Charlie Kirk, l’estremista di destra ucciso in America qualche giorno fa, è stato commemorato nell’aula del parlamento italiano. A parte la domanda su cosa c’entri la vittima di un crimine commesso dall’altra parte del mondo con l’assemblea degli eletti in Italia, vale la pena ricordare che la richiesta è venuta da Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d’Italia cui piacerebbe andare in giro abbigliato da nazista delle Ss e purtroppo non c’è niente da ridere.
Bignami nella sua divisa da nazista e in un selfie con Giorgia Meloni
Fa parte, tutta questa pantomima, dell’accorta regia di strumentalizzazione che la destra meloniana e salviniana fa di un crimine che in nessun modo ci riguarda. Anzi, forse un poco sì, solo che a preoccuparsi dovrebbero essere i sostenitori di tutto quello che non piace a chi governa, vista la mole di parole d’odio che si sono ascoltate fin qui. Ma al netto della bizzarria di celebrare un morto che è diventato il simbolo dell’amore e della libertà, pur avendo in vita predicato nefandezze inenarrabili (nel link il suggestivo monologo di Stefano Massini che ne elenca alcune), vorrei raccontarvi una storia. Una storia, purtroppo, vera.
Omicidio in USA: Charlie Kirk e Melissa Hortmann
Nella notte del 14 giugno di quest’anno, un uomo bianco, vestito in modo da sembrare un poliziotto, con giubotto antiproiettili, entrò nella casa di Melissa Hortmann e la uccise. E dato che c’era ammazzò pure il marito. Melissa era una deputata del Partito democratico e il marito un rappresentante dello stesso partito. L’assassino ferì anche Joh Hoffman, pure lui un senatore democratico e la moglie. Le ragioni degli omicidi compiuti e di quelli mancati sono legate all’azione politica delle vittime, soprattutto di Melissa, impegnata attivamente nel contrastare le direttive anti migratorie di Trump.
Melissa Hortman e il marito, rappresentati democratici uccisi in un attentato politico
Quando l’omicida fu trovato, nella sua casa furono rinvenute cosette assai interessanti: una lista di circa settanta nomi di rappresentanti del Partito democratico da uccidere. Biglietti contro l’annunciata manifestazione pacifica contro Trump e parecchie munizioni.
Non tutti i morti sono uguali
In quella occasione non si ricorda alcuna smorfia di indignazione dei parlamentari di Fratelli d’Italia. Bignami doveva essere distratto. Anche la Meloni non si accorse di nulla. Eppure si trattava di un attentato che veniva dall’altra parte dell’oceano alla libertà di opinione e di parola e alla vita di rappresentati democraticamente eletti. Non ci furono proclami per la difesa della libertà democratica, contro l’incitazione all’odio. Né tanto meno l’aula di Montecitorio fu chiamata ad alcuna commemorazione.
L’odio per l’avversario come pratica politica
Tutto questo deve essere perché Trump non avvisò la Meloni. Oppure perché ci sono forse, nella gerarchia delle tragedie, morti di serie A e altre che possono essere dimenticate. Oppure, ancora, perché nel Dna di certe forze politiche, magari relegata e chiusa nella parte più recondita della loro natura, resta l’idea che l’eliminazione degli oppositori sia legittimata. Alla fine con Matteotti andò esattamente così.
L’Università della Calabria ha celebrato da poco l’inaugurazione del suo 54º anno accademico, un momento di riflessione e orgoglio per un ateneo che si conferma tra i più dinamici del Sud Italia. Tuttavia, a segnare l’evento è stata un’azione dirompente: l’irruzione di studenti e attivisti del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina” durante il discorso del rettore Nicola Leone.
Il Rettore Nicola Leone durante l’inaugurazione dell’anno accademico
Con slogan come “Palestina libera!” e striscioni che denunciavano la “complicità delle università con Israele”, i manifestanti hanno interrotto la cerimonia per protestare contro gli accordi accademici con atenei israeliani e le collaborazioni con industrie belliche come Leonardo e Thales, accusate di alimentare il conflitto a Gaza. L’episodio, pur senza degenerare in violenza, ha messo in luce una tensione profonda: il ruolo delle università come spazi di sapere neutrale versus la richiesta di posizioni politiche nette su questioni globali.
Questa protesta, che si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni pro-palestinesi negli atenei italiani, solleva interrogativi cruciali. Da un lato, i manifestanti hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, dando voce a un’urgenza etica condivisa da molti: la solidarietà con il popolo palestinese in un contesto di crisi umanitaria. Le loro accuse di “complicità” toccano un nervo scoperto, quello delle responsabilità istituzionali in un mondo interconnesso, dove collaborazioni accademiche e industriali possono avere implicazioni politiche. Dall’altro lato, l’irruzione ha interrotto un momento simbolico di unità accademica, sollevando critiche su modi e tempi della protesta. L’Università della Calabria, descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, ha cercato di riaffermare il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma è davvero possibile, o desiderabile, che un’università rimanga neutrale su questioni così divisive?
Libertà accademica e attivismo politico
Il cuore del problema sta nel bilanciamento tra libertà accademica e attivismo politico. Le università sono luoghi di confronto, dove idee opposte devono poter coesistere senza censure, ma anche senza che il dialogo venga soffocato da azioni che, pur legittime, rischiano di polarizzare invece che costruire. La protesta di oggi ha avuto il merito di accendere i riflettori su una questione globale, amplificata da immagini e video condivisi in tempo reale su piattaforme social e web.
Tuttavia, il rischio è che il messaggio si perda in una dialettica di scontro, anziché tradursi in un dialogo strutturato che coinvolga studenti, docenti e istituzioni.
L’Unical, con i suoi oltre 30.000 studenti e un ruolo centrale nel Mezzogiorno, ha l’opportunità di trasformare questo episodio in un’occasione di crescita. Organizzare tavoli di discussione aperti, con esperti di geopolitica e rappresentanti di tutte le sensibilità, potrebbe essere un passo per canalizzare l’energia della protesta in un dibattito costruttivo. La sfida è chiara: come conciliare l’eccellenza accademica con la responsabilità sociale, senza cedere né alla neutralità ipocrita né alla politicizzazione divisiva? La risposta non è semplice, ma l’università, come luogo di pensiero critico, è chiamata a cercarla.
Un momento della protesta
La protesta del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina”, rappresenta un caso emblematico delle tensioni che attraversano le istituzioni accademiche in un’epoca di crisi globali. L’irruzione nell’Aula Magna, con slogan come “Palestina libera!” e “Se bloccano la flottilla, blocchiamo tutto!”, non è stata solo un atto di dissenso, ma un tentativo di forzare l’università a prendere posizione su un conflitto che, pur geograficamente lontano, ha profonde ripercussioni etiche e politiche. Analizzando l’evento, emergono tre nodi critici: il diritto di protesta, la “neutralità” accademica e il rischio di polarizzazione.
