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  • La prof che porta la Calabria immateriale a Betlemme

    La prof che porta la Calabria immateriale a Betlemme

    «Non è stato semplice. Operazione importante, impegnativa e coraggiosa, sotto diversi punti di vista». Patrizia Nardi, storica, già docente universitaria della Facoltà di Scienze Politiche di Messina, già assessore alla cultura del Comune di Reggio Calabria e focal point per l’Unesco della Rete delle Grandi Macchine a spalla italiane è appena rientrata dalla Palestina dove, a Betlemme, lo scorso 4 aprile 2023 ha inaugurato la mostra internazionale Machines for Peace. Un’iniziativa importante realizzata in sinergia con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, con il patrocinio della Farnesina, della Commissione Nazionale Italiana UNESCO e il Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Dalla sua voce traspaiono soddisfazione, stanchezza e quella consapevolezza per una missione di pace che è il suo senso dell’operare nella Storia.

    Perché organizzare una mostra del genere?

    «Il 2023 segna per noi una data importante: è il decennale del riconoscimento UNESCO che coincide con il ventennale della Convenzione UNESCO 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale, ossia di quelle espressioni culturali, dei processi e dei saperi trasmessi e ricreati da comunità e gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e alla loro storia. Era necessario dare un segnale importante, concreto, di testimonianza praticata. Per questo ho proposto alla grande comunità della rete – 36 associazioni e 4 amministrazioni comunali, Viterbo, Nola, Palmi e Sassari – di aggiungere alle attività ordinarie un focus specifico sul tema della pace che è una delle missioni, forse la più importante per cui è nata UNESCO dopo la seconda guerra mondiale: indurre comunità, gruppi, individui e nazioni a parlarsi e dialogare partendo dal patrimonio culturale come luogo per ricomporre i conflitti».

    La guerra in questi mesi è su tutti i media…

    «A maggior ragione oggi, con il conflitto ucraino in Europa e un rischio sempre maggiore di escalation, il tema della pace bussa, se mai ce ne fosse bisogno, con maggiore urgenza. Per questo abbiamo coinvolto tanti soggetti, pubblici e privati: l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, i Comuni, le Diocesi e Arcidiocesi delle Città della Rete, la Federazione Nazionale dei Club per l’UNESCO, Rotary International, FRACH – Fellowship of Rotarians who Appreciate Culturale Heritage, Meraviglia Italiana».

    Raccontaci questo percorso

    «A settembre scorso, in occasione del trasporto della Macchina di Santa Rosa – che celebra la traslazione del corpo della patrona di Viterbo avvenuta il 4 settembre 1258 per volere di Alessandro IV – abbiamo organizzato nella Città dei Papi un grande concerto coinvolgendo musicisti e cantanti dei Teatri dell’Opera di Leopoli, Odessa e Kiev: un evento partecipatissimo, oltre mille persone presenti. Quei musicisti straordinari, sofferenti e dignitosi al tempo stesso, suonavano il loro dramma davanti a noi, come abbiamo visto fare al coro dell’opera di Odessa riunitosi all’aperto per intonare l’inno nazionale ucraino.

    Un modo esplicito per parlare alla comunità internazionale attraverso la musica, linguaggio universale per antonomasia. In quel momento ho pensato che la Rete delle Grandi Macchine potesse e dovesse continuare a dare un contributo concreto schierandosi contro tutti i conflitti: Macchine di pace contro macchine da guerra».

    Che risposta c’è stata?

    «La Rete ha molto sostenuto il progetto, fin dall’inizio: una mostra da portare nei luoghi di guerra, a partire dalla Terra Santa, per lanciare un messaggio di pace, forte e chiaro. Un Patrimonio Unesco ha il dovere di farlo e la partnership istituzionale è fondamentale. Le trattative erano state lunghe e complicate: avevamo avviato lo scorso ottobre l’interlocuzione con il Comune di Bethlehem per ricevere l’adesione solo il 20 febbraio successivo. Abbiamo organizzato tutto in poco più di un mese, pancia a terra potrei dire, costruendo una rete di cooperazione anche professionale molto significativa: abbiamo operato contemporaneamente con il team di ICPI, la OpenLab Company e il partner palestinese Iprint».

    Altri aiuti?

    «Abbiamo avuto il sostegno tecnico dei Comuni di Sassari e Viterbo e delle comunità della Rete, che sono venute in Terra Santa insieme a me. Senza di loro il progetto non avrebbe avuto la stessa valenza, progettare è un conto, condividere con gli stakeholder un altro ed ė un atto dovuto. E, chiaramente, fondamentale ė stato il lavoro di squadra ministeriale, la sinergia costante con il Gabinetto del ministro degli Esteri Tajani e la collaborazione con la nostra straordinaria rete diplomatica: Commissione Unesco, Rappresentanza Unesco a Parigi, Ambasciata di Tel Aviv, Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Quando arrivai in riunione, la prima volta qualche giorno dopo l’ok da Bethlehem, rimasi stupita. Mi sarei aspettata più una riunione tecnica che una mobilitazione generale e questo mi ha molto incoraggiata, devo dire».

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    Patrizia Nardi insegna all’Università di Messina, è stata anche assessore alla Cultura del Comune di Reggio Calabria

    Potremmo dire che il governo ha avuto l’opportunità di cogliere un’occasione importante: il Mediterraneo in generale (e il Mediterraneo allargato, più specificamente) tornano ad essere centrali per la politica estera italiana.

    «L’Italia lavora da diversi anni a sostenere l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese nella logica dei “due popoli, due stati”, sostenendo i negoziati di pace tra le parti: un ritorno a linee di politica estera che possano contribuire a costruire la pace in territori in cui la tensione ė continua e tangibile non può che essere considerato un fatto importante. Il conflitto ucraino ha saldamente posizionato il Paese in assetto atlantista, come mai accaduto prima dello scorso anno; e la guerra, con le sue priorità per la diversificazione di approvvigionamento energetico, combinata con le pressioni migratorie, impone la necessità di tornare alla vocazione naturale italiana: snodo centrale e madre del Mediterraneo, una responsabilità dalla quale, nel bene e nel male, non possiamo esimerci. Tajani ne è consapevole e la sua missione nello scorso marzo in Israele e Palestina è un segnale che va interpretato in un certo modo».

    Mi stai dicendo che la cultura è il guanto di velluto della diplomazia?

    «Avvicinare, far dialogare, fare cooperare comunità e soggetti istituzionali è il primo obiettivo dell’agenzia dell’ONU. La diplomazia culturale è strettamente connessa alla diplomazia politica e deve avvalersi di molti strumenti e altrettante strategie, specie in contesti complessi come quello palestinese, dove un conflitto che va avanti da oltre settant’anni anni ha creato comunità che vivono quotidianamente la divisione come parte integrante e quasi connaturata alla loro vita, con un mondo che sembra essersi girato dall’altra parte. Ma la missione della nostra delegazione non è passata inosservata».

    In che senso?

    «Le date scelte non sono state casuali. Abbiamo individuato il periodo della Pasqua, anzi delle “Pasque” che hanno radice comune, per il nostro messaggio di pace. La Pasqua cristiana, quella ebraica e l’ortodossa quest’anno, per l’insolito allineamento di calendario, hanno assunto un significato ecumenico di notevole importanza e un ulteriore invito al dialogo tra le religioni e le comunità. Purtroppo determinate ricorrenze vengono “utilizzate” anche nel male. Fino al martedì 4 aprile la situazione appariva tranquilla. Poi è precipitata. Il 5 era previsto un nostro incontro con gli studenti dell’Università di Bethlehem alla fine saltato per ragioni di sicurezza. Il 6 è iniziata l’escalation: la pioggia di missili, l’auto lanciata contro un gruppo di turisti proprio vicino all’ambasciata italiana di Tel Aviv, a trenta metri da dove si trovava l’ultimo gruppo della nostra delegazione, con le conseguenze che tutti conosciamo».

    Avete percepito il pericolo?

    «Si, anche per l’aumento dei controlli ordinari, particolarmente accurati anche in aeroporto. Una “normalità” che si è presentata a noi in maniera molto cruda, difficile da capire per chi non vive la quotidianità dell’emergenza».

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    Un alberello di Ulivo fra i totem della mostra “Machines for peace”

    Una mostra virtuale, un “affresco digitale”. Non avete trasferito nulla, ma avete trasferito tutto…

    «Proprio così. Grazie alla tecnologia abbiamo scomposto, trasportato e ricomposto le feste di Nola, Sassari, Palmi e Viterbo, la coralità delle stesse, il significato che quella coralità assume in un processo di costruzione di ponti e di dialoghi di pace. Il film di Francesco De Melis – che abbiamo girato durante il lockdown per testimoniare il rischio della sparizione dei patrimoni immateriali in contesti di crisi riportando nelle città vuote, sui palazzi, sulle chiese, la musicalità e le immagini delle feste – fa scorrere le sue sequenze su un enorme spazio di proiezione di 16 metri».

    Che effetto crea nello spettatore?

    «Si entra nelle feste, nel Bethlehem Peace Center, a due passi dalla Natività e ci si trova in un’altra dimensione, accompagnati da 13 figuranti nei loro magnifici costumi “di scena” festiva, che dialogano con la maestosa testa-scultura che Giuseppe Fata ha dedicato al tema della mostra, nel contesto del progetto Simulacrum. Una circolarità di sensazioni, idee, progetti, competenze, solidarietà che hanno prodotto un miracolo».

    Sei soddisfatta?

    La pace si coltiva e si pratica nel lavoro quotidiano, non credo bastino più le teorizzazioni, i cortei e le bandiere. Aiutano, ma non bastano. Essere operatori di pace è una grande responsabilità e le “mie” comunità della Rete lo hanno capito bene. Se devo parlare di soddisfazione, beh, questo può essere sufficiente. Non possiamo voltarci dall’altra parte, né far finta che niente succeda: questo vale per tutti i conflitti e soprattutto per le comunità che ne restano vittime fisiche, sociali, economiche. Quel muro, immanente e imminente, che divide la Cisgiordania parla anche a chi si rifiuta ancora di ascoltarlo».

    Le prossime tappe dopo Betlemme?

    «La mostra resterà a Betlemme fino a maggio. Poi alcune tappe europee, tra cui Praga e Parigi e dove sarà necessario portare il nostro messaggio di pace, fino al 2024. In più, oltre ad alcune città italiane, ci sono situazioni in progress che stiamo monitorando, di cui daremo notizia al momento opportuno».

    Cosa ti porti indietro da questa esperienza?

    «La consapevolezza di avere dato il mio contributo e di aver incoraggiato la Rete a dare il suo, in un momento particolarmente difficile; l’aver lavorato con tantissime persone, le mie comunità, il mediatore Giorgio Andrian, il mio straordinario co-curatore Taisir Masrieh Hasbun e il team palestinese di IPrint, con OpenLab, la vicinanza di tutti. Di aver dato un contributo con i mezzi che mi sono propri e congeniali. Non dimenticherò le preghiere all’alba del muezzin dal minareto, l’avere la percezione che quella Terra continui ad essere il centro del mondo. E non dimenticherò un piccolo bambino, che accompagnava il suo papà autista di un nostro transfer: un piccolo bambino vivacissimo, un bimbo in trincea, le cui prospettive sono ben lontane da quelle di un mondo forse anche fin troppo dorato e fasullo, come a volte sembrerebbe essere il “nostro”».

  • Calabresi: ultimi in tutto, primi nell’ottimismo

    Calabresi: ultimi in tutto, primi nell’ottimismo

    Nei giorni scorsi l’istat ha pubblicato l’undicesimo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) in Italia. Questo si basa su 88 indicatori per 12 categorie che inquadrano questioni concrete e rilevanti.
    Il dossier conferma il divario tra le regioni italiane nelle 12 categorie eaminate: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione ricerca e creatività e qualità dei servizi.
    La Calabria ne esce male, in alcuni casi molto
    Sono solo un paio gli indicatori in miglioramento: l’ottimismo e la mortalità per tumori.

     lo dice l’Istat: la Calabria è la più ottimista

    Nel 2021 si registra la più alta percentuale di chi guarda al futuro con ottimismo.
    Lo scorso anno, invece, gli ottimisti calano di botto.
    L’analisi territoriale mostra come il Nord-ovest abbia recuperato nel 2022 in tutti gli indicatori di benessere il proprio vantaggio sul resto del Paese, perso durante la pandemia.
    In particolare, per quel che riguarda la soddisfazione per il tempo libero, calata nel 2021 e risalita al 68,4% di persone molto o abbastanza soddisfatte.
    Questo risultato tuttavia non è sufficiente a raggiungere i valori del 2019 (71,7%).
    Il Molise ha un valore di crescita superiore alla media e una percentuale di soddisfatti prossima alla media. ma la Calabria si distingue per il più elevato livello di crescita rispetto al 2019: dalla 20esima alla 11esima posizione.

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    L’Istat “fotografa” il Paese: un’immagine-simbolo del rapporto Bes 2922

    Per quanto riguarda la soddisfazione per il tempo libero la situazione è ancora più articolata e non si individuano condizioni omogenee. Tuttavia la Calabria raggiunge una posizione in linea con la media nazionale e, insieme a Umbria e Campania, rappresenta l’unico territorio che ha recuperato e superato i livelli di soddisfazione del 2019. I soddisfatti della propria vita, in Calabria sono il 46,8%, su una media del 40.5% al Sud. I soddisfatti per il tempo libero sono il 65,8%, su una media del 63,8% al Sud. In entrambi i casi la Calabria non è la regione con più ottimisti in termini percentuale ma quella dove sono aumentate di più le persone ottimiste.

