Tag: politica

  • Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

    Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

    C’è un filo bizzarro che lega in Calabria il brigantaggio, il Partito Comunista d’Italia, la Resistenza, le Nuove Brigate Rosse e Lotta Continua.
    Non ci crederete: l’Alto Ionio cosentino. Che sulla mappa della Calabria è in alto a destra. In questo caso, andiamo oltre l’immagine geografica. Nel Sud profondo è più intensamente vera (e frequente) la regola della Gauche caviar, per cui le figure apicali della sinistra provengono da ambienti socio-familiari vocativamente di destra.

    Antonio Gramsci

    In principio fu Gramsci

    Andiamo con ordine: la famiglia di Antonio Gramsci, si sa (ma mai abbastanza), proveniva da Plataci e qui aveva vissuto per non poco tempo.
    L’intellettuale-simbolo della sinistra sbagliava, tuttavia, quando scriveva nelle sue stesse lettere che la famiglia vi fosse arrivata soltanto nel 1821.
    Macché Ottocento. Anche i Gramsci – come la maggior parte degli albanofoni calabresi – arrivarono tre secoli prima, durante le massicce e note migrazioni greco-albanesi.
    Il suo trisavolo Gennaro (nato nel 1745 circa) sposava da queste parti l’italoalbanese Domenica Blajotta. Il bisnonno Nicola (nato nel 1769) vi moriva lasciando la vedova calabrese Maria Fabbricatore e un figlio, Gennaro, nato proprio a Plataci intorno al 1830.
    Detto ciò, Gramsci resta di nascita sarda e forse già suo padre Francesco ebbe pochissimo a che fare con l’Alto Ionio calabrese. Però la suggestione è parecchia: una famiglia benestante e borghese dalla quale scaturirà il padre del comunismo italiano.

    Lo stemma araldico su un balcone di palazzo Chidichimo ad Albidona

    Chidichimo: dal latifondo ai briganti e poi le Br

    Proletari di tutto lo Stivale (o quasi) mossi da chi affondava radici nel notabilato arbëreshë. Come non pensare, allora, agli altrettanto albanesi Chidichimo che proprio in quella zona – tra Plataci, Albidona, Alessandria del Carretto – mettevano le basi del loro incontrastato potere latifondiario?
    Vogliamo illuderci che non vi fossero stati legami parentali tra le due famiglie? C’è una montagna di buoni motivi per dubitare. E allora seguiamo in questo filo bizzarro…
    Fine Ottocento: una figlia del potente albidonese don Colantonio Chidichimo, la nobile Maria (ometto la sfilza di nomi), diventa consuocera dell’altrettanto nobile Maria Antonia Andreassi di Amendolara.
    Maria Antonia Andreassi era la blasonata un po’ ribelle che offrì rifugio e copertura ai complici e ai favoreggiatori della banda del brigante Palma (Domenico Straface) di Longobucco.
    Finisce qui? Nemmeno per idea. Le due consuocere diventeranno pure trisavole della sfortunata Diana Blefari Melazzi, più nota ai nostri giorni, ovvero la brigatista che si tolse la vita a quarant’anni, tormentata per altri e molteplici motivi personali e tare antiche, mentre si trovava in carcere per l’omicidio di Marco Biagi.

    Diana Blefari

    Da Ferruccio Parri a Carlo Rivolta

    E la Resistenza? Eccola: il nonno della povera Diana aveva una sorella che divenne nientemeno consuocera di Ferruccio Parri.
    Ma si può fare di meglio. Ad esempio, chiarire il nesso con Lotta Continua. Torniamo alle due antiche consuocere: la Chidichimo era anche sorella del bisnonno del compianto Carlo Rivolta, classe 1949, la penna più brillante di Lotta Continua.
    Qui però fermiamoci un attimo. Altro che origini altolocate in capo a Gramsci… Carlo Rivolta fu l’ultimo rampollo – sfortunatissimo anche lui, per carità – di un piccolo impero fondiario di cui forse, avrebbe dovuto (e certamente potuto) cogliere assai più frutti. Su di lui sono stati scritti saggi e girati dei film. Tuttavia, secondo l’opinione di chi scrive, sembra un uomo dalle occasioni mancate o, meglio, sfruttate malissimo.
    Di famiglia più che benestante (la madre era Isabella Chidichimo, già proprietaria anche della meravigliosa Masseria Torre di Albidona, il padre un ex repubblichino), Carlo Rivolta abbandona gli studi universitari per entrare – grazie all’intervento di sua madre – nell’ufficio stampa di Giacomo Mancini, intorno al 1969.

    Carlo Rivolta

    Carlo Rivolta e l’eroina

    Di lì a Paese Sera e di testata in testata. Sempre con il fare da bohémien onnipotente che lo contraddistingue: capelli lunghi, salopette, zoccoli di legno, orecchino, musica reggae, soggiorni al Chelsea Hotel di New York (nella stessa camera in cui Sid Vicious aveva ucciso tre anni prima la fidanzata) e cani presi in vacanza a San Francisco (optional obbligatori di una Plymouth Satellite station wagon lì acquistata). Ma anche casa ai Parioli, grossissime motociclette, una Citroën DS blu (con la quale per sbaglio investe un tizio che muore sul colpo) e pistola Beretta (perché, diceva, «con i compagni non si sa mai»).

    Scrive per Il Manifesto e, ancora giovanissimo, approda – con un contratto privilegiato – a La Repubblica e infine a Lotta Continua. Eppure è ritenuto di estrazione troppo borghese per l’estrema sinistra, e troppo estremista per i moderati. Carlo Rivolta si lancia così in una lunga inchiesta nel mondo dell’eroina, vissuta in modo tanto zelante da restarne vittima. Lasciò un racconto straziante, di un viaggio suo e della compagna Francesca Comencini (sì, la zia di Carlo Calenda), a Fasano nell’estate del 1981, in cerca dell’eroina da portarsi a casa.

    L’articolo di Rivolta sul sequestro Moro per Repubblica

    Radical chic nella masseria di Rivolta

    Per capirci, nella masseria di Trebisacce, dove avevano lasciato Deaglio e Capuozzo e dove un altro loro amico morì per le esalazioni di gas in una delle antiche casette. Francesca lo ricorderà in un film non proprio straordinario, Pianoforte.
    Morire a 31 anni quando hai il mondo nelle mani non è simpatico ma nemmeno furbo. Ora, un giudizio sulle sue qualità di giornalista? Difficile formularlo. Detto ciò, di Carlo Rivolta si può leggere tanto e niente parrebbe essere questa gran rivelazione.
    Meglio sospendere ogni valutazione. Forse la cosa migliore è quella che il tempo (solo lui?) non gli permise di portare a termine, cioè quel suo vecchio progetto, sul modello di Vincenzo Padula, ma cent’anni dopo, e mai messo in piedi: “Il Catalogo dei cambiamenti del Sud”, una specie di Michelin del sociale. Peccato, Carlo. Peccato.

  • Mario Occhiuto condannato per bancarotta fraudolenta

    Mario Occhiuto condannato per bancarotta fraudolenta

    Mario Occhiuto condannato, in primo grado, a tre anni e sei mesi per bancarotta fraudolenta. Per il senatore di Forza Italia ed ex sindaco di Cosenza anche il divieto di esercizio dell’attività d’impresa per 3 anni e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Il pubblico ministero aveva chiesto la condanna di Occhiuto a 4 anni.

    La vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna di Occhiuto lo vedeva coinvolto nella qualità di ex amministratore della società di progettazione di edifici “Ofin”, fallita nel 2014, della quale il forzista era stato amministratore fino al 2011. A condurre le indagini era stata la Guardia di Finanza. Secondo le accuse della Procura della Repubblica di Cosenza, prima del fallimento dalla “Ofin” sarebbero venute a mancare somme di denaro per un ammontare complessivo di tre milioni di euro.

    In precedenza, per la stessa vicenda, i giudici avevano inflitto per bancarotta fraudolenta alla sorella di Mario e Roberto Occhiuto, Annunziata, una condanna a un anno e quattro mesi. In questo caso, l’imputata aveva optato per il rito abbreviato.

  • Amantea contro Campora: Serra d’Aiello vota per la secessione

    Amantea contro Campora: Serra d’Aiello vota per la secessione

    Camporexit, continua la suspense: Antonio Cuglietta, il sindaco uscente di Serra d’Aiello, è stato confermato alle urne col 62% dei voti.
    Gioisce il comitato Ritorno alle origini di Temesa, radicato a Campora San Giovanni e a Serra. Non gioisce affatto una buona fetta di amanteani che ha atteso il risultato delle Amministrative serresi con comprensibile ansia.
    Infatti, avesse vinto l’avversario, cioè Vincenzo Paradiso, l’ipotesi di Temesa sarebbe finita in archivio prima ancora di andare al vaglio del Tar. Al quale ora, invece, spetta davvero almeno la prossima parola.
    A questo punto occorre riavvolgere un po’ il nastro.

