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  • Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

    Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

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    «Mio fratello aveva vinto un viaggio-premio con la Findus, disse: vieni, mia moglie rinuncia, dobbiamo tirarci su. Andammo dunque a Rio de Janeiro: stavamo salendo verso il Cristo del Corcovado quando sentimmo alla radio la parola “Taurianova” E io mi sentii piccolo così».
    Negli anni ’90 la frase «Tanto si ammazzano fra loro» non prevedeva la presenza di innocenti.

    Il paese di don Ciccio Macrì detto Mazzetta, della sua Mercedes e dell’ospedale che sistemava tutti. Pertini che lo caccia via con un provvedimento senza precedenti, il consiglio comunale sciolto per mafia. E poi la faida, la Calabria buia, perduta, tribale. Oltre trent’anni dopo, è successo che alcuni parenti delle vittime – delle une e delle altre famiglie – hanno ideato e partecipato a un docufilm, presentato nella chiesa del Rosario. Persone da ascoltare – gente come noi, con gli occhiali, con i figli, ma bollati a vita – perché questo è un piccolo miracolo. Un segno di futuro, che va oltre la paura e il risentimento.

    Così hanno salvato i bambini delle faide 

    C’è una storia di quegli anni, rivenuta fuori da poco e raccontata anche da don Luigi Ciotti: a quel tempo, i bambini delle faide calabresi furono nascosti a casa di famiglie che si offrirono di crescerli, a rischio della vita. Quei bambini oggi sono uomini e donne salvate, magari hanno un altro nome, uno fa il musicista. Il male ha un appeal commerciale, il bene stufa: chi ha mai raccontato questa storia? Del resto viviamo in un paese in cui i libri noir sono più degli omicidi.

    Quel romanzo e la distruzione di una comunità

    Patria di Fernando Aramburu non è un noir ma una storia vera: letta, riletta, regalata. Parla del terrorismo dell’Eta nei Paesi Baschi, di innocenti ammazzati, di esistenze al buio e morti che camminano, di un sentimento che non è mai perdono, forse rimorso. Di posti chiusi, silenzi e omertà. Aramburu racconta la distruzione di una comunità, che è poi quello che accadde a Taurianova e ad altri paesi della Calabria. Con una rinascita che arriva all’ultima riga.
    Quindi, ecco il docufilm Il Venerdì nero: dopo trent’anni di silenzio che non sono passati invano. Insolita la location per la presentazione, ma girando per la Calabria, scoprirete che moltissime esperienze di riscatto, di lavoro e di resistenza partono da una molla, la fede. Non ci sono state solo processioni fermate sotto il balcone del boss, ma preti e, meno spesso, vescovi che si sono ribellati.

    Fu una faida feroce, i particolari macabri stanno dentro la letteratura della ‘ndrangheta e ne parlarono anche a Rio, come racconta il figlio e nipote di due vittime, oggi assessore. Ci furono decine di morti, fu colpita una ragazzina. La vendetta doveva arrivare ai figli dei figli, ai padri dei padri. Taurianova è più grande di Locri, ha il colore delle campagne. In certe strade senza nome ci si perde, ogni tanto il cippo di una Madonna e fiori finti, confini invisibili, e una varietà incredibile di case: esagerate, non-finite, dignitose. Ci sono tornato di recente per Agrifest, su invito di un gruppo di ragazzi conosciuti in un centro civico dove si fa formazione e accoglienza: lavorano per la buona e sostenibile agricoltura, prezzo giusto, salario giusto.
    Ma quanti anni sono passati, Taurianova? Nel ’91 per la mattanza scattò il coprifuoco.

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    L’articolo della Gazzetta del Sud sulla terribile strage di Taurianova, nota come il “Venerdì nero”

    Tutto quello che è rimosso, prima o poi riaffiora

    Il sociologo Mimmo Petullà, figlio di una vittima, dice nel film: tutto ciò che è rimosso, prima o poi riaffiora. «E non bisogna scadere nella commemorazione, lo scopo è quello di ricostruire una memoria collettiva. La ‘ndrangheta ha paura della memoria, ha bisogno di persone che non pensano». Dietro di lui, la foto del padre. I ragazzi del Pci appena diventato Pds scesero allora in piazza per dire basta, Giovanni Accardi dice: «Volevamo occupare il nostro spazio di giovani, non potevamo mettere la testa sotto la sabbia». Il Partito comunista aveva già i suoi martiri: Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti, Giannino Losardo.

    «Noi non ci vendicheremo»

    Il Venerdì Nero, un anno di lavoro, è firmato da Nadia Macrì, che è direttrice di Taurianova Talk, e dal cugino Filippo Andreacchio. Il loro nonno si chiamava Antonio Alampi e fu colpito alle spalle, nella campagna verso Polistena. «La sua storia ha segnato la nostra famiglia: era tornato a piedi a casa dalla guerra, aveva visto l’orrore. Non sopportava le armi. Due settimane dopo uccisero nello stesso luogo un’altra persona, ci è rimasta sempre in testa l’ipotesi che nonno Antonio fosse stato colpito per sbaglio». In chiesa, Vincenzo “Cecé” Alampi, suo figlio, si alzò in piedi per dire che no, loro non avrebbero reagito. «Andiamo avanti, non ci vendichiamo» disse. Poi è diventato direttore della Caritas diocesana. Oggi aggiunge: «Non siamo rimasti intrappolati dalle ragioni del passato».

    Nadia Macrì era bimba a quei funerali e da allora le ronza in testa quella frase di Peppino Impastato: «La mafia è una montagna di merda». Forse questo film è una forma di perdono? «Nessuno ce lo ha mai chiesto. Più che perdonare, mi viene in mente il verbo ricominciare».
    La voce della cronaca nera è di un carabiniere, il maresciallo maggiore Salvatore Barranco, che guida la caserma della cittadina. L’elenco dei morti è speculare a quello di chi è finito in carcere, di chi si è pentito. «Nessuno ci ha detto no» – commenta Nadia Macrì: «Si sono fidati tutti».
    Angela Napoli, parlamentare del centrodestra che finì sotto scorta per le sue denunce, ricorda che allora non si parlava di criminalità nelle scuole: la consapevolezza arrivò dopo le stragi del ’92. Ma Taurianova è stata più lenta di altri paesi.

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    Angela Napoli, ex parlamentare del centrodestra e membro della Commissione Antimafia

    Quel giorno mio padre doveva andare dai professori

    Massimo Grimaldi, assessore alla Legalità e allo spettacolo di una giunta in teoria leghista – per l’influenza dell’ex presidente regionale facente funzione Nino Spirlì – in pratica ormai civica, non trattiene le lacrime. «Fecero uscire mio padre e mio zio dal negozio, fu un’esecuzione. Quel giorno papà doveva andare al colloquio con i professori. Se sai che ha sbagliato, pensi: se l’è cercata. Non ho nemmeno questa consolazione».
    C’è il viceparroco di Rosarno, don Giovanni Rigoli, che ha fatto la tesi sullo scioglimento dei comuni per mafia. Ricorda l’arciprete Muscari-Tomaioli, che stampò un manifesto dirompente e coraggioso: «Fermatevi e siate maledetti da Dio. Io non vi conosco, ma con quale coraggio vi dichiarate fedeli della Madonna della Montagna, se non risparmiate nemmeno una bambina di tredici anni». La Madonna di Polsi, la devozione e “Il Crimine”, citata in mille ordinanze.

    Alla proiezione mancava il sindaco

    Alla proiezione non c’era proprio tutto il paese, ma quasi: mancava il sindaco, c’erano tutti gli assessori, maggioranza e opposizione, le associazioni, di sicuro qualcuno non è venuto perché ha già versato troppe lacrime, il vescovo ha mandato un messaggio. Ma la chiesa del Rosario era piena, Nadia è stata felice di vedere tanta gente. In molti non avranno dormito, una carrellata di facce sarebbe stata una bella scena per il film, che presto sarà disponibile su YouTube. Merita di finire in qualche Festival, non è solo la storia di Taurianova ma di anni dominati dalla paura e dal dolore, di certi nostri fantasmi. E di una nuova generazione che non ne vuole avere più.

