Il ministero fa, il ministero disfa. E il Comune rischia.
È il riassunto di un lungo braccio di ferro tra Mendicino, un paesone di 9mila abitanti alle porte di Cosenza, e la Regione Calabria, in cui sono stati coinvolti due sindaci e quattro amministrazioni regionali. Anzi sei, se si considerano gli “interregni” di
Morale della favola: Mendicino dovrebbe restituire alla Regione circa mezzo milione.
Se lo facesse, rischierebbe di compromettere il bilancio, che non è tragico come quello del capoluogo, ma neppure troppo allegro.
L’alternativa è il ricorso, annunciato dal sindaco e ribadito dal responsabile dell’Ufficio tecnico. L’oggetto del contendere è un progetto di edilizia agevolata.
Antonio Palermo, l’attuale sindaco di Mendicino
Il progetto della discordia
Andiamo con ordine. Tutto inizia in piena era Berlusconi. Per la precisione con il decreto 2295 del 26 marzo 2008, attraverso il quale il Ministero delle Infrastrutture attiva un programma di riqualificazione urbana per alloggi a costo sostenibile.
L’idea è notevole, come tante cose italiane: riqualificare catapecchie semiabbandonate, col concorso dei quattrini pubblici, e trasformarle in alloggi per i cittadini più deboli senza espropriare nessuno.
Secondo il ministero, avrebbe dovuto funzionare così: lo Stato mette una parte dei soldi, la Regione un’altra e il Comune, a cui spetta comunque il ruolo di passacarte e controllore, un’altra ancora. Il proprietario mette il resto.
Chiariamo di più: il pubblico (Stato, Regione e Comune) paga gli oneri di urbanizzazione (allacci fognari, strade da fare o rifare ecc) più parte della ristrutturazione (il 35% del costo di tutti i lavori). Il proprietario dell’immobile ristrutturato, in cambio, si impegna a far gestire il bene per vent’anni al Comune perché lo affitti a chi a bisogno a un canone di assoluto favore. Facile no?
I quattrini per Mendicino
Per quel che riguarda la Calabria, a questo progetto non ha aderito solo Mendicino. Lo prova
Ugo Piscitelli, l’ex sindaco di Mendicino
la somma stanziata da Ministero e Regione dal Pollino allo Stretto: 21 milioni, di cui 12.369.217,31 a carico dello Stato e 8.630.782,69 a carico della Regione.
Mendicino, all’epoca amministrata dallo scomparso Ugo Piscitelli, decide di partecipare. E ottiene l’approvazione di un progetto dal valore di 1.500mila, divisi come segue: 852.900,00 a carico di Stato e Regione, 159.600,00, a carico del Comune, il resto (487.500) a carico dei privati.
Fin qui tutto bene: il Comune invia i documenti alle amministrazioni superiori, anche in tempi accettabili, e si parte.
E, nel 2015, Mendicino incassa 481.574,94 euro per le prime due tranche di finanziamento pubblico.
Iniziano i guai per Mendicino
Troppo bello per essere vero: il Comune procura case a costi stracciati ai cittadini più bisognosi e, allo stesso tempo, recupera zone del suo centro storico (tra l’altro molto bello, come tanti borghi antichi della Calabria) aiutando i proprietari a ridar vita a immobili altrimenti trascurati.
Il “ma” è dietro l’angolo: i privati devono anticipare tutto per recuperare il 35% delle somme. Siccome il Ministero tarda (l’approvazione del progetto è del 2012, ma i quattrini arrivano tre anni dopo), alcuni privati si sfilano. E non sono pochi: cinque su undici che avevano aderito.
A questo punto inizia il braccio di ferro. La Regione chiede chiarimenti, il Comune risponde con documenti e richieste di dilazione.
Un dettaglio del centro storico di Mendicino
Il balletto delle cifre
L’inghippo è questione di numeri. Infatti, la Regione sostiene che, visto che il Comune ha speso troppo in urbanizzazione e troppo poco per gli alloggi, ci sono somme da restituire. L’amministrazione di Mendicino, invece, replica che quelle spese di urbanizzazione sono state comunque necessarie (se si rifà una fognatura questa copre tutta la zona, a prescindere se un proprietario si sia o meno tirato indietro).
La botta
La Regione agisce in autotutela e, lo scorso 5 aprile, ordina al Comune di Mendicino di restituire i 481.574,94 euro già finanziati.
In tutto questo, si sono succeduti due sindaci: lo scomparso Piscitelli e l’attuale Antonio Palermo, rimasto col cerino in mano.
Il duello giudiziario, che si terrà con tutta probabilità al Tar, sta per iniziare. E dal suo risultato dipende la salvezza finanziaria di un’amministrazione che ha essenzialmente una responsabilità: aver aderito a un progetto per avere di più e ora, tra una disfunzione e un’altra, rischia di restare nelle classiche braghe di tela.
Secondo il penultimo annuncio ufficiale sui nuovi ospedali in Calabria, quello della Sibaritide avrebbe dovuto aprire i battenti al più tardi un paio di settimane fa, sedici anni dopo lo stanziamento dei fondi per realizzarlo. A settembre di quest’anno, invece, sarebbe stato il turno di quello di Vibo e a ottobre 2024 quello del nuovo ospedale della Piana. Lo aveva sostenuto a giugno del 2020 l’allora presidente della Regione Jole Santelli in risposta a un’interrogazione dei consiglieri Guccione, Irto, Bevacqua, Tassone e Notarangelo sullo stato di avanzamento dei lavori delle tre strutture.
L’ottimismo della governatrice era, evidentemente, eccessivo.
L’ex presidente della Regione, Jole Santelli
Prioritari ma non troppo
Ora, infatti, è arrivato l’ultimo annuncio ufficiale sui suddetti ospedali. E siccome in Calabria i cronoprogrammi sono mobili qual piuma al vento e la memoria degli elettori labile, ai cittadini si dice come se nulla fosse che ci sarà ancora da aspettare. Come minimo un paio d’anni, se non altri quattro. E meno male che – in controtendenza rispetto a quando elogiava le chiusure dei nosocomi in epoca Scopelliti— «nell’azione di governo il presidente (Occhiuto, nda) ha posto tra le priorità anche la realizzazione dei tre nuovi ospedali».
Dalla Regione è partito all’indirizzo delle redazioni un comunicato a firma di Pasqualina Straface, presidente della commissione Sanità, dal titolo inequivocabile: «Nuovi ospedali calabresi, consegne previste tra il 2025 e il 2027». Le parole di Straface arrivano al termine di una seduta della commissione con protagonista l’ingegner Pasquale Gidaro. Chi è? Il dirigente del settore Edilizia sanitaria ed investimenti tecnologici della Regione Calabria, audito per l’occasione proprio per sapere da lui a che punto sia la situazione a Vibo, nella Piana e nella Sibaritide.
Pasqualina Straface, presidente della commissione Sanità
Nuovi ospedali in Calabria: la Sibaritide
Prendiamo l’ultimo caso, visto che a detta di Santelli, l’apertura sarebbe stata a marzo 2023. Occhiuto – era settembre 2022 – diceva che sarebbe stato «pronto entro il prossimo anno». Quattro mesi prima aveva indicato pure il mese: dicembre. Qui si dovevano spendere 144 milioni di euro per avere 376 nuovi posti letto.
E invece? Invece «La struttura portante sarà conclusa nei prossimi giorni. Al 31 marzo lo stato di avanzamento dei lavori era pari al 24% dell’importo contabile per oltre 26 milioni», scrive Straface nella sua nota.
Il quadro economico precedente, complice l’innalzamento dei prezzi in ogni settore, nel frattempo è cambiato. Ora servono 42 milioni di euro in più. Diciassette, precisa la consigliera, la Regione li ha già erogati in attesa che arrivi anche una variante al progetto «entro il 29 maggio 2023». Poi altri due mesi di attesa per ottenere i vari pareri e autorizzazioni dagli enti preposti e «potranno ripartire i lavori a pieno regime». Quando finiranno? «Il cronoprogramma – scrive ancora Straface – prevede la consegna dell’ospedale della Sibaritide entro il 2025».
Occhiuto sul cantiere del nuovo ospedale della Sibaritide nel maggio scorso
Nuovi ospedali in Calabria: Vibo Valentia
E a Vibo si potrà andare nel nuovo ospedale già a settembre come prometteva Santelli? Inutile sperarci. Anche qui i tempi di consegna, tra sequestri del cantiere e altri problemi, sono slittati e i costi schizzati alle stelle. Dai 143 milioni iniziali per 339 posti letto si è passati a 190 milioni di spesa prevista dal nuovo quadro economico.Quanto alla consegna, qui va peggio che nella Sibaritide. «I lavori del progetto stralcio approvati il 27 febbraio 2023 dovrebbero partire tra fine aprile e di primi di maggio. Si prevede la consegna dell’opera nella primavera del 2026», annuncia Straface nella nota.
