Silvio Berlusconi è morto stamane all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato da venerdì scorso. Aveva 86 anni. Imprenditore, editore, presidente del Milan, fondatore di Forza Italia e tre volte presidente del Consiglio.
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Cosenza ciellina: un amarcord da ciclostile
Via Padre Giglio numero 27, via Rivocati numero 94, piazza Archi di Ciaccio numero 21, via Monte San Michele numero 6, corso Telesio numero 17, sono gli indirizzi di alcune delle sedi del movimento di Comunione e Liberazione a Cosenza, negli anni che vanno dal 1976 al 1989, quando ne facevo parte.
Giovani e impegnati
Ognuno di questi indirizzi è legato a momenti diversi di vita del nostro gruppo di amici, perché eravamo anche amici, dato che passavamo insieme molto tempo, tra gli incontri, i volantinaggi, le manifestazioni pubbliche, la vendita militante della nostra stampa. Per fortuna eravamo amici, quindi abbiamo vissuto con una certa leggerezza o forse incoscienza, la decisione di proporci in città e nella neonata Università della Calabria, ancora in costruzione, come la risposta ai dubbi esistenziali, sociali e politici non solo nostri, ma dell’intera umanità.

Il Polifunzionale dell’Unical Comunione e liberazione: ciclostili mistici
Oggi guardo con indulgenza a quel gruppo di ragazzini che eravamo, in mezzo ad altri gruppi, animati dalle stesse certezze granitiche, ma con riferimenti diversissimi e opposti. Queste convinzioni, queste letture della realtà del nostro tempo venivano messe a punto negli incontri, che avvenivano nelle sedi ricordate prima e in altre ancora.
Come tutte le sedi dei gruppi e dei movimenti politici, l’arredo era piuttosto precario e approssimativo: sedie spaiate, un tavolo, qualche scaffale per la carta e l’inchiostro, necessari per l’indispensabile ciclostile, il top della tecnologia comunicativa degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Preparare un volantino e vederlo uscire, una copia alla volta, dal rullo del ciclostile, era un’operazione solenne, mistica, iniziatica. Solo pochi eletti avevano il permesso e la capacità di manovrare il prezioso apparato, da cui dipendeva il nostro apostolato, la nostra presenza.Il Pantheon ciellino a Cosenza
Sui volantini e pure sui manifesti confezionati artigianalmente, con un pennarello, bisognava ricordarsi di scrivere “manoscritto in proprio”, in fondo, altrimenti si violava non so quale norma del Codice civile. Ne conservo pochi, di questi sbiaditi foglietti, forse se facessi visita all’Ufficio politico della Questura potrei recuperare gli altri, ammesso che in Questura abbiano un archivio ordinato. L’Ufficio politico raccoglieva amorevolmente tutte le stampe, di tutti i gruppi, anche i più sfigati, quelli a cui nessuno dava credito. Per poi studiarli, analizzarli e classificarli, secondo il livello della nostra e altrui pericolosità per l’ordine costituito. Mi piacerebbe anche sfogliare la graduatoria dei gruppi acquisita agli atti.
L’arredo era simile anche nelle sedi degli altri gruppi, di sinistra o di destra.
Monsignor Oscar Romero Cambiavano i poster alle pareti, i ritratti dei santi protettori, Marx, Che Guevara, Evola. I gruppi cattolici tradizionali, ospitati negli oratori parrocchiali, accanto ai simboli religiosi, appendevano un ritratto di monsignor Camara, oppure di monsignor Romero, o di madre Teresa o di Escrivà de Balaguer, secondo le simpatie e gli orientamenti.
Noi ciellini, notoriamente movimentisti, avevamo le sedi, perché le sale parrocchiali erano riservate all’Azione cattolica. Sto elencando questi particolari perché essendo nato nel 1961 temo che le persone un po’ più giovani di me facciano fatica a immaginare cosa fosse la realtà dei gruppi di quei fatidici decenni.Per questo, per colmare la distanza, insieme all’editore Demetrio Guzzardi, che era uno degli spericolati ragazzi di cui sopra, abbiamo predisposto tante schede, come quella che riporta gli indirizzi sopracitati. Le schede fanno parte di un mio libro di 152 pagine, e ci sono quelle dedicate ai libri, alle riviste, a case editrici, luoghi e iniziative (Ciellini ad Arcavacata (1976-1989), Cosenza, editoriale progetto 2000, 2023).
Lo abbiamo fatto soprattutto per noi, per riflettere, dopo quarant’anni, sulla nostra storia, su momenti decisivi per la nostra formazione e la vita successiva, che abbiamo deciso di spendere in Calabria, anche dopo il distacco da Comunione e Liberazione, per una serie di situazioni che sarebbe lungo spiegare. Se non lo si fa dopo quarant’anni, il punto sulla vicenda, poi bisogna affidarsi ai posteri, vallo a sapere se i posteri ne avranno voglia.
Demetrio Guzzardi Formidabili quegli anni a Comunione e liberazione
In quegli anni, in quelle brutte sedi, abbiamo conosciuto gli amici della vita, e pure, in qualche caso fortunato, le compagne della vita. Anche solo per questo ci è sembrato che ne valesse la pena, di affrontare l’impresa, scavando nella memoria e nelle vecchie carte.
Alcune persone non ci sono più, di altre si sono perse le tracce. Con qualcuno ancora capita di incontrarsi e parlare. Non so se è lo stato d’animo dei commilitoni, dei reduci, quello che si prova, quando ci si incontra tra persone legate da una profonda esperienza di militanza e di appartenenza. Esiste ancora oggi un sentimento di questo tipo? Come spiegarlo a chi non l’ha vissuto? Proprio ora che le appartenenze sembrano così vaghe, fluide, affidate ai gruppi sui social. Non usavamo tessere, a differenza di altri movimenti, ma l’appartenenza ci sembrava scolpita nella roccia.
Facendo questo libro, dalle bozze alla stampa, mi sono chiesto quali luoghi, quale sentimento di appartenenza avranno nella memoria i ragazzi, quelli che oggi hanno venti o anche trent’anni.Quando non c’erano i social
I luoghi fisici forse non sono insostituibili, noi ne abbiamo cambiato tanti, ma negli appartamenti ci ritrovavamo a parlare, a confrontarci. Poi continuavamo a parlare pure dopo gli incontri e i volantinaggi, tornando a casa, spesso a piedi. A volte a passaggi o a piedi siamo andati a Bivio Morelli, un sobborgo fuori dai confini comunali che ai tempi era poco urbanizzato e con ampie zone verdi. Lì facevamo una sorta di volontariato, soprattutto con i ragazzini del posto, che secondo noi erano un po’ isolati. Non eravamo gli unici in città a organizzare attività simili. Lo facevano anche altri gruppi, non solo tra i cattolici.
Tutte queste iniziative, incontri, manifestazioni, vendite militanti, presupponevano che le persone si vedessero e avessero tempo e voglia di parlare, di ascoltare almeno, anche per pochi minuti. Oggi le opportunità di comunicare sono infinite e meravigliose, rispetto al nostro glorioso ciclostile. Il problema è convincere l’interlocutore a spostare lo sguardo dal cellulare, togliere le cuffie dalle orecchie, e magari scendere dal monopattino elettrico o da altri aggeggi, che non ho nessuna intenzione di provare a utilizzare.
Oggi i movimenti e i gruppi sono un’altra cosa, mi pare. Tanti, specie quelli politici giovanili, non esistono più, almeno nelle arcaiche forme della militanza e dell’appartenenza a me note. Altri navigano in rete, pare che perfino nelle parrocchie siano in funzione gruppi social, per gli avvisi, per far circolare dei testi, per comunicare gli orari del catechismo. Fede in rete: Hai incontrato Gesù? Sì, No, Non lo so. (Barrare una sola casella).
Le ragazze e i ragazzi di pomeriggio si muovono come formiche operose, secondo gli interessi e l’estro del momento, tra palestre, scuole di calcio, corsi di danza, di musica e di inglese. I bambini vengono trasbordati da una ludoteca all’altra, hanno in agenda tante di quelle feste che fanno concorrenza ai Vip più invidiati. Quale messia potrebbe riuscire a dirottarli verso un cortile, verso un oratorio, verso un centro sociale per un dibattito politico (brividi di orrore al pensiero)? Se anche un volenteroso evangelizzatore si esibisse in una serie spettacolare di miracoli, magari in piazza Bilotti, credo che, al massimo, gli chiederebbero quale ultima versione sta utilizzando. Per la Play Station miracolosa. Questo effetto speciale del miracolo, che applicazione è?
Scuole d’inglese al posto delle sedi di CL
Credo che alcune ex sedi ospitino, attualmente, scuole di alta formazione per la lingua inglese. Ce ne sono così tante in città che, andando a spasso, ci si dovrebbe sentire come a Piccadilly Circus. Invece, per fortuna, mi sento rassicurato quando mi ritrovo nella solita atmosfera mediorientale delle strade della mia giovinezza. Tutti col naso sul cellulare, ci mancherebbe, ma nel consueto pittoresco chiacchierare ad alta voce dei fatti propri e altrui. Privacy in salsa calabra.
Davanti ai bar ci sono i tradizionali gruppi maschili che presidiano il territorio, ci sono i plotoni di ragazzi, e quelli di mezza età in fuga dai problemi di famiglia, poi i vecchi, veterani della riserva. Le ragazze seguono altri misteriosi percorsi, i due schieramenti si vedranno di notte. Di notte niente più libri sul comodino. Solo gli sfigati possono leggere di notte.
L’atmosfera mi tranquillizza sul successo dei corsi di inglese di altissimo livello. Forse quelli che superano gli esami, B2 e C2, poi vanno via, a Piccadilly Circus, Oxford, Cambridge e dintorni. Cosa dovrebbero fare, a Cosenza, col loro impeccabile accento di Oxford?
Una manifestazione di Comunione e liberazione Che fine hanno fatto volantini, megafoni e striscioni?
I cellulari e la rete ci assicurano il posto nel terzo millennio, ma cosa ci portiamo dietro? Con quale bagaglio affrontiamo la globalità? Abbiamo lottato con sgomento per padroneggiare il Pc e il mouse, trenta anni fa, sapendo che era in gioco il nostro posto nel mondo.
La mia classe di ferro, 1961, la più numerosa del secolo, conserva ancora memoria del tempo arcaico del ciclostile, del telefono a gettoni, delle contrapposizioni ideologiche. Tutti tenevamo a essere diversi, a sbandierare i nostri testi sacri. Ogni gruppo aveva i suoi.
Dovremmo fare ancora uno sforzo per recuperare il nostro vissuto. Cosa accadeva nelle sedi degli altri gruppi? Quale modello di ciclostile utilizzavano? Cosa pensavano, gli altri, di noi? Cosa ne è stato dei più fieri e intransigenti contestatori? Quale buco nero ha inghiottito tutti i volantini, i megafoni, gli striscioni, le tessere e le agende su cui stavamo a scrivere come forsennati? E la nostra pretesa di leggere la realtà e giudicarla era solo assurda? Quelli che ci giudicavano degli esaltati avevano ragione? Bisogna stare con i piedi per terra? Cosa rimane di quegli anni? Come raccontarli ai ragazzi e alle ragazze della movida notturna? -

Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia
Il ricordo più visibile che gli ha dedicato Cosenza è una strada abbastanza importante, di cui condivide l’intestazione con suo padre Francesco. I più la conoscono perché c’è la sede dell’Azienda sanitaria provinciale e perché la sera ci si ritrovano i ragazzi, come si faceva una volta a piazza Kennedy.
Altri ne ricordano il nome per averlo incrociato nella Parte generale di qualche manuale di Diritto penale, ma non ricordano il perché, tranne qualche giurista più anziano e colto. In realtà, Bernardino Alimena meriterebbe di più. Anche della retorica con cui lo celebra in qualche circolo .
Per capire perché, partiamo da alcune domande banali (e basilari): delinquenti si nasce o si diventa? Perché si delinque? È vero che la tentazione fa l’uomo ladro?
Bernardino Alimena Emergenza criminale fin de siècle
Rispondere, più che impossibile, sarebbe ridicolo: tuttora i criminologi si scervellano su questi argomenti. Ma a fine Ottocento, quando Alimena elaborava le sue teorie giuridiche, questi problemi erano ancora più pressanti: l’Italia non aveva fatto a tempo a nascere, che subito fu costretta ad affrontare la sua prima emergenza criminale.
Il banditismo, già endemico in parecchie zone, si politicizza ed evolve in brigantaggio, la prima forma di criminalità organizzata. Soprattutto al Sud, ma anche in alcuni ex territori pontifici (Emilia e basso Lazio) e in Toscana.
Anche il resto del Paese non scherza: le grandi città (Napoli, Milano e Palermo) sono insicure, i centri di provincia pullulano di microcriminalità e le carceri si riempiono.A complicare il tutto, c’è l’enorme pressione demografica: dall’Unità al 1890 gli italiani aumentano del 40%.
Quel che è peggio, il Paese non ha strumenti adatti per affrontare quest’emergenza. Si pensi che per avere il primo Codice penale italiano ci vuole il 1871. Stesso discorso per l’omologazione del sistema carcerario e della Pubblica sicurezza.
Questo basta a far capire l’importanza della generazione di giuristi (e non solo) di cui Bernardino Alimena fu un elemento di spicco.
Maria Oliverio detta Ciccilla, celebre brigantessa calabrese Bernardino Alimena figlio di patriota
Alimena, classe 1861, nasce praticamente con l’Italia e respira da subito il Diritto penale: suo padre Francesco, oltre che patriota risorgimentale e deputato per tre legislature (dal 1882 al 1892), è un avvocato famosissimo, dall’oratoria travolgente. Il tipico principe del foro, insomma.
Dopo aver studiato Giurisprudenza a Napoli (un classico per gli aspiranti giuristi dell’epoca) ed essersi laureato a Roma nel 1885, Bernardino prende un’altra strada. Frequenta poco i Tribunali, a cui preferisce la ricerca e si dà alla politica, dove, grazie anche al peso del suo cognome, ottiene risultati apprezzabili: diventa prima consigliere comunale di Cosenza e poi, nel 1889, sindaco. Il primo non di nomina regia ma eletto direttamente dai cittadini.Ma la teoria giuridica resta il suo pallino, come testimoniano le tante pubblicazioni e, soprattutto, gli incarichi accademici. Nel 1889 ottiene la libera docenza di Diritto penale a Napoli a cui aggiunge, l’anno successivo, quella in Procedura penale. Ma, a causa degli impegni della ricerca e (soprattutto) della politica, inizia i corsi solo nel 1894, con una prolusione dal titolo significativo: La scuola critica di diritto penale. Non la citiamo a caso: sin dal titolo, contiene l’abc dell’Alimena-pensiero.
Il salto di qualità avviene nel 1898, quando il giurista cosentino ottiene la docenza straordinaria in Diritto penale all’Università di Cagliari e, infine, quella ordinaria nella medesima materia a Cagliari.
Nel mezzo, c’è un popò di pubblicazioni dai titoli (e dai contenuti) pesanti. Più una serie di polemiche che hanno un bersaglio ben preciso: la Scuola positiva del Diritto penale, che in quel momento va per la maggiore, e, soprattutto, il suo fondatore, Cesare Lombroso.
Il monumento a Cesare Lombroso Il primo fu Lombroso
La tradizione penale italiana ha avuto almeno tre grandi iniziatori: i milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri e il napoletano Gaetano Filangieri.
Sono i capicorrente della Scuola classica, che concepisce il diritto penale come un sistema di difesa dell’individuo dal potere. A fine ’800 le loro tesi non servono più, se non a motivare le arringhe degli avvocati.
Di fronte alla criminalità di massa, occorre altro. Vi provvede per primo, appunto, Cesare Lombroso, che formula la celebre tesi dell’atavismo criminale.Lombroso, che è un medico e non un giurista, ha essenzialmente un merito: sposta l’attenzione dal reato al reo. In altre parole, studia i delinquenti e mette in secondo piano i delitti. Il delinquente, secondo la teoria lombrosiana, è tale o perché costretto dalle circostanze, o perché ha tendenze naturali (innate ed ereditarie) a delinquere.
Il primo è una persona normale, a cui si può applicare il diritto; il secondo è un deviante per nascita, che al massimo può essere isolato dalla società per il suo stesso bene.E qui arrivano gli aspetti più “piccanti” e controversi del pensiero lombrosiano. Innanzitutto, l’atavismo criminale, che si riconosce da alcuni difetti fisici del reo (la fronte bassa, gli arti tozzi, la celebre “fossetta occipitale mediana”, gli zigomi pronunciati, il mento troppo sfuggente o troppo prominente, ecc.).
Da qui al rischio di un razzismo sotto mentite spoglie il passo sarebbe breve. Ma, ad onor del vero, va detto che Lombroso non l’ha mai fatto: non ha mai detto che un popolo o una razza è potenzialmente più criminale di un’altra.
Il Museo Lombroso di Torino I limiti del positivismo
I limiti di questo pensiero, semmai sono altri. Il positivismo, innanzitutto, minimizza il ruolo della volontà e del libero arbitrio: il delinquente nato non può che delinquere per vocazione. Poi riduce la funzione della pena a una sola cosa: la difesa sociale.
In questa visione determinista, quasi meccanica, il ruolo del giurista è ridimensionato a favore di quello dell’antropologo.
Il giurista, in altre parole, serve a punire o ad assolvere la persona normale, che è punibile (e quindi rieducabile) perché dotato di volontà e capacità di scelta. Lo scienziato serve a identificare il delinquente nato che, ripetiamo, può solo essere isolato. Fine della storia.
Le teorie lombrosiane, per quanto celebri e dibattute, hanno inciso poco nel mondo giuridico. La loro vera utilità è stato lo stimolo alla polizia scientifica, inaugurata in Italia da Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso. A questo punto, torniamo a Bernardino Alimena.Bernardino Alimena e la Terza scuola
Reprimere i reati non è roba da medici o antropologi. Tocca ai giuristi. È, in parole povere, il concetto sostenuto da Alimena che, assieme a Emanuele Carnevale e Giovanni Battista Impollimeni, fonda la Terza scuola o Scuola critica.
Questa è un mix tra le due correnti precedenti. In pratica, Alimena&Co saccheggiano qui e lì ed elaborano una visione più avanzata e meno rigida sia del garantismo settecentesco sia del positivismo lombrosiano.
Il primo concetto su cui agisce Alimena è il libero arbitrio, che per lui è la capacità di fare ciò che si vuole. Per Lombroso, al contrario il libero arbitrio è capacità di volere una cosa anziché un’altra. Nello specifico di delinquere o meno, cosa che è preclusa al delinquente nato.
Salvatore Ottolenghi Bernardino Alimena vs Cesare Lombroso
Ancora: per i positivisti lombrosiani, il comportamento antisociale del delinquente è tale solo in rapporto alle regole della società. Per Bernardino Alimena, invece, i comportamenti antisociali sono valutabili in due modi: filosofico e morale, perché esiste comunque un senso assoluto del bene e del male, e sociale. Di questo aspetto, appunto, si occupa il Diritto penale.
Ma quando un delinquente è davvero imputabile? Per Lombroso sono imputabili, cioè possono rispondere dei reati ed essere puntiti, solo le persone sane. Per Alimena, invece, sono imputabili tutte le persone capaci di autodeterminarsi e suscettibili di essere dirette anche attraverso la pena. In altre parole: chi teme la pena può sempre essere punito (e, se possibile, recuperato). Ciò vale anche per le persone con tendenze naturali a delinquere. Quindi i criminali atavici, secondo Alimena, sono una minoranza borderline e non la maggioranza dei delinquenti, come invece sostengono i lombrosiani.Un duello internazionale
Tutto questo, oggi sembra facile perché è acquisito. Ma nella seconda metà del XIX secolo è una novità dirompente.
Non a caso, il dibattito tra lombrosiani e terza scuola si svolge dappertutto: in particolare all’estero. Bernardino Alimena partecipa a vari congressi che si svolgono a Parigi (1889 e 1895), San Pietroburgo (1890), Bruxelles (1892 e 1900) e a Budapest (1905).
In questi dibattiti, l’intellettuale cosentino non si limita a criticare Lombroso e la sua scuola. Ma formula proposte pratiche interessanti: tra queste l’istituzione delle giurie popolari e la riforma delle carceri minorili. Tra i tanti altri impegni di Alimena, val la pena di segnalare la partecipazione alla commissione incaricata di redigere il Codice penale del Regno del Montenegro, che nel 1910 proclama l’indipendenza dall’Impero Ottomano.
Nicola I del Montenegro Un notabile in carriera
La parte più conosciuta della vita di Bernardino Alimena è essenzialmente la carriera politica, che tuttavia è poca cosa rispetto all’attività intellettuale.
Oltre alla presenza di lungo corso nel consiglio comunale di Cosenza – che Alimena non ha mai mollato, nonostante la sua attività frenetica in giro per il Paese e in Europa – si segnalano due sue candidature alla Camera.
La prima è del 1909. Alimena vince nel collegio della sua città con l’appoggio dei cattolici, che gli assicurano 999 voti al primo turno e 1.598 al secondo. Tuttavia, il neodeputato non fa in tempo a sedere alla Camera che la giunta per le elezioni gli contesta presunte irregolarità elettorali e annulla il voto.
Ci riprova nel 1913 e becca più voti: 3.737, che però non gli bastano, perché nel frattempo il corpo elettorale si è allargato.Rapporti che contano
Tanta popolarità deriva da due fattori: l’attaccamento alla città e l’impegno culturale, profuso con l’Accademia cosentina, di cui diventa presidente, e attraverso il Circolo di cultura, fondato assieme a Pasquale Rossi.
Anche l’appartenenza al notabilato dell’epoca ha il suo peso. Al riguardo, non è certa l’appartenenza di Bernardino Alimena alla massoneria. Ma i rapporti che contano li ha tutti. Ad esempio, con Luigi Fera e Bonaventura Zumbini, di cui sposa la nipote Maria nel 1897.
Muore nel 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
Lascia uno stuolo di ammiratori, tra cui Alfredo Rocco, astro nascente della scienza penale e futuro autore dei codici penale e di procedura penale. Rocco definirà Alimena «soprattutto un cultore di psicologia e sociologia criminale, non giureconsulto in senso stretto». Come dire: troppo colto per essere solo un giurista. Mica male come complimento.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza. -