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    La proiezione del docufilm nella chiesa del Rosario a Taurianova
  • ‘Ndrangheta, arrestato in Spagna il boss Vittorio Raso

    ‘Ndrangheta, arrestato in Spagna il boss Vittorio Raso

    Vittorio Raso, considerato un boss della ‘ndrangheta, è stato arrestato ieri sera dalla polizia locale nel municipio catalano di Castelldefels (Spagna): lo riporta il quotidiano El País. Lo stesso giornale spiega che Raso è stato fermato nel corso di un controllo stradale di routine, mentre guidava con documenti falsi.

    Arrestato una prima volta in Spagna, nel 2020, venne poi rilasciato su ordine di un giudice, e da allora era latitante. Raso era stato arrestato una prima volta nell’ottobre del 2020 a Barcellona: la polizia gli attribuiva reati di appartenenza ad organizzazione criminale, usura e traffico di stupefacenti, considerandolo un personaggio di spicco della ‘ndrangheta calabrese radicata a Torino.

    Tuttavia, pochi giorni dopo, il tribunale dell’Audiencia Nacional lo rilasciò, affermando di non avere elementi sufficienti per ordinare il carcere preventivo nei suoi confronti (in quanto nel verbale a disposizione appariva solo la contestazione di un reato di usura). Una valutazione, scrive El País, che lasciò stupefatta la Polizia Nazionale spagnola.

    In seguito, l’Audiencia Nacional emesse un nuovo ordine d’arresto nei confronti di Raso, che nel frattempo aveva però già fatto perdere le proprie tracce. A gennaio di quest’anno, la polizia italiana ha sequestrato in un garage di Nichelino (Torino) oltre 400mila euro in contanti, insieme a orologi Rolex e gioielli dal valore di oltre 200mila euro, un ‘tesoro’ attribuito proprio a Raso.

  • IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    Che Calabria è e che città è quella che si chiama Vibo Valentia?
    Vibo è un altro di quei luoghi che mi interroga ogni volta che ci rimetto piede. Specie da quando è diventata capoluogo della sua omonima, e sparutissima, provincia. Un territorio che fa in tutto 150.000 abitanti sparpagliati in 50 Comuni e comunelli disseminati tra le Serre e le marine del Tirreno.
    Lo stesso capoluogo è poco più di un paesone, con una sua certa araldica, se rievochiamo i suoi tanti nomi (Hipponion, Valentia, Monteleone) e il passato. Ma oggi?

    Il crollo demografico

    Oggi conta un po’ più di 30.000 abitanti ed è in drastico calo demografico come il resto della regione, nonostante quasi 1.700 stranieri residenti. Però Vibo Valentia è “il comune più popoloso della cosiddetta Costa degli Dei”. Il maggiore distretto turistico calabrese, dove la ’ndrangheta è monopolista. E fa affari d’oro tra alberghi a 5 stelle, ristoranti e resort di lusso da Nicotera a Tropea, fino a Pizzo Calabro.

    La Costa degli Dei

    In Calabria – vuoi mettere? – ci si consola con i nomi aulici e si convocano gli Dei a ogni piè sospinto. Specie se il presente lascia invece poche speranze all’immaginazione. E rende opaca la sorte di intere comunità per il futuro prossimo e quello venturo.

    Il disastro urbanistico

    Capisci il senso dei luoghi già dalle strade malmesse che – dal tronco della Statale 18, alla provinciale che sale da Porto Salvo e Triparni all’ingresso di Vibo Sud – sono cosparse ai lati da mucchi di rottami sparpagliati ovunque. A tacere del trionfante disordine urbanistico che precede il centro città, lungo Viale Affaccio.
    Un posto certamente ricco di passato Vibo. Ma un passato remoto saccheggiato, svisto, trascurato con stizza e con disprezzo dagli abitatori moderni.
    Che qui tutto cancellano nella fretta smemorata e oltraggiosa dell’oggi.

    Gli dei non abitano più qui

    Arrivato in cima alla vecchia Vibo, mi guardo intorno dal piazzale antistante alla tetra muraglia del Castello normanno-svevo, sede del Museo Archeologico Statale intitolato a Vito Capialbi, che conserva cose bellissime in sale drammaticamente deserte. E guardandomi intorno a giro d’orizzonte dal posto dove fu costruita probabilmente l’Acropoli dell’antica Hipponion dei greci mi sono chiesto: «Ma gli Dei da queste parti da quanto tempo non ci mettono più piede?».

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    Un antico mosaico a Vibo

    Di sicuro non si vedono da qualche millennio. Dai tempi della polis fondata dai locresi tra il VI e l’inizio del V sec. a.C. che guidò una guerra contro Crotone, come ricorda Tucidide.
    Oggi tutto quel che resta delle monumentali mura greche di Hipponion è seppellito sotto intrichi di rovi ed erbacce. Altri pezzi stanno al riparo di una tettoia di lamiera. Quasi misconosciuti ai più, soprattutto agli ingrati abitanti del luogo. Un’assurdità. Un avanzo di storia millenaria sperso in mezzo alla campagna aggredita dai palazzoni della periferia.

    Brutture postmoderne

    Cubi di calcestruzzo dalle forme più bizzarre e pretenziose tirati su alla buona dalla speculazione degli anni d’oro del mattone, età che qui non sembra conoscere tramonto. Le divinità del mattone e del cemento pressofuso regnano da queste parti. La dea Speculazione spadroneggia indisturbata.

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    Un parco pubblico nel degrado

    Tutto sottosopra. Il passato classico e le memorie monumentali, greche e romane, oberate da un presente di cemento armato e casermoni a spaglio, villette sgraziate, cooperative di abusivi condonati e in attesa di condono.
    In quartieri che si chiamano “Moderata Durant”, “Cancello Rosso”, “Feudotto”. Terre di nessuno abbandonate al proprio destino. Esempi sommi di urbanistica disperata e arraffona, dove nel 2022 ancora manca l’acqua. Ma non è il presente che qui sembra fare più scandalo. Il passato da queste parti è considerato invece una maledizione da cui non ci si libera in fretta. Preferibilmente a colpi di ruspa, come si suole fare per non intralciare affari e speculazioni a buon mercato.

    Guai agli onesti

    Chi sta con lo Stato e la cultura e si oppone allo scempio non se la passa bene a Vibo. Ne sa qualcosa Maria Teresa Iannelli, archeologa e solerte funzionaria del Mibact.
    Iannelli ha subito minacce e soprusi per sottrarre i resti antica Hipponion dalla furia degli speculatori alla Cetto la Qualunque che qui spadroneggiano.
    Non è una piazza decisamente sensibile anche ad altre sfumature della cultura la città che fu dell’euruditissimo barone-archeologo Vito Capialbi.

    Christian De Sica da giovane

    Né conserva un bel ricordo di Vibo Valentia Christian de Sica. In una recente intervista, l’attore ha richiamato un suo souvenir “teatrale” del capoluogo: «Avevo 21 anni e conducevo una serata a Vibo Valentia, con giacca rosa e capelli lunghi. Cantavo una canzone francese, Chaînes, cioè “Catene”, mentre la gente dalla platea mi urlava “Ricchione”. Da allora a Vibo non c’ho più rimesso piede».

    Si muore male e si vive peggio

    C’è poco da stare allegri in quanto a sensibilità civili. L’aria che si respira in città sembra ovattata dalle abitudini, da una acquiescenza al peggio diventata folclore e stile di vita.
    A guardarla da fuori, dalla poco lusinghiera classifica stilata da Italia Oggi sino ai più recenti reportage delle grandi testate, Vibo sembra un’emergenza più nazionale che regionale. È la provincia d’Italia in cui si registrano più omicidi. E, neanche a dirlo, anche quella messa peggio per qualità della vita.
    Nicola Gratteri l’ha definito il territorio a più alta densità mafiosa del Paese. E, con recenti conferme dalle inchieste, è anche una le città più massoniche d’Italia.

    Terra di grembiuli e ’ndrine 

    Ci sono ben dodici logge su una popolazione risicata. Sono invece ben sedici le ’ndrine censite dalla Dia in un rapporto semestrale del 2018.
    Altri dati certificano un quadro a dir poco fosco. Il 30% delle aziende della provincia è stato confiscato dalle autorità negli ultimi 10 anni per infiltrazioni e contiguità con le ’ndrine.
    Vibo ha celebrato con gran pompa la proclamazione a Città del Libro 2021. Ma risulta che più di due ragazzi su dieci lasciano la scuola entro i 15 anni.