    Tumori: per l’Istat in Calabria si muore meno

    L’Istat indica un netto miglioramento nel Sud profondo. Infatti tra il 2019 e il 2020 la mortalità per tumore cresce in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, con la felice eccezione della Calabria, che è al primo posto delle regioni virtuose (o “graziate”).
    Ma contemporaneamente diminuisce in tutte le altre regioni italiane, salvo in Liguria in cui rimane stabile.

    La Calabria invecchia male

    La media nazionale è di 60,1 anni, ma la Calabria è la maglia nera di questa sotto classifica con 53 anni. Per la precisione, sono 53,1 per gli uomini (su una durata media della vita di 79,5 anni) e di 53 per le donne (su 83,8 anni).
    Nel 2022, la speranza di vita in buona salute si stima pari a 60,1 anni, mentre nel 2021 ammontava a 60,5 anni e nel 2020 a 61,0, a fronte di 58,6 nel 2019.
    L’indicatore manifestava una certa stabilità prima della pandemia, con un range compreso tra 58,2 e 58,8 anni nel periodo 2012-2019. Gli ultimi 3 anni sono, un periodo di turbolenze eccezionali, che richiedono una forte cautela nell’interpretazione.
    A livello territoriale si conferma nel 2022 lo svantaggio del Sud. Le regioni del Nord, con le eccezioni della Liguria (59,1 anni) e dell’Emilia Romagna (59,9 anni), mostrano valori della vita media in buona salute tutti al di sopra della media nazionale.
    Stesso discorso nel Centro, ad eccezione delle Marche (60,2) che ha un valore in linea con la media dell’Italia.
    Nelle regioni del Sud si registrano tutti valori inferiori alla media nazionale. La Calabria, pur migliorando rispetto al 2019, continua a posizionarsi ai più bassi livelli (53,1, ben 16 anni in meno rispetto al livello più alto raggiunto dalla Provincia autonoma di Bolzano).

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    Terza età; sempre più precaria la salute degli anziani

    Troppi morti si potevano evitare

    Il concetto di mortalità trattabile e prevenibile proposto dall’Istat si basa su un concetto particolare: che certe morti (per gruppi di età e malattie specifiche) si sarebbero potute evitare se ci fosse stato un sistema di salute pubblica più efficace e interventi medici immediati.
    Anche in questo caso la Calabria presenta criticità.
    Sardegna e Valle d’Aosta hanno una mortalità prevenibile al di sopra della media nazionale e tassi di mortalità trattabile nel livello medio. Al contrario, Puglia e Calabria si caratterizzano per tassi di mortalità trattabile al di sopra della media nazionale e tassi di mortalità prevenibile al livello medio o lievemente al di sotto della media nazionale.

    Istat e scuola: la Calabria è la meno istruita

    Nel 2022 ricresce il numero di diplomati e laureati, ma l’Italia è ancora lontana dalla media europea. Nel 2022 il 63,0% delle persone tra i 25 e i 64 anni ha almeno una qualifica o un diploma secondario superiore (più 0,3 punti percentuali rispetto al 2021) rispetto a una media europea di circa il 79,5%.
    Superano il 70% Friuli-Venezia Giulia (71,2%), Umbria (71,5%), Provincia Autonoma di Trento (72%) e Lazio (72,1%). Sono meno del 60% Sicilia (52,4%), Puglia (52,5%), Campania (53,8%), Sardegna (54,6%) e Calabria (56,6%).

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    Secondo l’Istat la Calabria è la regione meno istruita

    Analfabeti anche nel digitale

    Le competenze digitali restano una prerogativa delle persone con titolo di studio più elevato. Infatti il 75,9% di chi ha almeno la laurea possiede delle competenze digitali almeno di base, contro il 53,8% dei diplomati e il 21,9% di chi ha un titolo di studio più basso.
    Dall’analisi territoriale emerge un forte gradiente tra Centronord e Mezzogiorno. In particolare, le regioni con la quota più alta di persone con competenze digitali almeno di base sono il Lazio (52,9%), seguito dal Friuli Venezia Giulia (52,3%) e dalla Provincia Autonoma di Trento (51,7%). All’opposto si collocano Sicilia (34,0%) e Campania (34,2%) e ultima la Calabria (33,8%).

    Studenti: secondo l’Istat in Calabria i più “ciucci”

    Gli studenti hanno livelli ancora profondamente diseguali e questa forbice è cresciuta con la pandemia.
    Nell’anno scolastico 2021-2022, il primo di ritorno quasi totale alle lezioni in presenza, le competenze dei ragazzi di terza media non sono ancora tornate ai livelli pre-pandemici. Calabria agli ultimi posti.
    I ragazzi e le ragazze che non hanno raggiunto un livello di competenza almeno sufficiente (i low performer) sono il 38,6% per la competenza alfabetica (in aumento rispetto al 2019, +3,4 punti percentuali e stabili rispetto al 2021) e il 43,6% per quella numerica (in aumento rispetto al 2019, 4 punti percentuali di più ma comunque in miglioramento rispetto al 2021, (meno 0,9).
    In alcune regioni del Mezzogiorno l’indicatore evidenzia forti criticità: più del 50% dei ragazzi e delle ragazze insufficienti nelle competenze alfabetiche (in Calabria 51,0% e in Sicilia 51,3% ) e in quelle numeriche (Calabria 62,2%, Sicilia 61,7%, Campania 58,2%, Sardegna 55,3% e Puglia 50,3%).

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    Lavoratori in protesta

    Redditi: per l’Istat la Calabria è ultima

    Nel 2021 persiste un’elevata disuguaglianza dei redditi. In Calabria c’è il dato medio peggiore d’Italia rispetto al reddito lordo pro capite: 14.108 euro, laddove la media al Sud è di 15.11 euro.
    Rischio di povertà: terzultimi, dietro solo al Campania e Sicilia ma di poco: 33,2% contro il 37,6% e il 38,1%.
    Nel 2021, gli indicatori non monetari che descrivono le condizioni di vita delle famiglie hanno registrato un peggioramento rispetto al 2019. Tuttavia il numero di poveri assoluti è in calo.
    Nelle regioni del Mezzogiorno il rischio di povertà più elevato si associa a una più alta disuguaglianza (rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero) che supera il valore medio dell’Italia (adesso 5,9, rispetto al 5,7 dei redditi del 2019). Ecco le maglie nere: Sardegna (6,1), Calabria (6,4), Sicilia e Campania (7,2 e 7,5 rispettivamente).

    Incendi: la Calabria brucia di più

    Incendi in salita nel 2021, sia nella quantità (+23,1% sull’anno precedente) sia nella dimensione media (più che raddoppiata, da 11,4 a 25,4 ettari).
    In tutto sono andati in fumo 152 mila ettari, pari al 5 per mille della superficie italiana. L’indicatore dell’impatto degli incendi boschivi, in crescita per il terzo anno consecutivo, ha un valore largamente superiore a quello medio degli altri paesi Ue dell’Europa meridionale, fra i quali ci batte solo la Grecia (8,2 per mille).
    Più del 75% della superficie bruciata è localizzata in Calabria, Sicilia e Sardegna, dove condizioni climatiche avverse (temperature elevate, forte ventosità e siccità prolungata) hanno favorito gli incendi e reso più difficili gli spegnimenti.

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    Cenere e desolazione nel Parco d’Aspromonte dopo i terribili incendi dell’estate 2021

    L’aria peggiore si respira in Calabria

    Peggiora in Calabria la qualità dell’aria. Nel 2021 Centro e Sud si tallonano (rispettivamente 65,0% e 63,9%) ma, per fortuna, in meglio (erano, rispettivamente, 71,7% e 72,3% nel 2020). Fanno eccezione il Molise e la Calabria dove si registra un peggioramento della qualità dell’aria.

    Cchiù acqua ppe’ tutti? In Calabria proprio no

    Reggio Calabria è tra i Comuni capoluogo che hanno adottato le misure di razionamento idrico più drastiche.
    Nel 2021, 12 capoluoghi di provincia (più Reggio Calabria, Catania e Palermo, come capoluoghi di città metropolitana) hanno razionato l’acqua potabile, con un incremento (più 4 Comuni) rispetto al 2020. Questo problema non è più esclusivo del Mezzogiorno: infatti anche Prato e Verona hanno disposto il razionamento dell’acqua nei mesi estivi.

    Depurazione: in Calabria si intorbidano le acque

    Circa 1,3 milioni di cittadini risiedono in Comuni completamente privi di depurazione.
    Gli impianti di depurazione delle acque reflue urbane sono infrastrutture essenziali per la salute pubblica.
    L’assenza di depurazione coinvolge 296 Comuni. Il dato è in calo rispetto al 2018 (-13% di comuni, -19% di residenti).
    Il 67,9% di questi Comuni è localizzato nel Mezzogiorno (soprattutto in Sicilia, Calabria e Campania, coinvolgendo rispettivamente il 13,1%, 5,3% e 4,4% della popolazione regionale).
    Molti impianti in queste regioni sono inattivi poiché sotto sequestro, in corso di ammodernamento o in costruzione.
    Dei 296 comuni privi di depurazione 67 si trovano in zone costiere, per lo più in Sicilia (35), Calabria (15) e Campania (7), per circa 500mila abitanti.

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    Il depuratore di Caulonia

    Clima: secondo l’Istat la Calabria è la più insensibile

    La maggiore sensibilità ai cambiamenti climatici si osserva nelle regioni del Centro (72,7%, maglia rosa alla Toscana con il 73,4%) e del Nord (72,1%, Veneto sul podio con il 75,9%).
    Ad eccezione di Emilia-Romagna (69,8%) e Bolzano (68,6%), in tutte le regioni settentrionali, centrali e insulari la percentuale risulta sopra la media (71,0%). Invece, al netto dell’Abruzzo (71,8%), la preoccupazione risulta inferiore alla media in tutte le regioni del Sud (67,3%), dove “vince” la Calabria (62,0%).

    Sanità: troppo pochi gli infermieri

    Per la distribuzione territoriale del personale infermieristico la maglia nera è ancora calabrese. Nel 2021 nel Nordest e al Centro la quota è rispettivamente 6,8 e 7,1 per 1.000 abitanti, mentre nel Nordovest e nelle Isole ci sono solo 6 infermieri per 1.000 abitanti.
    La Calabria è la regione con la minor dotazione, pari a 5,6 per 1.000 abitanti. I territori con maggior disponibilità di infermieri sono il Molise (8,6), seguito dalla provincia autonoma di Trento (8,1), Liguria e Umbria (7,7). E cresce la sfiducia.
    Le percentuali più elevate di sfiducia (0-5) verso medici e altro personale sanitario si riscontrano in Calabria (25,2% verso i medici e 26,1% per l’altro personale), in Molise (21,3% per i medici e 21,7% per l’altro personale) e in Sardegna (20,2% per i medici e 20,6% per l’altro personale).

    Emigrazioni ospedaliere: la Calabria sempre peggio

    La ripresa delle emigrazioni ospedaliere tra 2020 e 2021 ha colpito tutto il territorio nazionale, ad eccezione del Lazio che rimane stabile al 7,1%.
    Le regioni dove la crescita è stata più consistente (circa 2 punti percentuali) sono Calabria, Basilicata, Molise, Liguria e Valle d’Aosta. Nelle regioni più piccole il fenomeno è da sempre particolarmente intenso, anche per la vicinanza di strutture ospedaliere fuori regione: Molise 29,2%, Basilicata 26,9% e Valle d’Aosta 15,4%. In Calabria la percentuale è pari a 20,8%, probabilmente a causa di una carenza infrastrutturale. Infatti è la regione con la minore dotazione di posti letto in degenza ordinaria per acuti: 2,15 per 1.000 abitanti contro 2,55 della media nazionale nel 2020.

    Una protesta contro la Sanità calabrese

    Istat e internet: in Calabria è più lento

    La fibra è la connessione a banda larga dominante nella metà dei Paesi Ocse.
    In Italia la situazione è a macchia di leopardo. Infatti, si passa da regioni che hanno una buona rete come il Lazio (61,3%), la Campania (55,1%) e la provincia autonoma di Trento (52,2%), a situazioni critiche in Basilicata e Calabria (26,9% e 22,8%). Il fanalino di cosa è la Provincia autonoma di Bolzano, dove solo il 12,3% delle famiglie abita in zone servite da Internet veloce.

    Rete idrica: in Calabria la peggiore

    Le famiglie che dichiarano irregolarità del servizio idrico nel 2022 sono il 9,7%, nel 2002. Questo dato è pressoché stabile nell’ultimo triennio.
    Tale quota non è uniforme sul territorio: si passa dal 3,4% del Nord al 7% del Centro per arrivare al 18,6% del Sud e al 26,7% delle Isole.
    Da sempre le situazioni più critiche sono quelle della Calabria (45,1%) e della Sicilia (32,6%), dove si registra un serio problema delle infrastrutture idriche, che causa una costante scarsa qualità dell’offerta del servizio. La Calabria, tra l’altro, è peggiorata rispetto al 2021 (16 punti percentuali in più). Le irregolarità del servizio idrico sono legate anche alla dimensione comunale. La percentuale di famiglie che denunciano irregolarità è pari all’11,9% nei Comuni tra 2.000 e 10.000 abitanti e all’11,5% nei comuni tra 10.000 e 50.000, mentre si dimezza nei Comuni principali delle aree metropolitane (4,1%).

    Corrente a singhiozzo

    Tra le infrastrutture indispensabili c’è la rete elettrica. Nel 2021 l’Autorità per l’energia elettrica (Arera) ha rilevato in Italia 2,1 interruzioni accidentali lunghe (superiori a 3 minuti) e senza preavviso per utente. Questa irregolarità del servizio non riguarda tutto il Paese. Infatti, è quasi assente in Valle d’Aosta, Province Autonome di Trento e Bolzano e in Friuli-Venezia Giulia dove le interruzioni per utente avvengono meno di una volta l’anno. Supera le 3 interruzioni annue per utente in Campania, Calabria, Puglia.