Operazione Chiacchiera: i 16 mesi che non cambiarono la Sanità calabrese
Qualche giorno fa Roberto Occhiuto ha presentato alla stampa l’Operazione verità sulla sanità in Calabria. Il presidente e commissario alla Sanità ha comunicato che negli ultimi 16 mesi si è proceduto all’assunzione di 2.191 unità di personale: 1.450 a tempo indeterminato e 741 precari stabilizzati, ai quali bisogna aggiungere 1.080 lavoratori a tempo determinato. I dati sono stati presentati sotto forma aggregata per il periodo Gennaio 2022-Aprile 2023.
La dichiarazione che ha accompagnato le cifre è stata: «Non c’è mai stata una attività tanto imponente in tutti gli anni di commissariamento».Se da un lato è apprezzabile che finalmente anche in Calabria si affrontino le questioni politiche e sociali partendo dall’evidenza dei dati, dall’altro sarebbe più giudizioso presentarli in una forma facilmente verificabile. Ad esempio, la pratica corrente nelle rilevazioni statistiche è raggruppare i dati su base annuale, o trimestrale, al fine di facilitare la comparazione e la proiezione immediata con i dati storici esistenti. Dover analizzare un periodo di 16 mesi risulta più complesso, ma con gli strumenti giusti si può.
Sedici mesi alla prova del nove
Per verificare l’andamento del reclutamento del personale in ambito sanitario, ed in generale della PA, si può accedere al sito della Ragioneria dello Stato denominato OpenBDAP. Questa piattaforma offre un panorama dettagliato su assunzioni, cessazioni, lavoro flessibile, con dettagli per ogni ente. I dati sono aggiornati solo quando sono definitivi e consolidati, pertanto al momento si fermano al 2021. Ciò è tuttavia sufficiente per costituire uno storico delle assunzioni nelle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere della Calabria. In generale si osserva che dal 2015 in poi si sono assunte annualmente circa un migliaio di unità di personale, con un debole ma costante aumento. Più di recente, nel 2019 si sono registrate 1.246 assunzioni, nel 2020 1.349 assunzioni e nel 2021 1.525 assunzioni.

La sede della Ragioneria Generale dello Stato Al fine di verificare se si tratti effettivamente di numeri “straordinari” prendiamo come riferimento di calcolo il 2021. Come accennato sopra, si sono realizzate 1.525 assunzioni che suddivise in 12 mesi corrispondono a 127 assunzioni mensili. Moltiplichiamo per 16, ovvero il numero di mesi a cui ci si è riferiti con l’operazione verità, il risultato è 2.033. Ça va sans dire, le 2.191 assunzioni effettuate tra gennaio 2022 ed aprile 2023 sono assolutamente in linea con l’andamento del recente passato.
Calabria, la Sanità di Occhiuto: straordinaria ordinarietà
Comunicare la straordinarietà di un risultato ordinario può rivelarsi assolutamente controproducente. In realtà, ci sarebbe bisogno di chiedere ai “tavoli romani” un piano straordinario per le assunzioni, al fine di allineare il personale del SSR calabrese alla media del resto d’Italia ed in tal modo compensare gli squilibri causati dal Piano di Rientro. La carenza di professionisti è sicuramente tra le criticità principali che ostacola l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza ai cittadini calabresi. Ad oggi, non c’è struttura sanitaria operante sul territorio regionale che non sia sottodimensionata in rapporto al proprio fabbisogno di personale.
Tempi per le assunzioni da umanizzare
La narrazione della Calabria Straordinaria deve fare i conti anche con la realtà di altri dati, come le tempistiche necessarie per finalizzare le procedure concorsuali: negli ultimi 3 anni l’ASP di Cosenza ha impiegato in media quasi mille giorni dalla pubblicazione del bando alle graduatorie finali. Senza trascurare il fatto che la maggior parte delle procedure avviate tra il 2021 ed il 2023 sono completamente ferme.

