forma.
Simone de Beauvoir
Homo faber e femina natura
L’uomo iniziava a dedicarsi alla manifattura e si emancipava dalla natura e diventava fabbricatore del suo stesso mondo.
Si affermò quello che de Beauvoir definiva “homo faber”: un soggetto che scopre la causalità e la razionalità a discapito del sistema mitico-rituale che accostava la donna alla Dea-Madre.
La donna, non diventando compagna di lavoro per l’uomo, inizia a essere percepita come qualcosa che è altro da sé. In sintesi, l’uomo diventava un animale culturale mentre la donna continuava ad esser considerata solo natura. La donna, esattamente come la natura, doveva esser controllata a partire proprio dalla libertà riproduttiva.
La maternità secondo Pro Vita
Negare alle donne la libertà di scegliere trasforma la maternità in una “maledizione” o in una condanna. Nel 2023 continuiamo a lottare anche per questo.
È il 7 marzo: mancano poche ore alla Giornata internazionale per i diritti delle donne e per le strade di Catanzaro compaiono cartelloni dell’associazione Pro Vita & Famiglia.
Sui manifesti si legge: «difendiamo il diritto di non abortire» e si parla di migliaia di donne costrette ad abortire in Italia con l’hashtag #8marzo. Si tratta di una retorica non dissimile da quella del presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, invece, parla di tutela sociale della maternità.
Un manifesto dell’associazione Pro Vita & Famiglia a Catanzaro
Aborti in calo grazie alla contraccezione
L’aborto in Italia è un problema urgente? E in Calabria?
I dati raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica raccontano che dal 1983 le interruzioni volontarie di gravidanza (ivg) sono in costante diminuzione.
Tra il 1982 ed il 1983 le ivg furono circa 230mila, nel 2020 si sono ridotte a meno di 70mila ed il tasso di abortività, tra le donne in età fertile dai 15 ai 49 anni, è passato dal 17,2 per mille al 5,4 per mille.
Ciò è stato possibile grazie alla contraccezione. L’Italia, inoltre, è tra i paesi europei occidentali in cui si ricorre meno all’ivg. Sono le cittadine straniere in Italia, semmai, ad essere statisticamente più a rischio di ricorrere all’aborto.
La maternità secondo la legge 194
Pro Vita parla di donne costrette ad abortire, argomento ripreso in più occasioni anche dalla Chiesa e dal Papa. Ma è davvero così facile abortire? La legge 194 del 1978 regola la materia e si occupa della tutela sociale della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza per garantire il diritto a una procreazione cosciente e responsabile.
La legge offre alle donne la libertà di scegliere e, nel caso in cui volessero interrompere la gravidanza, di accedere a delle cure mediche e ad un aborto sicuro.
Maternità e aborto: il consenso della donna
L’articolo 18 dichiara esplicitamente che chiunque cagioni un’interruzione di gravidanza senza il consenso della donna sarà punito con la reclusione da 4 a 8 anni. La legge che regola l’aborto, quindi, libera già le donne dalla coercizione di dover per forza tenere o meno il figlio.
Pro Vita, ma anche l’attuale governo, parlano di due principali ragioni per cui si presume che alcune donne siano costrette ad abortire: violenza da parte del partner o motivi economici.
Un manifesto per l’autodeterminazione delle donne
Violenza e problemi economici
Nel primo caso si guarda al dito e non alla luna: invece di pensare a piani di azione per tutelare le donne che subiscono violenza all’interno della propria relazione, si attacca la libertà di tutte di scegliere ricorrendo ad una retorica che, nei fatti, demonizza l’aborto.
Se non ci sono dati certi sugli uomini che costringono le compagne ad abortire, infatti, sappiamo che durante la gravidanza e dopo il parto aumenta il rischio che si ripresentino comportamenti violenti da parte di partner già violenti.
Nel secondo caso, quando si parla di fattori economici, si potrebbe sempre dare piena attuazione alla 194. Nell’articolo 2 della legge, infatti, si dichiara che i consultori possono anche aiutare la maternità difficile dopo la gravidanza.