    Sicurezza e crimine: mafia a parte, ce la caviamo

    La Calabria è a metà classifica per la sicurezza urbana. Ma va detto che il dossier non prende in considerazione i reati di mafia.
    Si sentono più sicuri i residenti nei Comuni fino a 2 mila abitanti e in quelli tra 2 mila e 10 mila abitanti, rispetto ai residenti nei comuni di grandi dimensioni.
    Nei comuni tra 2 mila e 10 mila abitanti le persone maggiori di 14 anni che si dichiarano molto o abbastanza sicure quando camminano al buio da sole è più alta di 17 punti rispetto a quella riscontrata nei Comuni delle aree di grande urbanizzazione (68,4% contro 51,4%).
    Stessa cosa per la percezione del rischio di criminalità (11,2% contro 40,6%) e per il degrado sociale e ambientale (4,0% contro 13,9%).
    La situazione cambia anche in relazione alle fasce di età: i più insicuri sono gli over 75 (41,6%), mentre i giovani e gli adulti percepiscono un maggiore livello di sicurezza (oltre il 66% tra i 20 e i 54 anni).
    Le differenze di genere si mantengono in tutte le fasce di età. In particolare tra i giovani di 20-24 anni. Tra questi il 78,4% dei ragazzi si sente sicuro mentre tra le ragazze della stessa età il valore scende al 51,5%.

  • Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Attorno al 25 Aprile c’è una antica e proficua pratica del “chiagni e fotti”, esercitata con successo dai fascisti prima e dagli epigoni del Msi che oggi governano provvisoriamente il Paese. È la retorica “dei vinti e dei vincitori”. I primi dovrebbero essere i tiranni che avevano trascinato l’Italia nel baratro della dittatura e della guerra. I secondi, i partigiani che quella tirannia l’avevano sconfitta. Non ci sono dubbi che a vincere fu la democrazia. Ma immaginare i fascisti come vittime condannate all’oblio e alla marginalità sociale è quanto di più lontano dalla storia ci possa essere.

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    Palmiro Togliatti

    La paura dei comunisti

    Il 25 Aprile non è il giorno della liberazione d’Italia, ma la data scelta dal Cln per dare inizio all’insurrezione in tutto il territorio nazionale ancora occupato dai nazifascisti. Un momento di forte unità nazionale, quindi. Invece, ancora oggi appare come una data divisiva, più volte attaccata sul piano revisionistico e minacciata di cancellazione. Le cause di tanta avversione affondano le loro radici nell’anticomunismo potente che attraversò l’Italia nel primissimo Dopoguerra e a lungo negli anni successivi, malgrado il Pci di Togliatti avesse formalmente scelto una strada tutt’altro che insurrezionale, impegnandosi a sostenere la comune causa antifascista senza volerla egemonizzare, pur potendolo fare, considerata la massiccia presenza di partigiani comunisti. Anche sul piano culturale, non solo propriamente politico e strategico, le azioni dei partigiani nella narrazione del Pci erano gesti legati alla liberazione dal tiranno, non finalizzati alla lotta di classe.

    I fascisti riprendono i loro posti

    Tutto questo non bastò. E il nuovo Stato, che pure il Pci aveva grandemente contribuito a far nascere con il coraggio e il sacrificio di moltissimi, conservava nelle sue viscere proprio quei fascisti che con banale trasformismo avevano ripreso i loro posti nella polizia e nella magistratura. Va da sé infatti che la persecuzione a carico dei capi partigiani all’indomani della fine della guerra non può essere separata dalla composizione della classe egemone di allora. La stessa che spesso aveva orrendi scheletri da far dimenticare, anche grazie ad apparati dello Stato che erano colpevolmente scampati a una adeguata e necessaria epurazione. Del resto dopo l’amnistia togliattiana i carnefici – e perfino i loro capi – erano tornati a casa e spesso avevano riavuto il loro posto nella gerarchia sociale.

    Fu in questo clima che i carnefici che avevano torturato e stuprato furono rilasciati con sentenze assai blande. Chi aveva con le armi liberato il Paese, invece, fu perseguitato con stupefacente accanimento. Questo sin dalla primavera del ’45, quando i tribunali militari alleati perseguirono i capi delle formazioni garibaldine del nord Italia per fatti avvenuti nel corso della guerra, ma ritenuti illegittimi.

    I processi ai partigiani

    Per dare la misura della persecuzione vale la pena di citare I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana, di Michela Ponzani. L’autrice parla di «308 partigiani fermati, 142 arrestati, 46 denunciati a piede libero, 34 condannati alla pena complessiva di 614 anni e 10 mesi di reclusione, di cui 55 assolti dopo aver scontato 35 anni complessivi di carcere preventivo e 54 amnistiati dopo aver scontato 10 anni e 8 mesi di carcere preventivo. A queste cifre devono aggiungersi quelle relative al solo 1950 che indicavano il numero di 131 partigiani processati per fatti inerenti la guerra di Liberazione, dei quali 27 condannati a una pena complessiva di 460 anni e 10 mesi di carcere e 52 amnistiati dopo aver scontato complessivamente 128 mesi di carcere preventivo».

    Non furono pochi i partigiani che subirono processi dopo la guerra

    Lo stigma sociale 

    Ma non c’era solo il carcere, c’era lo stigma sociale dell’essere stato partigiano. E c’erano la fatica di trovare un lavoro, il marchio della militanza politica (come successo a Cesare Curcio a Pedace) e la scomunica della Chiesa. Fino ad arrivare a giorni più prossimi ai nostri tempi, perché la Festa della Liberazione pur essendo antica, non ha trovato che di recente cittadinanza sui giornali e nelle aule di scuola, uscendo da un dimenticatoio ben organizzato e resistendo fin qui ad attacchi improvvisati e maldestri, ma le cui origini sono antiche.

    È guardando indietro che capiamo chi sono davvero i vinti e chi i vincitori. E capiamo che il 25 Aprile è divisivo giacché separa i giusti dagli ingiusti. E se oggi La Russa – che quasi non riesce a pronunciare la parola antifascismo – è presidente del Senato, è perché quelle aule non sono un bivacco di manipoli, come chi è raffigurato nei busti che tiene in casa avrebbe voluto.

  • Fasci, toponimi e un centrosinistra che non t’aspetti

    Fasci, toponimi e un centrosinistra che non t’aspetti

    E anche quest’anno ci si avvicina al 25 aprile, sacrosanto, e alla molto meno sacrosanta fiera dei luoghi comuni. Li hanno preceduti a Cosenza – com’è d’uopo – le commemorazioni per il bombardamento statunitense subìto nella giornata del 12 aprile 1943 e non più grave degli altri alleatissimi bombardamenti su Cosenza – che chissà perché nessuno menziona mai – del 6, del 28 e del 31 agosto, del 3, del 4, del 7 e dell’8 settembre dello stesso anno. Forse quella ricorrenza andrebbe spostata a fine estate, se non stessero tornando tutti dalle vacanze…

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    Bombe alleate su Cosenza durante la Seconda guerra mondiale

    Il 25 aprile parte da molto lontano

    Se di 25 aprile bisogna parlare, si deve cominciare da molto lontano e fare di tutta l’erba una fascina, senza fare due fasci e due misure. Possibilmente, senza scadere nella ingenua e nefasta distinzione tra belli e brutti: non soltanto commemorazione della Liberazione (variamente attribuita più o meno candidamente a questo o a quel motivo), ma celebrazione di uno spartiacque tra un intero periodo da chiudere e uno da aprire, possibilmente con piede diverso e non col piede di porco come fu vent’anni prima. E questo periodo da chiudere viene da lontano. Viene dalla Marcia su Roma e da ancor prima.

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    Paolo Cappello, martire socialista ucciso dai fascisti

    Paolo Cappello, martire socialista

    Uno dei primi e più crudi episodi fu, a Cosenza, senz’altro quello legato all’aggressione di Paolo Cappello. Pochissimi giorni fa è deceduta, in Romagna, la vedova senza figli dell’ultimo dei testimoni dell’affaire Cappello. La storia si fa con i documenti, quantomeno con quelli, soprattutto con quelli. Ci mancherebbe altro. Vi sono quelli scomparsi, quelli “alleggeriti”, quelli artefatti, falsificati etc. Poi per fortuna vi sono, talvolta, anche quelle fonti dirette che restano sempre un po’ in penombra, ritenute ancillari e di minor conto. Tutto ciò per dire che il testimone in questione, il cosentino Franz Coppola, raccontò in punto di morte – novantaseienne – la sua versione dei fatti, in fondo poco discordante da quella delle fonti ufficiali.

    Franz Coppola (1910-2006)

    Era il 14 settembre del 1924 quando venne strappato il garofano rosso dal bavero del socialista Francesco Mauro, col parapiglia che ne seguì e le tragiche conseguenze ai danni del socialista Cappello. Cappelli e coppole: Franz Coppola aveva all’epoca quattordici anni e meno di un anno prima aveva perso la mamma di sangue blu, la nobile Regina Monaco – dei Monaco dello Spirito Santo – che era andata in sposa al non meno nobile Gustavo Coppola, di Francesco.

    Alcuni agenti provocatori fascisti aizzarono Franz e altri ragazzini del centro storico affinché infastidissero Mauro e ne strappassero il garofano. Accadde all’altezza della Piazza Piccola e forse, dunque, non esattamente per mano del milite fascista Francesco Bartoli, come le fonti riportano.

    Un garofano nel destino 

    Ignari della valenza politica del gesto, i ragazzi cominciarono a rendersene conto ai primi spari. Se avessero parlato, i mandanti si sarebbero accaniti anche contro di loro e contro le loro famiglie, con esiti probabilmente spaventosi.
    Una dinamica non molto dissimile fu, due anni dopo, quella dell’attentato bolognese a Mussolini, laddove fu armata la mano innocente del piccolo Anteo Zamboni, poi fermato dal tenente Pasolini (padre di PPP, per la cronaca) e letteralmente linciato per strada da squadristi e arditi, fino alla morte. Come dei piccoli Anteo fortunatamente mancati, i ragazzi cosentini minacciati di ritorsioni riuscirono a ripiegare con la fuga delle proprie famiglie in altre città, se non addirittura all’estero.

    E Franz Coppola? Dopo una lunga militanza comunista e partigiana, segnalata a “dovere”, e poi un barcamenarsi in comparse per Cinecittà (lo si veda, in veste di usciere, con Alberto Sordi ne Il Moralista del 1959), tornò a risiedere a Cosenza ormai vecchio. Morì nello stesso Palazzo Monaco in cui era nato e lì lo ricordo tremolante, sveglissimo e brontolone impenitente. Ironia della sorte, una foto lo ritrae bambino, intorno al ’18, proprio con un garofano appuntato sull’abito. Segni del destino.

    Tommaso Arnoni e Michele Bianchi

    Sarebbe stata la Calabria in cui durante il fascismo avrebbero spiccato, su tutte, due figure: Michele Bianchi e Tommaso Arnoni (qui in un raro filmato cosentino dell’Istituto Luce).
    Il sindacalista Michele Bianchi aveva avuto dapprima un maestro di socialismo come Pasquale Rossi. Si sarebbe poi indirizzato verso un profondo radicalismo attuato in modi anche violenti nell’agitazione delle folle contadine del ferrarese quando lì dirigeva la Camera del Lavoro. Sfuggì alla galera, e seguì nel ’19 Mussolini, ponendosi – con l’83,8% dei voti – alla guida del fascismo in Calabria. Qui riuscì a fare realizzare notevoli opere di bonifica e lavori pubblici, non senza i buoni uffici della sua amante, la marchesa De Seta.

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    Maria Elia de Seta Pignatelli e Michele Bianchi (foto Wikipedia)

    La stessa – mentre il marito partecipava alla costituzione dell’MSI – avrebbe in futuro proposto e ottenuto che il pio don Luigi Maletta diventasse tra il ’48 e il ’51 “assistente ecclesiastico” del MIF, il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia». Lo aveva fondato lei assieme al piucchenero Ezio Maria Gray. Fu il primo e dichiaratissimo movimento neofascista organizzato (con sede furbamente extraterritoriale, in Vaticano), diretto a sostenere anzitutto i fascisti carcerati. E chi l’avrebbe detto?

    Don Luigi Maletta

    Il tempo cancella

    Ma torniamo a Bianchi. Quadrumviro nei giorni della Marcia, Segretario Nazionale del Partito Fascista, Ministro dei Lavori Pubblici, morì prematuramente e all’apice della carriera. Camigliatello – da ora Camigliatello Bianchi – gli erigeva un monumento. Cosenza gli dedicava un intero rione, quello più bello. Il tempo, chiamiamolo così, cancellò poi entrambe le denominazioni. Così come sempre a Cosenza sarebbero sparite – qualcuna subito, qualche altra dopo molto tempo – le varie

    • piazza Italo Balbo (già delle Colonie, poi Eritrea, e soltanto alla fine piazza Amendola),
    • piazza Littorio (Villa Nuova),
    • via Arnaldo Mussolini (via A. Arabia),
    • via Rosa Maltoni Mussolini (via G. Tocci),
    • viale Benito Mussolini (viale degli Alimena),
    • piazza Predappio (piazza P. Scura),
    • via Axum (via C. Marini),
    • via Cirene (via A. Sensi),
    • via Bengasi (via R. Caruso),
    • lungobusento Tripoli (via A. von Platen),
    • via Massaua (via P. Perugini),
    • via Asmara (via F. Principe),
    • via Rodi (via G. Nucci),
    • via Somalia (via L. Picciotto),
    • via Neghelli (via E. Loizzo),
    • via San Sepolcro (via C. Cattaneo).