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    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    L’ospedale Jazzolino, tristemente famoso per episodi di malasanità tragicamente frequenti e per corruzione amministrativa, cade a pezzi e se ne reclama uno nuovo.
    Per giunta, anche il tribunale, simbolo dei poteri legali che qui da sempre faticano ad attecchire, versa in una situazione altrettanto critica. E lo Stato ha collocato stabilmente una caserma di “Cacciatori”, il corpo dei carabinieri a elevatissima specializzazione anticrimine, che stana ‘ndranghetisti e mafiosi latitanti.

    Abusi e caos

    Invece prosperano in ogni angolo di Vibo gli abusi urbanistici, le discariche, le strade che si perdono nel caos, i cartelli stradali completamente cancellati e ricoperti dalla vegetazione.
    L’occhio basta a cogliere molti aspetti del degrado. Ancor prima di registrare i pochi, timorosi, commenti raccolti dei cittadini perbene che ancora sopravvivono a fatica in questa città. Dichiarazioni da stato di assedio. In quasi tutti prevale il risentimento o la rassegnazione: «Senza sanità, trasporti, lavoro. Qui stiamo peggio degli africani che sbarcano alla marina».

    Rifiuti per strada alla Marina di Vibo

    Oppure qualcuno più preoccupato delle sorti civiche: «Qui ormai la delinquenza sta vincendo su tutto, e i politici sono pure peggio dei mafiosi, non ci sono speranze».

    Troppe banche per tanti poveri

    Percorrendo le strade del centro sono molte le saracinesche abbassate e le insegne di negozi chiusi. Mentre proliferano, apertissime e animate da giovani vocianti, le numerose sale per slot e i centri per scommesse sul corso principale e nelle adiacenze.
    E c’è una quantità sospetta di sportelli bancari. Troppi per una città in cui il reddito medio (dichiarato) è spesso molto al sotto la soglia di povertà. «Questa città non ha futuro», commenta sconsolato un piccolo imprenditore, «e ai miei figli ho chiesto io di allontanarsi da qui finché sono in tempo».

    I ricordi di Prestia

    Così prosegue il lento, inarrestabile declino di una città che un tempo era un «belvedere, un giardino fiorito su un mare di storia e di bellezze».
    Me lo racconta Mario Prestia, ingegnere idraulico, perito nelle inchieste per le alluvioni che negli anni scorsi hanno fatto danni e morti nella zona marina di Vibo, a causa degli abusi sfrenati e del saccheggio sistematico di un territorio bello quanto fragile.
    Prestia è anche figlio di uno scultore notevolissimo: Gregorio Prestia, che a Vibo pare non aver lasciato tracce ed eredità culturali. Né e andata meglio al più noto e famoso pittore Enotrio Pugliese,

    A destra nella foto, il pittore Enotrio Pugliese

    È doloroso ammettere che oggi Vibo Valentia registra una serie incredibile di tristi primati.
    È una realtà decisamente ostile ai cambiamenti, in netta controtendenza rispetto anche agli alfieri della “restanza”, la testimonianza di una fedeltà alle radici a tutti i costi che sa di lezione ex cathedra. Quando a restare sono, invece, troppo spesso, i peggiori.

    Il teatro dell’assurdo

    Negli ultimi 15 anni oltre 180.000 calabresi sotto i 35 anni hanno abbandonato le proprie residenze. E il Vibonese è stabilmente in testa all’esodo.
    Molte migliaia di ragazzi e ragazze, con un titolo di studio superiore o universitario, hanno abbandonato la città per cercare altrove un futuro migliore.
    A Vibo Valentia restano gli inossidabili simulacri di socialità rappresentati da Rotary e Lions, con le loro azzimate riunioni periodiche, i riti associativi che tra inni e gagliardetti raccolgono il pubblico-bene, sempre in grande spolvero nei saloni dello storico Hotel 501.
    Chi non si rassegna continua invece a organizzare cultura dal basso nell’isolamento. Una specie di deserto dell’ascolto e dell’attenzione, come nel teatro dell’assurdo alla Ionesco. Le iniziative tese a risvegliare la città dal torpore cadono nel vuoto spessissimo. O, peggio, nell’irrisione, che parla sempre in dialetto forte e fangoso, e usa spesso toni offensivi.

    Gli sforzi delle associazioni

    «Dobbiamo essere bravi – mi dice un operatore culturale impegnato nell’associazionismo cattolico cittadino – a far capire che l’omertà e un certo modo di vivere i rapporti col prossimo genera mostri. Bisogna combattere le minacce, e soprattutto il codice mafioso del silenzio che qui è la regola».
    Queste parole contraddicono le dichiarazioni rassicuranti rese tempo fa dall’ex sindaco Elio Costa, ex magistrato.

    L’ex sindaco Elio Costa

    Interpellato in un’intervista sul peso imbarazzante dei poteri criminali nella vita di Vibo Valentia, Costa rispondeva mostrando con ammirazione il mare e lo Stromboli all’orizzonte. E alla replica, «Bello, sì, però la ‘ndrangheta?», rispondeva: «C’è, però la maggior parte degli affari li fa altrove…».

    Un brutto ricordo

    Ho un ricordo particolarmente sconfortante di una delle ultime volte che passai da Vibo per trovare degli amici. Nei pressi di un incrocio del centro, fui tamponato, del tutto incolpevolmente, da un guidatore distratto dal telefonino che rispettò lo stop.
    I danni al mezzo erano mei, alla sua auto neanche un graffio. Ma questi non si scompose.
    Chiamai i vigili per un accertamento del sinistro. Il vigile arrivò, mi squadrò e diede un’occhiata d’intesa all’investitore. Per tutto il tempo si parlarono in un dialetto strettissimo. Protestai. Ma il suo intento era però chiarissimo. Giocavo fuori casa, e quel tizio doveva essere uno conosciuto: alla fine mi trovai dalla parte del torto. Come Vibo.

  • MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

    MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

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    Ucraina e ‘ndrine: quanto è grande il pericolo? Tra i protagonisti semi-invisibili della guerra, che va avanti dal 24 febbraio 2022, ci sono le armi e i mezzi di offensiva bellica.
    Certo, di armi si parla sempre: sia per disquisire dell’attacco russo sia per comprendere la difesa ucraina. Anche perché dall’Occidente (gli Usa ma anche l’Italia) continuano ad arrivare armi in supporto all’Ucraina.
    Tuttavia, queste armi rimangono largamente “immaginate”, astratte, semi-invisibili, “ingoiate” da un conflitto che non si sa quanto ancora durerà.

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    Soldati ucraini con nuove armi occidentali

    Si spera, però, che prima o poi le ostilità finiranno. Solo allora molte cose che appaiono ingarbugliate emergeranno, anche e soprattutto fuori dall’Ucraina.

    Armi dall’Ucraina alle ‘ndrine: l’allarme di Gratteri

    A proposito di armi e della loro invisibilità, la comunità internazionale, in prima linea l’Interpol, ha lanciato l’allarme: dopo il conflitto ci potrebbe essere un’iniezione di armi da guerra sul mercato nero, a disposizione di gruppi criminali che le acquisteranno o faranno affari col loro traffico.

    In Italia, ha ribadito il monito, tra gli altri, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.
    Gratteri, durante un’intervista a Piazza Pulita del 27 maggio, ha avvertito che la guerra in Ucraina potrebbe avvantaggiare la ’ndrangheta proprio per l’accesso al mercato illegale delle armi da guerra.

    Il magistrato aveva già fatto riferimento al Crimine, una struttura all’interno di ogni locale di ‘ndrangheta, che agirebbe come Ministero della guerra.
    Il suo compito, commenta il procuratore, è anche procurarsi armi per “l’esercito”: «Già era successo dopo la guerra in Jugoslavia, dove la ‘ndrangheta acquistava esplosivo, armi, bazooka. Lo stesso accadrà in Ucraina, con armi ancora più sofisticate: si potranno comprare a prezzo di outlet, perché la gente avrà fame, e non si sa in che mani vanno a finire».

    Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri

    Povertà in Ucraina e armi low cost alle ‘ndrine

    Queste espressioni fanno riflettere sulla disponibilità di armi a basso costo, dovuta alla povertà della popolazione ucraina. Inoltre, mettono l’accento sulla praticabilità e permeabilità di questo mercato illecito da parte della ‘ndrangheta.
    Da un punto di vista analitico, però, non tutto è poi così chiaro o determinato o giustificato. D’altronde non spetta certo al procuratore Gratteri offrire analisi di criminologia, visto che lui fa un altro lavoro.