L’ingresso dell’Asp di Cosenza – I Calabresi (foto C. Giuliani) A ciò si aggiungono le sfide del PNRR: si dovrà creare – a partire da zero – la rete dell’assistenza territoriale. La Calabria ha previsto 100 nuove strutture tra Case di Comunità, Ospedali di Comunità e Centrali Operative Territoriali, il loro funzionamento richiederà quasi un migliaio di nuove unità di personale tra infermieri, medici, OSS e personale amministrativo, tutte da reclutare.
Occhiuto e la Sanità in Calabria: operazione chiacchiera?
Occhiuto non ha certamente la bacchetta magica per risolvere problemi decennali della Sanità in Calabria. Ma ha sicuramente poteri decisionali che nessuno dei suoi predecessori ha avuto, oltre al sostegno del Governo. Difficilmente chi frequenta o lavora negli ospedali calabresi ha percepito la boccata di ossigeno celebrata dalla maggioranza che sostiene Occhiuto. Iniziative come Azienda Zero, Sanibook e Rilevatori dell’Umanizzazione sembrano creare nuovi problemi anziché risolvere i vecchi.
“Operazioni verità” e tabaccherie ‘e lignamme ‘o Banco ‘e Napole nun ne ‘mpegna.Enrico Tricanico
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Grande Cosenza: quanto fa paura la città unica?
Iniziamo dall’ultimo capitolo del dibattito sulla Grande Cosenza. Per la precisione, dal convegno, intitolato senza troppa fantasia Fusione dei Comuni, svoltosi a Rende il 31 maggio. Cioè nella città che più teme di confluire nel Comune unico assieme a Cosenza e Castrolibero perché considera la fusione un’annessione tout court al capoluogo.
E forse e così e i timori non sono infondati. Tuttavia, nel dibattito, promosso dai gruppi di opposizione, non è emerso un no secco. Ma il classico “ni”: un disegno di legge regionale alternativo a quello proposto da Pierluigi Caputo e approvato a Palazzo Campanella il 23 maggio.
Ni, in questo caso non è “sì ma”, bensì un altro modo per dire no. Infatti, il ddl, elaborato dal demagistrisiano Andrea Maria Lo Schiavo e dal grillino Davide Tavernise, rimette dalla finestra ciò che la legge Omnibus aveva cacciato dalla porta: il ruolo centrale (ovvero il potere decisionale) dei Comuni e, soprattutto, dei cittadini. Che possono dire sì o no alle fusioni anche a discapito delle delibere dei loro municipi.
Tutto il contrario di quel che prevede la recente, criticatissima, normativa della Regione, che invece bypassa Consigli e Giunte e dà un valore consultivo ai referendum popolari.
Pierluigi Caputo, il primo firmatario della legge Omnibus Grande Cosenza: c’è chi dice nì
Facciamo una carrellata del tavolo rendese: tolti i due consiglieri regionali, che non hanno rapporti diretti con l’area urbana, sono tutti protagonisti di primo piano della politica Rendese. A partire da Sandro Principe, che incarna la memoria storica della città, a finire a Massimiliano De Rose. Passando per l’evergreen Mimmo Talarico.
Nessuno di loro può dire no all’idea della grande Cosenza. Soprattutto per un motivo: il progetto fu lanciato negli anni ’80, in piena golden age del socialismo rendese, dall’allora sindaca Antonietta Feola. E, per quel che riguarda Principe, è doveroso ricordare i dibattiti (e i bracci di ferro) col vecchio Giacomo Mancini sull’area urbana e, in prospettiva, sulla città unica.
Durante il dibattito rendese le associazioni hanno dichiarato guerra e si preparano alle carte bollate per stoppare il referendum. Parrebbe, così ha confermato il docente Unical Walter Nocito, con buone possibilità di successo.
Ma il problema reale non è giuridico né tecnico (anche se diritto e amministrazione hanno un peso non proprio secondario): è politico.
Sandro Principe Le leggi? Pesano ma…
Il dibattito sulla fusione, variamente definita “a freddo” o autoritaria, si può dividere in due fasi: prima e dopo il 22 maggio, giorno della contestata approvazione della legge Omnibus.
Nel prima, si sono sentiti tutti in dovere di impartire lezioni di Diritto costituzionale. Sulle quali non è il caso di impegnarsi troppo. Giusto una battuta per dire che la legge Omnibus è costituzionale solo perché il Titolo V della Costituzione, riformato nel 2000, è piuttosto ambiguo e permette queste e altre soluzioni. Meglio ancora: la fusione a freddo è legittima come lo è l’autonomia differenziata.
Il dato più importante della legge per la città unica è la deadline: 1 febbraio 2025. Venti mesi in cui organizzare i referendum (di cui la Regione può non tener conto), predisporre il nuovo organigrammi amministrativi. E, infine, andare al voto in un quadro mutato del tutto, con aggregazioni politiche diverse e leadership storiche che saltano. Mettiamo da parte (per ora) le dietrologie e andiamo al succo: i numeri.Il grande massacro a Cosenza
Per Cosenza, sulla carta, non cambia nulla. Quindi cambia tutto. Il Consiglio comunale della nuova città avrà 32 componenti. Gli stessi dell’attuale capoluogo.
Ma questi consiglieri saranno spalmati su 109.149 abitanti, in pratica la somma delle anagrafi dei tre Comuni in fusione.
Caliamo questi numeri nella realtà politica delle tre città. Franz Caruso è diventato sindaco di Cosenza nel 2021 con 14.413 voti. Cioè col 57,6% dei votanti.
A questo punto calcoliamo in maniera ipotetica gli aventi diritto al voto della città unica, che con una certa prudenza sarebbero il 75% degli abitanti. Cioè 81mila e rotti. Quindi, per diventare sindaco della città unica Caruso dovrebbe prendere 48mila voti e rotti. Più di tre volte tanto.
Franz Caruso (foto Alfonso Bombini) Manna è stato confermato sindaco di Rende nel 2019 con 9.217 voti, ovvero il 57,13% dei votanti. Nella nuova città dovrebbe prenderne più o meno come Caruso. Ma per lui lo sforzo sarebbe enorme: sei volte tanto i voti del 2019.
La situazione più estrema è quella di Orlandino Greco, tornato sindaco di Castrolibero alcuni giorni fa con 4.143 voti, ovvero il 77,7% dei votanti. Proiettare il suo dato sulla città unica è una cattiveria inutile…
Ma il vero gioco al massacro riguarderebbe i consiglieri. Sui quali si può fare un calcolo grossolano, astratto ma semplice: la divisione degli aventi diritto per 32. In parole povere, ci vorrebbero 2.531 elettori per fare un consigliere.
Questa soglia, grossolana e astratta metterebbe in serie difficoltà tutti i mattatori del voto delle tre città, a partire da Francesco Spadafora, il consigliere cosentino più votato. O, sempre per restare a Cosenza, un altro big delle urne come l’immarcescibile Antonio Ruffolo, alias Mmasciata, alias Lampadina.Una strana legge
I sostenitori della legge Omnibus hanno quindi ragione su un punto: chi contesta lo fa anche per il timore di perdere la poltrona. Comprensibile in chi è sindaco da poco e gestisce una situazione finanziaria pesante (Caruso) o in chi è tornato primo cittadino da pochissimo, con tante voglie di rivalsa (Greco),
Anche i critici hanno la loro buona fetta di ragioni: il meccanismo della legge Omnibus non è quel modello di democrazia. A dirla tutta, innesca un processo senz’altro dirigista (direbbero quelli bravi), che funziona davvero dall’alto verso il basso e dà alla Regione (o meglio, a chi ne controlla la sala dei bottoni) un potere di impulso notevole, praticamente inedito in Italia.
Per di più, questo meccanismo sarebbe replicabile su tutto il territorio, con i dovuti adattamenti, se l’esperimento cosentino andasse bene. E ciò scatena le critiche più tardive, ad esempio quella di Fausto Orsomarso, che ha steccato nel coro del centrodestra all’ultimo momento utile.
Marcello Manna (foto Alfonso Bombini) I maligni (e bene informati) sussurrano due cose. La prima riguarda il rapporto tra il senatore di Fdi e Orlandino: quest’ultimo avrebbe sostenuto il Faustone di Calabria nella corsa a Palazzo Madama e SuperFausto si sarebbe “disobbligato”. La seconda tocca, invece, i rapporti tra il senatore meloniano e vari sindaci di Comuni bonsai, che potrebbero cessare di esistere in seguito a fusioni più o meno “coatte”. I soliti maligni riferiscono di solidi legami, maturati durante gli assessorati regionali di SuperFausto.
Ovviamente nessuno ce l’ha con Orsomarso: il suo, se confermato, è solo un esempio ripetibile sulla totalità dei consiglieri regionali attuali. In pratica, le fusioni biturbo potrebbero devastare la cinghia di trasmissione del potere e dei relativi consensi dal Pollino allo Stretto. Di più: potrebbero diventare uno strumento particolarmente acuminato e low cost in mano ai vari inquilini dei piani alti di Germaneto per disegnare il territorio regionale a proprio uso e consumo.
Fausto Orsomarso (foto Alfonso Bombini) Cosenza, grande ma zoppa (e artritica)
Torniamo al presente più immediato. L’area urbana che si appresta a diventare città è una zona in crisi grave. Politica, amministrativa e di leadership.
Andiamo con ordine. Il dissesto di Cosenza è più che noto. E sono altrettanto note le attuali difficoltà finanziarie del capoluogo, che proprio non riesce a smaltire il suo passivo. Detto questo, Rende sta meglio ma non troppo: nonostante gli annunci dell’attuale amministrazione, la città del Campagnano non è ancora fuori dal predissesto. Nei fatti, la situazione è uguale a quella cosentina (sebbene con prospettive meno gravi): tasse a palla.
Passiamo al livello politico. Al momento, il Comune più stabile è Cosenza. Rende, al contrario, è decapitata a livello politico e decimata a livello amministrativo dalle inchieste della magistratura. E la situazione potrebbe peggiorare: i soliti maligni, che coincidono coi bene informati, considerano prossimo lo scioglimento per mafia.
Dalle vicissitudini giudiziarie emergono i problemi di leadership. Sotto quest’aspetto, l’unico a non avere guai è Franz Caruso. Il quale, tuttavia, a dispetto di una lunga militanza nell’area socialista, non ha il peso necessario per guidare l’eventuale amalgama tra le tre città.Sindaci nei guai
Sul caso di Marcello Manna, che da sindaco alla fine del secondo mandato (quindi non ricandidabile a Rende), avrebbe potuto coltivare altre ambizioni, sono necessarie considerazioni più complesse. È vero che Manna, “nato” col centrodestra, ha goduto in realtà di un appoggio bipartisan. Tuttavia, i suoi incidenti giudiziari (per i quali è doveroso il massimo garantismo) azzoppano non poco ogni ipotesi, reale o virtuale.