Uomini della Guardia di Finanza nel cantiere del nuovo ospedale di Vibo
Nuovi ospedali in Calabria: la Piana
Quelli messi peggio, però, sono i cittadini della Piana. Ottobre 2024, la data ipotizzata illo tempore dall’ex governatrice, passerà senza che di nuovi ospedali funzionanti si veda l’ombra. E, bene che vada, toccherà attendere altri quattro anni. Qui i posti letto in programma erano 352, almeno fino al 2020, per una spesa di 150 milioni. Ora, stando alla nota di Straface, saranno invece 339, tredici in meno. Ma costeranno 158 milioni, otto in più di prima.
Rendering del nuovo ospedale della Piana
Un certo peso nei ritardi sarebbe addebitabile alla burocrazia. Ma, a riguardo, non bisogna sottovalutare la sagace idea di realizzare la struttura in un’area che richiede il «superamento di problematiche di tipo geologico e geotecnico dovute alla presenza di faglie sismo-tettoniche». Ecco perché il cronoprogramma aggiornato, stando alle parole di Straface, chiarisce che «entro il 2027, infine, è prevista la conclusione dei lavori dell’ospedale». Altri tre-quattro anni di attesa (se tutto va bene), insomma. Almeno – Cosenza docet – fino al prossimo annuncio, s’intende.
Una volta realizzato il Grande raccordo anulare, sorse, al suo interno, la città di Roma. E il Canale della Manica? Fu scavato sotto il mare, e dopo, dall’una parte e dall’altra, emersero dalle acque la Francia e l’Inghilterra. Secondo quanto affermato tempo fa dal ministro alle Infrastrutture Salvini, così vanno le cose: cosa se ne farebbero i siciliani di collegamenti decenti tra Messina e Palermo e tra Messina e Siracusa, se, arrivati sullo Stretto, si trovassero davanti a un imbuto, e cioè all’attraversamento via mare? Quindi, in attesa delle ferrovie e delle strade da costruire in Sicilia – e in Calabria – intanto facciamo il Ponte.
Il grande circo del Ponte sullo Stretto di Messina
Per l’ennesima volta siamo purtroppo qui a parlare della Piramide del Faraone di turno, l’Opera (la maiuscola è d’obbligo) che porterà lavoro, scaccerà via la mafia e la ‘ndrangheta, attirerà milioni di turisti da tutto il mondo per ammirare la settima (l’ottava, la nona) Meraviglia. Intanto è già ripartito lo show, è stata spianata l’arma di distrazione di massa. È ripartita, dopo dieci anni dalla sua messa in liquidazione mai attuata, pure la Stretto di Messina s.p.a., che in decenni ha grattato milioni e milioni di denaro pubblico per il ponte. Naturalmente, non è mancata l’approvazione, con tanto di ostensione del plastico del Ponte nella Camera extra del Parlamento italiano, la trasmissione di cinque minuti del cerimoniere ufficiale della destra italiana Bruno Vespa.
L’area che dovrebbe ospitare il ponte sullo Stretto
Regioni a favore, cittadini contro
Per fortuna, insieme a tutto il circo, sono ricominciate le iniziative per tentare di contrastare un progetto che, con l’adesione entusiastica delle Regioni Sicilia e Calabria, avrebbe come solo esito certo quello di devastare uno degli scenari più belli del pianeta Terra. Prima in Sicilia, a giugno e ad agosto, e ieri da quest’altra parte, al circolo Nuvola Rossa di Villa San Giovanni, dove si è tenuta, organizzata dal Movimento No Ponte Calabria, un’assemblea molto partecipata. Il comunicato diffuso dal Movimento riferisce di interventi che «hanno ben rappresentato le ragioni dell’opposizione a un progetto propagandistico e, quello sì, fortemente ideologico».
Villa San Giovanni: la città sotto il ponte
Il professore Alberto Ziparo, coordinatore del Comitato Tecnico-Scientifico che ha studiato gli impatti del Ponte sullo Stretto, non ha fatto ricorso a giri di parole. E ha denunciato che «allo stato attuale l’unica speranza per avere un progetto esecutivo del ponte non è rappresentata da svedesi o cinesi, ma da un miracolo dello Spirito Santo!».
WWF e Legambiente hanno focalizzato la loro attenzione sulla «necessità di salvaguardare un’area la cui immensa biodiversità è unica al mondo». Area che non ha certamente bisogno di interventi di così grande impatto, perché la sua «valorizzazione rappresenterebbe un elemento di richiamo ancora più attrattivo del ponte stesso».
La variante di Cannitello
La sindaca di Villa, Giusi Caminiti, ha ricordato «l’impatto della variante di Cannitello, imposta come opera propedeutica al Ponte, che ancora oggi rappresenta un ecomostro, con le “opere compensative” ferme al palo da anni». E ha rilevato che «nessuna opera può compensare gli impatti per quella che diverrebbe la “città sotto il ponte”».
Ogni lunedì contro il Ponte sullo Stretto di Messina
L’appuntamento di Villa è servito per rilanciare la mobilitazione e renderla continua e costante. Il prossimo è previsto per il 17 aprile, cui ne seguiranno altri ogni lunedì, sempre al Nuvola Rossa. Lo spazio villese, si ricorda nel comunicato, «è nato proprio sull’onda della mobilitazione No Ponte».
Un momento dell’assemblea dei No ponte a Villa San Giovanni
Lo hanno inaugurato in occasione del primo anniversario della morte di Franco Nisticò, ex sindaco di Badolato in prima fila in questa battaglia. Nisticò trovò la morte il 19 dicembre 2009 mentre stava intervenendo ad una manifestazione a Cannitello di Villa San Giovanni. Su quello stesso palco e quella stessa tragica sera avrebbe dovuto esibirsi, insieme ad altri artisti di fama nazionale, il rapper reggino Kento, il quale, ora, desidera fortemente «restituire a quello spazio colori, allegria, musica e idee».
Trasporti via mare vs Ponte sullo Stretto
Un traghetto della Caronte&Tourist davanti al porto di Messina
Ed è di questo, io credo, che la nostra terra ha bisogno, oltre che delle infrastrutture di supporto per consentire a chiunque di raggiungerla in sicurezza e in tempi adeguati, dall’uno e dall’altro versante dello Stretto. Per attraversare il quale, senza deturparlo, è sufficiente un intervento, certamente meno costoso, di potenziamento del trasporto marittimo. Sono questi i problemi – e tanti altri, considerato che certamente non ve n’è penuria – sui quali si dovrebbe concentrare l’attenzione dei governanti locali e nazionali. Le Piramidi stanno bene in Egitto, e non ne servono altre dalle nostre parti.
James Maurice Scott: un suddito di Sua Maestà Britannica in Aspromonte. Oggi non farebbe quasi notizia, come tutte le presenze anglosassoni nell’era del turismo di massa.
A fine anni ’60 le cose erano diverse.
La Calabria affrontava una transizione importante e sofferta verso la modernità. E uno come Scott, che ne attraversò a piedi le parti interne, poteva fare strani incontri e vivere qualche avventura ancora più strana.
Per lui tutto questo non era un problema: infatti, era un esploratoredi lunga esperienza.
Che volete che fosse la ’ndrangheta per uno come Scott?
James Maurice Scott
James Maurice Scott in Calabria prima di Montalto
«C’erano jeep piene di carabinieri armati dappertutto», racconta l’esploratore nel suo diario.
E prosegue, con tono divertito: «Era stato allestito quello che appariva a tutti gli effetti un quartier generale con le antenne radio e tutto il resto, mentre un elicottero ci girava letteralmente intorno». Di più: «Ero l’unico uomo disarmato e non in uniforme nel raggio di diverse miglia».
Qualche tempo dopo, Scott apprende il motivo dello spiegamento di forze: «I carabinieri avevano ricevuto una soffiata sul fatto che la Mafia siciliana e quella locale avrebbero tenuto una specie di meeting sull’Aspromonte».
Non può mancare, a corredo, un tocco di ironia british: «Non posso fare a meno di confessare che io stesso avrei tanto desiderato d’essere arrestato. Avrei potuto tenere banco per anni con quella storia». Già: «Ero rimasto deluso anche perché ero stato già arrestato un’altra volta sui Pirenei». Evidentemente, le Forze dell’ordine italiane erano di tutt’altra pasta rispetto a quelle della Spagna franchista.
L’appostamento
Scott non è un mostro di precisione sulle date e nella descrizione dei luoghi. Ma due elementi di questo racconto sono certi.
Il primo: James Maurice Scott arrivò sull’Aspromonte nell’estate del ’69. Il secondo: in quell’estate le Forze dell’ordine tentavano in effetti di stringere il cerchio. Tutto lascia pensare che l’esploratore britannico si sia imbattuto in uno di quei tentativi di retata, coordinati dal questore Emilio Santillo, che avrebbe fatto il colpo grosso qualche mese dopo, con la retata del summit di Montalto, condotta con meno uomini (solo ventiquattro poliziotti) e mezzi.
Il questore Emilio Santillo
Il summit di Montalto
Il summit di Montalto è in parte una leggenda metropolitana, perché il processo che seguì al blitz si ridusse a poca cosa.
E si sgonfiò in appello con assoluzioni importanti.