Il diritto di protesta e la sua messa in scena
L’azione del Coordinamento è stata pacifica ma volutamente dirompente, con l’irruzione e l’affissione di striscioni come quello sul Ponte Bucci (“complicità e responsabilità delle università con Israele”). La scelta di interrompere un evento simbolico come l’inaugurazione accademica ha garantito visibilità, amplificata da post sui social che hanno documentato l’evento in tempo reale. Tuttavia, questa strategia solleva una questione: la teatralità della protesta, pur efficace nel catturare l’attenzione, rischia di alienare chi potrebbe essere aperto al dialogo? I manifestanti hanno denunciato accordi con atenei israeliani e collaborazioni con aziende come Leonardo e Thales, accusate di sostenere il conflitto a Gaza. La loro richiesta – la rottura di questi legami – è chiara, ma la modalità scelta ha lasciato poco spazio a un confronto immediato, trasformando l’evento in uno scontro simbolico più che in un’occasione di dibattito.
Una fase della protesta a favore della Palestina
La neutralità accademica: un mito insostenibile?
L’Unical ha risposto descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, riaffermando il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma la pretesa di neutralità accademica è problematica. Le università non operano in un vuoto: gli accordi con atenei stranieri o industrie belliche non sono mai solo “tecnici”, ma portano con sé implicazioni politiche. La protesta ha messo in discussione il silenzio istituzionale su queste connessioni, accusando l’Unical di complicità indiretta in un conflitto che molti studenti percepiscono come un “genocidio”. Tuttavia, la neutralità ha anche un valore: garantisce che l’università rimanga un luogo di pluralismo, dove tutte le voci – incluse quelle pro-israeliane o neutrali – possano esprimersi. Rompere accordi accademici con Israele, come chiesto dai manifestanti, potrebbe essere visto come un atto di censura verso studiosi e istituzioni israeliane, non tutte necessariamente allineate con le politiche del loro governo. Qui si gioca la sfida: come bilanciare responsabilità etica e apertura intellettuale?
Foto
La polarizzazione e il dialogo
La protesta si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni studentesche pro-palestinesi, come i sit-in all’Aquila contro Leonardo. Questo movimento riflette una crescente sensibilità tra i giovani per le questioni globali, ma anche una tendenza alla polarizzazione. I critici dell’azione, che l’hanno definita “controversa”, sottolineano che politicizzare un momento celebrativo come l’inaugurazione rischia di alienare chi non condivide la causa. Sui social noto che commenti si dividono: alcuni utenti lodano il coraggio degli attivisti, altri lamentano la “mancanza di rispetto” per l’evento accademico. La “frattura profonda” evidenziata dall’episodio non è solo tra studenti e istituzione, ma anche all’interno della comunità accademica, dove sensibilità diverse si scontrano senza un terreno comune. La richiesta di “dialogo strutturato” avanzata da alcuni osservatori è sensata, ma richiede volontà da entrambe le parti: i manifestanti devono accettare la complessità del tema, e l’università deve riconoscere che la neutralità non è sempre una risposta sufficiente.
Alcuni militanti del coordinamento Cosenza Unical per la Palestina
Il ruolo dell’Unical nell’area del Mediterraneo
La protesta all’Unical è un microcosmo delle tensioni globali che attraversano le università, chiamate a essere al contempo templi del sapere e arene di confronto politico. L’azione del Coordinamento ha avuto il merito di portare il conflitto israelo-palestinese al centro del dibattito, ma ha anche evidenziato i limiti di un approccio che privilegia l’irruzione al dialogo. L’università ha l’opportunità di trasformare questa frattura in un’occasione di crescita, promuovendo spazi di confronto che includano prospettive diverse, da quelle degli attivisti a quelle di chi difende la cooperazione accademica internazionale. La sfida è costruire un dibattito che non semplifichi la complessità geopolitica, ma la affronti con rigore e apertura. Solo così l’Unical potrà onorare il suo ruolo di faro culturale nel Mezzogiorno, senza cedere né al silenzio né alla polarizzazione.
In principio c’era la Catizonese, poi venne Eugenio e Guarascese fu perché in entrambi i casi parlare di Cosenza per i tifosi era diventato dannatamente difficile.
La Storia, aveva teorizzato già parecchio tempo prima un filosofo ed economista tedesco piuttosto noto, ha il brutto vizio di tendere a ripetersi. E quando c’è da replicare una tragedia, ama dare il bis sotto forma di farsa. Le vicissitudini dei rossoblu nel nuovo millennio non sono che l’ennesima conferma della bontà di quella vecchia analisi e della sua attualità.
Vent’anni dopo
La prima volta c’erano di mezzo il tragico addio al calcio professionistico dopo il fallimento, la politica (con l’allora sindaca Catizone a rivestire anche l’insolito ruolo di presidentessa di una neonata squadra di calcio), malcontento dilagante tra i tifosi e addirittura un derby: Cosenza Football Club Srl (per i detrattori, Catizonese o Fc Catizone) contro Cosenza 1914 Spa. Era la stagione 2004-2005, annus horribilis per eccellenza nell’ormai ultracentenaria vita sportiva dei Lupi.
Un paio di decenni dopo, il replay. Non altrettanto tragico, vista almeno l’iscrizione al prossimo campionato di Serie C dopo la retrocessione dell’ultima stagione. Ma – difficile pensarla altrimenti – di certo più grottesco. E, proprio per questo, ancora più insopportabile per chiunque abbia a cuore il destino dei rossoblu.
C’è chi dice no: tifosi del Catanzaro invocano la permanenza di Guarascio a Cosenza
Lo chiamavano Guarascese
Il Cosenza almeno stavolta è uno solo, ma ormai lo chiamano tutti, o quasi, Guarascese. Non è roba da poco, se si considera che l’italiano medio ha due cose che non cambia mai nella vita: mamma e squadra del cuore, con relativi nomi di battesimo. Eugenio Guarascio – paradossalmente il presidente a conquistare il più prezioso trofeo della scarna bacheca dei Lupi – è riuscito in un’impresa titanica.
Lo chiamavano Guarascese, il Cosenza, già quando i dirigenti si presentavano tra i proclami a inizio stagione e poi sparivano fino al giorno delle dimissioni. Quando gli steward rivendicavano in piazza mancati emolumenti e nelle pagine social del club entrava in vigore un inedito blocco dei commenti per i sostenitori. O quando in ritiro la rosa era di quattro gatti, magari in prestito, e si aspettava sistematicamente gennaio per rimediare a mercati d’agosto mai all’altezza delle aspettative.
Continuavano a chiamarlo Guarascese
E continuavano – e continuano – a chiamarlo Guarascese dopo l’imperdonabile stop iniziale al memorial in onore di Gigi Marulla, così come ogni volta che sulla stampa locale, snobbata dal club in più occasioni, è spuntata qualche ipotesi di cessione societaria. Quelle trattative che a maggio – Guarascio dixit – sono «situazioni concrete» che potrebbero «arrivare alla definizione in brevissimo», per citarne soltanto una, e a luglio diventano – sempre parole di Guarascio – «offerte praticamente a costo zero».