    Un omaggio inatteso

    Eppure pare che a Michele Bianchi sia stata reintitolato qualcosa: la piazza dell’acquedotto cosentino Merone, finanziato proprio grazie al suo interessamento e laddove fu commemorato nel 1934.

    Una vecchia foto dell’acquedotto Merone con ancora i simboli fascisti sulle mura

    Matteo Dalena, nelle vesti di presidente provinciale dell’ANPI fa notare quanto segue: «Per le opere pubbliche realizzate in città e in provincia il fascista Michele Bianchi gode, a mio avviso purtroppo, di buona reputazione in città. Ma è quantomeno inopportuno che prima nel 1993 e poi nel 2009 due amministrazioni comunali, tra l’altro di centro-sinistra, abbiano deliberato e poi dato attuazione all’intitolazione di una piazza a Michele Bianchi al Merone con l’apposizione della relativa targa segnaletica. Bianchi fu tra i fondatori del fascismo, orchestrò la marcia su Roma, e fu tra gli esponenti più radicali, espressione di quello squadrismo intransigente che si macchiò di atroci delitti in tutta Italia: Camere del Lavoro date alle fiamme, giornali bruciati sulla pubblica piazza, arti spezzati, vere e proprie spedizioni punitive. Oggi il suo nome sulla targa segnaletica è coperto da vernice bianca: sono gli stessi cittadini a non gradire evidentemente questa intitolazione. È l’attuale amministrazione comunale a dover decidere se ripristinarla, e dunque rivendicarla, oppure toglierla, intitolandola magari a qualche povera vittima della dittatura fascista».

    Uno sì e l’altro no?

    Accolgo la segnalazione dell’amico Matteo e però aggiungo: ma che strada si fa per andare all’acquedotto? Via Tommaso Arnoni. E allora perché Arnoni sì e Bianchi no?
    In fondo, Bianchi se ne andò tubercolotico dopo soli otto anni di regime. Arnoni, invece – dopo aver bruciato le tappe massoniche passando dal primo al terzo grado in meno di un anno, con l’evidente benestare di Nicola Spada, deus ex machina di quella precisa loggia in cui militava anche Luigi Fera – nel ’24 risultò secondo eletto del ‘listone’ fascista in Calabria, appunto dopo Bianchi. Ottenne 43.000 voti, quasi tutti in provincia di Cosenza. Nella città fu addirittura primo, con 703 preferenze, contro le 608 di Mancini e le 602 di Bianchi.

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    Tommaso Arnoni e Benito Mussolini

    Davanti alle insistenze del duce, la carica podestarile a Cosenza sarebbe passata nelle sue mani e fu perciò che Arnoni si interessò alla costruzione di scuole e ospedali. Tra il ’31 e il ’41 raccolse non a caso onori e riconoscimenti: Grande ufficiale e poi Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Cavaliere e poi Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, intanto nominato nel ’39 senatore del Regno (mica bruscolini) poiché già deputato per tempo sufficiente (non per una delle altre venti e più nobili categorie dell’epoca), presentato da Pietro Tacchi Venturi (quel gesuita pochissimo delicato in fatto di leggi razziali), e infine – dal ’39 al ’43 – membro della Commissione dell’Economia Corporativa e dell’Autarchia.

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    Targa nell’Ospedale dell’Annunziata a Cosenza

    L’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo sancì in capo ad Arnoni la decadenza dalla carica di senatore. Tuttavia, con sentenza dell’8 luglio 1948, la Suprema Corte di Cassazione la dichiarò nulla. Pare che «l’analisi dell’attività pubblica, delle opere realizzate sotto la sua supervisione, lo spirito democratico e la testimonianza di esponenti comunisti e socialisti sulla sua condotta irreprensibile», avessero fatto sì che egli venisse reintegrato nella carica di senatore alla quale, «per sensibilità», poi rinunciò.

    Epurazioni e ragion di Stato

    In realtà gli valsero molto di più le aderenze nella Democrazia Cristiana. All’epoca la chiamavano “continuità”. La stessa che fece sì che il primo Presidente della Repubblica (la Repubblica Italiana, quella democratica, fondata sul lavoro, che ripudia la guerra e vieta la riorganizzazione del partito fascista) sarebbe stato Enrico De Nicola, già presidente della Camera all’inizio del governo Mussolini, già sostenitore della fascistissima Legge Acerbo, già eletto deputato con i liberali nel listone fascista del ‘24, e già nominato senatore nel pieno del 1929… Si sa, tra le epurazioni e la ragion di Stato c’è di mezzo un mare…

    E poi che dire di quegli altri relitti cosentini di toponomastica imperialista (sia fascista che prefascista) che a Cosenza ancora sembrerebbero resistere, come via del Tembien, via del Tigrai, via Capoderose, piazza Ogaden, via Macallè, via Adua, o via Daua Parma? O tutti (si fa per dire) o nessuno. E, dopotutto, scempi toponomastici a Cosenza ne sono stati fatti di ben peggiori (vedi centro storico, e non soltanto).
    Almeno il 25 aprile, “pensiamoci liberi”…

  • Eroismo e crimine: la tragedia del gobbo del Quarticciolo

    Eroismo e crimine: la tragedia del gobbo del Quarticciolo

    Roma, 16 gennaio 1945. La Capitale non è più in mano tedesca da circa sei mesi.
    Ora la occupano le truppe inglesi e americane. E quel che resta dello Stato italiano fa il possibile per recuperare una parvenza di vita civile tra le macerie.
    Al civico 12 di via Fornovo, nel quartiere Prati, c’è un uomo in fuga. O meglio, un ragazzo: Giuseppe Albano, che ha quasi diciannove anni, molti dei quali trascorsi tra la piccola delinquenza e la Resistenza clandestina.

    L’appuntamento fatale di Giuseppe Albano

    Albano si nasconde dalle forze dell’ordine e dalle truppe Alleate, che lo cercano per l’uccisione del caporale britannico Tom Linson. Ha un appuntamento con Umberto Salvarezza detto er Guercio, il segretario di Unione proletaria, una formazione di ultrasinstra.
    Il ragazzo aspetta Salvarezza, ma invano. Quindi se ne va. O meglio, ci prova. Poco dopo, lo trovano steso davanti al palazzo dove avrebbe dovuto incontrare il “compagno” Salvarezza con un proiettile conficcato nella nuca.
    Che sia Albano non ci sono dubbi: lo tradiscono l’immancabile borsalino nero, la pistola e la gobba vistosa, che lo ha reso famoso in tutta Roma, dove lo chiamano Peppino il gobbo o il gobbo del Quarticciolo, il suo quartiere di provenienza.

    Un reparto di granatieri affronta i tedeschi a Porta San Paolo

    Calabrese, bandito e partigiano

    Riavvolgiamo il nastro. Giuseppe Albano non è romano de Roma. E neppure burino, che significa provinciale. È un calabrese trasferitosi nella Capitale coi genitori nel ’36 da Gerace Superiore, dov’è nato il 23 aprile del 1926.
    Albano, come tanti immigrati, è un soggetto borderline che campa come può: spesso di piccoli lavori e, in certi casi, infrangendo la legge.
    Infatti, Peppino il gobbo mette su una banda di coetanei, anch’essi originari della Calabria o del Sud.
    Con l’occupazione tedesca della Capitale, Peppino fa il salto di qualità. Il 10 settembre del ’43 affronta una pattuglia tedesca in perlustrazione. Pochi mesi dopo disarma e malmena da solo due avanguardisti, cioè fascisti “juniores” (tra i 14 e i 17 anni di età) che lo minacciano con un pugnale.
    Sono solo due episodi, neppure troppo eclatanti, della carriera resistenziale di Albano, che in pochi mesi diventa un mito nelle borgate e negli ambienti di sinistra.

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    Al centro nella foto, Giuseppe Albano

    Il cadavere che scotta di Giuseppe Albano

    Torniamo alla scena del delitto. Il comunicato ufficiale parla di conflitto a fuoco con i carabinieri. E qui c’è la prima discrepanza: un colpo alla nuca sembra più l’opera di un sicario che l’esito di una sparatoria.
    Ancora: a quel che risulta Albano non avrebbe sparato neppure un colpo.
    Pure la testimonianza di Salvarezza è un capolavoro di ambiguità: il segretario di Unione proletaria sostiene di aver chiamato lui stesso i carabinieri, perché intimorito dal Gobbo. Quest’ultimo, sempre secondo Salvarezza, sarebbe andato a via Fornovo per recuperare dei documenti su incarico di Togliatti.
    Solo successivamente emergerà una versione diversa, quasi opposta: Salvarezza avrebbe incaricato il gobbo di fare un attentato a un comizio comunista. Albano non solo si sarebbe rifiutato, ma avrebbe spifferato tutto al servizio d’ordine del Pci.
    Questo conflitto di versioni non è la sola stranezza di questo delitto e della vicenda del gobbo.

    Giuseppe Albano capopopolo

    C’è Resistenza e Resistenza. Al Nord, le formazioni partigiane ingaggiano i tedeschi e i repubblichini in operazioni di guerriglia, in cui valgono ancora le regole militari.
    A Roma le cose cambiano: le azioni contro gli occupanti somigliano ad atti terroristici. Questo non vuol dire che i partigiani del Nord fossero “buoni” rispetto a quelli romani. Più semplicemente, significa che la Resistenza si adegua al contesto urbano, dove un combattimento tradizionale è semplicemente inconcepibile.
    Logico, allora, che un personaggio come Peppino il gobbo diventi un leader ideale di questo tipo di resistenza: è duro, coraggioso e animato da un particolare senso di giustizia sociale. Che lo fanno notare subito.
    Abilissimo a organizzare raid, attentati e colpi di mano, Albano rende inaccessibili il Quarticciolo e Centocelle a tedeschi e squadristi. «È il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo», scrive di lui Italia libera, l’organo del Partito d’azione.

    La targa celebrativa dei partigiani del Quarticciolo

    Il Robin Hood de’ noantri

    Albano e i suoi mescolano background delinquenziale, ottima conoscenza del territorio e capacità militari.
    E hanno una specialità, che li rende popolari: rapinano treni e depositi per redistribuire viveri e beni di prima necessità agli abitanti delle borgate, ridotti alla fame dalla guerra e dalla borsa nera. Il comando tedesco lo teme al punto di adottare una misura bizzarra e atroce: il fermo di tutti i gobbi di Roma.
    Ma Peppino resta inafferrabile, protetto dalla complicità dei borgatari e, soprattutto, da una grotta riscoperta solo di recente.

    Giuseppe Albano nell’inferno di via Tasso

    Il gobbo è molto politicizzato, ma è il classico cane sciolto: stringe rapporti con Pietro Nenni ed esponenti di spicco del Pci. Tuttavia, non è organico a nessuno, e questo spiega anche alcuni rapporti discutibili, come quello con Salvarezza.
    Albano alza la posta ad ogni giro di vite tedesco. E rischia brutto.
    Il 10 aprile 1944 irrompe in un’osteria del Quadraro e ammazza tre soldati tedeschi come rappresaglia alla strage delle Fosse Ardeatine. La reazione germanica è durissima: Herbert Kappler ordina un maxi rastrellamento della zona, al termine del quale settecento romani sono deportati nel Reich. Metà di loro muore in prigionia.
    Alla fine, le Ss beccano anche il gobbo nei locali di un’azienda dove si era rifugiato. E lo portano nel famigerato carcere di via Tasso, dove subisce le torture dell’altrettanto famigerata banda Koch.
    Ma, ulteriore fortunato paradosso, nessuno riconosce Albano, che resta in galera fino al 4 giugno di quell’anno. Poi, mentre i tedeschi si ritirano, la popolazione libera i prigionieri di via Tasso.

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    Il rastrellamento del Quadraro

    Infiltrati, spie e provocatori

    Torniamo al delitto e, soprattutto a Umberto Salvarezza. Sedicente segretario di Unione proletaria, Salvarezza è un complice delle attività più estreme del gobbo.
    Non ci si riferisce alle azioni contro i fascisti e i tedeschi, ma ai reati comuni della banda di Peppino (omicidi, estorsioni e rapine), in cui l’aspetto politico è davvero labile.
    Il regime è crollato ma la Repubblica non è ancora nata. E Roma non riesce a trovar pace neppure sotto il controllo alleato.
    Anzi, la Capitale diventa un crocevia di traffici e rapporti – politici e non – quantomeno strani. Nei quali uno come Salvarezza sguazza alla grande.
    Infatti, come sa bene la questura di Roma, il segretario di Unione proletaria è una ex spia fascista che tenta di rifarsi la verginità. È un uomo a cavallo di più mondi, inclusi forse i servizi segreti, italiani e Alleati, che tentano di recuperare i fascisti meno compromessi per usarli in funzione anticomunista. Anche Albano finisce in questo gioco complesso.

    Vendicatore e di nuovo bandito

    Dopo l’arrivo degli Alleati, il gobbo del Quarticciolo si mette a disposizione della questura, dove tra gli altri si fa notare Federico Umberto D’Amato, astro nascente dell’intelligence italiana.
    Ufficialmente, Albano dà la caccia ai torturatori della banda Koch e agli ex fascisti. Ma, allo stesso tempo, intensifica le sue attività criminali, appena nobilitate dall’ideologia: le vittime predilette del gobbo sono gli ex fascisti e gli speculatori arricchiti.
    E tra le vittime figura una star: il tenore Beniamino Gigli, considerato un collaborazionista dei tedeschi, che subisce una pesante rapina in casa.