Orlandino Greco Più sfumato il discorso su Orlandino Greco (per il quale vale il medesimo garantismo). Il neo ri-sindaco di Castrolibero affronterà entro la fine dell’estate alle porte l’ultima udienza del processo di primo grado in cui è imputato per presunti fatti di mafia. È un primo cittadino sub iudice, le cui vicende potrebbero condizionare non poco, nell’ipotesi peggiore, la stabilità amministrativa del suo Comune.
Discorso simile, ma non troppo, per il convitato di pietra del dibattito furioso che ha accompagnato l’approvazione della legge Omnibus: Mario Occhiuto. Secondo molti, l’ex sindaco di Cosenza è il potenziale primo-cittadino “ombra” della città unica. Tuttavia, la recente condanna in primo grado, frena le ambizioni, che il diretto interessato non ha confermato (ma neppure smentito in pubblico).Rende l’anello debole della grande Cosenza
In tutto questo, come già detto, l’anello debole è Rende, di cui ancora non è certa l’uscita dal predissesto ed è invece probabile, così dicono i malevoli, lo scioglimento per presunte infiltrazioni mafiose.
Se ciò avvenisse, Rende arriverebbe alla fusione senza alcuna guida politica, neppure quella supplente dell’attuale facente funzioni Marta Petrusewicz. Ma, anche a prescindere dai terremoti giudiziari, la città del Campagnano rischierebbe di perdere non poco del proprio peso socio-economico. Vediamo come.
Innanzitutto, perché diventerebbe la periferia est della nuova città unica, che nella versione attuale non include Montalto Uffugo. In seconda battuta, perché rischierebbe di perdere non pochi servizi, che finirebbero inghiottiti dal dissesto del capoluogo. Infine perché la mancata inclusione di Montalto esaspererebbe la competizione, già in corso, tra i due territori ad est dell’area urbana.
Marta Petrusewicz Montalto contro Rende?
Questa competizione, in primo luogo è fiscale: le zone industriali di Rende e Montalto hanno una perfetta continuità geografica. Ma Montalto costa meno a livello di tasse e ciò, nel recente passato, ha provocato l’“emigrazione” di varie attività da Rende.
A questo si deve aggiungere l’attrattiva delle nuove infrastrutture, progettate nel territorio montaltese: la stazione ferroviaria per l’alta velocità e il nuovo svincolo dell’autostrada. Tutto ciò potrebbe trasformare la concorrenza, già aggressiva, in dumping vero e proprio. Fuori dalla città unica, Montalto continuerebbe a crescere a danno di Rende.
La mappa politica della città unica (senza Montalto) Inizia la battaglia
I tre sindaci interessati dalla fusione promettono guerra. E le associazioni iniziano a muoversi con una certa cattiveria.
Tutti i pronostici, al momento, sono prematuri. Giusto una considerazione per chiudere: da oggetto del desiderio, la grande Cosenza è diventata motivo di discussioni infinite. Che però non spostano di una virgola la portata del problema: l’anomalia di una delle province più grandi d’Italia che fa capo a una città sempre più piccola e frazionata in 150 Comuni, di cui solo 14 superano i 10mila abitanti. Qualcuno, prima o poi, dovrà metterci mano. O no? -

Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli
Come ho già ricordato, a Girifalco sorse la primissima loggia massonica d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra). E lì vicino, a Parghelia, nacque pure Antonio Jerocades, l’abate eretico tra i primissimi “grembiuli” della Penisola. Si può aggiungere un terzo vertice e formare – com’è giusto (e perfetto) che sia – un triangolo: un massone di spicco nacque infatti a Cardinale, lì tra le montagne a metà strada tra Pizzo e Soverato, a due passi da Serra San Bruno e da quella Chiaravalle Centrale che decenni fa era – per i bibliofili – sinonimo di Frama-Sud sul colophon di certi volumi ormai introvabili. Si tratta di Francesco De Luca.

Cardinale in una foto di qualche decennio fa Da Catanzaro a Napoli e ritorno
Giustamente ci si chiederà: “quale Francesco De Luca?”, dal momento che credo si tratti della combinazione onomastica più diffusa in Calabria… Si tratta di quello nato il 2 ottobre 1811 in casa del farmacista liberale Martino De Luca e di sua moglie Maria Carello. Una famiglia solida e prolifica, la loro, dato che il piccolo Francesco avrà poi altri nove fratelli più piccoli (Eugenio, Giovanna, Vincenzo, Elisabetta, Isabella, Sebastiano, Caterina, Domenico e Giuseppe Maria). E, soprattutto, una famiglia di formazione illuministica e positivistica. Non a caso, Francesco fu indirizzato subito agli studi e si diplomò al Liceo Galluppi di Catanzaro per poi laurearsi in Fisica – ovviamente a Napoli – nel 1832 e in Diritto – sempre a Napoli – nel 1835.

Palazzo Loffredo, ex sede del Real collegio di Potenza Tuttavia, nonostante il milieu borghese e le entrature che certamente non gli saranno mancate, Francesco De Luca non torna vincitore dai concorsi per l’insegnamento – né in Fisica né in Diritto Civile – presso il Real Collegio di Potenza. Ripiega quindi verso il capoluogo natio, dove si dedica all’insegnamento privato.
Decurione di Catanzaro, questa fin troppo libera docenza gli concede però il tempo di scrivere alcune opere di matematica, metrologia ed economia nonché di incominciare a svolgere la meno libera professione d’avvocato – anche per conto del Ministero delle Finanze – presso la Gran Corte Civile delle Calabrie, patrocinando poi anche in Cassazione nell’ambito del diritto commerciale.Francesco De Luca, il ribelle anticlericale
Fin qui nulla di tanto strano: sembrerebbe la normale biografia di un medio notabile di provincia. Ma c’è dell’altro: Francesco De Luca non aveva mai troncato i contatti con l’ambiente politico liberale napoletano né poi con quello mazziniano. Amico di Francesco De Sanctis e dei patrioti Luigi Settembrini, Carlo Poerio e Camillo De Meis, partecipa infatti ai moti risorgimentali difendendo le barricate alzate dai popolani, il 15 maggio 1848, dinanzi alla chiesa napoletana di Santa Brigida, sul retro dell’attuale Galleria Umberto I. Fu questa esperienza rivoluzionaria che gli suggerì di scrivere un saggio, Della educazione politica de’ popoli del Regno di Napoli (Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1848). Al suo interno De Luca esprimeva l’avversione verso l’assolutismo e la gerarchia ecclesiastica, auspicava che tutti i beni di questa passassero ai Comuni e che si limitasse il numero dei prelati.

“Il 15 del maggio in Napoli”, litografia di Ferdinando Perrin (1851) sui moti del 1848 Comincia dunque a delinearsi meglio la sagoma di un Francesco De Luca anticlericale e ribelle. Proprio per questi scritti lo arrestano nel 1852 con l’accusa di “detenzione di carte, stampe e libri criminosi e varie lettere di corrispondenza con persone emigrate”. Prosciolto e scarcerato dietro cauzione nel 1853, assieme ai suoi fratelli Vincenzo e Domenico, De Luca raggiunse la Francia passando attraverso la Corsica, e stabilendosi in esilio a Parigi presso il fratello Sebastiano.
La proposta a Garibaldi
Ma nel 1859 Francesco De Luca è già di nuovo a Napoli, gomito a gomito con Giuseppe Garibaldi al quale propone la soluzione federalista. Auspica la nascita di una Camera del Meridione che avrebbe evitato il plebiscito unitario, ritenuto pericoloso per la fusione delle terre meridionali al contesto subalpino. Eh, quale illuminazione e lungimiranza!
Fu così che De Luca divenne Consigliere Provinciale nel 1861. Nello stesso anno venne eletto al Parlamento nelle file della Sinistra, nel collegio di Serrastretta, rimanendo alla Camera fino alla morte (rieletto poi anche nei collegi di Napoli, Chiaravalle Centrale, Molfetta e Minervino Murge).Francesco De Luca, un meridionalista alla Camera
Alla Camera fu difensore degli interessi del Mezzogiorno, nonché uno dei maggiori esperti nelle questioni economiche e finanziarie: presentò tre progetti di legge, “Sul riordinamento della compilazione Statistica nel Regno d’Italia”; “Sui tributi diretti erariali”; e sulle “Modificazioni al sistema dei tributi diretti”. Vicepresidente della Camera nel 1866 nonché Vicepresidente e Presidente della Commissione generale del bilancio in sette diversi mandati, Francesco De Luca votò a favore del trasferimento della Capitale a Firenze e capeggiò il gruppo dei “deluchisti”, ovvero quella «Sinistra Giovane» particolarmente attiva nel votare in favore di leggi che venissero incontro al Meridione.