A quale delle versioni opposte credere se a pronunciarle è la stessa persona? Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione più che eccellente risulta deprimente.
Alfredo Citrigno, che in primavera aveva cercato di acquisire il club da Guarascio, ha smentito di recente le dichiarazioni dell’imprenditore lametino sull’esiguità della cifra offerta per rilevare il Cosenza. Senza renderne pubblica l’entità, però
Derby d’Eccellenza
A ravvivare gli animi ha provato il senatore Fausto Orsomarso con un’inattesa proposta. L’esponente di FdI, che nonostante le smentite di rito qualcuno ipotizza possa correre per il dopo Occhiuto alla presidenza regionale, suggerisce di creare una nuova squadra. Sostiene che ci sia una cordata di imprenditori «già pronti» – non a mettere soldi nell’attuale società, però – a darle vita e farla ripartire dall’Eccellenza. Campionato, giusto per la cronaca, i cui calendari sono già stati stilati e non parrebbero prevedere la presenza di nuovi ipotetici club cosentini.
L’augurio di tutti resta quello di rivedere appena possibile il Cosenza in serie B; la speranza (forse anche dello stesso Guarascio), di farlo con un presidente diverso; il timore quello di assistere l’anno prossimo a un Guarascese-Orsomarsese.
Fuck gentry. La scritta è apparsa di fronte a casa mia, in zona Navigli a Milano, circa un anno fa. Per i pochi che, come me, fanno di mestiere gli storici della prima età moderna, gentry è una parola con un significato tecnico piuttosto preciso: designa la piccola e media nobiltà inglese dell’età dei Tudor e degli Stuart, e a lungo gli studiosi si sono aspramente divisi sul ruolo che il suo presunto declino, o la sua altrettanto presunta ascesa, avrebbe avuto nelle rivoluzioni inglesi e nell’ascesa della Gran Bretagna a potenza egemone.
L’autore del graffito non era però probabilmente interessato a questo dibattito storiografico oggi dimenticato.
Il riferimento evidente è invece a un termine introdotto dalla sociologia urbana negli anni ’60 del secolo scorso – gentrification – che sta a indicare la trasformazione di quartieri popolari in zone abitate da famiglie benestanti, borghesi. Quindi potremmo tradurre il nostro slogan di apertura con “fotti la borghesia”. Un po’ brutale, poco filologico ma tutto sommato pertinente.
Beppe Sala, sindaco di Milano
Rigenerazione è un po’ gentrificazione
La riqualificazione sociale di aree estese della città ha comportato una mutazione profonda del paesaggio sociale urbano. Quartieri operai o piccolo-borghesi e anche vere e proprie zone industriali, sono diventate aree residenziali ambite, con valori immobiliari crescenti e gli abitanti originari sono stati sostituiti da professionisti e manager.
Il progetto di rigenerazione, lo slogan delle giunte di centro-sinistra guidate dal sindaco Sala, si è risolto di fatto in una massiccia e brutale gentrificazione. La zona in cui abito, quella della scritta, vicina a università prestigiose come la Bocconi, la Nuova Accademia di Belle Arti, e lo IULM e terra d’elezione della movida, è stata, ed è, particolarmente interessata a questi sviluppi. Quando mi ci sono trasferito, una quindicina di anni fa, il mio condominio di ringhiera “Vecchia Milano” conservava ancora un sentore di Ponte della Ghisolfa: un insediamento prevalentemente popolare, con al centro un cortile nel quale resistevano ancora piccoli laboratori artigianali: una falegnameria, un timbrificio, un carrozziere. Oggi lo stabile è abitato in prevalenza giovani upper-middle class e molti degli alloggi sono affittati a studenti universitari o destinati ai molto remunerativi affitti brevi per i turisti che sempre più numerosi approdano a Milano.
Vecchio autobus sul ponte della Ghisolfa negli anni Novanta (foto Giorgio Stagni – fonte Wikipedia)
Nel nostro quartiere molti negozi “di prossimità” hanno nel frattempo chiuso le saracinesche e poco lontano sono sorti nuovi, costosi, complessi residenziali di qualità e appunto, istituzioni come la citata Naba, nell’area dell’ex glorioso istituto sieroterapico, dove vennero messi a punto i vaccini contro la difterite e la “spagnola”. La terziarizzazione e l’imborghesimento – la gentrificazione – sembrano dunque avanzare inarrestabili, in questa come in altre zone della vecchia Milano, dalla Bovisa al Casoretto, ad Affori e così via. Come mostra l’esperienza storica, “fottere la borghesia” non è affatto facile. E, forse nemmeno sempre auspicabile.
Cara piccola borghesia
D’altra parte c’è borghesia e borghesia e questo termine, così carico di implicazioni politiche, etiche e perfino estetiche, deve essere sempre maneggiato con prudenza. Dagli anni del boom economico a oggi la borghesia milanese – e quella italiana – è inoltre cambiata profondamente. Innanzitutto ha dilatato le sue dimensioni, e anche per questo ha reclamato sempre più spazio in una città in fondo piccola. Uno spazio che sta andando ben oltre la Cerchia dei Navigli e quella dei Bastioni. Una crescita che oggi è alimentata soprattutto da un flusso di immigrazione “di qualità” proveniente dal resto d’Italia e, in piccola parte, del mondo globale.
La capacità di cooptazione, di inclusione è stata caratteristica centrale del dinamismo sociale degli anni del boom e anche in stagioni precedenti. Dai tempi, nel caso di Milano, della borghesia “gaddiana”, quella “dei Caviggioni, Perego, Lattuada, Garbagnati, Ghezzi, Corbetta, Trabattoni, Gavirazzi, Santambrogio, Cavenaghi, Freguglia…”. Ma forse si potrebbe risalire anche più indietro, ai tempi in cui la gentry, la classe dominante milanese, aveva effettivamente un carattere nobiliare.
Carlo Emilio Gadda
Si trattava però di una nobiltà relativamente aperta, nelle cui fila nel corso dei secoli si erano intrufolati borghesi di successo che erano stati nel complesso ben accolti, dando origine a una élite composita, in parte ancora nobiliare ma sempre più borghese, che nell’ultimo quarto dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento ha saputo tutto sommato gestire piuttosto efficacemente il dinamismo, non solo economico ma anche culturale, di Milano. Lo stesso patriziato milanese aveva dato, ancora nella stagione del secondo dopoguerra, contributi di primissimo piano, basti pensare a un architetto come Alberico Barbiano di Belgiojoso e a un regista come Luchino Visconti.