    Beniamino Gigli, la vittima più illustre di Peppino il gobbo

    A tu per tu coi fascisti

    Nella Roma liberata non ci sono solo gli Alleati e i partigiani. Vi operano anche parecchi fascisti, spesso latitanti, che creano varie organizzazioni, tra cui il famigerato Gruppo Onore.
    Che c’entra Albano con questi reduci che lui stesso aveva contribuito a sconfiggere?
    Il collegamento è indiretto e ruota attorno a un altro personaggio, che per ambiguità dà i punti a Salvarezza: il fiorentino Umberto Bianchi, ex deputato socialista convertitosi al fascismo ma finito nei guai per sospetto spionaggio in favore dell’Urss.
    Riabilitato da Mussolini, alla fine della guerra Bianchi si lega a Salvarezza. E i due si danno a doppi e tripli giochi che risulterebbero divertenti se non fossero inquietanti.
    Nella rete di relazioni tessute dalle menti di Unione proletaria c’è davvero di tutto: gli ambienti monarchici e massonici, l’Oss (l’antenata della Cia) gli ex fascisti e l’ultrasinistra. In quest’ultimo caso, va da sé, il collegamento è Albano.

    L’ultima retata

    Il corpo del gobbo è ancora caldo quando la notizia dell’uccisione fa il giro di Roma e, ovviamente, arriva al Quarticciolo.
    A questo punto, la questura decide di liquidare il resto della banda e ordina un blitz nel quartiere che si trasforma in un assedio, con tanto di mezzi blindati. La retata ha successo e tra gli arrestati figura anche Iolanda Ciccola, la fidanzata di Albano.
    Un modo di tappare la bocca a potenziali testimoni scomodi?
    Forse. Per aggiungere ambiguità ad ambiguità, c’è anche la testimonianza di un informatore degli Alleati, che – come riporta lo storico Giuseppe Parlato – definisce il fratello di Albano una spia tedesca. Ultimo, non irrilevante dettaglio: il gobbo si sarebbe avvicinato a Salvarezza su indicazione di Nenni, per tenere sott’occhio Unione proletaria.

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    Gérard Blain e Anna Maria Ferrero ne “Il gobbo”

    Giuseppe Albano dalla storia al mito

    Il Giuseppe Albano reale è dimenticato nel giro di pochi anni. Gli sopravvive il mito, con tutte le sue ambiguità e i suoi paradossi romantici.
    Versione riveduta e più o meno corretta dei leader dei briganti, il gobbo è immortalato nel cinema due volte.
    La prima da Carlo Lizzani, nel suo Il gobbo (1960), in cui il francese Gérard Blain presta il proprio volto ad Alvaro Cosenza, incarnazione su celluloide di Albano. Il film riprende, in maniera molto romanzata la storia di Peppino il gobbo, con un linguaggio a cavallo tra il noir e il neorealismo. Giusto un dettaglio per i cinefili incalliti: nel film esordisce Pier Paolo Pasolini nel ruolo di Leandro er Monco.
    La seconda incarnazione cinematografica di Albano è ne La banda del gobbo (1977) un cult del genere poliziottesco diretto da Umberto Lenzi e interpretato dal mitico Tomas Milian.

    Pier Paolo Pasolini e Carlo Lizzani sul set de “Il Gobbo”

    L’epilogo

    Sulla fine di Peppino il gobbo le tesi e le dietrologie si sprecano.
    Quella della questura (che pure si è servita di certi servizi di Albano e forse ha chiuso il classico occhio su tutto il resto) sembra un depistaggio, ma forse non troppo: regolamento di conti tra bande rivali. Come dire: liberata Roma, il gobbo e i suoi non servono più. O, per parafrasare Shakespeare: il gobbo ha servito, il gobbo può andare.
    Più interessanti gli esiti della controinchiesta condotta da Franco Napoli, già braccio destro del gobbo e mente operativa della banda: Albano, secondo lui, sarebbe stato ucciso a tradimento da Giorgio Arcadipane, ex spia dei tedeschi a Regina Coeli e poi infiltrato in Unione proletaria. Il che riporta a Umberto Salvarezza.
    Anche quest’ultimo finisce nel dimenticatoio: viene arrestato con l’accusa di vari reati da faccendiere (truffa, millantato credito ecc). Subisce una condanna a sette anni. Poi se ne perdono le tracce.
    Nessun abitante del Quarticciolo e del Quadraro riceve riconoscimenti per meriti esistenziali. E solo Iolanda Ciccola tiene viva la memoria di Peppino con l’impegno politico. Ovviamente nella sinistra rivoluzionaria.
    E a questo punto cala per davvero il sipario sull’unico calabrese che ha avuto una leadership forte nella Resistenza.

  • La Resistenza è (anche) donna: le partigiane di Calabria

    La Resistenza è (anche) donna: le partigiane di Calabria

    Questa storia è iniziata con un messaggio: «Ti va di scrivere qualcosa sulle partigiane calabresi?». Certo che mi andava, ne ero entusiasta: quale occasione migliore per parlare della storia delle donne durante la Liberazione? Sebbene in Italia associamo la partigianeria ai volti di uomini, anche le donne combatterono la lotta antifascista.
    Nel documentario La donna nella Resistenza, diretto da Liliana Cavani nel 1965, possiamo ascoltare alcune delle loro testimonianze e farci un’idea dell’impatto che ebbero nel condurre l’Italia verso la fine del regime fascista e dell’occupazione nazista: 70mila aderirono ai gruppi di difesa, 35mila parteciparono ad azioni di guerra partigiana, 500 ricoprirono ruoli di comando e (solo) 16 furono decorate con medaglie d’oro.

    Donne e Resistenza: il tabù delle armi

    I ruoli di queste donne furono molteplici, ma la loro azione si associa soprattutto a quello della staffetta. E, come possiamo notare, solo per una parte ci fu coinvolgimento nella lotta armata e un’esigua minoranza ricevette dei riconoscimenti ufficiali dopo la fine della guerra.
    Perché? Simona Lunadei, che ha diretto dal 1985 al 2000 l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza e fa parte della Società Italiana delle Storiche, spiega che uno dei problemi fu il tabù delle armi per le donne: riconoscere che le donne siano capaci di esercitare azioni violente, esattamente come gli uomini, equivaleva ad accettare un’eguaglianza di genere sostanziale.

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    Carla Capponi decorata con la Medaglia d’oro al valore militare

    Carla Capponi, partigiana decorata con medaglia d’oro al valore militare, nel suo libro Con cuore di donna raccontò che i suoi compagni non volevano darle una pistola e che lei la rubò e loro provarono a sottrargliela. E poi ci fu l’occultamento delle partigiane dopo la Liberazione, come nel caso torinese in cui il PCI impedì alle donne della Brigata Garibaldi di sfilare assieme ai compagni partigiani. Accostarsi alle donne, si pensava, avrebbe fatto sembrare i compagni meno credibili.

    Le donne calabresi nella Resistenza

    Sì, ma le donne calabresi come parteciparono alla Resistenza? Ecco, a questo punto mi sono scontrata con il muro della mia ignoranza. Cosa sapevo delle mie conterranee? Pressoché nulla, ma sarebbe bastato studiare e fare un po’ di ricerca storiografica, giusto?
    Da qui ho avuto l’opportunità di conoscere alcune delle loro storie.

    Anna Cinanni

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    Anna Cinanni

    Nasce a Gerace Superiore nel 1919 in una famiglia di contadini e, tutti insieme, si trasferirono a Torino tra il ’28 e il ’29, Suo fratello, Paolo, è membro del PCI e fa avvicinare Anna al partito. Nel 1935 Anna entra a far parte del Soccorso Rosso, organizzazione fondata nel 1922 durante il IV congresso dell’Internazionale Comunista per offrire supporto materiale e morale alle vittime della lotta antifascista.
    Nel 1943 aderisce ufficialmente al PCI ed entra a far parte della Brigata Garibaldi, col nome di battaglia Cecilia. Poi, nel ’45, la polizia scopre materiale clandestino nel doppio fondo della sua borsa e la arresta a Vercelli. La spostano a Torino per farla giudicare dal Tribunale speciale, ma riesce a scamparla grazie alla liberazione della città.

    Con la fine della guerra continua la sua militanza nel PCI e prosegue nel suo impegno per coinvolgere le donne nella lotta politica. In vista delle elezioni del 1946 in Piemonte organizza l’associazione Ragazze d’Italia; l’anno successivo è eletta responsabile delle donne alla quarta Sezione Luigi Capriolo; nel 1949 partecipa al quinto Corso della scuola nazionale femminile, al termine del quale è nominata funzionaria organizzativa e politica dell’Unione Donne Italiane (Udi).

    Anna Condò

    Nasce a Reggio Calabria e, dopo i bombardamenti degli Alleati, si trasferisce in Piemonte con la famiglia. Qui il fratello, Ruggero, aderisce alla Brigata Garibaldi e anche Anna entra a far parte della Resistenza partigiana come staffetta. Il fratello viene catturato e muore in un campo di concentramento tedesco. Anna, invece, finita la guerra torna a Reggio Calabria. Diventa insegnante e testimone della storia coltivando la memoria di Ruggero e di chi, come lei e suo fratello, fu parte attiva della Liberazione dal nazi-fascismo.

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    Anna Condò

    Caterina Tallarico

    Nasce nel 1918 a Marcedusa, nel catanzarese, e si trasferisce a Roma per studiare Medicina. Nel 1942, sotto consiglio del fratello Federico, decide di spostarsi a Torino, che sarebbe stata una città più sicura della Capitale in caso di bombardamenti. Qui Caterina inizia ad offrire supporto medico ai partigiani e finita la guerra torna in Calabria per esercitare la professione di medico.

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    Federico, Antonio e Caterina Tallarico

    Teresa Tallotta Gullace

    Nasce a Cittanova nel 1907 in una famiglia di braccianti. Sposa Girolamo Gullace, col quale si trasferisce a Roma. L’uomo, nel 1944, viene catturato durante un rastrellamento di civili nella zona di Porta Cavalleggeri. Teresa, al settimo mese di gravidanza, si presenta davanti alla caserma assieme a centinaia di altre donne.

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    Teresa Tallotta Gullace

    Tutte reclamano il diritto di parlare con i propri cari, catturati durante il rastrellamento, e ne pretendono la liberazione. In quell’occasione Teresa muore per mano di un soldato tedesco, che spara contro la donna. La sua vicenda ispirerà il personaggio della Sora Pina, interpretato da Anna Magnani in Roma città aperta di Roberto Rossellini.

    Giuseppina Russo

    Nasce a Roccaforte del Greco, nel reggino, e col marito Marco Perpiglia emigra a La Spezia per lavorare. In Liguria Giuseppina entra a far parte della Brigata Garibaldi e partecipa alla Resistenza.

    Tanti nomi, poche storie

    In questa ricerca ho trovato i nomi di altre donne calabresi coinvolte nella Resistenza e nella Liberazione, ma non le loro storie. Tra le mani avevo poche informazioni e, tra l’altro frammentate. Le partigiane calabresi di cui sapevo qualcosa, inoltre, non avevano combattuto in Calabria. L’entusiasmo iniziale si stava trasformando in delusione.
    Avevo in mente le testimonianze di partigiane emiliane o lombarde o toscane, perché era così difficile trovare quelle delle calabresi?

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    Tiziana Noce

    Se non potevo ricostruire la memoria della partigianeria femminile in Calabria, potevo almeno provare a darmi qualche risposta. Così ho deciso di contattare la professoressa Tiziana Noce, docente di Storia contemporanea all’Università della Calabria. Si è occupata di Resistenza e militanza politica delle donne tra guerra e ricostruzione.
    Certo, le informazioni che abbiamo sono davvero insufficienti e la memoria di quelle donne è andata perduta. Io, però, mi stavo muovendo nella ricerca con una prospettiva inadeguata. «Più che cercare, in questo contesto, ciò in cui la Calabria somiglia a Milano o a Firenze – che non ha senso – perché non riflettere sui termini in cui si può parlare di antifascismo, resistenza e adesioni a questi valori nella regione?»

    Nord e Sud

    Ciò che mancava alla mia ricerca iniziale era una lenta d’analisi meridionalista, capace di riconoscere le peculiarità del Sud e di non rincorrere in cosa il Meridione somigli al Nord. Fare questo significherebbe creare una gerarchia Nord-Sud e ammettere che uno è migliore dell’altro. La Calabria presentava un contesto socioeconomico diverso dalle regioni del Centro e del Nord Italia: come potevo aspettarmi allora di trovare le stesse dinamiche sviluppatesi altrove?

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    1945, partigiane e partigiani a Venezia

    I movimenti che hanno visto la storia del protagonismo femminile si sono sviluppati in realtà urbane e industriali. Quindi, una regione priva di città significative e di quel tessuto industriale patisce la sua marginalità e il suo essere una periferia priva di quel contesto che ha prodotto quei fenomeni sociali. Questo, però, non significa che la Calabria non sia stata coinvolta nei flussi che si stavano generando. Come abbiamo visto, le donne calabresi hanno partecipato alla Resistenza e, se le storie delle partigiane sono poche, possiamo riflettere su ciò che è accaduto nella regione dopo la caduta del regime fascista.

    Donne e politica dopo la Resistenza

    Con le elezioni del 1946 in Calabria, per esempio, furono elette tre sindache: Lydia Toraldo Serra, a Tropea; Caterina Tufarelli Pisani, a San Sosti; Ines Nervi Carratelli, a San Pietro in Amantea. Fu un dato nazionale rilevante: nelle amministrative di quell’anno furono elette 12 sindache in tutta Italia. E un quarto era rappresentato da politiche calabresi, tutte appartenenti alla DC.

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    Caterina Tufarelli Palumbo Pisani, Lydia Toraldo Serra e Ines Nervi Carratelli

    Le donne calabresi partecipavano alla politica e davano corpo allo spirito antifascista su cui si fondava la neonata democrazia italiana. Questo dato ci lascia intuire che, durante la Resistenza, le donne calabresi non furono soggetti passivi ma parteciparono attivamente ai flussi sociali che stavano attraversando la penisola.