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    Un catalogo d’armi nel dark web

    Eppure, diversi commentatori hanno rilanciato l’allarme, incluso il riferimento alla ex Jugoslavia. Essi hanno fatto capire che la ‘ndrangheta, ma non solo, potrebbe intervenire in diversi settori della guerra Russa-Ucraina oltre che in quello delle armi (ma non si sa bene quali siano questi settori) e che il traffico di armamenti include percorsi virtuali (il dark web).
    Come spesso succede negli shock geopolitici (disastri naturali, crisi sanitarie e umanitarie, guerre e via discorrendo) si rischia di reagire con un’iperbolica percezione – e narrazione – del rischio. E questa, a sua volta, genera un fenomeno noto in criminologia: il panico morale.

    Il panico morale

    Per panico morale si intende il processo per cui un evento (o un gruppo) ordinario e già esistente viene percepito e raccontato dai media come straordinario.
    In questo caso, l’evento ordinario e presente è il traffico di armi. A esso viene associata una minaccia straordinaria legata alla guerra in Ucraina.
    Proprio com’è stato per la pandemia, si rischia di esemplificare uno scenario complesso e poliedrico – il traffico di armi (da guerra e non) – attribuendo alle mafie la deterministica volontà, basata su una capacità scontata, di cogliere una ghiotta occasione di arricchimento.

    La mafia onnipotente? Non esageriamo

    Non vorrei essere fraintesa: è indubbio che alcuni gruppi mafiosi vogliono cogliere tutte le opportunità di arricchimento. E sono innegabili le condanne subite negli anni dai membri di alcuni clan per la detenzione di armi, comuni e da guerra (si veda per esempio la sentenza d’appello per il processo Mandamento Ionico di qualche giorno fa), e per il loro traffico (preponderante nel processo Imponimento ancora a dibattimento).

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    La lettura della sentenza del processo “Mandamento Ionico”

    Eppure, la capacità della ‘ndrangheta – o meglio di alcuni suoi clan – di entrare e avere successo in un settore (nuovo o improvvisamente rivitalizzato) non è mai predeterminata.
    Affermare il contrario – e quindi rendere assolute evidenze occasionali e sporadiche – o parlare al futuro anziché al condizionale, crea solo una forma di panico morale, secondo cui, ancora una volta, la mafia è onnipotente e incontrastabile.

    Armi e ‘ndrine: il mercato nero in Ucraina

    Nelle crisi e nelle opportunità che esse offrono il successo di nuove o rincarate imprese mafiose dipende da tre fattori: la natura del mercato; la natura degli attori nel mercato e i meccanismi di controllo e contrasto.
    Per quel che riguarda la natura del mercato e i suoi attori dal punto di vista dell’offerta, è interessante l’analisi del Global Organised Crime Index. Secondo questo studio, l’Ucraina vanta da anni uno dei più estesi mercati di armi in Europa. Non è dunque una novità di questa guerra, ma un primato consolidato dal conflitto nell’Ucraina orientale di quasi dieci anni fa.

    L’identikit dei trafficanti

    In Ucraina, la maggior parte delle armi era già trafficata all’interno del Paese (e ora anche inviata in supporto alla guerra). Tuttavia i network impegnati nel traffico illegale di armi nel paese non sono individuali o spuri. Né sono collegati necessariamente a condizioni transitorie di povertà.
    Inoltre, sono collegati a network criminali in Russia, Bielorussia, Moldavia, Georgia e Turchia, oltre che a broker e acquirenti in Paesi dell’UE e dell’ex Jugoslavia.

    Armi dal mercato nero balcanico

    Dal punto di vista della domanda, in Europa occidentale – quindi anche in Italia – il commercio maggiore riguarda le armi leggere. In questo mercato dominano le forniture provenienti dall’ex Jugoslavia e dai network balcanici che dominano le rotte. Laddove è relativamente facile, per i gruppi criminali europei – ’ndrangheta inclusa – procurarsi una pistola o un fucile d’assalto, molto più difficile risulta reperire un Rpg (lanciarazzi) o una mitragliatrice e i loro ricambi. Per farlo occorrono denaro e i giusti collegamenti nell’area.

    Armi ucraine: il vero mercato non è l’Europa

    È probabile che la maggior parte delle armi provenienti dall’Ucraina – che in Europa sembrano quasi un esubero – sarà destinata ad altre zone di conflitto. Cioè l’Iraq, la Siria e la Libia.
    In questi luoghi, molto più che da noi, c’è una domanda di armi pesanti tale da renderne redditizio il traffico.
    Ciò non vuol dire che qualcuno dei “nostri” gruppi criminali non acquisterà ulteriori armi da guerra. Né che, in alcune circostanze, persone vicine ai clan calabresi non si occuperanno di traffico di armi dalle zone ora in guerra.

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    Miliziano in azione nel teatro libico

    Il business è lucrativo e soprattutto già abbondantemente avviato. Le motivazioni dei clan mafiosi nell’acquisto di tali armi poi, sono ancora tutte da comprendere. Ad ogni modo, nel grande schema del mercato in questione, degli incentivi per l’acquisto e dei suoi attori, le armi ucraine andranno massicciamente altrove.

    Non sottovalutiamo l’allarme

    Occorre comunque prendere sul serio l’allarme di Interpol e di Gratteri, sebbene lo si debba sfrondare dai toni deterministici e assoluti: anche poche armi in più possono fare la differenza nel danno sociale.
    A livello internazionale si discute da tanto del mercato delle armi per prevenirne il traffico.

    Rimedi necessari ma insufficienti

    Al riguardo, si parla di potenziare il tracciamento di ogni singola arma, e dell’aumento delle risorse di polizia internazionale per comprendere i network e le rotte criminali. Ma, come in molti altri traffici illeciti, il problema è la produzione del bene illecito, e non tanto il suo sfruttamento.
    Detto altrimenti: il nodo vero nel contrasto al traffico di armi è l’esistenza stessa delle guerre, senza le quali non si produrrebbero tante armi.
    Perciò, rendere il traffico di armi meno lucrativo per i gruppi criminali e potenziare i controlli, non può purtroppo essere strategia sufficiente, se dopo questa guerra ce ne sarà un’altra.

  • 1992: come Tangentopoli (non) trasformò anche la Calabria

    1992: come Tangentopoli (non) trasformò anche la Calabria

    «Ci sono decenni in cui non accade nulla, e poi delle settimane dove accadono decenni», almeno secondo Lenin. Ripensando al 1992 sembra in effetti che la storia proceda proprio in questo senso. Trent’anni fa l’indagine partita dal Pio Albergo Trivulzio, Mani Pulite, e prima ancora le stragi di Capaci e via D’Amelio hanno distrutto la strada che la storia percorreva costringendo ad una deviazione. Il 1992 è ancora, evidentemente, troppo recente per poterne conoscere tutte le implicazioni e i protagonisti, ma sono sempre più chiare le conseguenze: non quello di semplice reset come si è detto, ma di una più raffinata sostituzione di vertici ormai resi inefficienti dal mutare del contesto mondiale.

    Corsi e ricorsi

    La storia italiana procede spesso per buchi, voragini di verità che inghiottono avvenimenti anche molto lontani. A questa regola non può sfuggire il 1992. E sempre questa regola prevede che queste voragini di verità affondino nel Sud Italia che dalla periferia della storia vede, ascolta e digerisce. Prepara il futuro, rimanendo nel passato.
    L’indagine di Di Pietro azzera una classe politica partendo da Milano, ma le scosse telluriche si fanno sentire in tutta Italia. Beppe Grillo aveva anticipato il terremoto giudiziario con una battuta sui socialisti che rubano, nel 1986. Oggi è capo di un movimento allo sfascio. Forse è uno dei pochi cambiamenti perché se si analizza il contesto nel quale nasce quell’evento, attraverso articoli e atti parlamentari, si trovano corsi e ricorsi storici.