Francesco De Luca nei suoi primi anni da parlamentare Nel 1869 fece il possibile affinché da Serrastretta potesse transitare la nuova Strada Statale n.19 delle Calabrie ma prevalse la scelta proposta da Giovanni Nicotera, il quale impose il tratto stradale Soveria Mannelli – Decollatura – Platania – Nicastro – Maida. Quando, infine, la Sinistra Storica e la Sinistra Giovane presentarono un programma unitario, De Luca non accettò il compromesso a causa di – come scrisse De Sanctis – «soverchia rigidità nei principii e per l’inflessibilità del suo carattere, mirando diritto e sdegnoso delle linee curve».
La massoneria e lo scontro con Carducci
Fin qui la politica. E poi c’è la massoneria. Nel frattempo, infatti, Francesco De Luca si affiliò nel 1862 alla Loggia «Sebezia» all’Oriente di Napoli – su probabile suggerimento e invito dell’arciprete calabrese Domenico Angherà, che ne fu Maestro Venerabile fino al 1873 –, passando poi alla «Dante Alighieri». Nel dicembre 1862 fu tra i promotori del Gran Concistoro dei Sovrani Principi della Valle di Torino e fu membro del Gran Concistoro italiano costituito nel marzo 1863.
Tenne inoltre la presidenza della Costituente massonica riunita a Firenze dal 21 al 23 maggio 1864, durante la quale Garibaldi si dimise dalla Gran Maestranza del Grande Oriente d’Italia. In quell’occasione lo stesso De Luca fu nominato nientemeno Reggente, in carica dal settembre 1864 fino al 18 maggio 1865.
Durante tale riunione fiorentina delle diverse Logge massoniche italiane di diverso rito, De Luca ne auspicò una fusione che ammettesse anche candidati cattolici e socialisti. Un auspicio, questo, che lo portò a scontrarsi duramente con Giosuè Carducci, assolutamente fedele al massonismo più nazionalista e anticlericale.La quadratura del… triangolo
De Luca divenne infine Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia il 28 maggio 1865, in chiara ottica antipapale. Ricoprì il ruolo fino al 20 giugno 1867, quando lo delegarono a rappresentare il Grande Oriente d’Italia al Congresso della pace di Ginevra. Tornò poi alla meno impegnativa carica di Maestro Venerabile presso la loggia “Masaniello”, ovviamente all’Oriente di Napoli. Durante il 1866 aveva peraltro costituito in Grecia, assieme a sette logge italiane, il Centro Massonico di Atene, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, che l’anno dopo diventò indipendente con il nome di Grande Oriente Ellenico. Niente male, insomma, per un intellettuale come tanti, arrivato dalla periferia del Regno.

Ora, non vorrei rovinare la perfezione del triangolo di cui parlavo in apertura, ma se aggiungessimo un altro vertice potremmo anche fare quadrato e menzionare velocemente la vicinissima Petrizzi, patria di un altro Gran Maestro, di un’altra massoneria italiana, quella di Piazza del Gesù: Saverio Fera. Due Gran Maestri a 15km e una quarantina d’anni di distanza: primato mica da poco, per i figli di due minuscoli paesini quali erano Cardinale e Petrizzi rispettivamente nel 1811 e nel 1850.
Francesco De Luca e i suoi fratelli
Ma torniamo a De Luca: dei suoi fratelli, Vincenzo si distinse nella repressione del brigantaggio, Domenico fu oculista insigne, Giuseppe Maria geografo e socio dell’Accademia dei Georgofili, Eugenio docente presso l’Accademia Militare della Nunziatella e Sebastiano fu professore di Chimica nelle Università di Pisa e Napoli, Direttore dell’Ateneo Italiano di Parigi e infine nominato senatore del Regno nel 1880 in quanto membro della Regia accademia delle scienze.

Cardinale, il monumento massonico in ricordo di Francesco De Luca Quanto a Francesco, ammalatosi nel novembre del 1873, morì a Napoli il 2 agosto 1875 e per sua espressa volontà fu sepolto nella Chiesa matrice di San Nicola, a Cardinale. Essendo tuttavia stato esponente di massimo rango della massoneria, l’arcivescovo di Catanzaro ordinò di tumularlo presso il cimitero comunale e senza esequie religiose. Con buona pace dell’arcivescovo, lo commemorarono alla Camera il 15 novembre 1875. Nel tempo gli hanno intitolato alcune vie a Serrastretta e a Palermiti (Catanzaro), nonché una piazza a Cardinale e la casa massonica di Catanzaro.
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Sparrow, 10 anni corsari a Rende
Qualche anno fa si sarebbe scritto okkupato con quella “k” d’ordinanza sulle pareti. Oggi l’ossatura dei centri sociali è profondamente cambiata. Mutata nei linguaggi e nei codici, non nello spirito e nell’impegno di luoghi come Sparrow a Rende. Spa sta per spazio precario autogestito, arrow in inglese è la freccia. Ma non può sfuggire il riferimento al pirata dei Caraibi più famoso del cinema. Interpretato da Johnny Depp.

L’ingresso del centro sociale occupato Sparrow a Rende (foto Alfonso Bombini) Da Zenith a Sparrow
Federico è uno degli attivisti della prima ora. Sparrow nasce con gente come lui, allora studente di Scienze politiche all’Università della Calabria: «La lotta sociale autogestita aveva come base il Polifunzionale, il nostro collettivo si chiamava Assalto». Anni di impegno politico, quelli dell’Onda, per questi ragazzi con l’Aula Zenith diventata catalizzatore di esperienze antagoniste.

Federico, uno dei fondatori dello Sparrow (foto Alfonso Bombini 2023) «Occupata durante la Riforma Moratti, poi rioccupata – ricorda – con le mobilitazioni contro la Gelmini». Cambiano i Governi, resta il solito vizio tutto italiano di mettere mano, provocando danni, alla pubblica istruzione.
Sparrow cresce e resiste, gli accenti sono sempre quelli delle tante Calabrie di stanza all’Unical. Studenti, precari, creativi, sindacati di base come i Cobas con una sede fino a poco tempo fa proprio nel centro sociale. Pochi giorni fa Sparrow ha compiuto dieci anni. Cifra tonda, da farci una festa di due giorni. E così è stato. Nonostante le insidie di una pioggia fuori stagione.
Antonino Campennì, insegna Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università della Calabria (foto Alfonso Bombini) Difendere spazi di libertà
Antonino Campennì, professore di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Unical, spiega perché un presidio così va difeso: «Negli ultimi anni i motivi per vivere un centro sociale sono aumentati. Dalla crisi del 2008 tante cose sono cambiate. Gli spazi di libertà si sono ridotti ulteriormente», complice anche «il lockdown e lo Stato autoritario». Il prof lo dice da «vaccinato». Chiama in causa uno dei problemi centrali delle nostre vite: il capitalismo securitario e quello della sorveglianza.
Oggi la sfida è salvaguardare un perimetro che sia «inattaccabile dai condizionamenti esterni, dalle logiche del mercato, dove- aggiunge Campennì – puoi comprare una birra e ascoltare un concerto con pochi euro».
L’ex succursale abbandonata del liceo Pitagora «poteva essere demolita e capitalizzata, gettata nel calderone delle speculazioni immobiliari ed edilizie, comunque sottratta ai cittadini. Noi siamo qui da dieci anni e lo abbiamo impedito».
Uno dei numerosi live allo Sparrow (foto Alessandro Aiello) Punk e metal a via Panagulis
Quel che resta del movimento Punk, Skin, Hardcore e Metal dell’area urbana ha subito trovato spazio e ospitalità nell’occupazione di Via Panagulis. Mario, adesso vive e lavora in Spagna, ci racconta la musica che gira intorno allo Sparrow: «In dieci anni sono state centinaia le band underground nazionali e internazionali passate da noi (Hobophobic, Hexis, The Devils, Stormo, Bull Brigade, Arsenico, Plakkaggio, Bunker 66 solo per citarne alcuni). E molte sono partite dalla sala prove autogestita per suonare poi in tutta Italia come Shameless, Eterae, Across e recentemente i Guasto».
Tra il 2014 e il 2015 matura l’idea di una sala prove autogestita, pensata soprattutto per quei gruppi con poca o nessuna dotazione economica. Il diritto alla musica fuori dalla logica del mercato.Creativi e resistenti
Sparrow è un fortino di resistenti dove hanno radici una serie di esperienze diverse. Dal 2017 prova e mette in scena spettacoli il Kollettivo Kontrora. La pandemia ha un po’ limitato, come era prevedibile, tutte le attività negli anni precedenti organizzate nel centro sociale. Il cinema ha ripreso il suo corso con le ultime proiezioni di una retrospettiva dedicata a David Lynch. Sudore e fatica sono i protagonisti nelle stanze adibite a palestra con un piccolo ring. Qui Carlo allena i suoi ragazzi alla nobile arte. Boxare per resistere. Intanto il negozio gratis continua ad essere uno dei fiori all’occhiello di Sparrow. Un altro pezzo di sharing economy in città. Migranti, studenti, pensionati, famiglie in difficoltà e appassionati del vintage trovano qualcosa da donare o prendere per sé. Non è cosa da poco. Combattere la crisi con la condivisione, percorrendo strade poco battute. Come ha fatto Sparrow in questi primi 10 anni.
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L’emendamento ad Gentilem che fa infuriare i Cinque stelle
Hai perso la partita? Puoi sempre tentare di capovolgere il risultato cambiando le regole del gioco. È quello che potrebbe accadere martedì prossimo nella Giunta elettorale della Camera dei Deputati. In quell’occasione la maggioranza di destra, forte dei suoi numeri, quasi certamente riuscirà ad approvare un emendamento che cambierebbe i destini di alcuni candidati.
Gentile vs Orrico
Tutto nasce da un ricorso presentato da Andrea Gentile, erede fin qui mancato di una lunga storia politica, contro la pentastellata Anna Laura Orrico. Il successo della Orrico, di soli 482 voti, apparve al tempo come la classica e imprevista vittoria di Davide contro Golia. Il gigante in questo caso era la famiglia Gentile, che per decenni è stata rappresentata nelle stanze del potere, fino alla carica di sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Renzi ricoperta da Antonio Gentile, che di Andrea è il padre.