    Francesca Pignataro

  • Il Giorno da leoni del partigiano Mannarino

    Il Giorno da leoni del partigiano Mannarino

    Noi che siamo nati e cresciuti nell’Italia repubblicana possiamo fortunatamente solo immaginare cosa pensasse un giovane di appena vent’anni chiamato alle armi per partecipare ad una guerra che doveva essere, secondo il Duce e chi l’aveva voluta, una passeggiata e che già si prefigurava come una tragedia. Quei momenti, quegli stati d’animo, ce li potrebbe raccontare chi, tra migliaia e migliaia di giovani, è sopravvissuto, ma sono rimasti in pochi.
    C’è chi ha lasciato dei ricordi, li ha scritti. Tanti altri hanno preferito mantenerli nell’aneddotica familiare e molte storie sono rimaste sconosciute. Qualcosa per esempio ce l’avrebbe potuto raccontare Giuseppe Mannarino, ma è morto alcuni anni fa.

    Giuseppe Mannarino e la Divisione Piacenza

    Nato a Paola, falegname, abitante a via Fiumicello, nel vecchio rione della Rocchetta, Mannarino era stato richiamato alle armi nel settembre del ‘42.
    Lo avevano assegnato al Battaglione Mortai da 81 della CIII Divisione Piacenza prima in Piemonte e poi in Liguria in territorio dichiarato in stato di guerra. A novembre la Divisione ricevette l’ordine di spostarsi nel Lazio a sud di Roma. Aveva l’incarico di realizzare una seconda linea di contenimento in previsione di uno sbarco nemico.

    Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

    Caduto il fascismo, il 25 luglio, gli anglo americani, ormai sbarcati in Sicilia, bombardavano i vari paesi calabresi e facevano cadere decine di bombe su Paola a pochi metri dalla casa dove abitava Mannarino prima di partire soldato, e liberavano il Sud risalendo verso nord. La Divisione Piacenza venne spostata allora nella zona di Albano-Genzano-Velletri.
    È proprio nei Castelli romani che Giuseppe Mannarino si trova l’8 settembre. Un grappolo di paesi distesi sulle falde dei Colli Albani ricche di vigneti e uliveti, abitati da contadini, operai ed artigiani di antiche tradizioni democratiche e di lotta di classe e che avevano pagato con anni di esilio, confino e carcere la loro opposizione al fascismo.

    Italiani e tedeschi, da alleati a nemici in un giorno

    Con la caduta di Mussolini si pensava che finalmente la guerra sarebbe finita. I partiti antifascisti incominciarono a ricostituirsi, i vecchi dirigenti imprigionati e confinati tornarono a casa e ripresero l’impegno politico. Anche l’annuncio dell’armistizio dava la speranza della fine delle sofferenze. Ma la fuga vergognosa del Re da Roma e il comportamento dei vertici militari e Badoglio colsero l‘esercito completamente impreparato.
    La Divisione Piacenza, schierata con una serie di caposaldi distanti e non collegati tra loro, subì un attacco a sorpresa dei paracadutisti della 2^ Divisione tedesca. I soldati italiani, che fino a quel momento quasi convivevano e condividevano le postazioni con i tedeschi, senza ordini precisi erano disorientati.

    Alcuni di loro si trovavano in mezzo ad uno scontro reale per la prima volta. I tedeschi, ex alleati, chiesero la consegna delle armi, alcuni gruppi si opposero militarmente con l’aiuto della popolazione, come nel caso di Villa Doria ad Albano. Già in quel giorno si presentava un’Italia divisa. Italiani che si univano ai soldati italiani per difendersi e difenderli e italiani che collaboravano con le truppe naziste ad occupare il proprio territorio. Il giorno nove la divisione Piacenza era già solo un ricordo.

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    1943, la disposizione delle truppe

    I tedeschi disarmarono e trattennero soldati, ufficiali e sottoufficali. Alcuni ottennero la libertà; ad altri, caricati sui camion, spettò la deportazione nei campi di lavoro.
    Molti fuggirono dandosi alla macchia, sparsi in nuclei nelle campagne, nascosti ed assistiti dalle famiglie, rivestiti di abiti borghesi. Chi poteva cercava di tornare a casa. Altri, tra questi Giuseppe Mannarino, entrarono in contatto con gli esponenti dell’antifascismo locale. Severino Spaccatrosi, Salvatore Capogrossi, Aurelio del Gobbo, Lorenzo d‘Agostini, per citarne alcuni. Importante fu il ruolo delle donne tra cui Elena Nardi (Nennella) e Laura Quattrini.

    La resistenza nei Castelli Romani

    In contatto diretto con il nascente Comitato di Liberazione ed il Comando Centrale militare, insieme riescono a costruire nella zona una diffusa organizzazione di guerriglia che darà filo da torcere alle truppe tedesche.
    Le bande erano diffuse sul territorio, tra vigne, casolari ed abitazioni. Le sosteneva una vasta rete di legami da cui traevano il fondamentale per vivere, mangiare, vestirsi, alloggiare, per approntare magazzini di approvvigionamento e depositi di armi e munizioni spesso sottratte agli stessi comandi tedeschi. Dopo una prima fase di assestamento, il Comando militare andò a Giuseppe Levi, detto Pino, un ebreo di Genova legato ai fratelli Rosselli, laureato in giurisprudenza. Aveva passato diversi anni al confino, alcuni mesi anche in Calabria, a Fuscaldo.

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    Chiodi a 4 punte utilizzati contro i tedeschi

    Allontanati gli elementi più indisciplinati, si studiarono nuove forme organizzative e metodi di azione più adeguati al territorio, denso di coltivazioni ma con pochi boschi e scarse possibilità di movimento e di nascondiglio. Agli italiani si aggiunse un gruppo di russi liberati da un campo di prigionia vicino a Monterotondo.
    Si muovevano in gruppi di pochi elementi con obiettivi ed ordini precisi, anche a supporto all’aviazione inglese o americana. Niente più scontri frontali, ma una tattica mordi e fuggi. Fu un crescendo continuo di azioni: dal taglio delle linee telefoniche e la disposizione sulle strade dei chiodi a quattro punte che tranciavano le gomme degli automezzi tedeschi, ai mitragliamenti ai soldati e alle truppe nemiche e la posa di mine. Fino, con l’esperienza acquisita giorno per giorno, alle grandi azioni di sabotaggio per ostacolare il traffico sulle grandi linee ferroviarie nazionali.

    Giuseppe Mannarino e il Ponte delle Sette luci

    L’azione più eclatante, sicuramente tra le più importanti della Resistenza, fu compiuta la notte del 20 dicembre: due contemporanei attentati alle linee ferroviarie Roma-Formia e Roma-Cassino che servivano da rifornimento e spostamento delle truppe tedesche al fronte.

    L’azione veniva preparata da tempo. Erano stati prescelti i punti su cui agire. In particolare il Ponte delle Sette Luci al 25° Km. della linea ferroviaria Roma-Formia-Napoli era sotto stretta sorveglianza. Racconterà anni dopo Spaccatrosi: «Ogni mezz’ora passavano su di esso due pattuglie. Per giorni e giorni, notte e giorno i nostri compagni, Ferruccio Trombetti, sostituito ogni tanto da Giuseppe Mannarino, un calabrese della squadra, avevano studiato nei minimi particolari ciò che avveniva sul ponte. Il tempo in cui si vedevano che spuntavano le due pattuglie, quanto tempo impiegavano a percorrere il ponte, quanti minuti impiegavano per allontanarsi e il tempo preciso in cui ricomparivano le altre due pattuglie».

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    Il Ponte delle Sette Luci oggi

    Quella notte, sotto una pioggia che non dava tregua, due squadre arrivarono sotto i piloni del ponte Sette Luci. A comporre la prima sono Ferruccio Trombetti e Alfredo Giorgi, l’altra Enzo D’Amico, Giuseppe Mannarino e Pino Levi Cavaglione. Alcuni vanno a sistemare le mine; gli altri li coprono armati di pistole, mitra e bombe.

    Felici e sconvolti

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    Pino Levi Cavaglione

    Scrive il giorno dopo Pino Levi Cavaglione: «Pochi minuti dopo mezzanotte, finalmente era tutto finito… Ci portammo ad un centinaio di metri dal ponte, sotto un uliveto in pendio. Ad un tratto uno mi ha scosso. Il treno… Siamo tutti balzati in piedi ansando. Il treno proveniente dal sud avanza con snervante lentezza. Il locomotore è già sul ponte. Sento un vuoto allo stomaco che mi toglie ogni forza. Tutto il treno è sul ponte. Ne è già quasi alla fine… All’improvviso un’alta colonna vermiglia si alza dalla testa del treno e il locomotore si impenna e scompare, mentre lungo tutto il convoglio le fiammate rosse delle esplosioni squarciano l’oscurità. Uno schianto terribile e un fragore prolungato si propagano di collina in collina diffondendosi nell’ampia vallata pianeggiante. Vediamo la striscia nera del treno confondersi, contorcersi come una cosa viva nel corpo giallastro delle fiammate». […] «Ci precipitiamo di corsa giù dalla collina, sguazzando, scivolando nel fango viscido e tenace, felici e sconvolti […]».

    Chi c’è dietro?

    L’attentato uccise o ferì quattrocento militari tedeschi in avvicendamento dal fronte.
    Dopo circa mezz’ora da oltre le colline si sentì un forte boato. L’altra squadra aveva fatto brillare, vicino alla stazione di San Cesareo sulla linea Roma-Cassino, una mina d 32 Kg di esplosivo al passaggio di un treno carico di armi e munizioni.
    Le azioni erano riuscite tanto bene che i tedeschi si convinsero che fossero opera di paracadustisti inglesi. Da parte sua il CLN romano, per timore di rappresaglie contro la popolazione locale, ritenne non darne notizia sulla stampa clandestina e di lasciar credere questa versione.

    Anzio

    Lo sbarco degli Alleati ad Anzio, a pochi chilometri dai Castelli, riaprì l’entusiasmo e le speranze. Le azioni partigiane ripresero con vigore, con attacchi alle autocolonne, mitragliamenti e sabotaggi. Ma gli incomprensibili ritardi dell’avanzata americana diedero ai tedeschi il tempo di organizzarsi e capovolgere la situazione militare. Il feldmaresciallo Kesselring potè far affluire ingenti forze e creare quella testa di ponte tra Cassino ed il mare che durò altri quattro lunghissimi mesi.

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    Un ufficiale nazista indica a Kesselring un punto della line difensiva tedesca in Italia

    L’attività delle squadre partigiane dei Castelli divenne quasi impossibile. Fino alla Liberazione di Roma, la città e i paesi della provincia vissero uno dei periodi più tristi ed eroici della loro storia: un’ondata di rastrellamenti, arresti, torture e fucilazioni di partigiani spesso consegnati ai tedeschi da delatori e collaborazionisti fascisti. Come nel caso di Marco Moscato, caposquadra del gruppo di Pino Levi Cavaglione, preso mentre era a Roma a cercare i genitori. Lo riconobbe Celeste di Porto, “la pantera nera” che lo fece arrestare per denaro da una squadra di fascisti a caccia di ebrei.

    Un giorno da leoni di Nanni Loy

    All’azione del Ponte delle Sette luci si è ispirato Nanni Loy per il film Un Giorno da leoni, che ebbe come protagonista anche l’attore calabrese Leopoldo Trieste. Presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia del 1961, il film racconta la storia di alcuni giovani comuni che si trovano per caso in zona di guerra e di lotta partigiana. E che di fronte a quanto accadeva trovano il coraggio per fare l’unica cosa possibile: combattere contro i tedeschi ed i fascisti, fino a compiere il loro gesto eroico e vivere il loro giorno da leoni. Perché eroi non ci si nasce ma ci si diventa. E non per sempre.

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    La locandina del film di Nanni Loy

    Giuseppe Mannarino nel dopoguerra

    Giuseppe Mannarino nel 1948 fu dichiarato Partigiano combattente dalla Commissione Regionale del Lazio. In seguito si trasferì a Genova, dove erano emigrati altri parenti, mettendo su un negozio di materiali edili. Aderì al Partito comunista. È stato un dirigente della Confederazione Nazionale dell’Artigianato (CNA) ed eletto Consigliere comunale di Genova.

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    Il documento che attesta l’impegno da partigiano di Giuseppe Mannarino

    Non sono riuscito a sapere se Giuseppe Mannarino e Pino Levi Cavaglione – anche lui iscritto al PCI, ma uscito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria – si siano ancora frequentati e se abbiano potuto riflettere sulla loro esperienza di quei giorni.
    Pino Levi, che aggiunse il cognome Cavaglione in onore della madre deportata insieme al padre Aronne ed uccisi al loro arrivo a Birkenau, nella prefazione della nuova edizione del 1970 del suo Guerriglia nei Castelli romani scriverà: «Oggi tutto ciò è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso, che non avevo mai sparato prima e non ho più sparato dopo il 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, e a me ormai del tutto estraneo. La mia speranza ed il mio impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre».

    Alfonso Perrotta

     

  • Pochi ma buoni: quel 25 aprile della Calabria antifascista ma non troppo

    Pochi ma buoni: quel 25 aprile della Calabria antifascista ma non troppo

    Alla vigilia di questo particolarissimo 25 aprile, in cui si festeggia, dopo ben 78 anni, la liberazione dal fascismo, il mio pensiero corre spontaneamente a Vittorio Foa, illustre padre costituente e personalità tra le più fertili e vive della sinistra italiana.
    Foa nel 1935 – lo stesso anno in cui come giovane militante clandestino di Giustizia e Libertà veniva arrestato e poi condannato dal Tribunale speciale fascista a 16 anni di carcere, scontati senza interruzione fino al ’43 della caduta del fascismo – scriveva che «i luoghi comuni si sono impadroniti di tutta l’intelligenza, dominano incontrastati nella cultura accademica, addormentano i giovani; la loro tirannia assoluta è mille volte più intollerabile delle selve di baionette. Ai luoghi comuni del fascismo si sono contrapposti i luoghi comuni dell’antifascismo».