Eppure le premesse erano golose, almeno per gli inquirenti e per i cronisti.
Infatti, al megaraduno avrebbero partecipato i capibastone della ’ndrangheta di tutta la Calabria, ad esempio Antonio Macrì, Mico Tripodo, Giovanni De Stefano e Antonio Arena di Isola Capo Rizzuto.
Più due big della destra, allora extraparlamentare, ma prossima a importanti conati eversivi: Junio Valerio Borghese e Stefano delle Chiaie.
Non a caso, nell’ordine del giorno del summit c’era l’ipotesi di allearsi con l’estrema destra, che all’epoca era in prima fila nei moti di Reggio.
Dal summit alla guerra di ‘ndrangheta
Giusto due suggestioni per gli amanti dei “Misteri d’Italia” e delle relative dietrologie. L’ipotesi di alleanza con l’estrema destra, che in parte si realizzò, fu uno dei punti di rottura degli equilibri mafiosi e portò alla prima, terribile guerra di ’ndrangheta.
Inoltre, il fremito eversivo destrorso prese corpo per davvero: ci si riferisce all’operazione Tora Tora. Ovvero al tentativo di golpe ideato da Borghese. E sul ruolo di Delle Chiaie e della sua Avanguardia nazionale c’è una letteratura corposissima.
In tutto questo, resta una domanda: cosa ci faceva Scott in Aspromonte in quello scorcio di fine anni ’60?
Al centro nella foto, Junio Valerio Borghese
James Maurice Scott l’esploratore di Sua Maestà
Tornato in Inghilterra, Scott affidò il suo diario di viaggio all’editore Geoffrey Bles, il quale ne ricavò un volume simpaticissimo, stando agli addetti ai lavori, intitolato A Walk Along the Appennines e uscito nel ’73.
Il libro non è mai uscito in Italia. Solo di recente, Rubbettino ha tradotto e pubblicato la parte calabrese del viaggio di Scott, col titolo Sull’appennino calabrese.
Ma chi era James Maurice Scott? Le sue biografie danno l’idea di un folle geniale.
Figlio di un magistrato coloniale, Scott nasce in Egitto nel 1906, si laurea a Cambridge e poi si dà alla sua vera passione: la vita spericolata.
Le sue bravate sono epocali: nel’36 si propone di scalare l’Everest, ma è escluso per un soffio dal corpo di esploratori britannici. Ma si rifà in guerra, durante la quale è istruttore dei corpi speciali. E gli resta un primato: l’esplorazione del circolo polare artico, per cercare un collegamento rapido tra Gran Bretagna e Canada.
Poi, nel ’69, praticamente a fine carriera (sarebbe morto nell’86) decide di attraversare l’Italia a piedi. Ma, dopo questo popò di esperienza, il Belpaese per lui è la classica passeggiata…
Un’immagine di Reggio Calabria durante i moti
L’ultimo viaggiatore romantico
James Maurice Scott, una volta varcato il Pollino diventa l’ultimo dei viaggiatori britannici che hanno girato la Calabria in epoche improbabili, con mezzi di fortuna o addirittura a piedi. È il caso di citarne due assieme a lui: Craufurd Tait Ramage (che ci visitò nel 1828) e Norman Douglas.
Zaino in spalla, bastone in mano e pipa in bocca, Scott ha attraversato l’Italia dalle Alpi a Reggio.
E si è divertito non poco, soprattutto nel nostro entroterra, dove allora iniziava lo spopolamento. Infatti, nella parte finale del suo viaggio, l’esploratore di Sua Maestà Britannica, racconta aneddoti gustosi e spara sentenze originali e, a modo loro, “affettuose”. Ne basta una sulla Sila.
Dopo aver paragonato i paesaggi montani calabresi a quelli norvegesi o britannici, Scott spara un giudizio fulminante sulle montagne che sono diventate sinonimo di Calabria: «La Sila non è intrinsecamente italiana, e se imita altre terre tende a farlo meno bene». Una boutade in linea col personaggio.
Idee poche, ma confuse. E patriotticamente autarchiche. Dopo le contorsioni storiche del presidente del Senato, incapace di parlare di antifascismo e la proposta di legge – che sembra uno scherzo ma non lo è – che prevede multe da infliggere a chi osasse pronunciare parole anglofone, ecco spuntare i licei del “Made in Italy”, che con quel nome, se già esistesse, sarebbe a rischio di censura. Di cosa si tratti non è ancora chiaro. Né è da escludere che resti null’altro che una proposta propagandista tra le tante tirate fuori per distogliere l’attenzione dai molti inciampi del governo Meloni sul piano economico ed europeo.
Licei: made in Italy o Vinitaly?
Se restiamo alla spiegazione fornita da Carmela Bucalo, senatrice di FdI, dovrebbe essere una scuola in grado di rendere gli studenti «capaci di riconoscere le insidie dei mercati, i prodotti falsi provenienti dalla Cina, gli inganni del cibo sintetico». Praticamente un corso antisofisticazioni. Ma la rappresentante del popolo non sembra avere le idee chiare. Ed ecco che aggiunge: «Vorremmo stimolare i ragazzi del nuovo liceo a proseguire gli studi nelle università di settore o negli Istituti tecnici superiori». Qualche ghost writer spieghi alla povera donna che dopo il liceo, qualunque esso sia, iscriversi a un Istituto tecnico superiore non ha molto senso.
L’idea del nuovo indirizzo di studi è venuta nel corso di Vinitaly, la fiera del vino che si svolge a Verona e forse la cosa non è del tutto casuale.
Carmela Bucalo ha parlato a Verona degli ipotetici licei del Made in Italy
Il compagno Gentile
Di certo lo scopo dichiarato è quello di costruire un percorso didattico che esalti «una solida preparazione identitaria», ignorando la globalizzazione dei saperi che esige invece una flessibilità di pensiero e di conoscenze necessaria a governare complessità mai sperimentate prima.
Tuttavia se questo non bastasse a far sorridere, ecco il contorsionismo meloniano che ci spiega che «la sinistra ha distrutto gli istituti tecnici per favorire i licei», mentre gli Albergheri e gli istituti Agrari «sono i veri licei». Eppure questa perversa visione che ancora immagina la separazione tra scuole di serie A e di serie B affonda le sue radici nella “fascistissima” riforma dell’istruzione realizzata da Giovanni Gentile, ministro del regime poi ucciso dai partigiani dei Gap.
1932, Mussolini e Gentile all’inaugurazione dell’Istituto italiano di Studi germanici, presieduto dal secondo
Nel solco della tradizione
Era lui che aveva guardato con manifesta alterigia verso tutti i corsi di studio che non fossero i licei, i soli destinati a costruire le élite. E per questo aveva costruito una scuola classista, la cui eco ancora si ode distintamente nell’attuale impianto educativo. Oggi, a sentire i suoi maldestri eredi, sarebbe stata la sinistra radical chic ad avere ispirato corsi di studio pieni zeppi di Greco e Latino.
La nuova scuola sarà italianissima, gli Alberghieri saranno il baluardo contro sushi e kebab e negli istituti Agrari si imparerà ad usare l’aratro per tracciare il solco. Sperando che poi nessuno debba difenderlo con una baionetta.
Non mi dilungo su origini e significato del rito dei Vattienti di Nocera Terinese. Faccio l’antropologo di mestiere, la vicenda è nota, ed è già stata accuratamente studiata. Io stesso ho dato nel corso del mio insegnamento di antropologia culturale numerose tesi sull’argomento. C’è di mezzo la «vituperata e primitiva religione dei poveri». E i vattienti altro non sono che «una delle mille forme della religione popolare dei poveri» che caratterizzò – parole di Michel Vovelle – l’Europa di prima della rivoluzione industriale.
I Vattienti di Nocera come la tribù Chimbu
Dunque una significativa sopravvivenza. Che già ritroviamo trattata alla stregua di una stranezza pruriginosa, retaggio dei “primitivi di casa nostra”, nel film Mondo Cane, pellicola del 1969 del regista Gualtiero Jacopetti, che impaginava i vattienti di Nocera Terinese in un documentario di carattere senzazionalistico. Il film accoglieva i vattienti come esempio limite delle “superstizioni in Europa”, in mezzo a una sorta di catalogo di immagini forti di riti cruenti e di scene di violenza e sesso riprodotte “dal vero”, arditamente estrapolate da “culture selvagge” che andavano dalla Guinea al Borneo, dalla Malesia al Giappone, fino alle bizzarrie del matriarcato nelle Isole Bismark alle feste della tribù Chimbu, per tornare appunto in Calabria, col rito dei flagellanti di Nocera, documentando così in modo eccentrico tradizioni diffuse “tra i civili e i primitivi”, con scene salienti proposte per soddisfare il guardonismo e le curiosità morbose del pubblico dei cinema popolari.
Il rito dei vattienti di Nocera Terienese negli ultimi decenni è andato poi soggetto di una forte esposizione mediatica, costretto anche a qualche forzatura, e soffre della tentazione di una sua facile e superficiale spettacolarizzazione, persino a scopi turistici.