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    Campora San Giovanni, panorama notturno

    Le elezioni di Serra d’Aiello

    Un vero e proprio paradosso: un Comune piccolo, prossimo al collasso demografico, decide il futuro di uno parecchio più grande con qualche carta da giocare.
    In estrema sintesi, è la vicenda del braccio di ferro tra Amantea e Campora, la sua frazione a sud, che ha deciso di andar via per creare un nuovo Comune, Temesa, fondendosi con la piccola Serra.
    Intendiamoci: non sono grandi numeri, visto che questa nuova cittadina, appena nobilitata da un nome antichissimo, non toccherebbe i 4mila abitanti.
    E tuttavia è quanto basta per cambiare le grandezze nel basso Tirreno cosentino. Un territorio importante mutilato (Amantea) e una cittadina che dovrebbe, in prospettiva, inglobare altri due Comuni: Aiello Calabro e Cleto.
    Possibile che i quattrocento e rotti elettori di Serra d’Aiello siano stati così importanti in questo processo, a modo suo rivoluzionario, sebbene condotto con metodi che il Consiglio di Stato ha riconosciuti capziosi nella sostanza?
    La risposta è sì: l’istanza che dovrebbe portare alla nascita di Temesa è partita da Serra d’Aiello e quindi la campagna elettorale si è giocata solo su quest’aspetto.

    Reperti del Museo di Temesa a Serra d’Aiello

    La posta in gioco

    Facciamo una piccola simulazione per far capire cosa accadrebbe a Serra se il progetto Temesa andasse in porto.
    Coi suoi 518 abitanti d’anagrafe, il paesino dell’entroterra tirrenico, diventerebbe la frazione più piccola della nuova città. Di più: disterebbe da Campora, il blocco più grosso, circa sette chilometri. Quindi rischierebbe di perdere alcuni servizi essenziali, tra cui l’ufficio postale e la guardia medica (essenziali in una comunità presumibilmente anziana). Su quest’aspetto, Vincenzo Paradiso ha impostato la propria propaganda.
    Al contrario, un nuovo Comune, comunque più grande e popoloso, implicherebbe una pianta organica più grande, cioè posti di lavoro negli uffici e, magari, nelle immancabili cooperative. E magari darebbe a Serra lo sbocco al mare. Ma con un problema, in questo caso: le infrastrutture, di cui nessuno ha parlato finora.
    Non è il caso di entrare nel merito, perché la volontà popolare è sovrana.

    Franco Iacucci, uno dei supporter della Camporexit

    A che punto è la Camporexit?

    La partita vera, ovviamente, non si gioca a Serra, che pure ha proposto l’iniziativa, né ad Amantea, che l’ha subita. Ma a Campora.
    Infatti, è camporese la stragrande parte degli elettori che dovrebbero votare al referendum da cui dovrebbe sorgere la nuova città. Solo che una frazione non poteva prendere l’iniziativa. Inutile, comunque, tornare su un argomento dibattuto a lungo.
    Semmai, è importante fare il punto sulla situazione del referendum.
    La quale è ferma a metà gennaio. Cioè da quando il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospensiva del referendum, avanzata dal Comune di Amantea, e ha chiesto al Tar di intervenire.
    Non senza una serie di precisazioni importanti: secondo i magistrati di Palazzo Spada, i giudici amministrativi di Catanzaro dovranno valutare alcuni importanti rischi di incostituzionalità. Tra questi, il fatto che la maggior parte degli amanteani sarà esclusa da voto e i metodi di conteggio della popolazione residente.

    I resti dell’Istituto Papa Giovanni XXIII

    Una partita difficile per Serra d’Aiello

    Se Atene piange Sparta non può ridere, recita un adagio che piace tanto agli amanti della retorica.
    Ma in questo caso, il proverbio è inappropriato: potrebbero ridere, al massimo, gli sponsor regionali di Temesa. Cioè l’ex destro e neocentrista Giuseppe Graziano, e il dem Franco Iacucci. Che però non esternano da tempo sull’argomento.
    Sul territorio, la situazione è diversa: Amantea, uscita da un anno da un commissariamento per mafia, ha un importante debito in pancia che rischierebbe di portarla al dissesto. Campora, se ottenesse la secessione, porterebbe con sé una quota di questo debito. E questo si sommerebbe alla situazione finanziaria non bellissima di Serra d’Aiello, che a malapena esce da un altro dissesto e ha alle spalle il crack dell’Istituto Papa Giovanni XXIII.
    Salvo miracoli, Temesa nascerebbe dissestata.

    Ipotesi virtuali

    L’eventuale vittoria di Paradiso avrebbe messo la parola fine alla Camporexit perché il primo impegno della sua amministrazione sarebbe stato il ritiro della delibera di giunta che lanciava l’idea di Temesa.
    Così, ovviamente, non sarà. L’ultima risposta tocca al Tar, che presumibilmente dovrà pronunciarsi prima dell’estate ormai alle porte.

  • Soldi, record e propaganda: quel Ponte da Strabone a Wired

    Soldi, record e propaganda: quel Ponte da Strabone a Wired

    Il ponte sullo Stretto: se ne scrive persino negli Stati Uniti (lo vedremo più avanti), ed è al centro del dibattito politico domestico. In Parlamento e anche a Reggio Calabria, dove, nell’ambito del Festival dell’economia, sviluppo e sostenibilità, ideato da Maurizio Insardà, si è tenuto un dibattito dal titolo “Infrastrutture di trasporto e sviluppo del Mezzogiorno” moderato dalla giornalista di Rai 2 Marzia Roncacci. Vi hanno partecipato il capo dipartimento del Ministero delle Infrastrutture e trasporti Enrico Maria Pujia, il docente di Economia politica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Domenico Marino, il vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente della Camera di commercio di Messina Ivo Blandina, il responsabile dell’organizzazione aziendale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro Rocco Reina e l’assessore ai Trasporti del Comune di Reggio Calabria Domenico Battaglia.

    I relatori sono stati concordi nel sottolineare che non sono le risorse il problema della Calabria, ma piuttosto l’incapacità di spesa degli attori in campo, in primis la Regione. Un problema certamente non di oggi. Ogni anno i finanziamenti stanziati tramite i diversi fondi europei vengono utilizzati solo in minima parte. Ciò, secondo Marino, soprattutto per la sovrabbondanza di progetti e bandi, mentre si dovrebbe puntare su 4 o 5 progetti strategici e realizzabili. Altre criticità rilevate dai relatori, in particolare da Pujia e Reina, quelle relative alla carenza di risorse umane adeguate e alle procedure farraginose. Sarebbero necessari investimenti corposi nella formazione, per avere personale in grado di seguire efficacemente l’iter procedimentale fissato dalle norme.

    Tutti d’accordo, ma…

    Per quanto concerne il ponte sullo Stretto, totale adesione al progetto, peraltro scontata, del rappresentante del Ministero, ma anche da parte degli altri intervenuti. Con l’eccezione significativa dell’assessore Battaglia, secondo il quale lo sviluppo della Città metropolitana di Reggio va inserito nello scenario più ampio dell’ Area integrata dello Stretto, rilanciando l’aeroporto e i porti ricompresi nell’Autorità di Sistema, al fine di fare uscire dalla marginalità un comprensorio ad altissima vocazione storico/culturale e quindi turistica. La posizione baricentrica nel bacino del Mediterraneo, a suo avviso, pone lo Stretto quale ideale testa di ponte per i Paesi emergenti del Nord Africa.

    Aeroporto Minniti, la cenerentola degli scali calabresi
    Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti

    La sinergia necessaria tra i diversi enti coinvolti ha la sua base normativa nella l. r. del 2015 istitutiva della Conferenza interregionale per le politiche dell’Area dello Stretto. Sulla questione ponte Battaglia chiede innanzitutto chiarezza al Governo, rilevando inoltre che non è pensabile rispolverare un progetto vecchio di 12 anni, non sottoposto alla valutazione di impatto ambientale, del tutto inadeguato all’attuale sistema dei trasporti: «Ci sono sul tavolo delle amministrazioni comunali e metropolitane una serie di opere già finanziate che rischiano di essere inutili se dovesse realizzarsi il Ponte. Per questo come istituzioni del territorio reclamiamo un maggiore coinvolgimento».