La nuova élite
Ecco qui qualcosa è cambiato. La nuova élite nata con il boom e consolidatasi nei decenni successivi è diversa. Due aspetti mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Innanzitutto questa nuova gentry è meno legata alla città e al territorio, sia per provenienza che per destinazione, rispetto alle vecchie élites, vincolate alla terra prima e poi alla fabbrica, oltre che alle residenze di villeggiatura in Brianza o sui laghi.
La nuova borghesia che gravita – la parola non è scelta a caso – su Milano, ha “spazi investiti” e “spazi vissuti” molto più ampi ma il suo rapporto con la città è provvisorio, legato per lo più a una fase della vita professionale e famigliare.
Milano è di frequente solo un tappa di un percorso di mobilità complesso e internazionale. Istituzioni di formazione, pur prestigiose, come la Bocconi o il Politecnico, possono essere un punto di approdo – provvisorio – per molti giovani di altre parti d’Italia, ma per i rampolli della borghesia milanese già consolidata sono solo il punto di partenza verso altri, per più importanti, snodi del network delle città globali: Londra, New York, Amsterdam, Berlino… Milano ha dimostrato di drenare molto efficacemente capitali, anche umani, dal resto d’Italia, ma risente a sua volta della capacità di attrazione esercitata da questi centri sui suoi abitanti più ricchi e dinamici. La nuova élite in una certa misura si limita a transitare per la città, strumentalizzandola.
Conservatorismo felpato
A questa nuova apertura globale, fa inoltre riscontro una maggiore chiusura sociale e ambientale di questo universo sociale pur dai contorni sfumati. La componente più affluente della nuova Milano ha più dimestichezza con le realtà europee e mondiali citate che con il mondo al di là delle cerchie che tradizionalmente delimitano la città, il che implica anche una crescente estraneità fra le diverse componenti sociali.
Finita la grande stagione della mobilità ascendente degli anni 50-70, con l’arruolamento di ampi strati della media e piccola borghesia, la nuova gentry milanese nonostante, o forse proprio in virtù del suo ostentato cosmopolitismo e apertura culturale, presidia in realtà con molta attenzione le frontiere, materiali e immateriali, del suo mondo, allontanando, o quanto meno selezionando attentamente, i nuovi aspiranti. In larga misura la sua autodefinizione è senza dubbio progressista, ma questo progressismo culturale, anche sincero quando si parla di ambiente e diritti della persona, va di pari passo con un conservatorismo felpato ma in sostanza intransigente quando si tratta di diritti sociali.
Milano e suoi margini
Tra la gentry e la maggior parte della popolazione – soprattutto quella che è dovuta defluire nelle periferie e nell’hinterland – è cresciuto un sentimento di estraneità, quasi di ostilità, reciproca e profonda. Da un parte un sentimento di superiorità venato di disprezzo e, nel migliore dei casi, di paternalismo, dall’altra, quelli degli sconfitti, allontanati dalla “rigenerazione” promossa dalla speculazione immobiliare, un rancore, o se si vuole un’invidia sociale, alimentata dal senso di declino e dalla mancanza di prospettive. Paradossalmente, la coesione sociale della città appare più fragile oggi che nella turbolenta fase finale dei “trenta gloriosi”, quando pure le contrapposizioni sociali, politiche e ideologiche si erano, anche a Milano, manifestate con molta asprezza.
Al tempo tuttavia almeno una parte, non piccola, della classe dirigente cittadina, erede di una tradizione illuminista e riformista, ma anche cattolica, sembrava disposta ad ascoltare, e in parte a far proprie, le istanze di rinnovamento ed equità sociale.
Questo mi sembra, in una sintesi, il panorama che fa da sfondo alle vicende politico-giudiziarie di questi giorni. Al di là del glamour, degli aperitivi, della movida e della moda, e soprattutto al di là della finanza, la vitalità di Milano sembra poggiare su fondamenta piuttosto precarie. La città svolge ancora la sua funzione tradizionale di punto di ancoraggio dell’Italia all’Europa e all’Occidente. Ciò che non riesce più a fare, a differenza del passato, è trasformare questa capacità in una forza propulsiva – economica, ma anche culturale e politica – per il Paese nel suo complesso.
L’analisi effettuata nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne potrà non piacere, potrà essere cruda e forse anche crudele in alcune considerazioni, ma fotografa una realtà basata su dati e numeri forniti da Istat, Censis e CNEL. Una realtà – e questa è la premessa – che è stata sottovalutata per decenni e sicuramente dal 2022 quando, durante una riunione del Cipess, è stata presentato l’aggiornamento della classificazione degli enti locali che raccontava di un aumento complessivo dei Comuni periferici e ultra-periferici: +7,9%. La faciloneria con cui alcuni hanno titolato che il piano del governo fosse di abbandonare le aree interne è stato un ruggito ideologico che, ahimè, prescinde dall’analisi della complessità dei contesti e dei processi in cui versano quelle aree. Aree che rispecchiano non solo una tendenza italiana all’emigrazione prima dalle ultra-periferie verso i centri e poi dai centri all’estero, ma soprattutto una condizione di denatalità di cui abbiamo il primato in Europa.
La popolazione complessiva e specificatamente quella calabrese, sta invecchiando
Il futuro che ci attende è vecchio
Invecchiamo come sistema-paese, non siamo nelle condizioni di garantire un efficace e strutturale ricambio generazionale, siamo poco attrattivi perfino per noi stessi. Questo accade al Nord, al Centro e al Sud (con maggiore intensità, viste le storiche ed endemiche disparità di cui questo disgraziato Paese soffre). Solo che lì – qui – la crisi è più forte perché ci sono meno lavoro, infrastrutture e servizi e la morfologia territoriale dominata dalla dorsale appenninica acuisce isolamento e difficoltà di progettazione e realizzazione di assi di comunicazione che, spesso, non hanno i numeri – la massa critica – per ritenersi sostenibili in termini di costi di realizzazione e conseguente impatto sociale.
Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, prendendo spunto dagli errori del primo ciclo sperimentale della SNAI relativo al settennato 2014-2020, ne sottolinea i risultati metodologici (partenariato multi-livello e multi-attoriale, processi di co-progettazione integrata per ambiti settoriali e ridisegno dei percorsi di sviluppo locale), ne approfitta per intervenire laddove fondi, processi e procedure non hanno funzionato o lo hanno fatto poco e male e illustra come per il ciclo 2021-2027 gli strumenti di pianificazione, attuazione e governance siano stati migliorati di pari passo con un aumento dei fondi dedicati.
La minaccia del deserto demografico
Contro l’ineluttabilità del destino
È vero poi che nel Piano si parla di una casistica dedicata a un «accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile», laddove si riscontri «un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita», ma – aggiunge Alessandro Rosina, il demografo dell’Università Cattolica che ha curato i dati inseriti nel Piano – «ogni Comune deve poter valutare in quale di queste quattro tipologie si colloca». (Per le tipologie si veda alle pag.. 44 e 45 del Piano, ndr.). E che, in ogni caso, «nessun Comune ha di fronte un destino ineluttabile in relazione alle coordinate geografiche in cui si trova, ma sono molti i Comuni che rischiano un percorso di marginalizzazione irreversibile per le dinamiche demografiche che li caratterizzano». Un po’ diverso dall’affermare che il Governo voglia lasciare per strada i 1.904 Comuni delle 124 aree di progetto, oltre 4 milioni di abitanti che vanno da Nord a Sud e che rappresentano una parte importante, se non cruciale, dell’Italia.