    La crisi della politica e quella della magistratura

    Rifondazione avanzava una richiesta di reddito minimo, argomento ancora caldo, mentre la politica discute di riforme istituzionali. Presidente del Consiglio è Giuliano Amato, oggi presidente della Corte costituzionale. Il Governo discute sulla crisi economica con Paolo Savona – all’epoca presidente del Fondo Interbancario, oggi alla Consob – e propone di rilanciare l’Italia attraverso opere e infrastrutture che ricordano tanto quelle del PNRR.
    La credibilità della classe politica italiana non è mai stata del tutto recuperata da quegli anni, con la differenza che oggi la stessa crisi ha investito la stessa magistratura. È frutto di quegli anni il dibattito tra garantisti e giustizialisti, che in Calabria come ogni cosa si deforma e diventa un modo per nascondere altre voglie: da una parte vendette persecutorie e dall’altro malcelato senso di impunità.

    Schegge di 1992

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    Secondo Gratteri, la riforma Cartabia è una “resa dei conti” della politica contro lo strapotere della magistratura. Una lettura tranchant e anche discutibile, che però mostra come le schegge delle rotture del ’92 siano ben conficcate nei giorni d’oggi. Soprattutto mentre in superficie il mondo cambiava, nel sottosuolo del potere che è sempre stata la Calabria, laboratorio di perversi accordi si trovava un modo di innestare il vecchio nel nuovo, creando organismi bicefali con due volti. Un modo forse per assicurare la restaurazione, ma che di certo ha precorso gli anni.

    Il Consiglio regionale del 1992…

    Nel 1992 presidente della Regione Calabria è Anton Giulio Galati e il Consiglio regionale è tutto maschile con l’eccezione di una sola donna, Maria Teresa Ligotti, prima a sedere su quegli scranni nelle fila del PCI. La scossa tellurica del ’92 emerge evidente in Calabria dalla composizione dei Consigli regionali del ’92 e, immediatamente successivo, del ’93. Nel ’92 troviamo uomini del secolo scorso fin dal nome come Domenico Paolo Romano Carratelli, avvocato, bibliofilo, scopritore di codici antichi o Pietro Dominijanni, socialista, a cui tanto deve il parco nazionale dell’Aspromonte. Oppure, ancora, figure più oscure come Giovanni Palamara, ex sindaco di Reggio Calabria, coinvolto in diverse inchieste, tra cui una che lo legava all’omicidio Ligato, poi assolto. Da quel setaccio della storia pochi riescono a continuare negli anni successivi allo stesso livello.

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    Palazzo Campanella, attuale sede del Consiglio regionale

    … e quello del ’93

    È, infatti, il Consiglio del 1993 che restituisce un’ecografia della Calabria di oggi: delle figure e dei potentati che in maniera diretta o indiretta ancora influenzano la Calabria. Saltano agli occhi Nicola Adamo e Pino Gentile, campioni di presenze nelle principali vicende calabresi e con importanti ruoli a livello nazionale. Nel ’93 sedeva anche Paolo Romeo, al centro oggi di alcune inchieste della procura di Reggio Calabria, condannato per associazione mafiosa e sapiente tessitore di legami. Scorrendo si ritrovano anche Mario Pirillo, poi divenuto parlamentare ed europarlamentare, e Amadeo Matacena attualmente latitante.

    Separatisti made in Sud

    In quegli anni, inoltre, in Calabria, Sicilia e Puglia nascevano le leghe meridionali. Movimenti separatisti dietro i quali spesso si ritrovano personaggi vicini al mondo della criminalità organizzata. Il movimento Sicilia Libera nasce a Palermo su input diretto di Leoluca Bagarella, si legge nella richiesta di archiviazione del giudice Scarpinato. Nel resto del Meridione erano state già costituite formazioni come Calabria Libera (fin dal 19 settembre 1991), Lega Lucana (già Movimento Lucano, costituita il 25 gennaio 1993), e tantissimi altri movimenti analoghi. Scarpinato raccoglie testimonianze ed eventi dallo scarso valore investigativo, ma dal prezioso contributo storico.

    Leoluca Bagarella

    Secondo le dichiarazioni di Tullio Cannella, questi movimenti facevano parte di un importante piano separatista a cui aveva partecipato la ‘ndrangheta calabrese, perché in Calabria si possono avere «appoggi con i servizi». Riferisce anche di una riunione tenutasi a Lamezia Terme tra esponenti politici anche della Lega Nord ed esponenti mafiosi delle varie regioni. Il piano era lasciare il sud alle mafie e il nord a nuovi soggetti politici. Il progetto separatista poi si arena per evidenti difficoltà, ma anche perché nasce un nuovo soggetto politico che sembrava ridare le giuste garanzie, sempre secondo quanto si legge dai collaboratori di giustizia, che è Forza Italia. In questo senso va anche parte dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, confermata in primo grado e poi ribaltata parzialmente in secondo grado. Quello che successe dopo è storia. Nel 1994 Forza Italia nasce.

    1992-2022: cosa resta trent’anni dopo

    Al Sud e in Calabria Forza Italia raccoglie il consenso che aveva la DC e che ha conservato fino all’arrivo della Lega di Salvini, eletto senatore proprio in Calabria. Dunque, nessuna differenza? Dopo trent’anni in Italia le disuguaglianze sono aumentate, i problemi atavici della Calabria sono rimasti, ma addosso ad una popolazione molto ridotta e sempre più anziana. Giusto qualche donna in più alla regione.
    Pare proprio che in questa periferia si appresti il futuro e si accalchino i cambiamenti. Perciò, sarà bene che almeno per una volta l’Italia dia un’occhiata e faccia i conti con la Calabria e i segreti che le ha affidato.

    Saverio Di Giorno

  • Barbara Corvi: 13 anni di misteri senza risposte

    Barbara Corvi: 13 anni di misteri senza risposte

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    Sparita nel nulla. Senza un soldo in tasca, senza un cambio di abito, senza un bacio ai due figli. Nessuno ha più notizie di Barbara Corvi, allora trentacinquenne, dalla fine di ottobre del 2009.
    Una sparizione improvvisa, da Amelia nel Ternano, poche ore dopo “l’ufficialità” in famiglia di una sua relazione extraconiugale. Da questa vicenda, è emerso il sospetto dell’ennesimo caso di lupara bianca.
    E si teme che il lungo tempo trascorso possa avere reso vano l’intervento degli inquirenti che, a distanza di 12 anni dalla “sparizione” della giovane donna, avevano identificato il presunto colpevole nel marito, Roberto Lo Giudice.

    Roberto Lo Giudice, marito di Barbara e suo presunto assassino

    Barbara Corvi: un caso di lupara bianca?

    Prima arrestato e poi scarcerato dal tribunale del riesame di Perugia, l’uomo attende di conoscere la data fissata per l’udienza preliminare, in cui il Gup deciderà se andare a processo o archiviare per la seconda volta.
    Cinquant’anni, nato a Reggio, un cognome “pesantissimo” sulle spalle (anche se fuori dagli affari criminali della famiglia), Roberto Lo Giudice è la persona su cui la Procura di Terni punta l’attenzione quando nell’aprile del 2019 riapre le indagini.
    Per i magistrati, lui avrebbe ucciso, con l’aiuto del fratello Maurizio, Barbara nel pomeriggio del 27 ottobre 2009 e farne scomparire il corpo. La tragica, ultima pagina di un romanzo familiare di botte e umiliazioni.

    Infedeltà e lupare: un vizio di famiglia?

    La “colpa” di Barbara: avere intrecciato una relazione extraconiugale.
    Una storia tremenda che, nelle ipotesi dei magistrati umbri, sembra identica, nella sua mostruosità, a quella di Angela Costantino, la cognata di Barbara.
    Angela aveva sposato Pietro, il fratello di Roberto, ed era stata fatta sparire dalla sua casa di Reggio nel 1994, quando aveva appena 25 anni.

     

    Anche per lei, stabilirà la magistratura nel 2013, l’unica colpa fu avere intrecciato una relazione extraconiugale durante un periodo di carcerazione del marito boss. Furono gli uomini del clan a prelevarla da casa e a farla sparire per sempre.

    Una marcia di Libera per la memoria di Barbara Corvi

    Nino il Nano e le altre gole profonde

    Figlio dello storico capobastone Giuseppe – ammazzato da un commando armato nel giugno del ’90 ad Acilia in provincia di Roma, nell’ambito della seconda guerra di ‘ndrangheta – Lo Giudice è stato tirato in ballo da Nino, un altro suo fratello. Nino, ex mammasantissima della famiglia, è da anni collaboratore di giustizia.
    Interrogato dai magistrati della Dda di Reggio, il pentito racconta di un incontro in Calabria, a circa un anno dalla scomparsa della donna, in cui il fratello Roberto gli avrebbe confermato, «con un cenno del capo», che a togliere di mezzo Barbara Corvi sarebbero stati lui e Maurizio.