Si è anche trasformato al suo interno, vi partecipano non solo devoti. È una tradizione che si è estesa a giovani, emigrati, persone in difficoltà per ragioni di lavoro, di salute o di dipendenze. Cambiano le figure dei vattienti, ma i riflessi umani del rito fanno sempre capo a un disagio, a sofferenze intime o manifeste. Invariata ne resta la funzione: in una condizione di vita subalterna tipica di popolazioni marginali e della religione dei poveri, il corpo di chi si “batte” viene messo a disposizione di un sacrificio, il sangue offerto ad una richiesta di reintegrazione.
Papua Nuova Guinea, gli scheletri danzanti della tribù Chimbu
Un paese risacralizzato
È questo che consente ancora di situare nell’ordine del sacro un rito considerato oggi vieppiù un residuo di arretratezza meridionale che fa storcere il naso a molti benpensanti, anche in ambito ecclesiale. Nella realtà della sua celebrazione è tutto il corpo mistico del paese, ogni suo spazio e anfratto, che viene coinvolto e ripercorso, letteralmente ri-sacralizzato in ogni sua estensione materiale e simbolica dal percorso che la processione e il rito dei vattienti conferma e ripete ogni anno.
I vattienti in giro per il paese nella processione del Venerdì santo sono il pennino rosso che ridà vita a stradine e vicoli deserti, case svuotate dall’emigrazione, luoghi e memorie ormai disabilitate dalla vita contemporanea. Ci si batte davanti alle chiese, alle edicole dei santi, dinanzi alle proprie abitazioni. E ci si prostra dinanzi alla statua della Madonna Addolorata in segno di devozione, ma soprattutto si versa sangue, come nel sacrificio del Cristo flagellato.
La Madonna Addolorata di Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Così il rito dei vattienti di Nocera Terinese commemora un legame con il sacro, e insieme, la comunione necessaria tra luoghi e persone, l’essere cioè iscritti come presenze entro uno stesso circolo vitale, presenti e agenti nello stesso spazio del paese, soggetto come tanti altri alla crisi di una presenza storica e simbolica.
Come accade alla figura del Cristo, attraverso il sacrificio del sangue versato e asperso, la presentificazione della morte viene sconfitta e riemerge la vita. I vattienti imitando il sacrificio del Cristo, attraversano la morte senza morire, ridando vita così anche allo spazio del paese e alla sua intera comunità. Dunque un passaggio di rilevante importante fondativa, tramandato dal rito che si rinnova nell’orizzonte storico delle pratiche identificative della comunità locale.
Sicurezza innanzitutto: niente più vattienti a Nocera
Accade adesso che la Commissione Straordinaria di nomina prefettizia (il comune di Nocera Terinese da un po’ di tempo è privo di un sindaco) abbia deciso di vietare con un provvedimento “di tutela sanitaria” la tradizionale processione e riti del venerdì santo con la presenza dei vattienti, definito sbrigativamente «evento tipico di epoche lontane». Le autorità supplenti non solo hanno vietato il rito con la prevista aspersione del sangue dei vattienti a causa di presunte pericolosità “valutate, nel contesto attuale, dal punto di vista igienico sanitario”, impedendo così il marcamento di impronte su porte e muri oggetto della tradizionale sacralizzazione dello spazio e dei luoghi simbolici del paese, ma hanno persino mutilato la tradizionale celebrazione religiosa, abbreviandone il percorso liturgico.
La Madonna portata in processione a Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Le autorità «hanno accorciato pure il percorso della processione del Sabato Santo. La via della Madonna, in centro storico, non si può più percorrere, sempre per motivi di sicurezza», osserva dal canto suo Angela Sposato, giornalista e scrittrice originaria di Nocera Terinese. Il totem dei tempi nuovi è dunque la Sicurezza, un apriti sesamo della modernità e dell’autorità dello stato, che impone le pratiche securitarie in sostituzione di quelle tramandate dalla comunità e dalla sua secolare cultura storica e identitaria. Le “superiori ragioni” della sicurezza, sempre più invocata e imposta quando più incerto diventa l’orizzonte dei valori, la stabilità economica e sociale, più vacillante l’antidoto di una cultura locale che segna la linea del tramonto dei riferimenti etici e di costume tradizionali.
Il passato rimosso
Argomenti molto delicati, ma neppure la autorità ecclesiastiche ufficiali – spesso apertamente ostili a questo tipo di manifestazioni della fede popolare – erano riuscite a fermare la celebrazione di un rito secolare, che nel piccolo centro appenninico affacciato sul Tirreno si celebra almeno da quattro secoli a questa parte. «Neanche la chiesa ufficiale non può essere contraria ad una devozione che viene regolata dalla diocesi», si ricorda adesso da più parti. In casi simili sarebbe certo più rispettoso ascoltare le voci della comunità, le ragioni delle persone che eseguono il rito e che per mezzo del loro corpo, ferendosi, rendono partecipe di questo sacrificio la comunità intera che lo vive per il loro tramite.
Un panorama di Nocera Terinese
Si può discutere all’infinito sul senso di questi riti “ancestrali” che sono sopravvissuti e giunti oggi sino a noi alla stregua di sopravvivenze di un passato rimosso che sempre più difficilmente trova posto in un mondo secolarizzato e dissacrato come il nostro. La realtà del nostro tempo è sempre più attratta dal primato della tecnica, la società oramai è sovradeterminata da un laicismo di facciata che asseconda le nuove superstizioni del denaro e del potere economico che governano tutte le nostre relazioni. Un’ideologia dell’economico che tutto cancella imponendo il primato dell’utile anche nelle scelte simboliche e nella qualità etica delle nostre esistenze individuali e collettive.
Un sopruso culturale contro la religione dei poveri
La «religione di poveri» col suo residuo di sacralità e di ritualità «irregolari», un esempio delle innumerevoli «metamorfosi della festa» di cui ci parlava lo storico dell’ideologia francese di ispirazione marxista Michel Vovelle in un suo saggio dallo stesso titolo, in questo panorama pervasivamente sovragovernato dalle istituzioni dello Stato, dalle leggi di un’economia sempre più inflessibile, dalla prepotenza della tecnica e da istanze di regolarizzazione di tipo securitario, ha e avrà sempre meno chance. A questi rituali resta una fragile ragion d’essere nella loro stessa vigenza, in una sopravvivenza che si prolunga nonostante tutto. Finché una comunità è e sarà in grado di decidere autonomamente di riassumerli e di mantenerli in vita, la loro funzione culturale e simbolica sarà giustificata e garantita.
Michel Vovelle
Mettere fine d’autorità e per decreto a questi “atti di autoflagellazione e conseguente spargimento di sangue” tipici della fede popolare, col pretesto che il rito tradizionale, com’è ovvio, “non trova alcun riscontro nelle vigente normativa pubblica in materia sanitaria”, in questo caso, a mio avviso, rappresenta, in termini culturali prima ancora che di diritto, un atto di arbitrio e di sopruso.
Con l’ordinanza di divieto il potere costituito produce un dispositivo legale il cui scopo – nemmeno tanto recondito – è quello di ricondurre i vattienti a una disciplina dei corpi di tipo sanitario e securitario. Impedendo loro di manifestare e ripetere col rito la libertà scandalosa di disporsi temporaneamente fuori dalle regole, ricreando uno spazio materiale e simbolico locale, alternativo e fondativo di un “altrove” ritualizzato dal sacro per mezzo di un diverso sapere del corpo, l’autorità intende sorvegliare e punire, normalizzando foucaultianamente l’eccezione e lo scandalo del suo retaggio tradizionale, per cancellarne infine il gesto e la memoria tramandata.
Cultura, salute, autodeterminazione
Una spia accesa, dunque, sulla temperatura inospitale dei nostri tempi privi di finalità e di autentici scopi di umanizzazione della realtà. Oltre che una prova dello spazio reale sempre più ristretto e residuale riservato alla libertà culturale e di autodeterminazione delle comunità locali, dato che «la violazione dell’ordinanza è punita ai sensi dell’art. 650 del Codice Penale, nonché delle ulteriori sanzioni di legge», con il compito di far rispettare la norma assegnato a Carabinieri, Polizia e Polizia Locale, come ricordato in calce dal documento prefettizio.
Le autorità prefettizie non a caso ribadiscono a giustificazione del divieto della celebrazione del rito «le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e dell’ambiente»; quindi un’offesa all’igiene e pericoli per la salute, troppo sangue per strada, troppo sangue asperso; o non si tratta forse di impedire uno spettacolo considerato ormai troppo osceno e incomprensibile per le sensibilità correnti nei nostri tempi sanificati dalle fobie di contagio e turbate dalla lunga degenza del Covid?
Un carabiniere nella processione degli anni scorsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Ma che cos’è cultura?