    Il ponte sullo Stretto e i soldi per la comunicazione

    In Parlamento, intanto, la maggioranza non mostra titubanze di sorta.
    La Commissione Ambiente e Trasporti della Camera approva un emendamento al decreto legge in discussione – da licenziare in Aula entro il 31 maggio – proposto da Lega e FI, che elargisce 8 milioni di euro ai Comuni di Villa San Giovanni e Messina per una campagna di comunicazione, verrebbe da chiedersi per comunicare cosa.
    Ancora, mentre non si conosce la posizione della UE sull’affidamento al consorzio Eurolink, guidato dal Gruppo Salini, vincitore della gara del 2010, un altro emendamento
    in commissione Trasporti prevede un secondo adeguamento nei prezzi di realizzazione dell’opera, ulteriore rispetto a quello già previsto nei contratti stipulati anni fa e finiti nel nulla con la messa in liquidazione della Stretto di Messina.

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    La Camera dei deputati

    Misteri contabili

    Secondo i tecnici della Camera dei Deputati un secondo criterio, per un secondo aumento che si «otterrebbe sottraendo l’indice Istat a una media calcolata sul valore dei primi quattro progetti infrastrutturali per importo banditi da Rfi e Anas nel 2022». Al che chiedono al governo chiarimenti, considerando «che questi adeguamenti aggiuntivi dovrebbero avvenire senza maggiori oneri a carico dello Stato» come prevede il decreto legge. In sostanza: come si fa ad aumentare il costo dell’opera (che arriverebbe complessivamente a circa 15 miliardi e mezzo), senza intaccare le casse dello Stato?

    L’Autorità di Cannizzaro

    E mentre rimangono fumose le intenzioni del Governo e del ministro alle infrastrutture sull’alta velocità da Salerno a Reggio e sulla statale 106, un emendamento approvato in Commissione Bilancio della Camera attribuisce all’Autorità di Sistema portuale dello Stretto il compito di individuare «i progetti prioritari necessari all’adeguamento delle infrastrutture locali, avviando un percorso di rifunzionalizzazione, anche al fine di renderle più coerenti e funzionali con la nuova configurazione che sarà determinata dalla costruzione del Ponte», secondo quanto dichiarato dal deputato Francesco Cannizzaro che lo ha proposto.

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    Ciccio “Profumo” Cannizzaro

    Alla stessa Autorità «il compito di sviluppare ed eseguire anche progetti di miglioramento dei Porti di Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Messina con interventi che potranno essere identificati come d’interesse nazionale prioritario e strategico e quindi beneficiare di appositi finanziamenti e procedure di semplificazione» per esempio per lo spostamento del porto traghetti di Villa San Giovanni a sud degli invasi. Fin qui le vicende nostrane.

    Il Ponte sullo Stretto da Strabone a Wired

    Ma il Ponte sullo Stretto di Messina suscita interesse anche oltre oceano. La rivista USA Wired lo ha identificato come il «ponte sospeso più lungo al mondo». È di pochi giorni fa la pubblicazione di un lungo articolo che ripercorre la storia concernente l’attraversamento stabile del tratto di mare tra Calabria e Sicilia. Si parte addirittura, citando lo storico greco Strabone, dai Romani, che nel 250 a.C. provarono a trasportare 100 elefanti catturati in battaglia da Palermo a Roma. Secondo Strabone, usarono barili vuoti e assi di legno per costruire un ponte provvisorio. I pachidermi arrivarono effettivamente nella capitale del futuro Impero, ma non si sa con certezza come.

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    “Hannibal traverse le Rhône”, Henri Motte, 1878

    Aurelio Angelini, professore di sociologia all’Università di Palermo, autore de Il mitico ponte sullo stretto di Messina, ha dichiarato alla rivista che l’idea del Ponte è stata a lungo contrastata dalla gente del posto di entrambe le parti, per motivi politici, economici e ambientali, ma anche per la resistenza al cambiamento. «Siciliani e calabresi sono divisi, ma la maggioranza è contraria al ponte. La forte politicizzazione del progetto potrebbe anche essere un caso di “populismo infrastrutturale”. La retorica intorno al ponte trasuda nazionalismo», dice, «e l’idea è vista come un simbolo della grandezza dell’Italia, o della capacità di costruire un ponte più lungo di quanto chiunque altro abbia mai fatto».

    Lobbies, record e diversivi

    Wired sottolinea che il progetto è sostenuto da Matteo Salvini, «vice primo ministro e leader del partito populista della Lega, con il sostegno di Berlusconi, ora 86enne, che ha scritto, alla firma del decreto: “Non ci fermeranno questa volta”».
    Nicola Chielotti, docente di diplomazia e governance internazionale alla Loughborough University di Londra, sostiene che uno dei motivi per cui l’idea continua a riprendere vita è che ci sono tante persone che traggono profitto dal lavoro di progettazione: «Spendono costantemente soldi anche se non si materializzerà mai, e ci sono alcuni gruppi di interesse che sono felici di catturare quei soldi». Un’altra questione, aggiunge Chielotti, è che il progetto è un’utile pedina politica per un governo che finora ha taciuto su alcune promesse elettorali chiave, come la riforma fiscale e una posizione aggressiva nei confronti della finanza internazionale.ponte-sullo-stretto

    Wired fa il confronto con altre opere del genere già costruite per cogliere le difficoltà di realizzazione del progetto, che prevede un  ponte sospeso a campata unica con una lunghezza di 3.300 metri: «È il 60 percento più lungo del  ponte Çanakkale in Turchia, attualmente il ponte sospeso più lungo del mondo, che si estende per 2.023 metri. Con piloni di 380 metri di altezza, sarebbe anche il più alto del mondo, più del viadotto di Millau in Francia, 342 metri».

    Il ponte sullo Stretto e la sostenibilità

    La rivista riporta puntualmente alcune obiezioni autorevoli e fondate, di carattere ambientale e di sostenibilità finanziaria dell’opera.
    «Siamo ancora in una fase in cui non ci sono prove che (il ponte) sia fattibile dal punto di vista economico, tecnico e ambientale», afferma Dante Caserta, vicepresidente della sezione italiana del World Wildlife Fund. «Lo Stretto di Messina si trova anche in due zone protette cruciali per i movimenti migratori di uccelli e mammiferi marini». E, per quanto concerne la sostenibilità economica: «Per 30 anni abbiamo fatto elaborazioni concettuali che sono  costate ai contribuenti italiani 312 milioni di euro. Inoltre, la stima complessiva del costo di  8,5 miliardi di euro dal 2011 è destinata a salire a causa dell’aumento dei prezzi dei materiali e inflazione». E infatti siamo arrivati, come abbiamo scritto sopra, a un costo complessivo di 15,5 miliardi circa.

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    Auto sul traghetto tra Villa San Giovanni e Messina

    Caserta dice anche che non è chiaro se l’economia sostenga il costo. «Non ci sarebbe abbastanza traffico per pagare il progetto attraverso i pedaggi, perché oltre il 75 per cento delle persone che attraversano lo stretto lo fa senza auto, quindi fare tutto questo solo per risparmiare 15 minuti non ha senso, soprattutto perché collega due aree con gravi problemi infrastrutturali».
    Il professore Angelini segnala anche la mancanza di un progetto esecutivo. E aggiunge: «Il ponte non ha alcun legame reale con gli interessi sociali ed economici del Paese, e le persone e le merci si stanno già muovendo con altri mezzi». La chiosa è tranchante: «Penso che le possibilità di vederlo mai costruito siano scarse».

    L’unica certezza

    Abbiamo quindi dato conto di quanto accade in Italia, a livello di dibattito e di decisioni politiche. Abbiamo voluto anche dare conto di quanto pubblicato negli Stati Uniti. Il quadro complessivo sembra confermare l’impressione che il ponte sullo Stretto di Messina sia di prossima e certa realizzazione. Sulla carta. Il dato sicuro è che costerà ai contribuenti “della Nazione” ancora molto denaro.
    Lo scetticismo è d’obbligo, così come la perplessità per scelte che privilegiano un disegno astratto rispetto ad altre realizzazioni (alta velocità ferroviaria, statale 106, potenziamento del trasporto marittimo e aereo per l’intera Area dello Stretto) che potrebbero dare un contributo decisivo per fare uscire dalla marginalità questo lembo di terra.

  • La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    Veniva da Cirò, ma durante gli anni ’30 per i giornali negli Usa Salvatore Caridi era il Mussolini americano. La sua famiglia, in realtà, era originaria di Gallico (RC), poi si era trasferita in quel paese oggi del Crotonese e all’epoca ancora in provincia di Catanzaro. Salvatore era nato lì nel 1891 e proprio tra Cirò e Crotone aveva fatto le scuole prima di dirigersi verso Roma per laurearsi in medicina. Nella capitale, però, Caridi aveva sviluppato presto anche altre passioni: quelle per la guerra e la politica.