    Alle dichiarazioni di Nino “il Nano, presto, seguono le parole di altri due pentiti.
    Il primo, Consolato Villani, è un pezzo grosso del clan e racconta di come è venuto a sapere che «Barbara ha fatto la fine dell’altra».
    Il secondo, Federico Greve, risponde alla ’ndrina alleata dei Rosmini e racconta agli inquirenti di come Lo Giudice lo avesse minacciato di «murare il figlio tossicodipendente come aveva fatto con la propria moglie». E poi le intercettazioni del figlio di Barbara, che in un’ambientale del 2020 descrive alla compagna la frustrazione e il timore che la madre possa essere «finita nell’acido, senza tracce».

    Conti correnti e pc: le prove dell’accusa

    E ancora i soldi, fatti rimbalzare da un conto a un altro ma rimasti sempre nella disponibilità dell’uomo, e le intrusioni sul pc privato della Corvi, fino alle finte cartoline spedite da Firenze per depistare le prime indagini.

    Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, il principale accusatore di Roberto

    Questi elementi convincono la Procura ordinaria a richiedere l’arresto di quell’uomo violento che, sostengono i pm, si sarebbe “liberato” della moglie. Tutto questo prima di iniziare, pochi giorni dopo la denuncia di scomparsa, una nuova relazione con un’altra donna che da Reggio si trasferirà in Umbria, con un figlio al seguito, nella casa di proprietà di Barbara Corvi.
    Una vicenda complessa, figlia del mondo al contrario delle coppole storte, e cucita sulla pelle di una giovane che non sopportava più la vita insieme al marito.

    I dubbi dei giudici e la scarcerazione

    A questa storia non hanno creduto fino in fondo i giudici del Riesame che, accogliendo le richieste dei legali di Lo Giudice, ne hanno disposto la scarcerazione in attesa della chiusura delle indagini.
    Troppo tardive le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ancora: troppo vago l’accenno del capo che confermerebbe la colpevolezza dell’indagato. Nessuna certezza assoluta, inoltre, che Barbara Corvi non si sia allontanata volontariamente. Troppo fragili, infine, le ricostruzioni sui tentativi di depistaggio operati dall’indagato per confondere le acque.

    Così le conclusioni del Tribunale della libertà hanno in parte ridimensionato il carico accusatorio nei confronti di Roberto Lo Giudice ma non hanno “smontato” gli avvocati di Libera che affiancano i genitori della donna scomparsa nella loro ricerca di verità. Così come non hanno scoraggiato i tanti cittadini e le associazioni che da anni continuano a chiedere: «Dov’è Barbara»?

    Una battaglia di verità per Barbara Corvi

    Tenere alta l’attenzione, preservare la memoria, continuare a chiedere giustizia: l’Osservatorio sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità dell’Umbria ha preso molto sul serio l’impegno al fianco dei familiari di Barbara Corvi.

    Marce e manifestazioni e poi la gigantografia della giovane mamma esposta sui municipi dei tanti paesi che si sono uniti alla battaglia. Anche Libera ha voluto inserire il nome della ragazza tra le vittime innocenti di mafia anche se il suo corpo non è stato mai ritrovato. È la prima donna che figura nell’elenco dell’Umbria.
    E ora, in occasione del prossimo compleanno di Barbara, una nuova spinta nella ricerca di quella verità raccontata dai pentiti e ipotizzata dai pm ma sempre negata da Lo Giudice. Secondo lui la moglie si sarebbe data volontariamente alla fuga, tagliando completamente i ponti col passato, figli e genitori compresi.

    E allora ecco le testimonianze, i ricordi, i pensieri che verranno raccolti in lettere, una per ogni 27 dei prossimi mesi, da rendere pubbliche a cadenza regolare.
    La scriveranno associazioni e pezzi delle istituzioni, personaggi famosi e semplici attivisti, tutti accumunati nella ricerca di verità e giustizia per l’ennesima vittima, in un elenco interminabile, di violenze maturate tra le mura di casa.

  • Operazione della Gdf reggina: sequestrati 300 kg di cocaina a Salonicco

    Operazione della Gdf reggina: sequestrati 300 kg di cocaina a Salonicco

    I finanzieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, sotto il coordinamento della Dda diretta da Giovanni Bombardieri, in collaborazione con le autorità greche, hanno sequestrato a Salonicco circa 300 kg di cocaina, suddivisa in 260 panetti. Sono stati, inoltre, arrestati 4 componenti un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti internazionale, di nazionalità inglese, di 38, 48, 45 e 52 anni.

    Operazione internazionale antidroga 

    Lo smantellamento del circuito è il risultato della cooperazione internazionale svolta, anche tramite il II Reparto del Comando generale della Guardia di Finanza e della Direzione centrale per i servizi antidroga, con gli agenti della Drug Enforcement Administration di Roma e Atene, della Polizia del Dipartimento degli Affari Generali della Sottodirezione delle Operazioni Speciali-Divisione Narcotici di Salonicco, dell’Ufficio Divisione Narcotici di Atene, del Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia all’Ambasciata d’Italia ad Atene, dell’Ufficio Doganale di Salonicco e la Sottodirezione per le operazioni speciali di Salonicco/T.M.K.E.

    La coca avrebbe fruttato 10 milioni di euro

    Il sequestro è giunto a conclusione di indagini e analisi e riscontri effettuati su oltre 2mila contenitori provenienti dal continente sudamericano svolte dai militari del Gruppo della Guardia di Finanza di Gioia Tauro e alle investigazioni svolte parallelamente dalla polizia ellenica. La droga è stata trovata e sequestrata in una lussuosa villa nel Comune di Thermi (Salonicco). Oltre allo stupefacente sono state sequestrate una pistola con 9 cartucce, una scatola contenente 41 cartucce, 2 radio portatili, 2 interferometri di segnale, 2 dispositivi di posizionamento elettronici, 1mila euro derivanti dal traffico di droga, guanti da lavoro, nastri isolanti, tagliacarte in metallo e 11 telefoni cellulari utilizzati per le attività illecite. La cocaina sequestrata, secondo una stima, avrebbe potuto fruttare alla criminalità un introito di circa 10 milioni di euro.

  • Cirò Marina, il padel dei Farao finisce in Parlamento

    Cirò Marina, il padel dei Farao finisce in Parlamento

    Numerose testate giornalistiche hanno ripreso la notizia data da I Calabresi sulla licenza per il campo da padel che il Comune di Cirò Marina ha concesso alla società “Signor Padel srls” di Giuseppe Farao, condannato in primo grado per associazione mafiosa e figlio del boss dell’omonimo clan al centro del processo “Stige”. Ma ha avuto strascichi ulteriori, che rischiano di “inguaiare” l’amministrazione guidata dal presidente della Provincia di Crotone Sergio Ferrari.
    Già, perché  Francesco Sapia, deputato di Alternativa, ha proposto una formale interrogazione parlamentare sul caso alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in cui invoca la commissione di accesso antimafia. Ma procediamo per gradi.

    Cirò Marina e il padel di Farao: la riunione di mezzanotte

    Nella tarda serata dello scorso primo giugno, subito dopo la pubblicazione dell’inchiesta de I Calabresi, sulla pagina Facebook “Sergio Ferrari – Sindaco” è comparso un post con l’hashtag #INDIRETTADALCOMUNE. Il primo cittadino specificava, anche a nome di tutta l’amministrazione, di aver «immediatamente convocato gli uffici». Così come di avere «richiesto delucidazioni in merito alla procedura ed all’istruttoria propedeutica al rilascio del permesso». Chiariva poi che «nell’immediatezza, nella sollecitata attività di riesame, l’Ufficio Tecnico ha ritenuto avviare procedimento di revoca in autotutela del già citato permesso, sospendendo nelle more ogni effetto». Affermava, infine, di voler «adottare ogni provvedimento necessario, nei confronti dell’Ufficio Area Urbanistica e del Responsabile, in assoluta aderenza alle linee di indirizzo, che sono valse sin dall’insediamento di questa Amministrazione».