Il favor voti
Anna Laura Orrico non va per il sottile e subito dichiara che la proposta della destra ha lo scopo di aprire le porte del parlamento allo sconfitto Gentile. «L’emendamento prevede che le schede dove l’elettore ha segnato due simboli invece che uno solo, e che per questo sono state annullate, risultino valide», spiega la parlamentare.
Il criterio su cui la destra vorrebbe fondare questa proposta si basa sul favor voti. È l’idea secondo cui l’elettore, pur avendo sbagliato a votare, abbia comunque espresso chiaramente una intenzione di voto.Orrico: «Emendamento cucito apposta per Gentile»
Senonché questa idea va contro ogni legge elettorale in uso finora. «Non è prevista nel Rosatellum, né lo era nel Porcellum o nel Mattarellum perché snaturerebbe il senso dell’uninominale. Renderebbe riconoscibile il voto ed è contro il vademecum scritto dal Viminale per le elezioni», continua la Orrico. A suo avviso l’emendamento avanzato sembra «cucito apposta per Gentile, essendo proposto esclusivamente per l’uninominale». Ossia dove il candidato di Forza Italia ha trovato la sconfitta.

Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno Tra i due litiganti il terzo va fuori?
A riguardo abbiamo ripetutamente cercato di metterci in contatto con Andrea Gentile, le cui dichiarazioni sarebbero ovviamente state assai utili per meglio comprendere gli accadimenti. Tuttavia non è stato possibile conversare con lui.
Nello specifico martedì prossimo la destra si prepara a cambiare le regole di una partita già giocata per potere cambiare il risultato. Se alla luce delle nuove regole Gentile dovesse subentrare ad Anna Laura Orrico, questa manterrebbe comunque il seggio, risultando vincitrice nel plurinominale. Per l’effetto domino a uscire di scena sarebbe Elisa Scutellà. -

Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte
Mentre l’Italia è flagellata da fenomeni atmosferici eccezionali, figli del cambiamento climatico, certo, ma anche dalla mancanza di cura del territorio, in Parlamento va avanti spedito il cammino del Ponte sullo Stretto di Messina con l’approvazione anche in Senato del relativo decreto legge. Nel frattempo, a Villa San Giovanni il movimento NoPonte ha organizzato un illuminante incontro. A relazionare, il professore Domenico Gattuso, ordinario di Pianificazione dei trasporti presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Chiari e puntuali i rilievi sul progetto del Governo. Con un elemento decisivo in più: le proposte alternative, credibili e circostanziate, per un collegamento efficace tra le sponde dello Stretto. In conclusione, anche un’idea per coinvolgere nella scelta i cittadini delle comunità interessate.
Sono quattro i punti focali delle conclusioni di Gattuso riguardo il Ponte sullo Stretto:
- l’idea è debole perché presenta diverse criticità dal punto di vista strutturale, ambientale, di sostenibilità finanziaria;
- non accorcia i tempi di percorrenza del braccio di mare;
- la spesa da affrontare non rende vantaggioso per l’utenza il passaggio tra le due sponde;
- sarebbe invece molto più efficace, per i tempi e i costi di implementazione, rafforzare e arricchire il transito via mare.
Ponte sullo Stretto: i rilievi di Gattuso
Partiamo dai rilievi. Il progetto è vecchio (del 2011) e infatti non risponde alla normativa europea in termini di valutazioni di impatto economico, finanziario ed ambientale. Né è dimostrata la sostenibilità dell’opera in relazione alla valutazione degli impatti dettata dall’UE di recente sul PNRR.
Per quanto concerne l’investimento da effettuare, si quantificava nel 2021 in 6 miliardi di euro, nel DEF appena approvato lievita a 14,6 miliardi (13,5 + 1,1 per le opere ferroviarie annesse). Costi per i quali, si specifica nel documento, non sono stanziati fondi e neanche il PNRR prevede nulla.
Il professor Domenico Gattuso Il professor Gattuso sottolinea che i paragoni tra il Ponte sullo Stretto e altre opere simili già realizzate sono improponibili. È necessario, infatti, considerare alcune variabili fondamentali:
- a) lunghezza;
- b) larghezza e struttura dell’impalcato;
- c) dimensioni e distanza tra i piloni;
- d) profondità dei fondali;
- e) presenza di rischi geologici, azioni del vento e di sismi, ecc.
Le dimensioni contano
I ponti a campata unica (come quello sullo Stretto) più lunghi al mondo sono il Çanakkale Bridge, in Turchia, di 2.023 metri e terminato nel 2022, e l’Akashi Kaikyō , in Giappone, di 1.991 metri e finito nel 1998. Ma c’è di più: quello ipotizzato in Italia prevede passaggio di traffico in gomma e ferroviario. Uno simile sta in Cina, il Tsing Ma, ed è lungo 1 km e 400 metri, non 3 km e 300 metri come il Ponte sullo Stretto.
Altri problemi sono legati al progetto stesso, che non è adeguato alle nuove norme europee venute dopo il 2010. Quello definitivo, poi, manca del tutto.
Restano numerose incognite da chiarire. Concernono forma e dimensione dell’impalcato, nonché l’altezza dal mare, prevista in 65 metri. Sarà sufficiente per il passaggio di navi da crociera e porta container o dovranno circumnavigare la Sicilia? Con quali costi? L’attracco a Gioia Tauro sarà ancora conveniente?
Per i piloni si prevede un’altezza di 400 metri, mai vista prima, e strutture di ancoraggio gigantesche. Piazzare i giganteschi piloni richiederà un enorme movimento terra. Dove la collocheranno? In fondo al mare, devastando uno dei fondali più belli e ricchi di biodiversità al mondo?
C’è un altro dettaglio che i cittadini di tutta l’area dovrebbero considerare, perché forse pensano di salire sul treno a Reggio, Villa o Messina e in un baleno essere dall’altra parte. Per raggiungere i 70 metri di altezza del Ponte sullo Stretto occorrono almeno 25 km per la ferrovia, spiega Gattuso, perché è prevista una pendenza massima del 3/1000. Quindi, raccordi a 25 km, non sotto casa.L’impatto ambientale e le novità del PNRR
Veniamo all’impatto ambientale e alla sua valutazione. Le norme approvate per il PNRR prevedono 6 nuovi criteri, oltre a quelli in vigore in precedenza (teniamo presente che il vecchio progetto non ha mai superato la verifica d’impatto ambientale).
Ecco i 6 criteri inseriti di recente:- Investimenti volti alla mitigazione dei cambiamenti climatici;
- Interventi per l’adattamento ai cambiamenti climatici;
- Interventi a favore di un uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;
- Transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche alla riduzione dei rifiuti;
- Azioni per la prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo;
- Azioni per la prevenzione e ripristino della biodiversità e della salute degli ecosistemi.
Il traffico sullo Stretto e il no di Gattuso al ponte
Se consideriamo invece l’efficacia dell’opera, per il trasporto di persone vediamo quali sono i flussi di attraversamento.
Quindici anni fa, il grado di saturazione del trasporto era appena del 15-20% nelle ore di punta. Probabilmente oggi sarebbe ancora peggio, dato il trend decrescente di traffico sullo Stretto. Tra il 1995 (fonte MIMS) ed oggi, si sono persi 3,4 milioni di passeggeri all’anno (-25%: da 13,4 a 10,0 Mn) e 1 di veicoli (-35,7%; da 2,8 a 1,8 Mn), soprattutto a beneficio degli aeroporti siciliani, passati nel decennio 2009-2019 da 11,3 a 18,0 milioni all’anno. Anche il traffico merci è in calo: meno 100mila camion (-11,1% dal 1995; da 900 mila a 800 mila), mentre è cresciuto molto il traffico via mare (con navi Ro-Ro): +23,4% su Palermo e +13,1% su Catania, solo negli ultimi cinque anni.
La Alf Pollack In sostanza, una componente significativa di traffico merci ha preferito il mare al percorso “stradale” passante per lo Stretto. Gli stessi operatori privati hanno attivato servizi marittimi sulla direttrice Sicilia-Campania, più vantaggiosi sia per le imprese che per gli autotrasportatori.
E sono entrate in gioco navi a media e lunga percorrenza (Sicilia – Centro-Nord): la Superspeed 1, costruita in Danimarca, la Passenger/Ro-Ro, infine la Alf Pollak, nuova nave Ro-Ro – la più grande del Mediterraneo, costruita in Germania e consegnata al gruppo armatoriale italiano Onorato – con una capacità di trasporto di oltre 4.200 metri lineari.Pendolari e pedaggi
Come andranno invece le cose per i pendolari Reggio-Villa verso Messina e viceversa? In termini di tempo non si avrebbe alcun beneficio: dal centro di Reggio a quello di Messina 45 minuti, non dissimile da quello con gli attuali catamarani. In più, evidenzia Gattuso, attraversare il Ponte sullo Stretto non sarebbe gratuito. Il pedaggio sarebbe almeno pari a quello attuale in nave: 40-50 € per un’auto, 160- 180 € per un pullman, 70-150 € per un camion, 460-750 € per un mezzo infiammabile.
Gattuso sottolinea inoltre il rischio che il ponte possa allontanare le città dello Stretto dai traffici nazionali, agendo da tangenziale per i traffici di attraversamento con la marginalizzazione di Reggio e Messina.
Imbarcaderi a Messina Veniamo agli aspetti economico-finanziari. Il costo del ponte è oggi di 14,6 miliardi di euro, e non si sa nulla, tra l’altro, dei futuri costi di manutenzione. Non esiste project financing. L’investimento è a carico della collettività, con ricavi gestiti da privati in concessione. Bisognerebbe attualizzare gli indicatori economico-finanziari in termini di dati di ingresso (flussi decrescenti e costi crescenti). Atteso un peggioramento degli indici che già erano inconsistenti nel 2012. Le valutazioni dovrebbero seguire le procedure attualizzate dal Manuale UE che la Commissione ha elaborato nel 2014.
Ai privati interesserebbero la gestione per il profitto che può determinarsi solo con pedaggi elevatissimi, altrimenti tutto cadrà sulle spalle dei cittadini italiani.Infrastrutture, crescita, ambiente e sicurezza
E la vulgata secondo cui il ponte sullo Stretto «rappresenta un volano di crescita economica e sociale per la Sicilia e la Calabria»? Gattuso afferma che la più recente letteratura economica è pressoché concorde nel sostenere come non vi sia un nesso causale tra investimenti in infrastrutture di trasporto e crescita. Ciò non è avvenuto con l’alta velocità e uno studio della Banca d’Italia ha certificato che la Salerno–Reggio Calabria non ha avuto effetti sul PIL della Calabria.