    Salvatore Caridi, un soldato da medaglia

    E così a 20 anni si era arruolato nella Legione garibaldina. Sotto la guida di Ricciotti Garibaldi, insieme ad un altro paio di centinaia di volontari desiderava combattere per la liberazione dell’Albania dai turchi, nonostante il niet in tal senso del governo italiano. E volontario, Salvatore Caridi, era partito anche per la Grande Guerra. Era già medico a quel punto e gli toccò svolgere la professione in prima linea. Da tenente, riportò più di una ferita mentre prestava i suoi soccorsi ai soldati, conseguendo per questo numerose decorazioni al valore militare. Poi, con la pace, tornò a fare il medico in Calabria. Ma durò poco.

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    1941, milizie fasciste e membri della Legione garibaldina in piazza Venezia a Roma

    Da Cirò agli States

    Guerre laggiù non poteva combatterne, ma la passione per la politica lo portò fino alla poltrona di vice sindaco. In quel ruolo, si dedicò soprattutto alla toponomastica cittadina dando sfogo all’amore per i conflitti con l’intitolazione di molte strade a martiri del Risorgimento e luoghi di battaglie delle guerre d’Indipendenza. Poi – sarà perché, diceva Churchill, gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra – importò nella sua Cirò quel football arrivato da Oltremanica e destinato a conquistare il mondo.
    Ma a Salvatore Caridi la Calabria e i tornei di pallone in paese andavano stretti. Perciò, fresco di specializzazione in ginecologia, si imbarcò nel 1921 alla volta di New York per stabilirsi a Union City. E occupare le cronache nella doppia veste di filantropo e di leader fascista.

    Salvatore Caridi, il “Mussolini americano”

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    Salvatore Caridi durante un raduno nazifascista in America

    Caridi, infatti, non divenne soltanto un punto di riferimento per tante donne italoamericane che dovevano affrontare un parto. Iniziò a creare circoli culturali dove celebrare l’amore per la patria. E di lì a poco le camicie nere, che già infestavano il Bel Paese, fecero la loro prima apparizione pure negli States. Da presidente del North Hudson Chapter of the Italian War Veterans il medico calabrese riuscì ad arruolare in queste pseudosquadracce a stelle e strisce centinaia di ex combattenti della Grande Guerra filofascisti emigrati come lui negli States. E così, insieme a Giuseppe Santi e la sua newyorkese Lictor Association, divenne punto di riferimento dei mussoliniani d’America.

    I nazisti del New Jersey

    Da quelle parti, d’altronde, l’anticomunismo che animava Salvatore Caridi ha sempre fatto proseliti, oggi come allora, così come l’ultradestra. Prova ne è il momento di “massima gloria” politica del ginecologo cirotano. Siamo nel 1937 e nel suo New Jersey si svolge un grande raduno. In un’area di circa 100 acri si ritrovano i nazisti del German American Bund sotto la guida di Fritz Kuhn. Si passeggia in Adolf Hitler Strasse, i bimbi si godono i giochi per junge e mädel. Sfilano uomini in camicia bruna e svastica d’ordinanza, circondati da migliaia di braccia tese.

    Cotanto parterre de rois ammira sul palco, oltre a Kuhn, anche esponenti del Ku Klux Klan e lo stesso Salvatore Caridi. È lì accompagnato da 5-800 camicie nere. Imita la postura del suo idolo, saluta «gli amici nazisti» e invita tutti i presenti a «tirare un pugno sul naso a chi offende Mussolini o Hitler». Sogna un fronte nero-bruno comune anche su questa sponda dell’Atlantico.

    Salvatore Caridi, un Mussolini tra gli enemy aliens

    Il nazifascismo oltreoceano cresce ancora per un po’. Kuhn riempirà il Madison Square Garden nel 1939 con un altro maxi raduno in cui celebrerà George Washington come «il primo fascista della storia americana». In sala i «Free America» si mescolano ai «Sieg Heil», fuori 1.700 agenti di polizia tengono a bada la folla. Poi però con l’entrata in guerra degli Yankees cambia tutto. Fossimo stati in un romanzo di Philip K. Dick, Caridi e Kuhn di lì a poco sarebbero finiti alla Casa Bianca o giù di lì. In un film di Landis, al contrario, a bagno nell’acqua.

    Nella realtà il führer degli States finisce a Sing Sing e viene invece rispedito in Germania di lì a breve, dove morirà nel 1951. Al Mussolini americano toccano in sorte la reclusione nei campi destinati agli enemy aliens, i nemici stranieri, un po’ come succedeva in Australia anche a chi magari fascista non era e l’addio alla cittadinanza. Suo figlio Nino, nel frattempo, combatte i pupilli del padre nella US Army 10th Mountain Division.

    Cose buone

    Una volta libero a guerra conclusa, Salvatore Caridi è tornato spesso in Calabria da New York, dove si è spento quasi novantenne nel 1980. Come nella vulgata sul dittatore di Predappio, il ginecologo calabrese nel suo paese come oltreoceano ha fatto anche cose buone. Niente treni in orario per lui o creazioni di istituti previdenziali già esistenti, però. Caridi in New Jersey è stato protagonista di numerose iniziative nel sociale a tutela degli immigrati italoamericani. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno nella fondazione di un convalescenziario a Jersey City per i meno abbienti. C’è anche il suo nome tra quelli che la comunità italiana ha inciso sul basamento della statua di Cristoforo Colombo nella Hudson Bay, riporta l’Icsaic.
    La camicia era nerissima, l’anima forse no.

  • Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Nel 1865, alcuni cosentini fondarono un’associazione clandestina per promuovere una rivoluzione sociale. La maggior parte degli aderenti cinque anni prima aveva partecipato alla spedizione garibaldina e altri avevano militato nelle associazioni segrete mazziniane come la Falange Sacra. In un dettagliato documento redatto in una riunione tenutasi a Cosenza i rivoluzionari elencarono i punti fondamentali dell’organizzazione:

    • abolizione del «diritto divino, diplomatico e storico»;
    • rinunzia a ogni idea di «preponderanza nazionale»;
    • federazione dei comuni e delle nazioni;
    • abolizione della proprietà e dei privilegi;
    • eguaglianza politica dei cittadini;
    • emancipazione del lavoro dal capitale;
    • la terra ai contadini e i mezzi di produzione agli operai.

    Per il suo programma insurrezionale la “Democrazia Sociale” operò nella più rigorosa clandestinità. Gli aderenti comunicavano con nomi di battaglia e si organizzavano in luogotenenze e sub-luogotenenze. L’obiettivo della società era la rivoluzione socialista. Ma per realizzarla bisognava distruggere il prestigio di Mazzini e Garibaldi che, pur avendo fatto tremare i tiranni, avevano portato il popolo su vie sbagliate. Certo, erano due uomini «immortali» che si erano battuti con grande coraggio. Ma il primo vagheggiava un programma che non affrontava i problemi sociali. E il secondo aveva sconfitto il re borbonico per consegnare il paese a un re sabaudo.

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    Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano

    La rivoluzione a Cosenza, Mazzini e Garibaldi

    In un documento spedito agli adepti dell’associazione si legge a questo proposito:
    «Fratello! La nostra missione è ridurre l’uomo né suoi diritti naturali presso la umanità di Libertà ed uguaglianza, prima libertà, e di conseguenza l’uguaglianza. Per ottenere questo fine sacrosanto i mezzi sono i capi del programma, perché il primo assalto alla uguaglianza fu portato dalla proprietà, il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dai Governi. I soli appoggi della proprietà e de’ Governi sono le leggi religiose e civili. Dunque, per ristabilire l’uomo né suoi diritti primitivi di Uguaglianza e di libertà, è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile, e terminare coll’abolizione della proprietà. Il latore se le conviene, sarà il legionario nostro anello.

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    Marsiglia, 1833: il primo incontro tra Mazzini e Garibaldi

    Dovrà francamente ed energicamente Ella studiarsi come distruggere il prestigio de’ due nomi immortali di Mazzini e Garibaldi, perché l’uno prese fin dal primo momento falso indirizzo, e con tutto ciò fece impallidire e tremare il foglio e il cuore de’ tiranni, ma non ristabilì l’uomo né suoi bisogni primi naturali e né secondi sociali, secondo bell’anima, ma moncamente servì il Paese ma collocò il tiranno in sulla sedia, ed il prestigio suo allucinò anche la mente nostra dal braccio che donava al tiranno. Ora il compito dè nostri guai è spento, ed incomincia l’era della luce, e noi faticando su di un difficile apostolato dobbiamo ridurre tutto il falso al vero, e combattere fino a morire l’ignoranza e la superstizione».