    Il sindaco Sergio Ferrari è anche presidente della Provincia di Crotone

    Insomma, il sindaco ha prontamente annunciato con un post di mezzanotte la revoca della licenza edilizia concessa a Farao il giorno stesso. In effetti, come si legge nel permesso di costruire, il numero 18 del 1 giugno 2022, è in quella medesima data che è stata fatta l’ultima verifica (quella di regolarità tributaria) prima della concessione della licenza a firma del responsabile dello sportello unico per l’edilizia, Raffaele Cavallaro.

    La reazione dopo lo stop

    L’uscita di Ferrari ha indotto in escandescenza Giuseppe Farao, che ha replicato pubblicamente nell’immediatezza al post del Sindaco (dal profilo Facebook del fratello Vincenzo, ma a sua firma). Farao ha annunciato: «Denunceremo il tutto, compresi tutti i veri ‘abusi’ che ogni giorno sono sotto gli occhi di tutti. Lei signor sindaco non può parlare pubblicamente di revoca (da guardare la normativa) solo per dimostrare qualcosa… Bisogna indagare se il tutto è fatto nella massima legalità prima di infamare, anche lei, perché in un qualche modo l’ha appena fatto. La legalità non è solo una semplice parola».

    Poi ha aggiunto in un secondo post: «Ci tengo a precisare che la licenza edilizia richiesta e concessami in data 1/6/22 è stata controllata e rivoltata come un calzino prima che mi venisse consegnata con tutta la documentazione prevista dalla legge a differenza di altre. Per quanto riguarda le misure adottate dal sindaco revocandomi la stessa, posso solo limitarmi a dire che se è giusto o meno si vedrà nelle sedi competenti in quanto tutto è stato nell’immediatezza denunciato alle autorità».

    Entrambi i post hanno ricevuto numerosi like da parte di concittadini di Farao e commenti solidali. Contattato direttamente da I Calabresi tramite il profilo Facebook da lui utilizzato per comunicare, ossia quello del fratello Vincenzo Farao, alla domanda se volesse chiarire meglio la sua posizione rispetto a quanto scritto al sindaco e rispetto a quanto scritto nella nostra inchiesta, Giuseppe Farao ha espressamente declinato l’invito.

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    Il permesso rilasciato dal Comune di Cirò marina alla Signor Padel Srls di Giuseppe Farao

    Il Comune di Cirò Marina revoca la licenza per il padel di Farao

    In effetti, il sindaco è stato (in parte) consequenziale. Con un provvedimento dell’Ufficio Area Urbanistica del Comune di Cirò Marina del 3 giugno scorso, firmato dall’architetto Raffaele Cavallaro, che questa volta si firma come “responsabile Area Tecnica”, lo stesso si autonominava responsabile del procedimento. Quindi inviava la comunicazione di avvio dell’iter di revoca del permesso di costruire alla Signor Padel Srls di Giuseppe Farao (concessa solo due giorni prima). Con che motivazione? Secondo «l’art. 12 delle norme tecniche di attuazione del PRG, per la zona B non prevede la destinazione d’uso indicata nel progetto presentato di cui al permesso di costruire».

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    Gli impianti della “Signor Padel Srls” (foto dal sito aziendale)

    E questo è vero perché il terreno a Cirò Marina sul quale dovevano sorgere i campi da padel – di proprietà di Antonietta Garrubba, moglie di Giuseppe Farao e socia unica della Signor Padel Srls – risulta qualificato al catasto come “Uliveto”. Difficilmente una tale qualificazione urbanistica avrebbe potuto portare alla costruzione di una attività commerciale. Nonostante questo, il loro sito PadelCiromarina.it è stato aggiornato ed il progetto viene indicato come “in esecuzione”.

    Da aggiungere un particolare non di secondo rilievo. L’Ansa il 3 giugno riporta un virgolettato attribuito al Comune di Cirò Marina. Stando all’agenzia, «per mero errore materiale non è stato chiesto il Bdna (il certificato antimafia, ndr) così come previsto dalla normativa vigente». Invece, in un articolo de Il Quotidiano Del Sud del giorno successivo, si legge quest’altro virgolettato: «Il certificato antimafia? Lo avevamo dimenticato».

    In attesa che si calmino le acque

    Col decreto numero 14 del 3 giugno 2022 il sindaco Sergio Ferrari ha revocato un suo precedente decreto, il numero 9 che lo scorso 19 aprile aveva attribuito all’architetto Raffaele Cavallaro (firmatario del permesso di costruire a Farao) la titolarità della posizione organizzativa dell’Area Urbanistica. E lo revocava, si legge nel decreto pubblicato sull’Albo pretorio, per «accertate situazioni non in linea con gli obiettivi desumibili dal programma amministrativo del Sindaco e ravvisate particolari inadempienze amministrative».

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    Raffaele Cavallaro

    Il sindaco, però, non revocava il decreto numero 7, emanato sempre il 19 aprile, che conferiva all’architetto Raffaele Cavallaro l’incarico triennale di “Istruttore Direttivo Tecnico – cat. D, Pos. Econ. D1” ai sensi dell’articolo 110, comma 1 del Tuel. Un incarico, quindi, fiduciario, espressamente revocabile “per risultati inadeguati”.
    Pertanto, il funzionario comunale che – quale responsabile dello sportello unico dell’edilizia, dell’area tecnica e dell’area urbanistica – avrebbe dimenticato di chiedere il certificato antimafia ad un condannato per mafia del medesimo paese, è stato, di fatto, confermato nell’incarico che necessita della fiducia di Ferrari.

    Lo stesso Cavallaro, inoltre, benché privato della posizione organizzativa (e, quindi, del potere di firma quale responsabile), è rimasto nel medesimo ufficio ad occuparsi delle medesime incombenze. E rumors interni riportano come lui dichiari di aver ricevuto solo una mera sospensione temporanea «in attesa che si calmino le acque».

    Sapia porta il caso in Parlamento: l’interrogazione alla ministra Lamorgese

    Invece, la questione continua a tener banco, non reggendo la scusa della “carenza di organico”, essendo recentemente rientrata dalla maternità l’impiegata del settore Lavori pubblici Bina Fusaro.
    Da precisare, inoltre, che il precedente responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di Cirò Marina, l’ingegnere Giuseppe Rocco Crispino di Monterosso Calabro, ha rassegnato le proprie dimissioni volontarie lo scorso aprile, due settimane prima della richiesta concessoria avanzata da Giuseppe Farao.
    «Nessun motivo particolare e nessuna pressione» ha dichiarato a I Calabresi l’ingegner Crispino, ora assunto a Sant’Eufemia D’Aspromonte.

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    Francesco Sapia (Alternativa)

    A volerci veder chiaro, però, è il deputato di Alternativa, Francesco Sapia, che con una interrogazione scritta alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si chiede come sia stato possibile che l’Ufficio tecnico di Cirò Marina abbia “dimenticato” di chiedere il certificato antimafia ad un condannato per associazione mafiosa, congiunto del boss a capo di uno dei clan calabresi tra i più efferati secondo l’ultima relazione della Dia. Lo stesso Sapia chiede lumi sulla permanenza nell’ente comunale dell’architetto Raffaele Cavallaro. E chiede di sapere, altresì, se il Ministero e la Prefettura intendano promuovere l’accesso antimafia previsto dal Testo Unico sugli Enti Locali. Insomma, un nuovo macigno su un Comune già sciolto nel 2018 per infiltrazioni mafiose in cui si deve rilevare il totale silenzio dell’opposizione cittadina e dei rappresentanti regionali e nazionali del territorio. Attendiamo nuovi riscontri.

     

    **********

    La versione iniziale dell’articolo riportava tra i cofirmatari della concessione, oltre a Raffaele Cavallaro, la dipendente comunale Marina Ceraudo.
    Quest’ultima, però, ha siglato il provvedimento nella sola qualità di responsabile della pubblicazione degli atti, senza rivestire ulteriori ruoli durante l’iter amministrativo.
    Ci scusiamo con la diretta interessata e i lettori per le eventuali incomprensioni che il dettaglio potrebbe aver ingenerato.