Un’obiezione si leva ancora per voce della scrittrice Angela Sposato: «La grave censura contro i riti della Settimana Santa a Nocera Terinese da parte delle istituzioni, svela tutto il disastro culturale della nostra contemporaneità, l’ignoranza assoluta in ambiti complessi come il senso della nostra “Festa”: un convito intimo di amici (paesani) che riconnettono l’identità in una fraterna agàpe (ἀγάπη), l’amore più disinteressato; svela pure il neo-oscurantismo culturale in cui è cultura oggi solo ciò che rimanda al politicamente corretto, mondato da “cattive” prassi e affidato alla mediazione di qualunquisti e retori umanisti ciarlieri scelti dal sistema che ci vuole assoggettati alle regole della burocrazia. I magistrati del gusto e del giusto, non sono e non saranno mai cultura, né progresso. Il rito per noi noceresi è elemento vitale, è incontro col Sacro. Sacro, ancor prima che Santo».
I Vattienti a Nocera nel passato
Dal canto suo anche lo studioso locale Franco Ferlaino, difendendo la pratica secolare di questo rito della fede popolare, ribadisce come «a memoria d’uomo, la Settimana Santa nocerese non ha mai creato problemi di ordine pubblico (semmai li hanno creati alcuni vescovi del secolo scorso), né di ordine sanitario, né di ordine giuridico (e abbiamo testimonianze demologiche fin dalla seconda metà del secolo XIX). Ogni altra supposizione è arbitraria e infondata». Riguardo ai protagonisti del rito, i vattienti poi: «nessun “fratello” si mai è fatto male. Nessuno li ha mai obbligati; anzi lo hanno sempre fatto con trasporto e sentimento… la gente di paese non ha un solo punto di vista su queste cose… è molto più aperta, democratica e tollerante, anche se in genere la si descrive addebitandole un oscurantismo d’altri tempi. Credetemi, si tratta solo di sapersi porre nella condizione di intenderlo il nostro rito».
Gli strumenti utilizzati dai Vattienti a Nocera per flagellarsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Priorità
Che dire infine, da un punto di vista etico, se appena allarghiamo lo sguardo oltre il contesto? Ogni giorno respingiamo brutalmente il salvataggio in mare di vite umane di gente inerme, che fugge dalla guerra e cerca di sopravvivere a fame e conflitti. Viviamo sotto la minaccia costante di violenze, caos e pericoli di ogni sorta. Avveleniamo la natura. Produciamo armi e le vendiamo senza troppi scrupoli. Inviamo con autorizzazione parlamentare ordigni letali e armamenti pesanti che serviranno ad alimentare la distruzione sistematica di vite umane, pur sapendo di procurare – altrove – morte a domicilio in un conflitto sanguinosissimo che si svolge alle porte dell’Europa.
E però diventa un problema di sicurezza se in un paesino della Calabria, mezzo spopolato e in crisi di identità e di futuro, un gruppetto di paesani e di emigrati di ritorno devoti al Cristo flagellato e alla Madonna Addolorata, per ripeterne simbolicamente il sacrificio e la parabola di morte e rinascita, si procura, volontariamente, per scopi religiosi e rituali e senza causare violenza alcuna, la fuoruscita di sangue da ferite superficiali che si rimargineranno dopo una settimana.
I vattienti di Nocera e il corpo come feticcio
Viviamo decisamente in tempi post-umani in cui il corpo di esseri umani di ogni età e genere viene ovunque esibito e dissacrato, offerto sull’altare della più volgare banalizzazione pornografica della sua integrità e dignità, e quindi venduto, scoperto, indagato, spiato, alterato a piacimento, e come oggetto smembrato, narcotizzato, proposto come quotidiano pasto nudo da consumare, imposto come prodotto da pubblicità e media che lo espongono sugli scaffali reali e immaginari dei nostri empori commerciali. Insomma il corpo umano è, sotto i nostri occhi e senza disagio alcuno per le nostre coscienze stordite, sempre più ridotto a dominio e feticcio di ogni potere, soggetto ad ogni prepotenza e commercio che lo scambia come merce tra le merci.
Mario, uno dei vattienti di Nocera Terinese, in processione (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)
Dissanguati sì, ma da povertà ed emigrazione
E davvero farebbe scandalo e pericolo il sangue asperso al mattino del Venerdì Santo, offerto silenziosamente come voto e in preghiera dagli ultimi vattienti di Nocera Terinese? Sono questi testimoni sparuti di una fede umile che sopravvive sui margini violati della storia, il pericolo incontrollabile che si aggira tra i vicoli di un paesino dissanguato sì, ma da povertà ed emigrazione; loro che in un convegno religioso di poche anime che si rinnova da secoli non cercano e non chiedono altro che trovare un appiglio e un conforto grazie ad un rito collettivo e all’oltraggiosa resistenza di una pratica di fede popolare?
Sono loro il difetto, la minaccia all’ordine, l’infezione sociale, quelli da sorvegliare e punire, la realtà da rimuovere dall’inflessibile dispositivo di potere che controlla le nostre vite e il nostro mondo?
Siamo diventati, mi chiedo, davvero tutti così ammalati di intransigenza, così mediocremente, conformisticamente e ipocritamente “civili”?
Quasi tutte le immagini all’interno dell’articolo fanno parte del reportage “Deliver us from evil” del fotografo Leonardo Perugini sui Vattienti di Nocera Terinese. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo sulle pagine de I Calabresi. Riproduzione vietata.
«Ogni migrazione è un fenomeno che richiede risorse economiche, sociali e culturali, pertanto non tutti possono partire». Le parole di Maria Francesca D’Agostino, sociologa Unical che si occupa di migrazioni e cittadinanza globale, costringono a rivolgere uno sguardo più attento verso il fenomeno migratorio. Uno sforzo ancor più necessario adesso che il clamore mediatico ed emotivo riguardo la tragedia di Cutro si sta spegnendo, malgrado il mare continui a restituire corpi dei migranti naufragati.
Una piccolissima parte di umanità
«Chi riesce a partire – spiega Maria Francesca D’Agostino – rappresenta una piccolissima parte di quella umanità che avrebbe motivo di scappare». La domanda che l’Occidente e l’Italia devono porsi non deve riguardare il come gestire questi flussi. Ma, paradossalmente, perché siano così pochi quelli che arrivano, considerata la diffusione su scala globale di conflitti nuovi e vecchi e ingiustizia sociale.
Maria Francesca D’Agostino (Unical)
«Se guardiamo le situazioni di conflitto – prosegue la studiosa – vediamo come questi non generino esodi, ma sfollamenti all’interno del paese in guerra. A poter scappare da luoghi di insicurezza sono generalmente appartenenti ai ceti medi, mentre i flussi migratori causati dalla povertà, spingono per esempio i contadini verso i margini delle megalopoli».
La migrazione è una scommessa
Va da sé che per scappare in quel modo si deve essere disperati. Tuttavia anche in questo emerge una sorta di stratificazione che marca le disuguaglianze. Per poter provare a sottrarsi all’orrore occorre avere le risorse necessarie, nel caso dei migranti di Cutro migliaia di euro.
Perché mai attraversare il Mediterraneo affrontando tanti pericoli pur disponendo di adeguate risorse economiche allora? La risposta è da cercarsi nelle severe normative che sostanzialmente negano canali legali d’ingresso nel nostro Paese. La partenza è una crudele scommessa dove ci si gioca tutto quel che si ha, compresa la vita stessa, per provare a fuggire dal luogo dove non si può più stare.
Fiori sulla spiaggia della tragedia a Steccato di Cutro (foto Gianfranco Donadio)
Migranti economici e rifugiati politici
Ma da dove ha origine la chiusura sistematica che l’Occidente ha praticato verso i flussi migratori? Essenzialmente dalla distinzione, spesso arbitraria, tra migranti economici e rifugiati politici. L’ingresso dei primi ingresso era legato alle esigenze produttive dell’Europa; gli altri erano tutelati dalla Convenzione di Ginevra, che prevedeva l’obbligo di accoglierli.
Conclusa la Guerra fredda, si è scelto di tenere lontani anche i richiedenti asilo. Che così sono finiti confinati in campi profughi nei pressi dei luoghi di conflitto, con l’alibi di dare priorità al loro teorico rimpatrio a conclusione dei conflitti. «In realtà non si è quasi mai stati capaci di garantire loro il ritorno a casa per via del perdurare di conflitti. Ci si è limitati a parcheggiare enormi numeri di persone in luoghi di confinamento umanitario e periferizzazione sociale in aree di degrado totale», racconta Maria Francesca D’Agostino.
Il grande inganno: la migrazione bianca, donna e cristiana
Attorno al fenomeno complesso delle migrazioni è stato costruito con meticolosa pazienza e notevole efficacia un grande inganno. La convergenza di diversi interessi ha dato vita a una sorta di distorsione cognitiva collettiva. E così si è generalmente persuasi che la fortezza Europa e la trincea Italia siano sotto assedio e minacciati da un imponente esodo proveniente dall’Africa sub sahariana. «Se guardiamo i flussi migratori – spiega D’Agostino –scopriamo che solo una piccola parte è rappresentata da rifugiati politici provenienti a Paesi dilaniati da conflitti. La maggioranza viene dall’Est Europa».