    Morte alla monarchia e a chi la difende

    E in un altro documento approvato in un convegno della Luogotenenza di Cosenza e le subluogotenenze di Rogliano e Paola si legge:
    «La Luogotenenza del Cosentino, e sue Subluogotenenze fan pieno plauso al programma della Democrazia Sociale e fan loro bensì la circolare di Cotesto C.C. che ha per iscopo di combattere il falso indirizzo di Mazzini. È indubitato che questo grande uomo ci fa la guerra: però più che col fatto col nome (almeno per quanto si può giudicare da noi ed in questa continenza Calabra Cosenza) e questo nome ci farà vieppiù la guerra che credesi di accordo con Garibaldi, ed il popolo ricco di affetti, e di devozione e pur di ingegno più che di intelligenza atteso che manca lo svolgimento intellettivo e di associazione al solo nome di Garibaldi cede ad ogni gloria ed anche alla propria salute: ci è che anzi tutto bisogno inerente alla nostra costituzione facessimo conoscere ai fratelli della nostra residenza centrale, che stante Mazzini ci ostacola colle idee e coi falsi indirizzi. Garibaldi involontariamente ci ostacola col suo prestigio che porta seco, entusiasmo perpetua anche alle colte intelligenze come colui che in faccia a Mazzini che rappresenta l’idea della sfera del vuoto, desso rappresenta il moto nel campo del fatto, perciò il nostro voto è di conciliare per tutta la nostra continenza i Garibaldini all’opera nostra. Ed è certo che Garibaldi ci può essere forza e luce, senza intelligenza, senza mente socialista un’ente della rivoluzione che serve col suo braccio a rendere per altro tempo esistente la monarchia in Italia, ma il suo fine è quello di liberare il popolo, ma che per altro non fa creare una rivoluzione che compia il bene di questo immiserevole popolo, anzi la conseguenza del fatto suo lo agghiaccia dippiù.

    Ma è ora terribile fatale ora, che ci annunzia che dinnanzi che ci scorre, che ci passa come fulmine un atomo di momento che tutti noi dovremmo metterci alla videtta di affermare per la causa del popolo e non farlo scorrere innanzi indolentemente per abbracciarlo quella stregona monarchia che non ci farebbe rendere il capo a quel suo vecchio infame crudo che ha la testa cornuta che i privilegiati adorano, e fanno rispettare col sacrilego nome di Diritto Divino. Non bisogna in questo momento solenne di libera associazione radergli i peli per poi spuntarli più duri e feroci. Si distrugga una volta questa idra con miliardi di teste. Bisogna che ci cooperiamo tutti che questo momento fatale destinato dai tiranni a pro loro per l’ignoranza del popolo tanto dia ora per opera della luce nostra, latte, a quella sopirata bimba, libertà.

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    Casa Savoia, la famiglia reale riunita all’epoca di Vittorio Emanuele II

    Morte alla monarchia, sterminio a chi la difenda, l’unico grido sia questo, ed in tutti i punti dello spazio la voce del fratello nostro predichi, che i diritti essenziali che l’uomo ricevette dalla natura, nella sua perfezione originaria e primitiva sono l’uguaglianza e la libertà, che il primo assalto a questa uguaglianza fu portato dalla proprietà, ed il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dà governi, i soli appoggi della proprietà e dè governi sono le leggi religiose e civili, che per ristabilire l’uomo né suoi diritti è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile e terminare coll’abolizione della proprietà.

    Siffatta formula la nostra società deve predicerla fino ad avere l’audacia di farla inserire fra gli atti alla Regia dè tiranni. Fratelli prendete in considerazione che questa terra del cosentino, misera di mezzi come è, ma ricca di individui forti di spirito e di audacia è tutta pronta a sostenere la vita e la pace ad una siffatta iniziativa di rivoluzione democratica-sociale, e ricordatevi che fu l’unica terra fra tutto il mondo che ha protestato senza interruzione in faccia all’umanità contro la proprietà e contro la tirannia della monarchia».

    Cosenza, spie e rivoluzione

    Nel giugno 1866, probabilmente in seguito a una spiata, la polizia effettuò perquisizioni in casa di alcuni rivoluzionari. In quella di Gregorio Provenzano trovò documenti e piani per l’insurrezione. Il giovane, impiegato nello studio di un avvocato, fu arrestato, richiuso e interrogato nelle carceri della città. Al processo alcuni testimoni dissero che era un scrivano competente, onesto e gentile. Ma aggiunsero anche che «viveva in una tale stranezza e una tale confusione che si rendeva incomprensibile».

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    Palazzo Arnone, oggi sede della Galleria Nazionale, era il carcere della città

    Uno di loro disse ai giudici: «Facendo il Provenzano il giovane di studio del G. Marini ha frequentato vari giovani forniti di varie cognizioni e ascoltando or da uno or dall’altro nei discorsi qualche idea o qualche principio scientifico si à infarcito la mente di tante idee che han formato nella di lui mente un guazzabuglio tale da non potergli credere. Per lui non vi ha proprietà, non vi è Iddio, l’uomo deve far tutto per l’amore del prossimo, non può esser né cittadino né suddito ma deve vivere secondo viveva nei primi giorni della creazione».

    Cospirazioni e intelligenza

    Nel corso degli interrogatori, il giovane Provenzano ammise di aver fatto parte dell’associazione sovversiva. Cercò, però, di sminuire l’attività del gruppo e confessò di aver vagheggiato astratti ideali in un momento difficile della sua vita. A differenza di quanto era scritto nei documenti della società sul carattere indomito dei cosentini mostrato durante i moti risorgimentali e la spedizione garibaldina, il giovane scrivano affermava: «Io sono innocente dell’imputazione che mi si addebita, poiché non ho mai cospirato né attentato sapendo benissimo che le cospirazioni non si fanno individualmente con se stesso ma unitamente ad uomini di alta intelligenza che in questa nostra terra di Cosenza non se ne trovano».

  • Cosenza, Sparta della Calabria

    Cosenza, Sparta della Calabria

    Che succederebbe se ai piedi del Partenone scoprissero che Cosenza è nota come l’Atene della Calabria? Forse nella capitale greca assisteremmo a proteste di piazza veementi quanto quelle degli anni in cui la Troika si era abbattuta su Tsipras e i suoi connazionali. Da diversi anni, più che Atene, Cosenza ricorda infatti l’arcirivale Sparta. Nella città che si faceva vanto della sua cultura l’arte fatica sempre più a trovare casa. E quando la trova – se la trova o non la sfrattano dalla precedente – scoppiano immancabili i conflitti.

    Cosenza: l’arte nella Atene della Calabria

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    “La Bagnante” di Emilio Greco è la statua presa più di mira in questi anni sul Mab

    «Prendi l’arte e mettila da parte» in riva al Crati e al Busento, più che un vecchio detto, pare ormai una regola di vita. In principio fu piazzetta Toscano, con la sua futuristica copertura a nascondere antiche vestigia romane. Poi venne la statua di Cesare Baccelli in piazza Spirito Santo: sparita nel nulla anni or sono, riapparsa in un post Facebook dell’allora sindaco Occhiuto, scomparsa nuovamente il giorno dopo.

    Ma l’elenco è lungo e variegato: c’è la penna della statua di Telesio fregata – leggenda vuole – da un ricco studente dell’omonimo liceo; la colonna di Sacha Sosno abbattuta da un mezzo della nettezza urbana che manovrava su corso Mazzini. Ci sono gli atti vandalici sul Mab, i Picasso e Chagall (ma non solo) che la città non è stata in grado di farsi regalare.

    E poi, ancora, i murales su Marulla raddoppiati d’imperio perché il primo non incontrava i gusti di alcuni ultrà, i musei promessi ma mai realizzati e quelli chiusi, i teatri serrati, la Biblioteca civica sommersa dai debiti, i Bocs Art vuoti, i monasteri ultrasecolari sigillati. L’illustre – e parziale – campionario dell’Atene della Calabria si è arricchito negli ultimi giorni di altri due esempi che hanno fatto parecchio discutere a Cosenza e dintorni.

    Dall’Atene della Calabria alla Disneyland di Cosenza vecchia?

    Il primo è quello della statua di Donna Brettia. Personaggio leggendario, presunta prima donna guerriera (cosa che agli spartani non dovrebbe dispiacere) della storia occidentale, la scultura che la raffigura è sostanzialmente un’appendice del già problematico museo storico all’aperto realizzato da un’associazione – la guida l’ex preside Franco Felicetti – a Cosenza vecchia pochi anni fa. E proprio come quel museo ha avuto una nascita a dir poco travagliata. Il progetto di Felicetti e soci risale ai tempi in cui era sindaco Perugini e prevedeva la realizzazione di alcuni murales a tema storico tra le vie della città antica, uno per ogni popolo susseguitosi nella dominazione di Cosenza lungo i secoli.