Il destino delle aree marginali
Chiarito questo punto bisogna però raccontare l’altro pezzo di verità: il come sia stata effettuata la programmazione e l’attuazione degli interventi, come (e se) siano stati spesi i fondi disponibili, quale sia stata la qualità di quella spesa e quale sia il modello alla base. Calcolo sommario: tra le risorse dei cicli 14-20 e 21–27, senza considerare gli incrementi dei fondi solo parzialmente dedicati alle aree interne, si arriva a oltre 1,1 miliardi di euro, cui vanno aggiunti ulteriori 600 mila euro a valere sulla missione 5 del PNRR dedicata al Potenziamento servizi e infrastrutture sociali di Comunità e strutture sanitarie di prossimità.
Si è programmato bene? Si è attuato bene? Si è speso bene? Per le diverse mansioni che ricopro e per i rapporti che intrattengo ho avuto modo di parlare con diversi amministratori locali. Ad esempio, a Cardeto, comune periferico del Reggino, sono stati impiegati 2 milioni di euro per realizzare un asilo nido per un paesino che non ha neonato.
Dalla Regione altri 36 milioni
Qualche mese fa l’inserimento di altre tre aree SNAI calabresi nel ciclo di programmazione 21-27, ha portato la Regione a decretare un cofinanziamento di 36 milioni di euro da aggiungersi alle risorse nazionali destinate ai comuni del Versante Tirrenico Aspromonte, dell’Alto Jonio Cosentino e dell’Alto Tirreno Cosentino Pollino. Questo mentre Maria Foti, sindaca di Montebello Jonico, e nuova referente per la SNAI grecanica, raccontava lo scorso ottobre come quella strategia, dotata di 28 milioni di euro per il periodo 14-20, gestiti in gran parte dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria, proseguisse a passo di lumaca e come l’attuazione dei suoi interventi si attestasse attorno al 4% a fronte di un 30% complessivo di realizzazione dell’intera strategia, mentre la Regione chiedeva che le obbligazioni giuridicamente vincolanti venissero presentate entro lo scorso 31 dicembre.
Aree interne a rischio di scomparsa
La Sintesi dello stato di attuazione Aree SNAI 2021-2027 redatta dal Settore “Strategie Aree interne, comuni in via di spopolamento, minoranze linguistiche” del Dipartimento Agricoltura di Regione Calabria, evidenziava un gap di programmazione e attuazione di 2 anni che rischiava di mandare i fondi a revoca, quando sarebbe invece dovuto già partire l’accordo di programma per il biennio 2025 – 2027: «Delle quattro Aree finanziate sul territorio regionale nel precedente periodo di programmazione, tre hanno firmato l’APQ solo nel 2022. Il riconoscimento di Aree interne e il finanziamento a livello nazionale di queste Aree è avvenuto, infatti, solo a fine 2019, e il successivo ritardo nel compimento delle fasi di progettazione e definizione procedurale, a livello locale, hanno dilatato i tempi della programmazione territoriale»
La denatalità segna gran parte della aree interne
Denatalità e disinteresse delle istituzioni sono i due nemici
Ma, volendo pure mettere da parte i tecnicismi, non si può procedere ad alcun ragionamento senza considerare due dimensioni: il disinteresse dei governi e delle Regioni nel programmare e attuare politiche di mitigazione delle crisi e di sviluppo locale per aree considerate appendici da dimenticare, con un destino segnato; e la tendenza, oggi divenuta drammatica realtà, alla denatalità. E qui arriviamo al punto: perché senza nuovi nati, senza giovani, non c’è vita, non ci sono prospettive di crescita, non ci sono strade, servizi o prospettive di invecchiamento attivo che tengano.
Ripensare presto il modello di intervento
Il modello allora va ripensato dalla base: le aree interne non sono luoghi da turismo esperienziale, trattorie, amenità naturalistiche o residenze di artista. Sono luoghi reali, con opportunità concrete, che vanno ricalibrate. Sono i luoghi dell’allevamento, dell’agricoltura 5.0 e quelli delle risorse primarie. Sono i posti dove la qualità di vita può essere migliore, dove il paradigma digitale, ancora agli albori, può fare una differenza che noi nemmeno ancora immaginiamo. Ma sono soprattutto i luoghi che hanno bisogno di figli, di uomini, donne, ragazze, ragazzi in grado di attivare processi di produzione e promuovere strategia di vita sostenibili e lungimiranti. Strade e servizi arrivano appresso, ma arrivano meglio quando viene messa una visione concreta di futuro.
Precacore di Samo
Un processo lungo e per nulla scontato, ma necessario
Il processo è lungo e complesso e la sua riuscita non è scontata. Bisogna però cominciare a lavorare affinché si creino le condizioni per vivere, rimanere e prolificare. E noi possiamo contare su un formidabile alleato: gli immigrati. Sono loro che fanno figli, che non temono la fatica, il lavoro nei campi o con gli animali. Portarli nelle aree interne, dove è più facile interagire e riconoscersi, promuovere progetti di imprenditorialità legati all’agricoltura, all’allevamento, alla zootecnia, può dare una nuova chance di vita a loro, a noi e ai territori. A patto che a questo si aggiunga la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida epocale che come tale va trattata. Con idee e risorse capaci di programmare e agire a 360 gradi. Perché che manchino strade e servizi è sotto gli occhi di tutti, ma bisogna porre le condizioni e le necessità affinché siano realizzati.
Quei boschi non sono solo un posto per le vacanze. Oltre alle storie antiche, legate ai luoghi e alle genti che li abitano, c’è pure un fatto di cronaca rimasto in parte misterioso e annodato a una delle grandi tragedie di questo Paese: la strage di Ustica. È la vicenda del Mig libico precipitato in Sila, sulla Timpa delle Magare, che oggi raccontiamo in un podcast
Nella graduatoria, per regioni, dell’astensionismo agli ultimi referendum, la Calabria si colloca al terzo posto, preceduta dalla Sicilia e dal Trentino. Non è certo una novità che siano in molti gli elettori calabresi che disertano le urne nelle occasioni elettorali. Il dato della scarsa partecipazione elettorale dei calabresi ai referendum, però, stride con l’altro dato sulla partecipazione che si era registrato nelle ultime comunali di soli 15 giorni prima. Nelle comunali del maggio 2025, infatti, i calabresi avevano votato (gli elettori erano stati il 60,9%, percentuale più alta della media nazionale che è stata del 56,3%) più che in altre regioni e più di un punto e mezzo superiore alle precedenti elezioni comunali degli stessi comuni al voto.