Donne dell’Est in cerca di un impiego
Insomma: la migrazione che guarda all’Italia è bianca, cristiana e femminile. Dovrebbe essere maggiormente rassicurante, rispetto allo spauracchio costruito attorno all’uomo nero. Invece le dinamiche di respingimento, pregiudizio e razzismo restano intatte. È sempre la sociologa dell’Unical a spiegare che si tratta di donne provenienti dall’Ucraina, dalla Romania, dalla Bulgaria. Devono affrontare situazioni analoghe ad altre forme di migrazioni, cioè sfruttamento lavorativo, disagio abitativo, impoverimento e marginalizzazione.
Alla Piana dell’Est
Condizioni che pure noi meridionali abbiamo conosciuto quando ad emigrare eravamo noi, «perché siamo tutti vittime di processi di sviluppo che producono disuguaglianze sociali. Anche sulle donne dell’Est Europa si riversa l’effetto delle politiche criminalizzanti che generano effetti di violenza razzista».
La Piana di Sant’Eufemia vista da Sud
In Calabria, nella Piana di Sant’Eufemia per esempio, l’intero settore agricolo si basa sulla presenza delle donne dell’Est. Non basta loro avere un documento di soggiorno in regola, oppure essere cittadine europee per non essere trattate come minoranze non nazionali e dunque per scampare a forme di razzismo. Perché agli occhi di troppi italiani lo straniero resta un invasore e un abusivo.
Calcio e fascismo. Ne parla un libro coraggioso di Giovanni Mari edito da Storie di People.
Già il titolo, Mondiali senza gloria, emette un giudizio senza attenuanti sulle vittorie della nazionale italiana di calcio ai Mondiali del ’34 e del ’38. È un argomento delicato, il Calcio nel nostro Paese. E lo è, in particolare, a proposito degli Azzurri, e se si avanzano, più che dubbi, certezze sulla bontà delle loro vittorie. L’assenza di gloria è un’affermazione secca, non è seguita da un punto interrogativo per mitigarla.
Calcio e fascismo: un affare di propaganda
D’altra parte Giovanni Mari – giornalista del Secolo XIX definito «appassionato di propaganda politica» – nella quarta di copertina, riempie molte delle 184 pagine del libro di informazioni in grado di dissolvere la nebbia che ha avvolto quelle vicende per tanto tempo.
Mari usa una documentazione vasta e “terza” rispetto a quella disponibile in Italia. Lo ha spiegato lui stesso rispondendo alle sollecitazioni di Ernesto Romeo, dell’Arci–Circolo Samarcanda, e di Giuliana Mangiola, presidente della Sezione Carlo Smuraglia dell’Anpi, organizzatori dell’incontro tenutosi a Reggio Calabria nei giorni scorsi.
L’autore ha consultato organi di stampa stranieri del tempo, proprio per non incappare nell’informazione pilotata dal regime fascista e da Mussolini in prima persona.
La nazionale in nero ai Mondiali del ’38
La destra e il passato che non passa
Il libro prende spunto dal calcio per parlare di storia, di politica, di passato ma anche di presente. Infatti, è uscito prima della vittoria della Destra alle elezioni del 25 settembre.
Questa data segna l’inizio di una serie di atteggiamenti, dichiarazioni e i posizioni che hanno messo in luce il rifiuto di questo schieramento di fare finalmente i conti col passato. Al riguardo, l’ultima perla della premier è la dichiarazione della presidente del Consiglio sull’eccidio delle Fosse ardeatine, quando l’ineffabile Giorgia ha letteralmente riscritto la Storia catalogando semplicemente come Italiani, e non come antifascisti, ebrei, oppositori del regime, le 335 vittime della rappresaglia nazifascista.
Fascismo e calcio: tutto pur di vincere
Mari, d’altra parte, non fa sconti a nessuno. E in maniera senz’altro condivisibile denuncia come ascrivibile all’intero popolo italiano – con note e significative eccezioni – l’atteggiamento ambiguo, autoassolutorio, superficiale mostrato nei confronti del fascismo e dei suoi crimini a danno degli stessi italiani e dei Paesi che esso ha trovato sulla sua strada.
Grazie a una poderosa ricerca, l’autore ha verificato come per la manifestazione del ’34, tenutasi in Italia, sia stato attivato ogni strumento per obbedire al diktat del duce per ottenere prima l’organizzazione del torneo e dopo la vittoria azzurra:
• Garanzia di tolleranza zero sul fronte dell’ordine pubblico, dopo i problemi in Uruguay nel ’30, in continuità, d’altra parte, con quanto il regime aveva fatto fin dal suo avvento:
• pressioni sugli altri contendenti;
• utilizzo di ingentissimi fondi pubblici, in una situazione pesante dal punto di vista economico, per ingraziarsi la Fifa e le altre federazioni;
• corruzione dei designatori degli arbitri e degli arbitri stessi, che consentì ai calciatori italiani di praticare un gioco violento per eliminare gli avversari e di ottenere decisioni smaccatamente favorevoli durante le partite;
• minacce ai giocatori maggiormente rappresentativi delle altre nazionali per non farli partecipare ad incontri decisivi;
• utilizzo di giocatori stranieri naturalizzati italiani in spregio alle regole fissate dalla Fifa.
Il duce e il pallone: un matrimonio d’interesse
Il trionfo del duce fu totale, e la stampa, sportiva e non, agì da megafono per lo strombazzamento che ne seguì, con i consueti cori a sostegno della tesi della superiorità dell’italica stirpe.
Inutile dire che questa tesi si trasferì presto dai campi di gioco a quelli di battaglia per essere clamorosamente smentita.
Mussolini in posa tra gli azzurri
Il duce, tra l’altro, non amava per niente il calcio. Semmai, era affascinato dagli sport olimpici e da quelli che riteneva nobili: boxe, scherma, tiro, ippica. E infatti il regime non inserì il pallone tra le pratiche obbligatorie.
Tuttavia, ne aveva intuito le potenzialità per dare ulteriore impulso all’irreggimentazione delle masse, loro sì malate di calcio, allora come ora.
Non solo calcio: il fascismo alle Olimpiadi
Mari racconta altre vicende oscure sono legate alle Olimpiadi del ’36, quelle di Berlino e delle vittorie in serie di Jesse Owens che ferirono Hitler. L’Italia, che aveva aggirato il divieto di portare in Germania i professionisti facendo iscrivere all’università i giocatori più forti, vinse in finale contro l’Austria.
Quello stesso anno, Mussolini, oramai succube del suo vecchio seguace, subì senza fiatare l’Anschluss, dopo aver fatto per anni a paladino del Paese annesso. La scomparsa dal panorama calcistico del Wunderteam, la super squadra austriaca, fu digerita dal condottiero italiano nello stesso modo. Quindi l’Anschluss aveva eliminato anche una temibile concorrente per il ’38. Perciò il sogno di uno storico bis in Francia diventava verosimile.
Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino (1936)
«Vincere o morire»: i Mondiali del ’38
L’Italia, precisa Mari, a quel punto era una delle favorite perché oggettivamente ben attrezzata. Il clima però, era profondamente diverso: gli esuli italiani contestavano la loro stessa nazionale, che si presentava con una maglia nera col fascio littorio che, per visibilità, aveva soppiantato lo stemma sabaudo. Era la nazionale del fascismo, fautore delle disgrazie loro e delle loro famiglie. Mussolini inviò, per la finale con l’Ungheria, un telegramma nel suo stile: «Vincere o morire».
Il c.t. ungherese interpretò queste parole affermando che, perdendo, avevano salvato la vita agli italiani e, probabilmente, anche a loro stessi.
«La vittoria mondiale dichiarava, secondo la comunicazione di regime, una indiscutibile e assoluta superiorità italiana, non tanto nel talento, ma nella costruzione stessa del successo e del genio umano», scrive Giovanni Mari.
E prosegue: «era la chiave che avrebbe portato l’Italia a occupare il posto che meritava nel consesso mondiale: se era stata capace nel pallone, poteva essere capace in qualsiasi campo».
Arpad Weisz, l’allenatore del Bologna epurato in seguito alle leggi razziali
L’epurazione razziale colpisce il pallone
Il disastro era ormai dietro l’angolo, preceduto dalle leggi razziste che anche nel mondo del calcio fecero il loro sporco lavoro. Ne fece le spese, tra gli altri, l’allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz, artefice di due scudetti del Bologna, deportato e morto ad Auschwitz insieme alla moglie e ai figli.
Il clima era quello che traspare da un brano de Il Calcio illustrato, secondo cui «che (gli allenatori israeliti stranieri danubiani) debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce: finiranno di vendere fumo con la loro arte imbonitoria propria della razza (…) La bonifica della razza avrà più che salutari conseguenze calcistiche».
Il ct Vittorio Pozzo alza la Coppa Rimet dopo la vittoria ai Mondiali di Francia (1938)
La stampa supina
Chi sa di calcio, tuttavia, sa anche che proprio tali personaggi portarono la sapienza tattica e tecnica danubiana in Italia, con benefici ed innegabili effetti su tutto il movimento calcistico.