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    Uno dei dipinti del museo del centro storico

    Come contorno alle opere del percorso, l’associazione ipotizzava che imprenditori locali aprissero locali a tema nelle immediate vicinanze: café chantant in omaggio agli angioini, una taverna spagnola per gli aragonesi, una birreria tedesca per gli svevi e così via, in una ipotetica gentrificazione simil Disneyland che ha fatto storcere il naso a parecchi. Dei murales non si fece nulla, ancor meno di würstel e crauti o nacchere e flamenco.

    Restano salsiccia e broccoli di rapa nelle cucine del quartiere, tributo ai bruzi difficilmente riconducibile al progetto museale: c’erano già prima. E restano i dipinti: il successivo sindaco, Mario Occhiuto, diede il via libera, a condizione che gli artisti li realizzassero su pannelli da appendere e non direttamente sulle pareti secolari di Cosenza vecchia. Neanche il tempo di affiggerli con un telo sopra e già il primo era scomparsolo ritrovarono pochi giorni dopo – prima dell’inaugurazione ufficiale. Un altro l’ha fatto cadere il vento mesi fa ed è rimasto per terra in un vicolo a lungo.

    La statua nell’angolino

    Felicetti, comunque, in mancanza dei bar a tema ha rilanciato. E ha provato a donare alla città anche la statua di uno dei personaggi protagonisti dei dipinti: Donna Brettia, appunto. Una donazione modale la sua, ossia vincolata a determinate condizioni. Il Comune – questo il diktat del donatore – doveva collocare la scultura in piazza Valdesi, porta della città vecchia, con tanto di spadone puntato verso colle Pancrazio.

    A piazza Valdesi, però, per mesi c’è stato solo il basamento. Nessuno si era premurato di coinvolgere la Soprintendenza, passaggio obbligato quando si tratta di intervenire in un centro storico. Poi è sparito pure il basamento, mentre la statua restava chiusa in un magazzino. Nei giorni scorsi l’hanno riposizionata in un punto più defilato, da cui il centro storico, seppur a pochi passi, a stento si vede. La spada punta ora più verso Rende, quasi la soluzione per la città unica fosse l’Anschluss. A Sparta avrebbero gradito, ad Atene chissà.

    Da Donna Brettia ai Bee Gees

    Tutto è bene quel che finisce bene? Macché. Prima che la inaugurassero qualcuno ha pensato di omaggiare Dalì piegando la spada di Brettia come i celebri orologi del pittore surrealista. Poi, a cerimonia avvenuta (e spada raddrizzata), è partito l’appello di storici, archeologi e semplici cittadini contro la scultura. Mistificherebbe la storia di Cosenza in nome del turismo, denunciano in estrema sintesi gli accademici (e non solo) chiedendone al Mic la rimozione.

    Donna Brettia tornerà in magazzino? Farebbe comunque una fine migliore di quella toccata in sorte per il momento all’altra scultura protagonista delle cronache recenti: il monumento a Sergio Cosmai. O, secondo la più disincantata e insensibile expertise dell’Atene della Calabria, ai Bee Gees, con quelle sagome à la Stayin’ Alive a custodire il ricordo del delitto dell’ex direttore del carcere di Cosenza sull’omonimo viale.

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    Il monumento a Cosmai qualche anno fa, dopo la rimozione della scritta che lo circondava

    Il lungo addio

    Velato omaggio burocratico-amministrativo anche a H. G. Wells e al suo La macchina del tempo – l’inaugurazione dell’opera risale a marzo 2013, il Comune però l’ha commissionata ufficialmente alcuni mesi dopo – l’installazione dedicata a Cosmai era già ridotta a metà da anni. La scritta che la circondava, infatti, risultava pericolosa secondo la Polizia stradale. Su quella sorta di potenziale ghigliottina gravò a lungo il sospetto – poi fugato dal tribunale – di aver causato la morte di due ragazzi in un incidente stradale. La portarono via lasciando lì solo i Bee Gees, di cui la famiglia stessa di Cosmai auspicava da anni la rimozione ritenendo celebrassero più i killer della vittima. A far sparire anche quelli ha provveduto nei giorni scorsi l’amministrazione Caruso, attirandosi subito le critiche di chi l’aveva commissionata, ossia l’ex sindaco e oggi senatore Occhiuto.

    Regimi a Cosenza e una nuova Atene della Calabria

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    C’è chi apprezza così tanto la statua di Mancini da metterle la sciarpa quando fa più freddo

    «Un’opera di arte contemporanea non deve per forza piacere a tutti, semmai deve interrogare in virtù dell’idea che le sta dietro, perché a partire dal secolo scorso l’arte è diventata soprattutto concettuale. Adesso magari metteranno al suo posto l’ennesimo busto celebrativo, come si usa nei regimi totalitari o nei posti dove regna l’ignoranza», ha argomentato con amarezza. Parere simile aveva riservato, pochi mesi fa, alla quasi altrettanto discussa statua di Giacomo Mancini piazzata di fronte al municipio. Ma il problema, probabilmente non è questo. In fondo, come diceva Borges, «chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».

    Il fatto è che poco dopo la rimozione hanno iniziato a circolare in rete foto di quel che restava dell’opera buttato in terra ai piedi di una rete, con polemiche al seguito. Tutto mentre il gruppo consiliare “Franz Caruso sindaco” si affrettava ad assicurare che «l’installazione è attualmente custodita nei locali comunali per essere riposizionata in un altro luogo idoneo e non ostativo della sicurezza e dell’incolumità pubblica. Anzi, è bene precisare che sarà ricollocata l’intera opera, con l’aggiunta, cioè, della striscia in ferro riportante una frase di Sergio Cosmai».

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    “L’ex monumento” a Sergio Cosmai tra i rifiuti

    Qualità della custodia a parte, insomma, alla famiglia del defunto toccherà forse pure la beffa di partecipare a una seconda inaugurazione della già poco gradita scultura. Se non a Cosenza, nell’hinterland: il sindaco Magarò ha proposto di metterla nel suo paese in caso qualcuno a Palazzo dei Bruzi voglia davvero farla sparire per sempre.
    Sarà Castiglione Cosentino la nuova Atene della Calabria?

  • Da ribelle a notabile: la parabola di Francescantonio Mazzario

    Da ribelle a notabile: la parabola di Francescantonio Mazzario

    Francescantonio Mazzario fu uno degli undici figli di Giuseppe, avvocato e possidente rosetano, e della nobildonna amendolarese Isabella Andreassi.
    Ebbe tra i suoi zii l’avvocato Alessandro Mazzario (diarista e protagonista del Grand Tour) e il giudice Domenico Andreassi. Un suo cugino-cognato fu il barone Lucio Toscani di Canna e Nocara.

    Rivoluzionario e poi avvocato

    Mazzario studiò Giurisprudenza all’Università di Napoli. Lì partecipò ai moti del 1848 che gli costarono il carcere.
    Laureatosi, esercitò l’avvocatura nel foro partenopeo. Si fece le ossa in via Medina 61, nello studio legale del celebre sandemetrese Cesare Marini (già giudice di pace nel Circondario di Spezzano Albanese, difensore – assieme ad altri – dei fratelli Bandiera, poi deputato nel Parlamento napoletano e futuro consigliere della Gran Corte dei Conti).
    Al 1851 risalgono due delle sue allegazioni difensive a stampa, pubblicate a Napoli e oggi al più rintracciabili in copie uniche presso la Biblioteca Casanatense in Roma o la Nazionale in Napoli. Una è a difesa di Ferdinando Barbati, accusato di omicidio, mentre l’altra è redatta negli interessi di don Gerardo Coppola di Altomonte (la cui zia era Isabella Coppola, bisnonna di Francescantonio), zio del senatore Giacomo Coppola e del deputato Ferdinando Balsano.

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    La fucilazione dei fratelli Bandiera

    Mazzario torna a casa

    Nel 1852 Francescantonio Mazzario fa definitivamente ritorno a Roseto Capo Spulico per dedicarsi all’amministrazione pubblica e a quella del «non tenue patrimonio» di famiglia.
    Il giovane ex rivoluzionario è un rampollo benestante ma per nulla conservatore: un ribelle in contrasto, per alcuni versi, con lo stesso ambiente familiare in cui era cresciuto, fatto di svariate cariche amministrative distribuite pressoché a tutti i membri della casa (era fratello, tra gli altri, di Filippo, Domenico e Pietro, tutti variamente graduati nella Guardia Nazionale, e di Nicola, sindaco di Roseto dal 1888 in poi).