Nelle comunali del 2025, la Calabria, insieme alla Liguria, “trainata” dalla città di Genova, sono state le due regioni dove la partecipazione è aumentata rispetto alla precedente elezione, segnando un evidente contrasto alla tendenza crescente dell’astensionismo in Italia in tutti i tipi di elezioni.
La Calabria tra le regioni con la più bassa partecipazione elettorale
In Calabria è forte il richiamo del voto personale
Se per la Liguria era stata la scelta del sindaco del comune di Genova a suscitare interesse nei cittadini-elettori, in Calabria i tanti candidati consiglieri sono riusciti a mobilitare molte di quelle persone che solitamente non si recano a votare anche nelle elezioni più importanti. In Calabria il voto alla persona rimane, forse, il principale criterio della scelta elettorale.
In questi referendum, come d’altra parte in quasi tutti gli altri referendum abrogativi che si sono svolti in Italia, l’astensione è diventata opzione strategica – messa in campo dai partiti contrari alla cancellazione degli articoli di legge sottoposti al vaglio della democrazia diretta – per far mancare il quorum e rendere nulla la consultazione popolare attraverso questa forma di democrazia diretta. Quindi la lettura dei dati sull’astensionismo deve tener conto di questa opzione che giustifica, però, solo in parte i bassi livelli di partecipazione.
La separazione tra cittadini e partecipazione politica rappresenta un segnale preoccupante
La bassa partecipazione indica la scarsa attenzione verso il funzionamento della democrazia
I cittadini che si recano a votare, oltre a confermare l’importanza dei diritti politici, sono espressione di senso civico e di appartenenza ad una comunità politica. Bassi livelli di partecipazione a dei referendum che ponevano questioni importanti, anche se non di interesse generale, sono indicativi dello scarso interesse che i cittadini hanno verso la politica e al funzionamento della democrazia e delle istituzioni.
Cosenza la provincia dove si è votato di più
Analizzando più nel dettaglio il dato della partecipazione della Calabria, pur nella poca rilevanza delle percentuali, si registrano differenze di un certo rilievo fra le province. Cosenza è la provincia con la più alta percentuale di partecipanti con il 26,2%, segue Catanzaro con il 23,8% (dove ha influito il ballottaggio delle comunali di Lamezia, svoltosi in contemporanea ai referendum) mentre le restanti province spaziano dal 19,1% di Crotone al 20,1% di Reggio Calabria, con Vibo Valentia al 19,6%.
A Lamezia e in altri comuni i candidati mobilitano gli elettori
Più interessante è andare a vedere quali comuni occupano sia i primi posti che gli ultimi della graduatoria regionale della partecipazione. Ai primi posti troviamo, oltre a Lamezia, alcuni dei comuni più popolosi ma anche piccoli e piccolissimi comuni, dove, evidentemente, c’è stata una qualche mobilitazione – messa in atto dal sindaco, dal partito, dal sindacalista, ecc. – che, secondo la statistica, ha collocato questi comuni sopra la media della partecipazione regionale e nazionale.
San Luca e Platì sono i paesi dove si è votato di meno e dove non si trovano candidati
A San Luca e Platì il record di astensione
In fondo alla graduatoria regionale, agli ultimi due posti, troviamo Platì con il 4,9% di votanti e San Luca, 5,7%. Questi due comuni della provincia di Reggio Calabria sono i comuni d’Italia con il maggiore astensionismo: solo un elettore su 20 è andato a votare! Si può leggere questo dato in diversi modi che, però, conducono tutti all’interpretazione ovvia di un evidente scollamento fra questi cittadini e le istituzioni. Non interessano i quesiti referendari a questi cittadini, magari alle prese con questioni ben più gravi, così come, da tempo, sembrano non essere interessati alle vicende del funzionamento istituzionale del comune, della regione, della nazione.
È quello che possiamo affermare osservando i livelli della partecipazione al voto in questi due comuni e che, purtroppo, non sono gli unici a trovarsi in questa condizione della provincia di Reggio Calabria. A Platì, consiglio comunale sciolto ben tre volte per infiltrazione mafiosa, nell’ultima elezione comunale svoltasi ha partecipato il 33,1% degli elettori. Nelle regionali del 2021 i votanti sono stati il 28,7%; alla Camera, nel 2022, ha votato il 31,3% dei cittadini. Alle Europee dello scorso anno a Platì ha votato solo il 13,5% degli aventi diritto.
La rassegnazione e la mancanza di candidati
San Luca, anch’esso comune sciolto ben tre volte per infiltrazione mafiosa, è da tempo che non riesce ad avere un sindaco demoeletto. Non si trovano cittadini disposti a candidarsi al governo del comune probabilmente anche perché lo scioglimento per infiltrazione mafiosa sembra un evento inevitabile. L’ultimo commissariamento risale allo scorso marzo quando la guida del comune era stata affidata dal prefetto ad un commissario straordinario, a causa della mancata presentazione di liste nelle elezioni comunali. Nelle regionali del 2021 a San Luca aveva votato il 23,6% degli aventi diritto; alla Camera nel 2022 aveva votato il 21,5%; alle ultime Europee la percentuale si era abbassata al 21,5%.
La mancata partecipazione dei cittadini è un pericolo per la qualità della democrazia
Un deficit democratico cui sembra non si possa rimediare
Se uno dei principali indicatori del funzionamento istituzionale della democrazia è il grado della partecipazione politica ed elettorale dei cittadini, questi dati su San Luca e Platì, i comuni più “astensionisti” d’Italia, rappresentano un serio allarme. In verità, questa situazione di deficit democratico si prolunga peggiorando nel tempo e sembrano non esserci, al momento, soluzioni che possano fermare questo declino. È di tutta evidenza che l’intervento dello Stato, soprattutto con l’insediamento dei vari commissari, organi straordinari sostitutivi della pubblica amministrazione, non ha prodotto risultati apprezzabili. L’attestazione di questo “fallimento” si può leggere proprio nei dati sulla partecipazione elettorale, in questa come in tutte le altre occasioni, nei quali si riscontra tutta la sfiducia e diffidenza dei cittadini nei confronti delle istituzioni democratiche.
Roberto De Luca docente di Sociologia dei Fenomeni Politici
«Nel 2015, il mondo si è impegnato a porre fine al lavoro minorile entro il 2025. Il termine è scaduto, ma il lavoro minorile esiste ancora». Questa amara constatazione, che riecheggia nei rapporti internazionali, suona come una condanna in Calabria, terra di perenni contrasti, dove una bellezza mozzafiato convive con un’oscurità sociale che inghiotte il futuro dei suoi figli. Questo è il paradosso di una regione che è epicentro di un’emergenza silenziosa e inaccettabile: il lavoro minorile, un fenomeno che in Italia coinvolge una stima di 336 mila bambini e adolescenti .