I consultori per la maternità in Calabria
Ma qual è la salute dei consultori in Calabria? I dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità fotografano una situazione apparentemente non troppo tragica, rispetto al resto del Paese. Infatti, in Italia c’è in media un consultorio ogni 20mila abitanti, in Calabria ce n’è uno ogni 29mila.
In concreto, però, la situazione calabrese è più complessa.
Benché alcuni consultori risultino aperti, in realtà non erogano alcun servizio o di fatto sono inattivi.
Il consultorio di Locri
I casi limite in regione
In un articolo dello scorso dicembre de Il Post, si legge del consultorio di Rosarno aperto per la sola presenza di un membro del personale amministrativo.
Poi ci sono casi in cui i consultori sono soggetti a chiusure e riaperture cicliche, riaperture che in genere avvengono in seguito e proteste condotte da gruppi e associazioni, come a Celico e a San Giovanni in Fiore.
I problemi dei consultori
Le chiusure sono spesso causate dal mancato ricambio del personale che, magari, va in pensione. Tra i problemi dei consultori, infatti, rientra la carenza di personale che si traduce anche in un sovraccarico di lavoro. A questo si aggiunge la mancanza di macchinari. Poche settimane fa, per esempio, il collettivo femminista cosentino Fem.In ha occupato il consultorio dell’Unical perché sprovvisto di un ecografo, e non è il solo consultorio in regione col medesimo problema.
La protesta delle Fem.In all’Unical
Troppi obiettori
Il diritto all’ivg, almeno, è tutelato in regione? All’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza i 13 ginecologi sono tutti obiettori e sono tali anche 24 ostetriche su 26. Un solo medico, per una popolazione di 70mila abitanti, pratica l’ivg nell’Ospedale offrendo una “prestazione a gettone”.
Attraverso questa pratica gli ospedali tamponano la carenza di personale pagando alcuni medici ad ore. A livello regionale la situazione è la seguente: in poco più del 50% di tutte le strutture presenti sul territorio calabrese è possibile praticare l’ivg. Ma oltre il 65% dei ginecologi in servizio è obiettore di coscienza, ad essi si aggiunge un ulteriore abbondante 60% di personale non medico egualmente obiettore.
Aborto: un diritto a rischio
Bastano solo i numeri per notare, senza pregiudizi ideologici, che la vera urgenza è garantire alle donne il diritto di abortire o meno.
A dover essere tutelata è, ancora una volta, la libertà di poter scegliere. Ma ripetiamo: i dati sui consultori e sugli obiettori di coscienza raccontano di istituzioni che non mettono le donne nella condizione di poter scegliere, lasciando che la 194 sia più un diritto formale che non sostanziale.
Uno striscione di protesta delle Fem.In all’Unical
Una legge ancora da attuare
Se si vogliono ulteriormente diminuire gli aborti, più che sulla possibilità di scelta si potrebbe continuare a investire risorse ed energie sulla contraccezione e sull’informazione.
L’articolo 15 comma 2 della 194 ricorda che «le regioni promuovono (inoltre) corsi ed incontri ai quali possono partecipare sia il personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sia le persone interessate ad approfondire le questioni relative all’educazione sessuale, al decorso della gravidanza, al parto, ai metodi anticoncezionali e alle tecniche per l’interruzione della gravidanza». Che sia forse il caso di preoccuparsi di più dell’effettiva e totale attuazione della legge che tutela sia la maternità che l’interruzione volontaria di gravidanza?
Il 26 febbraio un’imbarcazione di migranti si è spezzata in mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, nel crotonese, in Calabria. Sono 72 i morti accertati, tra loro donne e bambini, e il bilancio non è ancora definitivo. Il numero di naufraghi dispersi è imprecisato. Alcuni scafisti sono stati arrestati e sono in corso le indagini per accertare la verità su quanto è accaduto. Soprattutto si cerca di appurare cosa non abbia funzionato nella catena dei soccorsi. Il 2 marzo il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, si è recato alla camera ardente per commemorare le vittime e all’ospedale per confortare alcuni superstiti.