    Un politico in carriera

    Francescantonio Mazzario

    Come suo fratello, Francescantonio Mazzario fu sindaco di Roseto per ben vent’anni, e consigliere Provinciale per due.
    Dagli atti amministrativi emerge il suo impegno disinteressato nella cura della cosa pubblica e la preoccupazione di offrire lavoro ai bisognosi, soprattutto nei periodi dell’anno in cui l’agricoltura era ferma e nelle annate di carestia. Già nominato barone nel 1855, ricevette poi il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia con decreto del 1877, e quello di Cavaliere di San Maurizio.
    Nel 1867 Mazzario tenta, invano, l’ingresso alla Camera dei Deputati ma si impelaga in un lotta elettorale durissima, di cui restano non poche tracce in Risposta ad una lettera intitolata «La elezione del deputato nel collegio elettorale di Matera nel 1867», la sua terza ed ultima pubblicazione superstite.

    La superpolemica elettorale di Mazzario

    Palazzo Mazzario (foto di Luca I. Fragale)

    È il pamphlet che raccoglie tutte le tappe della diatriba fra lui e il deputato Francesco Lomonaco, a cominciare dal foglio a stampa che Mazzario aveva inviato agli elettori del Collegio elettorale di Matera per la sua candidatura alle Politiche del 1867, per continuare con il ringraziamento ai 281 elettori (nonostante la sconfitta subita contro i 360 di Lomonaco), redatto il 2 aprile 1867 e intitolato Ai miei elettori del Collegio di Matera.
    A ciò, Mazzario unisce la lettera assai critica inviatagli dal patriota Nicola Franchi di Pisticci (Al Signor Francescantonio Mazzario. Roseto Capo Spulico, e data alle stampe a Potenza per i tipi di Favatà nel giugno 1867), il quale lo accusa di aver gestito in modo poco dignitoso la propaganda elettorale. La perla, in questo caso, è la lunga risposta risposta Al signor Nicola Franchi. Pisticci, datata 21 ottobre 1867. È un capolavoro di prolissità, tale da sfinire qualunque avversario, colmo di citazioni manzoniane, bibliche e latine. Più un gustoso esercizio avvocatesco: la “dissezione” del la lettera di Franchi ai minimi termini.
    Mazzario aveva denunciato nella sua propaganda elettorale il pessimo ordinamento del tesoro nazionale, e gli errori della pubblica amministrazione, «vera causa del disordine e quindi delle gravi imposte». Inoltre, ribadì che «l’incameramento dei beni chiesastici sarà sempre un potente aiuto alla nostra finanza», fece promesse solenni affinché fosse «celermente espletata la ferrovia dalla foce del Basento a Potenza, e da Potenza ad Eboli» e creati «dei consorzii per la costruzione di strade rotabili che vi avvicinassero (…) alle future stazioni della detta ferrovia».

    Mazzario e le scuole

    Lo stemma dei Mazzario

    Nel 1869 Mazzario è Delegato Scolastico Mandamentale per il distretto di Amendolara e – assieme ai nobili Lucio Toscani di Oriolo, Lucio Cappelli di Morano e altri – denuncia la situazione dimessa dell’istruzione pubblica a ridosso dell’Unità d’Italia. Quindi sottoscrive una petizione finalizzata all’inamovibilità dall’impiego degli insegnanti, al miglioramento degli stipendi, all’assegnazione di pensioni di riposo, al riconoscimento del diritto di elettorato politico agli insegnanti e all’obbligatorietà dell’istruzione elementare per entrambi i sessi, per una determinata fascia di età.
    Ma fu pure sua la proposta di radiare gli “allievi maestri” della scuola normale maschile e della magistrale femminile di Cosenza e di ridurre a un terzo i contributi comunali agli asili infantili di Cosenza, Paola, Mongrassano e Rossano, poiché già oltremodo gravanti sulla Provincia.

    Mazzario contro l’Accademia Cosentina

    Eletto all’unanimità vicesegretario del Consiglio Provinciale di Cosenza, Mazzario propose di tagliare il numero dei veterinari; di offrire un contributo di 6 mila lire per l’esondazione del Tevere (Vincenzo Dorsa gli controproporrà un contributo di sole mille lire: la cifra che verrà deliberata); un altro sussidio di 12 mila lire per l’impianto della succursale del Banco di Napoli in Cosenza (proposta, invece, approvata); e di far collocare la lapide in memoria di Ferdinando Balsano nel luogo del delitto (che verrà invece collocata all’interno del Liceo Classico).
    Poeta per diletto – come si evince da alcuni incartamenti privati del 1872 e del 1874 – prese parte anche all’acceso dibattito sui finanziamenti alla Biblioteca Comunale di Cosenza. Infatti, il 17 novembre 1871, Francescantonio Mazzario propose la cessazione dell’assegno al segretario dell’Accademia Cosentina, «non parendogli che la Provincia ne abbia de’ vantaggi, essendo essa piuttosto una riunione letteraria privata». Ben centocinquanta anni fa.

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    Il castello di Roseto Capo Spulico

    La morte e la discendenza (illegittima)

    Ammalatosi, Francescantonio Mazzario trascorre l’ultimo periodo della sua esistenza nel casino di caccia, oggi diruto, della Caprara, di Montegiordano, dove redige l’ultimo dei suoi testamenti. A distanza di quasi 120 anni dalla morte, il Comune di Roseto Capo Spùlico gli ha intitolato una strada del centro storico, a ridosso del palazzo di famiglia. Non si sposò e ufficialmente e non ebbe figli ma fu in realtà abbastanza prolifico nella sua meno nota discendenza illegittima. Variamente declinata.

  • Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

    Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

    «Oggi gli spazi esterni sono troppo “minerali” (cementati, ndr). Le superfici costruite e coperte in calcestruzzo producono un’isola di calore attraverso l’assorbimento di energia solare. Questa situazione dovrebbe essere rovesciata togliendo il calcestruzzo e creando un’isola fresca grazie alle superfici alberate».
    A parlare è l’architetto paesaggistico belga Bas Smets in un’intervista apparsa su Pianeta 2030 del Corriere della Sera. Di recente il team che guida si è aggiudicato, insieme agli studi GRAU e Neufville-Gayet, il concorso indetto dalla Città di Parigi per riqualificare l’area circostante Notre Dame.

    Un giardino per Notre Dame

    Lo stesso Smets collabora, per la parte relativa al verde, con lo studio LAN che ha vinto il Concorso di idee per il Grande MAXXI a Roma. La giuria ha scelto il progetto per «il rapporto con il contesto urbano, la presenza di un giardino pensile generoso e accessibile e allo stesso tempo di forte valore architettonico». Per quanto concerne Notre Dame, nel progetto è previsto un piazzale-sagrato circondato da un bosco con cento alberi; un sistema di irrigazione che rinfrescherà la piazza con uno strato d’acqua di 5 millimetri. Una fontana orizzontale, utilizzando l’acqua piovana raccolta, ridurrà la temperatura di parecchi gradi. Insomma, una piccola oasi verde in grado di migliorare il microclima. Tutto ciò entro il 2027, per una spesa di 50 milioni.

    L’isola climatica al Grande MAXXI di Roma

    Passiamo al Grande MAXXI di Roma, il cui progetto esecutivo sarà completato entro quest’anno. La parte che qui interessa è quella che prevede la cosiddetta rinaturalizzazione dello spazio tutto attorno all’edificio – realizzato su progetto di Zaha Hadid – fino a coinvolgere il quartiere Flaminio. Bas Smets e il suo team hanno proposto una soluzione non solo e non tanto estetica; parchi e giardini e orti produttivi, certo, ma anche la realizzazione di un sistema in grado di «creare un’isola climatica che migliorerà le condizioni di vivibilità dell’area».

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    Il progetto dello studio italo-francese LAN, vincitore del concorso internazionale di idee per il Grande MAXXI a Roma

    Secondo Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, intervistato da Pianeta 2030 del Corriere della Sera, «Il MAXXI ha grandi superfici in cemento impermeabile completamente esposte a luce solare e nessuna ombra, frutto di una progettazione di un tempo in cui non si immaginava che il riscaldamento globale sarebbe arrivato a cambiare le nostre vite in un tempo così breve. Uno dei problemi fondamentali degli edifici con funzione sociale in città sarà di svilupparsi in un modo che ci aiuti a sfuggire alle ondate di calore».