Un fatto sociale diffuso nel Sud, soprattutto in Calabria
Mentre il mondo ha visto una, seppur lenta, diminuzione del fenomeno, la Calabria sembra marciare in direzione contraria. Qui, i dati nazionali, già allarmanti, assumono i contorni di una vera e propria voragine. È nel Mezzogiorno che questo sfruttamento rivela il suo volto più feroce e la Calabria si distingue come un’area ad altissimo rischio, in un’emorragia di futuro che prosciuga la regione delle sue energie più vitali e la cui reale dimensione rimane in gran parte invisibile alle statistiche ufficiali .
All’origine del fenomeno un diffuso disagio sociale e forme di povertà
Le nuove forme di povertà alla base del fenomeno
I numeri non descrivono il freddo di un cantiere, l’odore acre dei campi o la stanchezza di un servizio ai tavoli che si protrae per ore. Sono storie di ragazzi costretti a barattare i sogni per garantire un presente alla propria famiglia. La spinta è quasi sempre la vulnerabilità socioeconomica, quella stessa fragilità che colpisce quasi un terzo dei minori calabresi in povertà relativa, lasciando le famiglie prive di strumenti e rendendo il lavoro precoce una drammatica necessità
Sul lavoro invece che a scuola
Questo dramma sociale si intreccia inestricabilmente con un’altra piaga: la dispersione scolastica. Lavoro precoce e abbandono degli studi sono due facce della stessa medaglia, un circolo vizioso che condanna intere generazioni. Un adolescente che lavora ha una probabilità quasi doppia di essere bocciato e più che doppia di interrompere la scuola. È la negazione del diritto primario all’istruzione, in un contesto dove il tempo per lo studio è divorato dalla fatica In Calabria, il lavoro non è solo precoce, è spesso pericoloso, con la regione che figura tragicamente tra le sei in Italia che concentrano oltre la metà dei decessi sul lavoro di minori. A questa realtà si aggiunge la presenza asfissiante della ‘Ndrangheta, che si nutre del disagio e trova nei più giovani una manovalanza a basso costo, trasformando lo sfruttamento in uno strumento di controllo e reclutamento criminale
La fuga dalla scuola verso un lavoro sfruttato
La sostanziale assenza delle istituzioni
A fronte di questo scenario, la risposta delle istituzioni appare drammaticamente inadeguata. Mentre si invocano normative più stringenti, la Calabria soffre di una cronica carenza di controlli. Con circa 110 ispettori per 180.000 imprese, la vigilanza è un miraggio, lasciando migliaia di minori esposti a rischi e abusi senza alcuna tutela effettiva .
Eppure, in questo quadro desolante, si accendono piccole luci di speranza. Sono le iniziative del terzo settore e progetti coraggiosi come “Liberi di Scegliere”, che tentano di spezzare le catene che legano i figli delle famiglie di ‘ndrangheta a un destino criminale, offrendo loro una possibilità di futuro diversa, una via d’uscita basata sulla legalità e sulla dignità .
Serve un intervento dello Stato e della Regione
Per essere pienamente efficaci, però, le iniziative isolate non bastano. La lotta al lavoro minorile deve diventare una priorità nazionale e regionale. Serve un intervento straordinario, un piano Marshall per l’infanzia calabrese che metta al centro l’istruzione, i servizi e la creazione di lavoro legale. Perché il futuro della Calabria non può e non deve essere costruito sulle macerie dei sogni dei suoi figli, in un Paese che, nonostante gli impegni, non è ancora riuscito a proteggerli tutti.
È un onore singolare, quasi sacro, quello di presiedere al rito della democrazia. Per due giorni, un’aula scolastica è diventata un tempio laico: il seggio 12, nella valle di Montalto Uffugo. In questo spazio sospeso, ho avuto il privilegio di essere il custode di un meccanismo delicato e potente, oliato dalla dedizione di persone splendide. Un segretario la cui esperienza era una bussola sicura, scrutatori che non hanno misurato il tempo né la fatica, rappresentanti di lista che hanno deposto le armi della dialettica per impugnare gli strumenti di una collaborazione leale. A sorreggere l’intera impalcatura, la professionalità e la disponibilità assolute dei dipendenti comunali, pronti a rispondere a ogni mia richiesta e a risolvere ogni imprevisto per garantire che la volontà popolare si esprimesse senza il minimo ostacolo. Eravamo davvero un’orchestra intonata, e per questo sento di aver servito il mio Paese nel suo volto migliore.
Il rito del voto e l’importanza del gesto
In questo fluire ordinato di gesti ripetuti – la matita copiativa, il documento, la firma – un’immagine si è scolpita nella mia memoria, trasformando il rito civico in un atto di profonda umanità. Una madre si è avvicinata all’urna tenendo per mano sua figlia, una bambina dai cui tratti somatici traspariva il disegno di un mondo che si incontra, frutto di un amore che ha superato i confini. Con la pazienza che si riserva ai gesti fondativi, la madre le ha spiegato che quel pezzo di carta era un seme, una leva per spostare il futuro.
La madre e la bambina
Poi ha preso la quinta scheda, quella gialla, sulla cittadinanza. “Questa,” le ha sussurrato con una gravità carica d’amore, “è la più importante di tutte”. E ha lasciato che fossero le piccole mani della figlia a compiere l’ultimo passo, a far scivolare quella promessa nell’urna. In quel gesto, ho visto una madre che non depositava un voto, ma piantava una radice per sua figlia nella terra che già chiamava casa.
Lo spoglio e i risultati
Poi è venuto il momento dello spoglio. Il flusso dei votanti si è interrotto, ma le porte del seggio sono rimaste aperte, come la legge vuole. L’aula si è trasformata in un palcoscenico pubblico dove, sotto gli occhi di chiunque volesse assistere, la volontà della nostra comunità stava per essere svelata. Fuori la luce del sole era ancora alta, ma mentre le nostre mani cominciavano a danzare sui tavoli, rovesciando le urne, una notte diversa, più intima e profonda, ha cominciato a scendere dentro di me.
Il prevalere dei Sì, la presenza dei No
Le prime schede gialle erano un canto di speranza. Un “Sì”. Un altro. Un altro ancora. Si è creato un ritmo, una melodia di accoglienza che sembrava la risposta diretta alla preghiera di quella madre. Il mio seggio stava scegliendo, stava disegnando un orizzonte di inclusione. Alla fine, il conto è stato un’onda di speranza: 220 “Sì”. Una vittoria. La testimonianza che in questa piccola porzione d’Italia, la fiducia era più forte del sospetto. Eppure, in questa musica, una nota stonata, insistente, tornava a farsi sentire. Novantasei volte. NO. Una cifra che sulla carta è solo un numero, il residuo di una sconfitta. Ma in quel momento, per me, erano certamente troppi. Novantasei “no” non erano un’opinione politica; erano 96 porte sbattute in faccia a quella bambina. 96 muri eretti contro il suo futuro. Ogni “no” era la negazione di quel gesto d’amore a cui avevo assistito. La luce del sole illuminava la vittoria del “Sì”, ma l’ombra di quei “no” proiettava una notte sullo spirito.