Il libro di Giovanni Mari è un’opera densa, non riassumibile in poche cartelle. Meritano attenzione le tante considerazioni di ordine generale che contiene. Ad esempio, sulla politica fascista (non solo) nello sport. Oppure sull’atteggiamento prono della stampa e di alcuni protagonisti per troppo tempo idolatrati (il c.t. Vittorio Pozzo e il telecronista Niccolò Carosio, in testa alla lista). E sulla continuità che ignobilmente contrassegnò il dopoguerra nel calcio e non solo.
Dittature e calcio dopo il fascismo
Il fascismo divenne, nella percezione collettiva, una parentesi sventurata, un cancro sviluppatosi in un corpo sostanzialmente sano.
La svolta fu determinata dall’alleanza con la Germania. Gli italiani erano “brava gente”, che non collaborò coi nazisti, o lo fece obtorto collo, nel progetto della Soluzione finale.
Il generale Videla premia la “sua” Argentina nei Mondiali del ’78
Non manca qualche interessante riflessione sull’utilizzo dello sport nei regimi autoritari in generale. Ad esempio, quelli comunisti, o di altri Paesi come l’Argentina di Videla o, da ultimo, il Qatar.
Un’opera importante, soprattutto in un periodo in cui il tema è tornato di stretta attualità, in cui il Governo e importanti pezzi dello Stato sono nelle mani di chi un giorno sì e l’altro pure alimenta, con parole e atti, una narrazione tesa a manipolare la Storia, o a negarla del tutto.
Roberto Occhiuto come Saverio Cotticelli? Tra il nuovo commissario alla Sanità (nonché presidente della Regione) e il vecchio qualcosa in comune sembrerebbe esserci: la memoria.
Quella del generale dei Carabinieri era proverbiale e lo ha reso celebre in tutta Italia: aveva dimenticato di guidare lui la Sanità durante il Covid e di dovere, per questo, redigere un piano su come affrontare la pandemia. I primi, vaghi, ricordi erano riaffiorati soltanto in un’epica intervista della Rai, coprotagonista un fantomatico usciere mai inquadrato. Cose che capitano. Giorni dopo, sempre in tv, Cotticelli per giustificarsi avanzò un’ipotesi stupefacente: qualcuno poteva averlo drogato a sua insaputa per confondergli la mente. Promise anche di indagare su se stesso e pare che l’autoinchiesta si sia conclusa senza rinvii a giudizio.
Lo stupore di Saverio Cotticelli per il dettaglio dimenticato
Occhiuto, favorito anche da un’età inferiore rispetto al predecessore, vuoti di memoria di tale portata ancora non ne ha avuti per fortuna. Né, siamo certi, chiamerebbe in causa misteriosi pusher invisibili come ninja per giustificare i suoi. L’ultimo è arrivato proprio nelle scorse ore. E dietro pare esserci, più che una sostanza psicotropa, un morbo che, prima o poi, colpisce chiunque in politica: l’annuncite.
Occhiuto e il robot Da Vinci dell’Unical…
Il presidente Occhiuto aveva lasciato la Cittadella per celebrare l’arrivo del robot Da Vinci all’Annunziata grazie anche alla neoistituita facoltà di Medicina dell’Università della Calabria. Giusto esserci, visto che si tratta di «un investimento realizzato dall’Unical, con risorse messe a disposizione dalla Regione». L’apparecchio, d’altra parte, permetterà senza dubbio di «qualificare l’offerta sanitaria della nostra Regione e abbiamo bisogno che i saperi delle università contaminino l’intero sistema sanitario».
Ma è proprio quando il clima è di festa che il virus dell’annuncite si insinua nei corpi delle sue vittime prendendo il controllo dei loro ricordi e annebbiandoli. E l’entusiasmo intorno al Da Vinci non ha lasciato scampo ad Occhiuto. «L’installazione di questo robot – ha sottolineato ormai preda del morbo – dà la possibilità al sistema sanitario regionale di offrire gli stessi servizi garantiti in altre Regioni. Finora chi doveva subire un intervento alla prostata era costretto ad andare fuori dalla Calabria, proprio perché il nostro sistema sanitario era sprovvisto di questo robot che ormai è ordinariamente utilizzato sia per questo tipo di interventi ma anche per altri che riguardano, ad esempio, la chirurgia toracica, oncologica o ginecologica».
Al Gom dal 2016
Il robot Da Vinci, però, tutto è meno che una novità per la Sanità calabrese e Occhiuto dovrebbe saperlo. Esiste e lo usano da diversi anni con successo al GOM di Reggio Calabria. Si parla di una delle eccellenze del disastrato sistema sanitario della regione, abbastanza poche da non poter sfuggire a chi lo governa.
«Nella nostra struttura – spiegava il dottor Cozzupoli cinque anni fa – esistono giàdue equipe formate da quattro, cinque urologi in grado di eseguire interventi robotici e una equipe infermieristica con competenze multidisciplinari. Non solo, esistono già due altre equipe chirurgiche, di chirurgia generale e di ginecologia, che operano con il robot da Vinci. Perché il nostro robot è multidisciplinare, lavora su varie specialità».
Ma quando il virus dell’annuncite è entrato in un organismo, non c’è chirurgo o robot che possa rimuoverlo.
Cesare Battisti, 69 anni, ex terrorista protagonista degli anni di piombo, condannato all’ergastolo per quattro omicidi ed altri gravi reati, catturato in Bolivia nel 2019 dopo una latitanza durata ben 37 anni, si è fatto risentire nei giorni scorsi. Aveva chiesto del vino da consumare in cella, negato. Poi alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Parma, dove è detenuto, si sarebbero resi responsabili del «danneggiamento di alcuni suoi oggetti personali, tra cui il computer», il tutto «nel disegno di un’accanita persecuzione» nei suoi confronti: così reclama le sue ragioni il detenuto “politico” – definizione alla quale non rinuncia – Cesare Battisti: «Aggredito da agenti in carcere, hanno rotto il mio pc».
Cesare Battisti e il perdono agli ex terroristi
Il computer è diventato per lui una compagnia inseparabile. Battisti scrive, fa lo scrittore, mestiere appreso nella lunga latitanza trascorsa da fuggiasco; identità multiple e vita sotto copertura per decenni in giro per il mondo. «Un trauma» per lui che considera il computer «strumento di lavoro come scrittore ed editor di Artisti dentro», una rivista che documenta le attività dei detenuti impegnati in attività artistiche e creative nei luoghi detenzione. Ma il PC in carcere per Battisti è diventato anche «l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanze tanto avverse». Responsabilità e fatti ai danni di un detenuto in un carcere della Repubblica che se accertate andrebbero sanzionate.
Marco Pannella manifesta per la liberalizzazione delle droghe leggere, 6 ottobre 1979
“Nessuno tocchi Caino”, come ci ha insegnato Marco Pannella, precetto sacrosanto di una giustizia giusta. In questi giorni il nome e il profilo di Battisti è tornato in ballo non solo per questo episodio. Si riparla di perdono agli ex terroristi. La storia, si dice da più parti, deve poter chiudere definitivamente i conti con un gruppetto di reduci della lotta armata, ormai vecchi, malati e male in arnese, anche se molti di loro circolano comunque liberi altrove e godono dello stato di rifugiati politici – certuni niente affatto pentiti – in Francia e in altri paesi che hanno offerto loro rifugio. Non è il caso di Cesare Battisti. Ormai assicurato dalla giustizia italiana alla sua pena, lunga e definitiva.
Un ragazzo di Calabria
Ma se per ipotesi Battisti dovesse ritornare in libertà e uscire per qualche motivo dalla galera, potrebbe benissimo passare un giorno o l’altro da queste parti, in Calabria, magari per scriverci sopra una delle sue storie noir. Potrebbero invitarlo a trascorrere qualche giorno di relax diplomatico sulle belle spiagge dello Ionio. Magari a Sant’Andrea Apostolo sullo Ionio, un comunello in provincia di Catanzaro che oggi conta non più di 2.161 abitanti.
Un posto che a parte il mare e le spiagge, gli ulivi e gli aranci piantati sulle colline di creta divorate del vento di scirocco, non ha altro da dichiarare al mondo oltre al fatto che dal 1931, quando faceva quasi 6.000 abitanti, ha visto sparire due terzi della sua popolazione nella diaspora infinita dell’emigrazione che ancora oggi continua a svuotare i paesi della Calabria. Oggi ci sono “androeolesi” emigrati sparsi in tutti i continenti e ai quattro angoli del mondo.
Forse Cesare Battisti a questo punto si chiederebbe il perché di quest’invito improvvido in un posto così strambo e fuori mano. Che pure di tempo ne è passato tanto. Ma il paesello di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio qualcosa a che fare con l’ex rivoluzionario (non proprio una sagoma di eroe della rivoluzione à la Che Guevara) ce l’ha. Una piccola cosa, un’emozione da poco nell’economia generale della Storia.
Qui era nato un ragazzo di Calabria, uno di quelli che per stare al mondo un giorno prendono il treno e vanno via da paesi sfiniti e inariditi come Sant’Andrea per andare a cercarsi “fortuna” dove se ne trova. Il lavoro, quello che tocca in sorte a chi emigra e ne trova uno, quello che è, qui di chiama ancora così, è “la fortuna”.