Steccato di Cutro e l’opinione pubblica
La tragedia di Steccato di Cutro ha generato un’ondata di emozioni collettive contrastanti. Le accese discussioni sull’insuccesso dei soccorsi, le polemiche per le esternazioni del Ministro degli Interni Matteo Piantedosi e, per converso, la generosità degli abitanti del posto intervenuti in aiuto dei superstiti, hanno attirato l’attenzione di testate giornalistiche, dei social media e delle televisioni nazionali e internazionali. La commozione per la sequenza di piccole bare bianche, a ricordare la morte di bambini e bambine innocenti, continua ad alimentare la sofferenza e l’indignazione nell’opinione pubblica italiana, moltiplicando le domande e gli interrogativi sulle eventuali responsabilità giudiziarie.
La bara di una delle bambine morte
Affinché queste tragedie non si ripetano è necessario comprendere che il fenomeno migratorio non riguarda una massa indistinta di flussi, ma persone in carne ed ossa, con le loro storie, sofferenze, paure, con i loro progetti di vita, le loro aspirazioni per una condizione di vita migliore. Serve cioè uno sguardo capace di comprendere la complessità sociologica della migrazione, dove le storie personali si intrecciano a vari livelli con i grandi fenomeni storici.
Gli studi sulle migrazioni
L’AIS come associazione scientifica di sociologi e sociologhe crede che solo uno studio rigoroso e scientifico del fenomeno possa aiutare la sua gestione e il suo governo. Molti colleghi e colleghe sociologhe studiano da decenni questi movimenti di popolazione e sono nella condizione di mettere a disposizione del nostro paese e dei suoi cittadini le competenze tratte dallo studio scientifico dei problemi interni ed internazionali collegati ai fenomeni migratori, presenti non solo nel Mediterraneo ma in tante altre parti del mondo.
Molti hanno, ad esempio, indagato sul cammino doloroso che precede gli sbarchi (contrassegnato da una lunga odissea fatta di viaggi, privazioni, sfruttamento, violenze di ogni genere, a partire da quelle subite dai mercanti di esseri umani). Altri hanno studiato i meccanismi dell’accoglienza, i loro elementi positivi ed i loro limiti; altri ancora, su scala più vasta, hanno analizzato le politiche di integrazione sociale, politica e lavorativa dei migranti, documentando più volte le tante discriminazioni a cui essi vanno incontro, unitamente ai pregiudizi culturali o razziali che spesso tendono a stigmatizzare la loro presenza.
Diversi sociologhe e sociologi hanno messo in luce le difficoltà che non pochi migranti incontrano a livello etico e politico-culturale, per la fatica del cambiamento richiesto dall’accettazione e condivisione delle regole e dei modelli di vita e di relazione propri di una democrazia, cioè da un contesto di vita e di relazione tanto lontano dalle loro precedenti esperienze socio-politiche. O ancora, hanno dedicato la loro attenzione all’analisi dei costi economici e dei vantaggi che l’arrivo e l’integrazione dei migranti comportano per paesi di accoglienza, il loro impatto sulle relazioni tra paesi di provenienza e di arrivo, così come tra i paesi dell’UE: in breve, si può dire che una gestione appropriata, non ideologica, ma attenta alle specificità del fenomeno migratorio riguarda il nostro futuro prossimo, insieme alla qualità della democrazia in Italia e in Europa.
Steccato di Cutro e il momento della responsabilità
Da tutte queste ricerche un altro aspetto appare evidente: la questione migratoria è così estesa da dover essere necessariamente affrontata in una prospettiva europea, superando la logica dell’emergenza e mostrando capacità di ascolto, memoria storica e lungimiranza culturale e politica. La solidarietà a favore di chi versa in condizioni di estremo bisogno, sebbene non disgiunta dalla fermezza verso ogni forma di illegalità o devianza, non può essere in nessuno caso un elemento di divisione interna dell’Italia.