Il quorum mancato
È la strana malinconia di una vittoria locale che si scontra con la desolazione nazionale. Mentre noi contavamo i nostri 220 “Sì”, nel resto del Paese il silenzio di chi non ha votato era assordante, lasciando che il referendum fallisse senza raggiungere il quorum. E anche qui, in questo nostro piccolo successo, quasi cento persone si erano prese il disturbo di venire a dire “no”. Ecco la vera sfida che ci attende. Non la rabbia, ma un’empatica tristezza per quelle 96 paure. La paura di chi si sente fragile, di chi vede il cambiamento non come una promessa ma come una minaccia. Paure reali, che una politica troppo impegnata a contare voti invece che a interpretare anime, si rifiuta di ascoltare.
La speranza che rimane
La vita di quella bambina, la sua storia, sarà più grande e importante dei “no” e dei “sì”, e più forte di una politica colpevole che insegue le paure invece di guidare il Paese. Il suo gesto è stato più che un seme: è stata la miccia di un cambiamento necessario, a prescindere da ciò che in questo momento teme la maggioranza del Paese. Perché la vita, nel suo corso inarrestabile, è sempre più potente dei voti che cercano di contenerla.
C’è un’energia antica, in Calabria, che scorre sotterranea. È la forza delle fiumare, quei corsi d’acqua selvaggi che per mesi sembrano dormire sotto il sole, per poi gonfiarsi d’impeto e ridisegnare il paesaggio, trascinando con sé tutto ciò che incontrano. Per capire la parabola di Francesca Immacolata Chaouqui, bisogna forse partire da qui, dalle radici affondate in quella terra, da padre franco-marocchino e madre italiana. La giovane donna ora è indagata per “traffico di influenze” e per aver indotto il cardinale Becciu a commettere i reati. Per quei reati il cardinale fu condannato e dunque inibito a partecipare al conclave che ha eletto il nuovo Papa
Un momento dell’evento Incontri d’estate, a Diamante, la cui ospite era la Chaouqui
Le sue radici tra il Marocco e la Calabria
Da quel mondo di silenzi antichi e orizzonti familiari, dopo una laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma , è partita una ragazza che portava in sé la tenacia della ginestra, capace di fiorire sulla roccia più aspra, e l’ambizione di chi sa che l’unica via d’uscita è guardare oltre la montagna. La sua non è stata una semplice migrazione verso Roma. È stata una scalata, condotta con la pazienza del contadino e l’astuzia del predatore. Ogni contatto, ogni stretta di mano, diventava un appiglio: dallo Studio legale Orrik , alla Ernst &Young dove il suo compito, ironia della sorte, era comunicare che il potere economico del Vaticano stava diventando “costruttivo, positivo e trasparente”. Un percorso che, secondo alcune cronache, avrebbe incrociato persino l’ombra lunga di Giulio Andreotti.
San Sosti e la processione della Madonna del Pettoruto
Da San Sosti agli studi legali più prestigiosi, fino al potere
Quando, nel luglio 2013, il suo nome risuonò sotto le volte della Basilica di San Pietro, molti si chiesero chi fosse questa giovane donna calabrese. Era l’unica italiana, l’unica donna e l’unica sotto i 50 anni in una commissione chiamata da un Papa a fare ordine nelle finanze più segrete del mondo. Papa Francesco stesso ammise in seguito di non essere del tutto sicuro di come fosse entrata nella commissione, ipotizzando una segnalazione di Monsignor Balda. Non compresero che in lei non c’era la levigata diplomazia dei salotti, ma la schiettezza a volte brutale della sua terra, unita a un legame familiare con l’interno delle Mura Leonine, dato che suo marito, Corrado Lanino, era un informatico con pregressa esperienza lavorativa in Vaticano.
L’unica donna in una commissione strategica
La nominarono membro della COSEA, con il compito ufficiale di “analizzare i sistemi di comunicazione e progettare un sistema organico e coordinato” per la Santa Sede (11), e lei divenne il centro di un vortice. L’hanno chiamata in tanti modi: “La Papessa”,che scoperchiava il vaso di Pandora dei segreti vaticani.
Una immagine della Chaouqui durante una udienza del processo Vatileaks
Lo scandalo Vatileaks
Lo scandalo Vatileaks 2 fu la piena della fiumara. Documenti, password – Balda ammise di averne passate 87 a un giornalista – veleni. Un’aula di tribunale vaticano trasformata in un teatro di odi e accuse, in un’atmosfera definita “detestabile” , dove la sua alleanza con Monsignor Balda si era tramutata in una “faida” moderna. E lei, al centro, incinta, che alternava la rabbia alla fragilità. Alla fine, fu assolta dall’accusa di aver passato materialmente i documenti, ma condannata per concorso morale: per aver, secondo la Corte, agevolato la divulgazione presentando i giornalisti a Balda, organizzando incontri e creando così l’opportunità per la commissione del reato.
Esattamente come una fiumara calabrese, la Chaouqui ha travolto i silenzi dei palazzi vaticani
La giovane calabrese è accusata di falsa testimonianza
Ma le fiumare, anche quando l’acqua si ritira, lasciano un segno indelebile. E Francesca non è scomparsa. Si è reinventata, ha cavalcato i media. È riapparsa come un’ombra nell’ultimo, grande processo vaticano, quello contro il cardinale Becciu, con nuove, pesanti accuse a suo carico: traffico di influenze, falsa testimonianza e subornazione. Avrebbe manovrato testimoni chiave, sussurrato parole in orecchie cruciali, forte di un presunto rancore verso il Cardinale, che riteneva responsabile della sua precedente incriminazione, e con la persistente affermazione di possedere ancora gli archivi della COSEA , un tesoro di informazioni che aleggia come un’ombra.
Papa Francesco e il cardinale Becciu
Una storia calabrese: da un piccolo paese all’ambiguità del potere
La sua è una storia profondamente calabrese. È la storia di un’intelligenza feroce che non accetta i confini imposti. È il racconto di un’ambizione che diventa, per chi la osserva, a tratti ammirevole e a tratti spaventosa. Ed è l’eterno dilemma di una terra che genera talenti capaci di scalare il mondo, ma che portano sempre con sé un’eredità di fierezza indomabile che, fuori dai confini natii, viene spesso letta come arroganza, o come un pericolo da neutralizzare.
Riformatrice o avventuriera? Whistleblower o opportunista? Forse, Francesca Chaouqui è semplicemente il riflesso di una Calabria che non si rassegna a rimanere ai margini dell’Impero. Una forza della natura che, nel bene e nel male, ha dimostrato che persino le mura più antiche e spesse, quelle del Vaticano, possono tremare di fronte all’impeto di una fiumara che scende inarrestabile dal Pollino.
Tommaso Scicchitano
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