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    Vittorio Foa

    Pur cospirando spericolatamente contro il fascismo, infatti, Foa e i suoi compagni rifiutarono di definirsi “antifascisti”. Molti anni dopo, ricordando quei tempi giovanili, Foa avrebbe spiegato che «quella espressione di pura negazione ci disturbava, ci definiva solo per negazione e disconosceva in qualche modo la nostra positività. Preferivamo definirci postfascisti per affermare il nostro disegno per il futuro».

    L’antifascismo oltre il fascismo

    Bene, sono passati cent’anni dall’avvento al potere del fascismo e ci ritroviamo in una situazione imprevista. Foa, che appena venticinquenne si accingeva a passare otto anni della sua esistenza nelle carceri fasciste, già guardava oltre il fascismo. Noialtri, malgrado la strategia della tensione, i tentativi di colpo di stato, le tragedie provocate dal neofascismo stragista, pensavamo, alla fine del Novecento, di esserci lasciati alle spalle finalmente il fascismo e con esso l’età dei totalitarismi. Ed ecco invece che ci troviamo a fare oggi i conti con un governo composto in buona parte da “nipotini” del ventennio, che, faticando ovviamente ad adeguarsi alle regole e ai valori della nostra Costituzione antifascista, riesumano armamentari ideologici che si pensava ormai consegnati al passato e depositati nei cassetti della storia.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Che fare dunque in un contesto politico per tanti aspetti così “anacronistico”? Intanto, occorre prendere atto che non si tratta di una questione soltanto italiana. Viviamo infatti un tempo in cui tradizionalismi, nazionalismi e razzismi, praticati spesso in modo rozzo e violento, attraversano l’Europa e le Americhe, dalla Polonia, dai paesi baltici e dalla Scandinavia agli Usa di Trump e al Brasile di Bolsonaro.

    Il fascismo oggi

    Io credo che per combattere queste derive politiche e culturali, occorra misurarsi coi problemi del presente e del futuro, senza cadere nella trappola di una contrapposizione ideologica stereotipata, che ci vorrebbe con gli occhi rivolti al passato.
    Neppure è il caso, credo, di scendere sul terreno delle becere esternazioni di alcuni ministri del governo Meloni, che testimoniano la loro miseria culturale. Il “fascismo” di oggi è riconoscibile certamente nella retorica identitaria, nella paura e nel rifiuto dell’altro, nel rigetto dei migranti, nel bellicismo atlantista. Il pericolo per la democrazia, peraltro, è sì nelle vocazioni autoritarie e presidenzialiste, ma è soprattutto nello svuotamento delle istituzioni democratiche, nella distanza ormai abissale che separa il mondo della politica dal mondo reale, nella voragine che allontana chi pretende di decidere da chi si rifiuta anche di andare a votare.

    L’antifascismo in Calabria

    Detto questo, quale può essere il modo più produttivo e fertile per celebrare questo 25 aprile? Piuttosto che lasciarsi andare alla retorica consolatoria delle bandiere al vento, credo che possa essere utile riandare alla storia dell’antifascismo e della resistenza, cercando soprattutto di coglierne la ricchezza e la forza nella sua pluralità e nelle sue varie declinazioni, sulla base delle quali si è via via costruita l’Italia democratica, repubblicana e antifascista. Con questa postura si può ben celebrare il 25 aprile anche in Calabria.

    Ci vollero le ricerche pionieristiche svolte 30 anni fa da Isolo Sangineto (I Calabresi nella guerra di liberazione. 1°. I partigiani della provincia di Cosenza, prefazione di Guido Quazza, Pellegrini 1992), per comprendere che anche questa nostra regione prese parte alla resistenza antifascista attraverso molti suoi figli, anche se la Calabria fu ben presto liberata dagli Alleati. Sangineto, senza alcuna concessione alla retorica celebrativa, con passione civile e pazienza certosina, nella sola provincia di Cosenza individuò più di 800 “resistenti”. Tra questi occorre annoverare naturalmente i militari che dopo l’8 settembre del ‘43 si rifiutarono di collaborare con i tedeschi o di arruolarsi nell’esercito di Salò, oltre che i resistenti veri e propri che agirono nella guerra di liberazione.

    I calabresi nella Resistenza romana (e non solo)

    Isolo Sangineto riuscì a censire centinaia di cosentini che, trovandosi dopo l’8 settembre nell’Italia centro-settentrionale, presero parte attiva alla resistenza armata. Particolarmente numerosi furono i calabresi presenti nella resistenza romana, tra i quali occorre ricordare almeno i quattro martiri delle Fosse Ardeatine: Donato Bendicenti, di Rogliano; Franco Bucciano, di Castrovillari; Paolo Frascà, di Gerace; Giovanni Vercillo, di Catanzaro, le cui vicende ha ricostruito di recente Paolo Palma (in Rivista Calabrese di Storia del 900, 1/2021, consultabile anche on line). Né bisogna dimenticare il raro caso di una giovane donna, Walkiria Vetere, di famiglia cosentina, attiva a Roma nella Banda del Trionfale.

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    Sergio Mattarella in visita alla Fosse Ardeatine nel 75° anniversario dell’eccidio

    Nella circostanza del 25 aprile, non si può non ricordare, naturalmente, anche Dante Castellucci, di Sant’Agata d’Esaro, divenuto un mitico comandante partigiano in Lunigiana e passato alla storia col nome di battaglia di “Facio”. Di Castellucci, ucciso inopinatamente dai suoi stessi compagni al termine di un ingiusto processo sommario nel luglio del ’44, si è occupato per ultimo, in un libro ancora fresco di stampa, lo studioso Pino Ippolito Armino (Indagine sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio, Bollati Boringhieri 2023).

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    Una lapide ricorda le gesta del comandante Facio

    I perseguitati e gli oppositori

    Ma è ai perseguitati e agli oppositori del fascismo durante il Ventennio che occorre tornare per non dimenticare il carattere oppressivo del totalitarismo fascista e la variegata partecipazione calabrese alla lotta antifascista. Vale la pena di rammentare che risale addirittura agli anni Settanta del Novecento la prima ricostruzione analitica della persecuzione fascista nella nostra regione (Salvatore Carbone, Il popolo al confino: la persecuzione fascista in Calabria, Lerici 1977), su cui è tornata più di recente Katia Massara (in Regione di confino. La Calabria (1927-1943), a cura di F. Cordova e P. Sergi, Bulzoni 2005).

    Da quel repertorio ricaviamo che i calabresi colpiti dal provvedimento del confino di polizia furono poco più di 400 (dei quali, 149 nati in provincia di Reggio, 145 in provincia di Catanzaro e 98 in provincia di Cosenza, alcuni altri in varie province italiane o nelle Americhe). Quanto al colore politico dei confinati, più di cento sono definiti genericamente “antifascisti”, 77 “comunisti” e 37 “socialisti”. Ma sono ben 48 gli “apolitici”, 12 i “Pentecostali” e 3 i “Testimoni di Geova”. Il che vuol dire che la repressione poliziesca non aveva soltanto carattere politico, ma anche civile e religioso.

    Se consideriamo, inoltre, la condizione sociale dei confinati, i dati più vistosi sono la cospicua presenza degli artigiani, circa 90 (tra i quali si contano 22 calzolai, 22 falegnami, 19 sarti, 8 barbieri e 5 tipografi); ma anche di contadini e braccianti (69). C’è anche un drappello di operai (14 muratori e 5 minatori) e ben 20 avvocati.

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    Pietro Mancini con Pietro Nenni

    L’antifascismo “a bassa intensità”…

    Se non sorprende tra gli antifascisti la numerosità di artigiani politicizzati, quest’ultimo dato degli avvocati rimanda a una componente dell’antifascismo calabrese che ha a che fare con il ceto medio e in particolare con i principali esponenti del notabilato politico democratico e progressista di età liberale. Il riferimento inevitabile è a Pietro Mancini e Fausto Gullo, entrambi assegnati al confino a Nuoro nel 1926.
    Mancini e Gullo, come ho cercato di spiegare in altre occasioni, illustrano con le loro biografie politiche la lunga durata e i percorsi del notabilato calabrese, posto però con essi al servizio di una causa ideale che prometteva un grande rinnovamento sociale.

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    Un comizio di Fausto Gullo nell’Italia liberata

    Durante il fascismo, Mancini e Gullo subirono per qualche tempo il confino e altre angherie, ma riuscirono poi a trovare forme di convivenza col regime svolgendo, pur senza rinunciare alle loro idee, la loro professione di avvocato con una certa tranquillità. Per ciò stesso si può dire che il loro antifascismo fu “a bassa intensità”, come accadde ad altri politici calabresi che avranno poi un ruolo nell’Assemblea Costituente, come Enrico Molé, Antonio Priolo, Vito G. Galati e Gaetano Sardiello (I Calabresi all’Assemblea Costituente, 1946-1948, a cura di V. Cappelli e P. Palma, Rubbettino 2020).

    E quello radicale

    L’antifascismo di altri fu, invece, assai più radicale. È questo il caso, ad esempio del comunista reggino Eugenio Musolino, deputato alla Costituente e poi parlamentare fino al 1956, che era stato spedito al confino nel ’26 e poi condannato dal Tribunale Speciale a 13 anni di reclusione. In libertà vigilata dal ’34, fu di nuovo arrestato nel 1940 e rimase carcerato e confinato fino all’estate del ’43.
    Non diversa sorte ebbe il comunista cosentino Natino La Camera, stretto collaboratore e amico personale di Amadeo Bordiga: arrestato una prima volta nel 1923, fu assegnato al confino per cinque anni, dal ’26 al ’32, scontati con continui spostamenti, da Lampedusa a Ustica, a Ponza e a Lipari. Rientrato a Cosenza continuò imperterrito nell’attività cospirativa antifascista. Durante la guerra fu di nuovo arrestato e internato a Muro Lucano fino all’8 settembre.

    Eugenio-Musolino-antifascismo
    Eugenio Musolino

    Infine, a fianco all’antifascismo politico organizzato in clandestinità, bisogna cogliere anche l’antifascismo occasionale che era espressione più che altro di rabbia e disagio sociale. Non mancano, infatti, le persone spedite al confino per aver urlato frasi offensive nei confronti di Mussolini e del regime, o per aver cantato Bandiera rossa uscendo dall’osteria.

    Pochi ma buoni

    Per concludere, è evidente che sia nel caso dell’antifascismo praticato durante il Ventennio che nel caso della Resistenza si è trattato di minoranze attive, di “pochi” che si opposero a un regime e a una guerra avvertiti come ingiusti e oppressivi. Tuttavia quei “pochi”, come si è visto, sono stati espressione delle varie componenti della società calabrese, dal punto di vista socio-economico e politico, ma anche culturale e religioso. Hanno speso la loro coerenza e il loro coraggio, infine, non per se stessi ma per l’intera collettività e si mostrano ancora a noi come esempi ammirevoli di dignità e di forza morale.

    Vittorio Cappelli
    Storico delle migrazioni, Unical

  • Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Si parla tanto dell’intelligenza artificiale, forse troppo poco della stupidità umana. Già, perché si può edulcorare il concetto o ingentilirlo, definirlo cecità o mancanza di lungimiranza, ma la sostanza è quella. In questo caso, mi riferisco alla stupidità–cecità-mancanza di lungimiranza dei razzisti in generale. In particolare, di quelli al governo in Italia.
    Per dimostrare il teorema mettiamo insieme una serie di informazioni e di dati. Come nelle scienze esatte, dobbiamo prendere in considerazione solo quelli oggettivi.
    La Lega fa una battaglia per “quota 41”, cioè la possibilità di accedere alla pensione dopo 41 anni di contributi. Un vessillo alzato in campagna elettorale e repentinamente calato davanti alle difficoltà di bilancio soprattutto in prospettiva, dato che la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione certamente non aiutano a far quadrare i conti.

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    Quota 41 e l’Italia che invecchia

    Secondo l’Istat, nel 2070 in Italia ci saranno 47,2 milioni di abitanti, 12 milioni in meno rispetto ad oggi. La popolazione italiana, se proseguirà il trend attuale, e quindi senza interventi correttivi di cui allo stato non si vede traccia, fino al 2040 calerà annualmente del 0,2-0,3%; tra il 2040 e il 2050 tra lo 0,3 e lo 0,5%; fino al 2070 più dello 0,6%.
    Nel 2020, l’età media italiana era di 46,2 anni, nel 2021 di 45,9 anni. Meno di vent’anni fa era di 41,9 anni. I dati indicano che nel 1950, in Italia, i bambini e ragazzi tra gli 0 e i 19 anni rappresentavano il 35,4% della popolazione; oggi il 17,5.
    Il forte calo è avvenuto tra il 1980 e il 1995, quando gli under 19 sono passati dal 30 al 21%. Le persone tra i 20 e i 30 anni sono invece scese dal 35 al 21%, con un più rapido calo dal 1995. La fascia tra i 40 e i 59 anni era il 22% nel 1950, ora è il 31. I residenti di età compresa tra i 60 e i 79 anni erano meno del 23% nel 1950, ora il 31, con un aumento continuo nel tempo. Lo stesso per gli over 80, che nel 1950 erano l’1% della popolazione e ora sono il 7,5.