Viceversa, c’è bisogno, da parte di tutti e in primo luogo da parte delle classi dirigenti, di un’autentica e realistica assunzione di responsabilità, senza cedere alla paura o all’illusione di trovare soluzioni facili quanto ingannevoli.
Emigrati alla stazione di Milano
Per fortuna, ad alleviare la fatica necessaria per affrontare questo fenomeno epocale, ci viene in soccorso la consapevolezza della nostra storia, visto che noi italiani siamo, fin dall’antichità, un paese di immigrati (come i greci o gli arabi nelle regioni meridionali) e di emigranti (come i veneti, i calabresi e i siciliani, che nel Novecento sono partiti verso tutto il mondo, affrontando tragedie e sacrifici enormi, analoghi a quelli dei migranti odierni). Quindi sappiamo che la grandezza dell’Italia è assai debitrice verso questa storia di migrazioni, una storia che ci ricorda che i migranti siamo stati e siamo tuttora (pensando ai giovani italiani che oggi vanno a cercare lavoro nel mondo) noi stessi, al pari di ogni essere vivente in cerca di accoglienza e soccorso nel bisogno, in una reciprocità senza fine che deve tradursi in scelte politiche conseguenti, se vogliamo davvero onorare la nostra identità.
Muri e blocchi non funzionano
Non possiamo nascondere l’evidenza: siamo in presenza di un fenomeno di portata globale che richiede cooperazione internazionale e che ci riguarda direttamente, in quanto la direzione dei flussi migratori provenienti da Est (Oriente) e da Sud (Africa), vista la collocazione geografia dell’Italia, rende il nostro paese un punto di attrazione privilegiato, oggi e negli anni a venire, per tanti disperati che fuggono da guerre, dittature, miseria, impoverimento e desertificazioni causate dal cambiamento climatico, o che cercano solo una vita più dignitosa per sé e i propri cari.
Bloccare queste persone, impedendogli con la forza di partire, respingerli, rimpatriarli, è, prima ancora che una strada che si scontra con i valori fondativi della nostra convivenza civile e democratica, una soluzione irrealistica per il semplice fatto che nega la realtà: i processi storici globali non si possono fermare con i muri, bisogna lavorare per provare a regolarli, evitando che la ricerca di soluzioni velleitarie contribuisca ad avviare una catena di comportamenti che provochi altre vittime.
Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)
Peraltro, lo spopolamento in atto nel nostro paese, la cui drammatica gravità ogni giorno che passa viene ricordata dagli istituti di ricerca (denatalità, squilibrio demografico e invecchiamento diffuso, problemi a catena nel mondo del lavoro e in quello pensionistico come pure nelle aule scolastiche, svuotamento di paesi, aree e intere zone dell’interno, con un trend in netto peggioramento) rende urgente l’elaborazione di adeguate e realistiche politiche di integrazione regolata.
Una nuova politica europea dopo Steccato di Cutro
Non possiamo accogliere tutti, alcuni vanno respinti per motivi di sicurezza, altri vanno redistribuiti in Europa (dove molti di loro vogliono andare, guardandoci solo come paese di primo transito). Altri, tanti, abbiamo il dovere e l’interesse di accogliere. In questo quadro le politiche amichevoli verso l’immigrazione, concordate in chiave europea, costituiscono l’unica via d’uscita ed è auspicabile che il Parlamento sia concorde in tale prospettiva. Nell’attesa della piena attuazione di queste innovative politiche di accoglienza e integrazione, è necessario respingere non i migranti ma le scelte perniciose che rendono più difficili, incerte e pericolose le operazioni di salvataggio in mare.
La nostra storia, la nostra identità, la nostra democrazia, i sentimenti del nostro popolo e i risultati delle ricerche sociologiche ce lo chiedono ad alta voce.
Il Presidente e il Direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia
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