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    Come cambierà l’interno del MAXXI

    E ancora: «Bas ha previsto un enorme numero di alberi in grado di ombreggiare e allo stesso tempo raffreddare una grande superficie non solo attraverso l’ombra: gli alberi assorbono acqua e la traspirano attraverso le foglie rinfrescando l’ambiente circostante, con un processo identico a quello dei condizionatori in casa. Con una progettazione adeguata e un uso studiato degli alberi in ambiente urbano si può pensare di ridurre la temperatura in città anche di 7-8 gradi centigradi».

    330 milioni di euro per 14 città metropolitane

    Perché tratto queste due progettazioni? Scrive la Commissione europea che «la promozione di ecosistemi integri, infrastrutture verdi e soluzioni basate sulla natura dovrebbe essere sistematicamente integrata nella pianificazione urbana, comprensiva di spazi pubblici e infrastrutture, così come nella progettazione degli edifici e delle loro pertinenze».
    Il PNRR, dal canto suo, prevede lo stanziamento di 330 milioni di euro per le 14 città metropolitane per «tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano, mediante lo sviluppo di boschi piantando 6 milioni e 600mila alberi».

    Reggio Calabria, gli alberi e il cemento

    E veniamo alla città di Reggio Calabria. Partendo dalla centralissima Piazza De Nava, adiacente al Museo nazionale della Magna Grecia, proseguendo con il Waterfront, con il Museo del Mare, con l’area parcheggio posta accanto al Cimitero cittadino, con il taglio indiscriminato di alberi in spazi pubblici posti in via Pio XI e accanto all’Istituto d’Arte. Ebbene, in tutti questi casi, cosa ne è dell’impostazione oramai accettata e promossa in tante città europee (ad Arles, in Francia, l’ex area industriale è stata trasformata in un parco cittadino, introducendo 80.000 piante di 140 specie diverse) e della quale i due riportati sono gli esempi più eclatanti? Nulla!

    Tutto è figlio dell’improvvisazione, dell’assuefazione ad un modello vecchio. Dice ancora Mancuso: «(Le città) sono state costruite, immaginate, esclusivamente per essere il luogo degli uomini, dove essi vivono e abitano. Una cosa antica, che risale ai primi insediamenti umani, questo dividere, separare con mura e fossati il luogo di vita da una natura percepita come ostile».

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    Reggio Calabria, pini ancora sani abbattuti nei pressi del cimitero di Condera per far spazio al cemento (foto Italia Nostra)

    Noi continuiamo a costruire case e città alla stessa maniera, anche se oggi non è più la natura ad essere ostile nei nostri confronti, ma noi ad essa. «Dovremmo perciò immaginare città in cui la natura, gli alberi, entrino per permeazione nel tessuto urbano. Oggi la copertura arborea media di una città europea è intorno al 7 o all’8 per cento. Invece dovremmo puntare ad arrivare al 40% di superficie arborea. E non per motivi estetici ecologici ma di pura sopravvivenza; specialmente nelle città italiane che stanno nella cosiddetta area hot spot (si riscalda più in fretta). Se vogliamo continuare a vivere in queste città dovremo per forza di cose immaginare delle soluzioni vegetali».

    Alberi o ancora il dio calcestruzzo?

    Bisogna, insomma, eliminare l’hardscape (il paesaggio di infrastrutture e cemento) ed allargare il softscape «per aumentare la permeabilità dello strato di terra al fine di immagazzinare l’acqua piovana in loco. Anche il deflusso proveniente dalle piazze e dagli edifici potrebbe essere mantenuto in loco. Nuovi prati e alberi aiuteranno a riportare l’umidità nell’aria e a creare un microclima esterno più fresco».
    Gli effetti del cambiamento climatico nelle aree urbane56% della popolazione mondiale adesso, 70% entro il 2050 – li viviamo ormai quotidianamente. L’Istat ha rilevato che nel 2020 nei capoluoghi di regione la temperatura media annua è aumentata di 1,2 gradi rispetto al valore medio del periodo 1971-2000, arrivando a 15,8°.

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    Uno scatto da “Cemento amato”, progetto del fotografo Angelo Maggio sul non finito calabrese

    Davanti a queste evidenze, e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai fondi disponibili, non è più rinviabile un cambiamento di paradigma. Tra l’altro, come possiamo pretendere la preservazione e la non entropizzazione per fini di coltivazione ed altro, ad esempio, della foresta amazzonica, se noi non facciamo la nostra parte?
    Non ci possiamo permettere di essere ancora e sempre governati dal dio calcestruzzo. È ormai acclarato che questo modello non regge, rende brutti i nostri centri urbani e ne peggiora la vivibilità. Prendiamone atto, una volta per tutte.

    Nino Mallamaci

  • Buonanotte compagno Lenin: quando Terzani parlò del sole ingannatore

    Buonanotte compagno Lenin: quando Terzani parlò del sole ingannatore

    «Il comunismo, con la sua sacrilega aspirazione a cambiare l’uomo, ha ucciso milioni di uomini e ha, come un moderno Gengis Khan, seminato vittime di ogni tipo lungo il percorso della sua conquista. Eppure è anche vero che là dove non era al potere, ma restava come un’alternativa d’opposizione nei paesi dell’Europa Occidentale, per esempio, il comunismo non è stato solo distruttivo, ma anzi ha contribuito al progresso sociale della gente. Come sistema di potere, fondato sull’intolleranza e sul terrore, il comunismo doveva finire. Ma come idea di sfida all’ordine costituito? Come grido di battaglia di una diversa moralità, di una maggiore giustizia sociale?».

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    Un giovane Tiziano Terzani inviato in Cina

    Appunti di un giornalista dal socialismo reale

    A scrivere è Tiziano Terzani, nelle pagine conclusive di Buonanotte, signor Lenin. Pubblicata nel 1992, l’opera di Terzani è il frutto di un viaggio di due mesi attraverso l’Unione sovietica, in dissoluzione proprio in quel periodo. Il fallito putsch contro Gorbaciov lo aveva colto nell’estremo oriente russo, lungo il fiume Amur, al confine con la Cina. Da qui, aveva deciso di muovere verso le Repubbliche dell’Asia centrale che, una dopo l’altra, si stavano liberando dal giogo imperiale, zarista prima e comunista dopo.

    Mi è venuto in mente il brano citato, scritto da un anticomunista, ascoltando in questi giorni le solite affermazioni della destra italiana, moltiplicatesi in prossimità della Festa della Liberazione e tutte tese a evitare di pronunciare la parola antifascismo. Nei ragionamenti dei post fascisti ricorre sempre l’equiparazione di tutti i totalitarismi, che andrebbero condannati in blocco, senza distinguo. Le parole di Terzani centrano il punto. La condanna del comunismo, del socialismo reale divenuto pratica di governo per settant’anni in Unione sovietica, è netta e senza appello. Come nette e senza appello sono state le prese di distanza da parte dei comunisti italiani da tantissimo tempo, dallo strappo di Berlinguer in poi. A continuare a vaneggiare di comunismo è rimasto qualche sparuto e insignificante gruppetto di nostalgici.

    Detto ciò, volere a tutti i costi e a ogni piè sospinto tirare in ballo il comunismo, quando l’argomento in discussione è la dittatura e i crimini perpetrati dal fascismo in Italia, rappresenta solo un esercizio strumentale, che non ha alcuna attinenza coi fatti e con la Storia. Il movimento comunista, come dice Terzani, ha contribuito in Italia al progresso sociale. E non solo.

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    Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

    La destra che attacca la Resistenza

    Qualche balzano ordine di scuderia è stato impartito ultimamente agli scudieri della destra, i quali spesso hanno tirato fuori, incensandolo, l’apporto degli Alleati nella lotta per sconfiggere il nazifascismo nel nostro Paese, con l’unico fine di sminuire quello della Resistenza e del movimento partigiano. La faziosità e la pretestuosità di tale posizione è francamente inaccettabile. Non perché si voglia mettere in discussione l’importanza decisiva dell’intervento alleato. Tutt’altro. Ma tale riconoscimento non può portare a depotenziare il concorso nella lotta di Liberazione delle Brigate partigiane. E tra queste, delle formazioni che idealmente e dal punto di vista organizzativo si richiamavano al Partito comunista. Così come non può essere negata, semplicemente in quanto generata dal travisamento dei fatti, la collaborazione decisiva dei comunisti nella edificazione della Repubblica e nella redazione della sua Carta fondamentale, fondata sull’antifascismo e su principi sociali ed economici innovativi e progressisti.
    Il presidente Mattarella, col suo intervento memorabile di Cuneo, ha tracciato chiaramente e definitivamente i tratti fondativi della nostra democrazia. La speranza è che essa possa diventare adulta nel rispetto della Verità, senza il quale essa rimarrà monca e precaria.