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    Crisi demografica e forza lavoro

    Andiamo adesso a esaminare altri dati, altrettanto significativi e importanti per la riflessione che stiamo facendo.
    In Italia (sempre dati Istat), nel 2019, quasi il 30% delle abitazioni censite, 10,7 su 36 milioni, non era occupato. Il loro numero proseguirà l’ascesa nei prossimi anni anche a causa della crisi demografica. Sud e Isole guidano questa classifica, con quasi il 36% delle abitazioni vuote.
 Nel Centro il dato scende al 24,8%, con 1,7 milioni di case inabitate su 6,8; nel Nord-Est è del 25,6% su 6,7 milioni di abitazioni. Nel Nord-Ovest è del 28,2% su circa 10 milioni di case.
    Nelle province calabresi, abbiamo Reggio al 42,3%, Vibo al 49,3, Catanzaro al 45,2, Crotone al 44,9 e Cosenza al 44,6.

    Altro dato oggettivo: gli imprenditori e i sindacati italiani, singolarmente e tramite le loro organizzazioni di categoria, da tempo reclamano un aumento consistente dei flussi di lavoratori da inserire nel tessuto produttivo nei settori primario, secondario e terziario. L’ultimo decreto prevede alcune centinaia di migliaia di ingressi, reputati assolutamente insufficienti. Ai confini del nostro Paese, nel contempo, premono per entrare altre centinaia di migliaia di persone, spinte a lasciare i Paesi d’origine per sfuggire alle guerre, alle discriminazioni razziali e di genere, alla povertà, alla siccità.

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    Controcorrente

    A questo punto, abbiamo una serie di elementi (o dati e metadati, se vogliamo utilizzare un linguaggio al passo coi tempi):

    • il desiderio, e la necessità, di abbassare l’età pensionistica;
    • la difficoltà a reperire le risorse necessarie;
    • la crisi demografica, data dalla diminuzione in termini assoluti della popolazione e dall’invecchiamento della stessa;
    • un patrimonio abitativo di gran lunga superiore alle necessità dei residenti;
    • milioni di esseri umani, in età da lavoro, in cerca di uno sbocco di vita dignitoso e stabile, tale da accrescere in maniera esponenziale i contributi per il fondo pensionistico.

    Se inserissimo tutte queste informazioni in un apposito programma di intelligenza artificiale, certamente avremmo la soluzione a portata di mano. Al contrario, le stesse informazioni date in mano al Governo in carica (a tutto il Governo, e non solo alla Lega, che secondo la vulgata corrente è la forza politica che spinge in questa direzione) partoriscono l’ennesima stretta all’immigrazione, sotto forma della cancellazione della protezione speciale – incentiverebbe l’immigrazione – e della dichiarazione dello stato d’emergenza.

    Quota 41 vs la difesa della patria

    E qui entrano in gioco la stupidità, l’irrazionalità, il ragionamento di pancia. Il razzismo, perché di questo, alla fine, si tratta. Il razzismo che fa comportare questi signori come il marito che per fare dispetto alla moglie si evira. Voglio quota 41, o 40, o quello che sia. Ma siccome dare corpo a questa solenne promessa elettorale porterebbe alla sostituzione etnica – è già successo in America Latina, diciamo noi, dove la popolazione di alcuni Stati è composta per il 30-40% di italiani immigrati e non di nativi – vi rinuncio, con conseguenze disastrose per la Patria della quale “difendo i confini” dai barchini affollati di poveracci armati solo della loro disperazione.
    Questo è il paradosso tragico. Una situazione da win–win (mi scuso per il “forestierismo”, e meno male che ancora non ci sono le multe) si trasforma in una lose–lose (mi scuso ancora) nella quale tutti perdono a causa della stupidità umana. O del razzismo, nient’altro che un sinonimo di quella.

  • Girolamo De Rada: il papà calabrese della Grande Albania

    Girolamo De Rada: il papà calabrese della Grande Albania

    Forse fu un equivoco della storia. O forse l’effetto di un limite trasformato in forza artistica.
    In ogni caso, Girolamo De Rada resta l’intellettuale italo-albanese di maggiore impatto a livello internazionale. Forse senza volerlo (o senza volerlo del tutto), De Rada è diventato il padre di due patrie, a cui ha fornito un immaginario e una lingua: l’Albania, che nell’Ottocento lottava per l’indipendenza dall’Impero Ottomano, e l’Arbëria, la comunità degli immigrati albanesi, stanziatisi nel Sud Italia a partire dalla metà del Quattrocento.
    Ma perché tanta influenza? E, soprattutto, quali sono questi limiti?

    Il Kossovo anni ’90

    Tre nomi per una terra: i serbi, che l’hanno governata (e dominata) a lungo, la chiamano Kosovo, gli albanesi Kosova e, per non scontentare nessuno, la comunità internazionale la chiama Kossovo, che in tutti i casi significa merlo.
    Questo fazzoletto di terra, a cavallo tra Albania, Serbia e Montenegro, è tuttora l’oggetto di una contesa fortissima tra gli albanesi, che la sentono loro, e i serbi, che la considerano la culla della loro civiltà.
    Il Kossovo è stato il teatro iniziale della crisi che, a partire dagli anni ’90, ha travolto nel sangue la Jugoslavia di Tito ed è stato il territorio in cui si è consumata la fine della Federazione di Jugoslavia di Slobodan Milosevic, sotto le bombe della Nato.

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    Hashim Thaçi, presidente del Kossovo, in visita a Macchia

    La Grande Albania

    In quel frangente tragico di fine millennio, quasi tutta la comunità internazionale ha criminalizzato l’etnonazionalismo serbo. Solo in pochi si sono accorti delle aquile bicipiti nere su sfondo rosso dell’Uck (il movimento di liberazione kossovaro), che riflettono tuttora un orientamento ideologico ben preciso: la Grande Albania, che dovrebbe includere, oltre al Kossovo, un pezzo di Montenegro e un po’ di Macedonia.
    Quasi nessuno, infine, si è accorto che questa ideologia “panalbanese”, altrettanto pericolosa in quel contesto del “panserbismo”, non era autoctona. Ma era un’elaborazione Made in Italy, promossa da Crispi e poi sposata da Mussolini.
    Torniamo a De Rada.

    De Rada: il papà della patria

    Girolamo De Rada non è mai stato in Albania. Ha trascorso tutta la sua vita tra Makj (cioè Macchia di San Demetrio Corone), dove nasce nel 1814, e Napoli, dove si laurea in legge ed è in prima fila nei moti liberali.
    A Niccolò Tommaseo, che lo invita a visitare la madrepatria, risponde: lì non conosco nessuno. Ma, in compenso, nelle classi colte albanesi della seconda metà dell’Ottocento De Rada è un poeta di successo. Già: è il primo poeta a scrivere in albanese e non in greco.
    Di più: per scrivere in albanese, De Rada inventa un alfabeto, che ricava da grafemi greci e latini. Basta questo per consegnarlo alla storia come il Dante degli albanesi (al di qua e al di là dell’Adriatico).rivista-de-rada

    Ma questo primato è, appunto, il prodotto di un limite: De Rada, come racconta lo studioso Domenico Antonio Cassiano (Risorgimento in Calabria, Marco Editore, Lungro 2003), impara tardi l’italiano e lo userà sempre male.
    Cosa ben diversa per l’arbëresh, all’epoca lingua essenzialmente orale (gli albanesi colti usavano il greco) che gli ispira i versi – e il patriottismo – del suo capolavoro: I canti di Milosao.
    Il quale non è solo un poema: è il vagito della letteratura albanese moderna.

    De Rada: il figlio del prete

    Servono quattro “r” per capire Girolamo De Rada: religione, romanticismo, ribellione e retaggio.
    Girolamo De Rada è un esponente tipico della media borghesia rurale. È figlio di Michele, il papàs (ovvero il parroco di rito greco-bizantino) di Macchia. La religiosità greco-bizantina di derivazione ortodossa è un dop dell’identità italo-albanese. Attenzione: solo di quella, perché gli albanesi d’oltre Adriatico sono invece islamizzati da secoli. Ma anche negli arbëreshë l’identità greca subisce smottamenti e tende a occidentalizzarsi.
    La cultura romantica ha una grande influenza non solo su De Rada, ma su tutti gli intellettuali italo-albanesi della sua generazione. Per quel che riguarda la Calabria, questa cultura filtra alla grande, assieme al pensiero liberale, negli insegnamenti del collegio italo-greco di Sant’Adriano, istituito da papa Clemente XII a San Benedetto Ullano e poi trasferito a San Demetrio Corone. Nel caso di De Rada, una delle massime influenze è Byron, almeno secondo alcuni studiosi (Cassiano e Costantino Marco).

    La targa commemorativa sulla casa natia di Girolamo De Rada

    Il collegio di San Adriano, inoltre, è un focolaio di aspiranti rivoluzionari. Non è un caso che molti arbëreshë formatisi nel collegio italo-greco siano stati in prima fila in tutti i moti risorgimentali. Per formazione e anagrafe, De Rada appartiene alla stessa generazione di Agesilao Milano, l’attentatore di Ferdinando II, e, soprattutto, di Domenico Mauro, elemento di punta di quel microcosmo intellettuale e futuro esponente politico di primo piano.
    Girolamo De Rada, infine, pesca a piene mani nella cultura orale e nelle leggende popolari dell’Arbëria, a cui dà per la prima volta dignità letteraria. Soprattutto, elabora un’immagine mitica della terra delle origini, l’Epiro.

    I canti di Milosao

    C’è sempre un poema alla base di una cultura. Ciò vale anche per gli albanesi moderni, che hanno ne I canti di Milosao una specie di Iliade 2.0.
    Come da tradizione balcanica, I canti sono il classico drammone basato sul binomio amore-morte. Per la precisione, l’amore contrastato di Milosao, il figlio del despota di Scutari, per la figlia di un contadino.
    E poi la morte del protagonista, nel frattempo rimasto vedovo, che avviene rigorosamente sul campo di battaglia contro gli Ottomani.

    De Rada reazionario?

    Dopo aver partecipato a più riprese ai moti liberali (e aver rischiato grosso), De Rada ha una conversione religiosa. O meglio, si riavvicina alla tradizione cristiana appresa tra le pareti di casa.
    Il suo è, quindi, un patriottismo sui generis, piuttosto diffidente verso le istituzioni rappresentative e più legato alle tradizioni popolari. Alla Kultur, direbbero oggi quelli davvero bravi. Però è un nazionalismo in linea con il filone romantico (quindi i risorgimenti nazionali) e soprattutto, molto adatto alle culture balcaniche. Che proprio a fine Ottocento guardano all’Italia e alla Germania come modelli.

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    Francobolli albanesi dedicati a Girolamo De Rada

    L’Italia fa scuola

    Il caso italiano ha fatto scuola due volte. La prima in maniera indiretta con la Serbia, che ottiene l’indipendenza dall’Impero Ottomano nel 1878 e inizia a considerarsi come una specie di Piemonte, capace di unire gli slavi del Sud.
    Non è proprio un caso che il quotidiano di riferimento dei nazionalisti serbi tra il 1911 e il 1915 si chiamasse Pijemont.
    Per l’Albania, invece, il rapporto è diretto e voluto e si basa su due elementi: le opere di De Rada e il collegio di San Adriano, che diventa una specie di Università per stranieri dei rampolli dell’Albania bene.
    Il mito della Grande Albania è un’idea poetica che diventa propaganda. E su questa propaganda “grandalbanese” farà leva il fascismo per usare l’Albania in chiave antijugoslava, facendo perno proprio sul problema del Kossovo, come sostiene, tra gli altri, Marco Dogo nel suo Kosovo (Marco Editore, Lungro 1992).

    Fascisti albanesi (dall’archivio dell’Istituto Luce)

    Imperialismo

    Ovviamente De Rada non ha alcuna responsabilità nell’uso politico, diretto e indiretto, della sua poetica. Né queste pratiche sono solo tipiche del fascismo, visto che tutti gli imperialismi le hanno utilizzate ampiamente.
    Il nazionalismo altrui, inventato o adeguatamente stimolato, può far sempre comodo alle potenze imperiali o aspiranti tali. Come l’Italia a cavallo tra le due guerre, che posava a maschio alfa nell’Adriatico, o l’Urss e la Cina, che hanno ispirato – e sfruttato – non poco le rivolte anticoloniali del dopoguerra.
    Con l’Albania, c’è da dire, il gioco italiano ha funzionato alla grande. Al punto che nessuno si scandalizzò né mosse un dito quando le nostre truppe occuparono il piccolo Paese balcanico. Anzi, ci fu chi commentò: è l’uomo che rapisce la moglie.

    Enver Hoxha

    La fine

    È il 28 febbraio 1903. Il corteo funebre che accompagna De Rada per l’ultimo viaggio fa sosta vicino alla casa dell’amico di sempre, Domenico Mauro.
    Al riguardo, c’è una leggenda popolare, mai confermata (me neppure smentita): proprio in quel momento, un mandorlo del giardino dei Mauro perde i petali, che si depositano sul feretro dell’illustre scomparso, il quale ha terminato la propria esistenza povero e solo, dopo aver rinunciato a una cattedra all’Orientale di Napoli.
    Ma l’ispirazione dell’opera deradiana continua. Anche oltre il fascismo. Tra quelli che hanno apprezzato di più l’idea della Grande Albania c’è il dittatore Enver Hoxha, che ci ha giocato alla grande per tutelare il suo stato bunker dalle mire jugoslave.
    Infatti, tra le poche aperture dell’Albania di Hoxha all’Occidente c’è l’invio di un busto commemorativo a San Demetrio Corone, nel 1986.
    E allora nessuna meraviglia che in tutte le città calabresi ci siano quasi più dediche a De Rada che al mitico Skanderberg.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.