La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia Per quanto concerne i costi esterni, la Via del mare è preferibile alla strada. ALIS, in uno studio del 2001, ha stimato che grazie ai servizi Ro-Ro e alle Autostrade del mare, sono stati eliminati dalle strade, in Italia, circa 1,7 milioni di mezzi pesanti. Quindi 47,2 milioni di merci sono state spostate sulle rotte marittime, abbattendo 2 milioni di tonnellate di CO₂. Il vantaggio economico per l’ambiente è stato stimato in 1,5 Md €. A questo si aggiunge una riduzione dell’incidentalità su strada, del rumore da traffico e del carburante consumato. Inoltre, le navi in costruzione oggi sono assai meno inquinanti rispetto al passato.
Notevoli i rischi per il ponte se si parla di “safety & security”. Numerosi i problemi di safety: la circolazione dei veicoli in una carreggiata a 6 corsie in rettifilo, con scarso traffico, produrrà velocità elevate; intensità del vento e spinta laterale; oscillazioni possibili date le dimensioni di sezione trasversale; azioni sismiche imprevedibili; eruzioni vulcaniche e polveri; esplosione di veicoli con merci pericolose (vedi Bologna, 2018); omessa manutenzione (vedi ponte Morandi, 2018). Quanto alla security, sussisterebbero rischi di attentati (vedi Crimea nel 2022).
L’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto
Ecco invece l’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto, in poche mosse, in tempi rapidi e a costi di gran lunga inferiori.
Innanzitutto, serve una flotta navale ben strutturata e dimensionata. Un traghetto a doppio portellone (come quelli attualmente in servizio) costa circa 50-60 milioni di euro, un catamarano da 250 posti circa 8-10. Inoltre su un traghetto dotato di binari può trovare posto un intero treno regionale senza necessità di scomporlo. Per una flotta di 20 traghetti e 10 catamarani sono necessari 1,2 miliardi di euro.Poi, il riassetto dei servizi marittimi sullo Stretto. Con un utilizzo combinato nave-treno per servizi locali-regionali avremmo traghetti catamarani per servizi passeggeri a maggiore frequenza.
Infine, l’integrazione dei servizi di trasporto pubblico sulle due sponde. Da Messina Centro a Reggio Calabria Centro, con approdi adeguati e potenziati e stazioni marittime distribuite sulle due coste, in tutta l’Area metropolitana dello Stretto.
Per ottimizzare l’impiego delle risorse bisogna raffrontare i costi, che fanno pendere nettamente la bilancia per il trasporto pubblico mediante treno, metropolitana, autobus, navi di ultima generazione. Solo per avere un’idea, 1 km di TAV costa 40-50 milioni di euro, 1 km di ferrovia a doppio binario elettrificato10-15 milioni. Un km di ponte sullo Stretto? 3 miliardi di euro!
Per le tariffe per gli utenti serve considerare la distanza tra le due sponde e la necessità di instaurare una vera continuità territoriale, che non è effettiva se il costo del pedaggio, di qualsiasi genere, è quello attuale. Occorre quindi calcolare le tariffe da applicare come quelle dell’autostrada, cioè a 20 centesimi al km. E quindi: 2 € a persona, 4 € ad auto, 15 € a camion.Prima il dibattito (vero), poi il referendum
La domanda finale che pone Gattuso richiede un cambio di prospettiva: «Serve una sola grande opera costosa e di dubbia utilità e fattibilità o è preferibile un insieme diffuso di opere e servizi abbordabili, utili e fattibili?».
Una domanda retorica, per chi non ha pregiudiziali o interessi di altro genere. E a rispondere dovrebbero essere i cittadini interessati delle due sponde con un referendum, come reclama il professore.
Una consultazione cui deve precedere un dibattito vero e diffuso. Approfondito, basato sui dati, sulle informazioni, non sul tifo da stadio o sull’ideologia. -

Sanità in rosso? La Lega lancia le “palestre della salute”
La Lega calabrese come il Padre Gabrielli di Boris? Il sospetto, almeno per i fanatici della celebre serie TV, potrebbe anche venire spulciando il sito del Consiglio regionale della Calabria. Può capitare, infatti, di imbattersi in una nuova proposta di legge che porta la firma di quattro esponenti locali del Carroccio: Giuseppe Gelardi, Pietro Raso, Pietro Molinaro e il presidente dell’Aula Fortugno, Filippo Mancuso. La sanità dalle nostre parti, si sa, ha problemi di bilancio (e non solo) enormi, ma un modo per ridurli c’è. Ed è il segreto della vita che Corrado Guzzanti rivelava all’elettricista Biascica: la palestra.
Sport, Sanità e conti in rosso
I quattro salviniani di Calabria, ispirati dai (ma meno accurati dei) colleghi veneti, non hanno dubbi a riguardo e lo mettono nero su bianco nella loro proposta di legge. Dopo attenti studi non hanno potuto che rilevare come risulti «fatto notorio che il benessere psicofisico sia uno dei fattori fondamentali per l’abbassamento del rischio di contrazione di diverse malattie». Qualora non fosse chiaro, lo ribadiscono: «Uno stato di forma ottimale della popolazione porterebbe ad una minor insorgenza di malattie».
Appurato che di solito mantenersi in forma fa ammalare di meno, è arrivata l’illuminazione: meno malati si tradurrebbero in una minor spesa per il sistema sanitario. Non solo avremmo «una popolazione più sana, e quindi più attiva e più felice». Ci sarebbero pure ricadute positive «in relazione ad alcuni segmenti del bilancio regionale e di quello nazionale».
Non solo Calabria: la Lega e le palestre della salute
Ed ecco come la Calabria potrebbe salvare il SSN: mettendo un cartello “Palestre della salute” nelle palestre che esistono già. La legge targata Lega si compone infatti di quattro, scarni articoli. Il primo dice che nel 2023 la Regione riconosce che per realizzare il diritto alla salute fare attività fisica serve, come già legiferato nel 2010. Nel secondo si chiarisce che secondo i nostri governanti le «palestre della salute» – e non, per esempio, le macellerie o i negozi di ferramenta – sarebbero «luogo privilegiato» per la suddetta attività.

La Lega di Zaia ha istituito le palestre della salute in Veneto, i salviniani di Calabria vogliono imitarla Ma che sono le palestre della salute? Palestre dove – lo certificherà la Regione, spiega l’art. 3 – si faranno attività che fanno bene alla salute con attrezzature a norma. Si prospettano tempi duri, dunque, per quelle dove si va per ammalarsi o farsi male, la Cittadella non avrà pietà per loro. Il quarto articolo, infine, rassicura tutti: non ci saranno costi in più per il bilancio regionale. Il cartello, insomma, se lo pagheranno i gestori.
La nuova legge deve ancora passare l’esame di due commissioni (la Sesta e la Seconda) e ottenere l’ok del Consiglio, ma la strada per una Sanità coi conti in ordine sembra già più in discesa.