Andrea Campagna e i poliziotti di Pasolini
Di quel ragazzo partito come tanti altri dal suo paese, oggi resta solo qualche foto sorridente, i baffi e l’espressione impettita. Una di quelle foto sta al cimitero, e ingiallisce al sole sopra la lapide della sua tomba. Si chiamava Andrea Campagna, emigrò a Milano con la famiglia, trovò un lavoro, e per sua sfortuna diventò poliziotto. Uno di quei ragazzi figli degli emigrati poveri del Sud ai quali Pier Paolo Pasolini dedicò la poesia che lo scrittore, dispiacendo molto a certa sinistra radicale, pubblico su L’Espresso il 16 giugno del 1968.
Andrea Campagna
Tra quei versi asciutti Pasolini dichiarava la sua distanza antropologica e sentimentale dalla rivolta degli studenti, rappresentanti della borghesia. Quella per lui non era una vera rivoluzione, non aveva a che fare con la vita dei poveri, con i figli della classe operaia e contadina. I poliziotti invece, quei ragazzini in divisa che parlavano un dialetto sporco, coscritti per fame, rappresentavano invece la classe operaia, quella che all’epoca manifestava contro la borghesia.
Una rivolta di facciata
Quelle erano manifestazioni alle quali anche gli studenti contestatori, diceva Pasolini, quasi tutti figli della borghesia urbana partecipavano sì, ma come figuranti. Per Pasolini la rivoluzione degli studenti era una rivolta di facciata, era falsa, ipocrita. Non era quella la vera rivoluzione che avrebbe realmente cambiato la società italiana: «Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati». Pasolini era già allora controcorrente, una voce dissonante in un periodo storico che sfociò poi apertamente in tensioni e violenze terroristiche, negli anni di piombo. Anche quel suo breve scritto, come il resto della sua vita e delle sue opere, fece scandalo. Ebbe effetti spiazzanti e creò talmente tanto scalpore da trascinare controcorrente l’attenzione critica del mondo culturale italiano di sinistra sui movimenti politici di quella fase storica.
1968, gli scontri a Valle Giulia
«Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità». È questo il gruppo di versi di quella poesia di Pasolini, che da allora è rimasto nella storia, di cui si continuò e si continuerà a parlare ancora per molti anni.
Con le labbra, non con il cuore
Poi successe che una mattina del 1979, la faccia di Andrea Campagna, ragazzo calabrese figlio di paese e di emigranti a Milano, partito al mondo come poliziotto, finì con una foto formato tessera sulle prime pagine dei giornali. Andrea era stato ucciso “in azione” da Cesare Battisti, a quel tempo militante dei PAC e oggi rubricato nella ricca biografia di Wikipedia come “ex terrorista e scrittore italiano”. Uno che, già, approfittando dell’omonimia fa ombra alla memoria di quell’altro Cesare Battisti, il patriota trentino che con ben altra fine fu eroe dell’indipendenza italiana.
Tra gli amici di gioventù di Andrea Campagna, originario anch’egli del paese di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, c’è Salvatore Mongiardo, da cui ho raccolto il racconto di questa storia. Nel 2009 Mongiardo, emigrato anche lui a Milano, torna a Sant’Andrea e incontra Antonietta, la madre di Andrea Campagna. «Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei, la madre, lo venne a sapere».
Il perdono con le labbra, non con il cuore
«Antonietta ricordava con estrema lucidità quel giorno terribile, e concluse: “Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma non con il cuore, con il cuore no, mai”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego. Quando torno al cimitero del paese, rivedo la tomba e quella foto di Andrea e penso che il mondo va male perché governato da quelli che affamano i miseri e proteggono pure i delinquenti. Un mondo così, prima finisce meglio è», conclude amaro Salvatore Mongiardo, oggi uomo di successo, filantropo e filosofo pacifista ispirato dal pensiero pitagorico. Un punto di vista sul mondo che uno che sparava e uccideva per la Rivoluzione comunista come Battisti magari farebbe ancora in tempo ad apprezzare.
Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ)
Caro Battisti se mai verrà un giorno da uomo libero a Sant’Andrea, in Calabria, stia certo che nessuno le rimprovererà nulla o le torcerà un capello. Potrà camminare tranquillo per le strade del paesino ionico spogliato dall’emigrazione. Magari le offriranno anche un bicchiere di vino di quelle campagne. E poi potrà andare a dare uno sguardo al piccolo cimitero del paese. Lì c’è la misera tomba di questo Andrea ammazzato da lei, Cesare Battisti, a 25 anni. Poi magari potrebbe passare anche da casa di sua madre, che se fosse viva, davanti a lei alzerà ancora una volta la testa, e ancora una volta, finché le resterà fiato, le chiederà perché, «perché, cosa ti aveva fatto mio figlio?», e le dirà ancora che per lei, dopo quello che le ha fatto, «perdonare è mai!».
Cinque colpi alle spalle
Altri lo hanno fatto, legittimamente, per dare pace e darsene, per chiudere finalmente quel capitolo della storia. Chi è morto però resta per sempre dalla parte dei vinti, dei sopraffatti dalla storia. Il perdono è un diritto, un dono, appunto, mai un dovere. Chissà che incontro sarebbe quello tra lei e quella vecchia donna che non ha mai sciolto il lutto del figlio morto ammazzato per le ragioni dei padroni e per una rivoluzione, la sua Battisti, che non c’è mai stata. Tra i vinti di questa terra disertata resta lui, Andrea, tornato qui da morto, ragazzo di Calabria che si era fatto poliziotto a Milano, ammazzato con 5 colpi di revolver dietro le spalle, a 25 anni.
L’agente Campagna, ricordano freddamente le cronache fu «ucciso al termine del suo turno di servizio, intorno alle 14 del 19 aprile 1979, in un agguato teso in via Modica, alla Barona», periferia operaia di Milano. Freddato «di fronte al portone dell’abitazione della sua fidanzata». Ad attenderlo c’era «un gruppo terroristico». A capeggiarlo era proprio Cesare Battisti, che eseguì personalmente la sentenza di morte.
Campagna «fu raggiunto e colpito alle spalle, mentre si accingeva ad entrare in auto, da cinque colpi di rivoltella» che la stampa riferì essere quelli «di una 357 Magnum calibro 38 corazzato». La successiva rivendicazione dell’omicidio fu siglata dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC), di cui Battisti era esponente di punta. Nella rivendicazione si parlò di Campagna come “torturatore di proletari”. In realtà il giovane agente calabrese svolgeva mansioni da autista presso la Digos di Milano.
Fantasmi
In questa storia dalla parte dei vinti, dei senza storia, resta lui Andrea Campagna. La stessa parte di quei padri e di quelle madri povere e diseredate di una Calabria contadina ormai estinta, costretta ma ancora dolente. La madre di Andrea, figura tragica piegata dal crepacuore, lei che sembra intravista, con intorno il suo piccolo mondo di affetti violato dalla sofferenza che si sconta da vivi, era già dentro quei versi di Pasolini del 1968: «la madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui, lottizzati».
Chissà, magari trovasse un giorno un modo, con la voglia e il coraggio di venire fin quaggiù ad affrontare, lei, Battisti, gli occhi o il fantasma di quella donna, madre di una vittima povera, dimenticata e senza giustizia. Andrea Campagna, uno che non ha avuto la sua stessa fortuna, Battisti, questo è certo. Ci provi. Magari anche solo col pensiero, anche da dove si trova adesso, in quella cella del carcere di Parma dove sconta i suoi ergastoli. Lei che è uno scrittore. Provi a scrivere una storia così. Per venire a vedere tra le pagine, fin qui, di persona, lei, Battisti, che oggi non è libero, ma è famoso e scrive noir di successo come Travestito da uomo, pubblicato da Gallimard, che ha amici influenti nel bel mondo come Bernard-Henri Lévy, Fred Vargas, Pennac e Carla Bruni.
Un perdono che non conta più
Provi a immaginare che faccia ha la vecchia mamma calabrese di Andrea Campagna, il ragazzo di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, emigrato per fare il poliziotto (un mestiere da “servo di quello Stato”, che da “comunista armato” lei voleva sovvertire, e ai cui codici e leggi adesso si appella a sua personale tutela), per morire un giorno ammazzato da lei. Tu Battisti, come quegli altri, «eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici». Furono pallottole e non fiori per Andrea, e gli occhi di quella madre continuano a piangerlo, per sempre. Quegli occhi velati da un dolore che non passa, le ricorderebbero Battisti che si vive o si muore sempre per un sì o per un no. E quel no per Andrea lo ha detto lei.
Lei, Battisti, credo, se la vedrebbe ogni giorno davanti agli occhi, quella vecchia madre, mentre alza la testa per negargli il perdono (che lei neanche le ha mai chiesto); con il cuore che diceva no per il poco di tempo che le restava da vivere, e quel no era tutto quello le restava da dire. E così anche dopo. Finché il silenzio non si porterà nel buio del tempo anche quel suo ultimo, inutile e irrimediato diniego di madre. Un perdono che tanto ormai, se pure ci fosse, non conta più niente.
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