  • Processo Gotha: «Giorgio De Stefano non è un “invisibile” della ‘ndrangheta»

    Processo Gotha: «Giorgio De Stefano non è un “invisibile” della ‘ndrangheta»

    Sono perentorie le motivazioni scritte e depositate dalla Corte di Cassazione sul maxiprocesso “Gotha”. Un procedimento scaturito da un’inchiesta con cui la Dda di Reggio Calabria ha indagato e portato a processo la presunta componente occulta della ‘ndrangheta. Si tratta del troncone del procedimento celebrato con rito abbreviato e già approdato all’ultimo grado di giudizio. Il principale imputato era l’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta, anello di congiunzione tra la componente militare e i livelli occulti della massoneria deviata.

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    La sede della Corte di Cassazione a Roma

    La posizione di Giorgio De Stefano

    E riguarda proprio la posizione dell’avvocato De Stefano il giudizio maggiormente critico degli Ermellini. Mentre si è ancora in attesa delle motivazioni di primo grado del troncone principale, celebrato con rito ordinario, l’avvocato De Stefano ha scelto di essere giudicato con l’abbreviato. La Cassazione fa sostanzialmente in coriandoli la sua condanna rimediata in appello a 15 anni e 4 mesi di carcere. 

    La Suprema Corte, con la sentenza del 10 marzo scorso, ha annullato senza rinvio in relazione a tutti i fatti avvenuti fino al 2005, ritenuti già “coperti” da precedenti pronunce giudiziarie. De Stefano, infatti, con un passato politico in riva allo Stretto, è stato già condannato definitivamente negli anni ’90 per concorso esterno in associazione mafiosa. E poi coinvolto nel cosiddetto “Caso Reggio” che, però, a Catanzaro non ebbe alcun esito.

    Per quanto concerne invece i fatti successivi al 2005, la Cassazione ha annullato la condanna nei confronti di De Stefano con il rinvio del caso alla Corte d’Appello per un nuovo processo.

    «Illogico»

    La Cassazione si sofferma sulla posizione sovraordinata di De Stefano in seno alla ‘ndrangheta, ipotizzata dagli inquirenti. Ed è qui che usa le parole più dure. Nel prospetto accusatorio, infatti, De Stefano sarebbe uno degli “invisibili”, quei soggetti, cioè, superiori all’ala militare della ‘ndrangheta. E quindi capaci di relazionarsi con la massoneria deviata, ma anche con i servizi segreti. Un alter ego di un altro avvocato ed ex politico, l’ex parlamentare Paolo Romeo, condannato in primo grado nel procedimento celebrato con rito ordinario.  

    Ma i giudici non ritengono provata tale circostanza, tutt’altro. «Se la struttura invisibile – si legge nella sentenza – deve essere composta da soggetti la cui appartenenza alla ‘ndrangheta è sconosciuta a coloro che compongono la struttura visibile ed operativa del sodalizio criminale, onde evitare che i componenti della struttura invisibile possano essere indicati quali appartenenti al sodalizio criminale da eventuali collaboratori di giustizia, appare illogico sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far parte sia della struttura invisibile, sia della struttura visibile ed operativa in qualità peraltro, di capo della cosca De Stefano».

    Visibili e invisibili

    L’ipotesi accusatoria della Dda reggina considera la ‘ndrangheta in due distinte componenti.  Una “visibile”, operante cioè attraverso metodi “classici” della criminalità organizzata mafiosa e uomini perfettamente “riconoscibili”.  Ed una “invisibile” o “riservata”, collocata al vertice dell’associazione con compiti di direzione e di individuazione delle scelte strategiche dell’associazione unitariamente intesa. Deputata a mantenere i rapporti con apparati istituzionali, imprenditoria e professionisti. Anche attraverso la partecipazione ad organizzazioni caratterizzate da segretezza del vincolo, come la massoneria. Tutto per conseguire l’infiltrazione in apparati istituzionali, con il fine ultimo di mantenere in vita l’associazione.

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    L’avvocato Paolo Romeo

    E i capi della componente “invisibile” sarebbero stati proprio Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Proprio con riferimento a una conversazione intercorsa tra De Stefano e Romeo, in cui i due parlavano delle elezioni regionali del 2010, la Cassazione mette nero su bianco: «Non si fa alcun accenno all’utilizzo di metodi mafiosi per influire sul voto o ad un intervento della ‘ndrangheta nella competizione elettorale» e «il voler ravvisare in tale conversazione una elaborazione della strategia della ‘ndrangheta unitaria per influire sulla competizione elettorale regionale appare un’evidente forzatura logica». In diversi passaggi, i giudici della Cassazione definiscono «congetture» alcune delle conclusioni cui sarebbero giunti gli inquirenti prima e i giudici della Corte d’Appello poi.

    La vicenda dell’ex bar Malavenda

    Lo fa anche con riferimento alla vicenda riguardante l’ex bar Malavenda, ubicato alle porte del quartiere Santa Caterina, territorio storicamente controllato dalle cosche De Stefano e Tegano. Su quel bar si sarebbero concentrati appetiti di schieramenti ‘ndranghetistici avversi, che si sarebbero contrastati a suon di bombe e attentati. E, per dirimere la questione, uno dei litiganti, l’imprenditore Nucera si sarebbe rivolto proprio all’avvocato De Stefano, definito “il massimo”.

    Ma anche in questo caso, la Cassazione parla di illogicità: «Se la struttura invisibile deve essere composta da soggetti la cui appartenenza alla ‘ndrangheta è sconosciuta a coloro che compongono la struttura visibile ed operativa del sodalizio criminale, onde evitare che i componenti della struttura invisibile possano essere indicati quali appartenenti al sodalizio criminale da eventuali collaboratori di giustizia, appare illogico sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far parte sia della struttura invisibile, sia della struttura visibile ed operativa in qualità, peraltro, di capo della cosca De Stefano».

    Ma non solo. Se De Stefano è un “invisibile”, perché dovrebbe palesarsi? «Peraltro non si vede perché, stante la assoluta segretezza che avrebbe dovuto ammantare la partecipazione alla ‘ndrangheta di Giorgio De Stefano quale componente della struttura occulta, venendo questa celata anche agli appartenenti al sodalizio criminale, Giorgio De Stefano avrebbe dovuto rivelare tale sua qualità al Nucera, che non è un associato al sodalizio». scrivono i giudici.

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    La sede della Corte d’appello di Reggio Calabria

    Le date

    Per i giudici di Piazza Cavour, non è chiaro «in cosa si sarebbe concretamente sostanziato il contributo arrecato dal De Stefano quale componente della struttura invisibile della ‘Ndrangheta unitaria. Per affermare la sussistenza della componente occulta della ‘Ndrangheta i giudici di appello si sono basati anche su collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni risalgono ad un periodo anteriore al 2006».

    Essendo quindi De Stefano già condannato nel cosiddetto processo “Olimpia” per concorso esterno in associazione mafiosa, non può essere considerato colpevole fino al 1991. Scrive la Cassazione: «L’odierno ricorrente non può essere nuovamente processato per il reato di partecipazione alla medesima associazione commesso sino al 1991, essendo irrilevante che in questa sede si contesti al De Stefano la partecipazione alla ‘ndrangheta quale associazione unitaria e non quale partecipazione alla singola cosca, atteso che, stante la unitarietà della ‘ndrangheta, affermata anche nel presente processo, la partecipazione alla cosca vale anche quale partecipazione alla ‘ndrangheta unitariamente intesa, laddove si affermi che tale associazione è unitaria».

    Giudicato nel “Caso Reggio”

    E, inoltre, De Stefano è stato già giudicato, fino al 2005, nel cosiddetto “Caso Reggio”: un’inchiesta in cui si ipotizzava una sorta di complotto ai danni di alcuni magistrati del distretto reggino, con l’accusa di essere capace di “aggiustare” i processi. Un’inchiesta finita nel nulla. Ma la medesima “qualità” (quella di “aggiustare” i processi) è tra le accuse nel processo “Gotha” che porterebbero a considerare De Stefano uno degli elementi massimi della ‘ndrangheta. Per questo, quindi, l’annullamento senza rinvio della condanna: «Le condotte ed il contributo che sarebbe stato arrecato dal De Stefano alla associazione criminale non cambiano — e già si è detto che è irrilevante che tale contributo venga inteso in un processo come in favore della singola cosca o della associazione unitariamente intesa —, mentre muta la mera qualificazione giuridica di tali condotte» –  scrive la Cassazione.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Per la Cassazione, i giudici della Corte d’Appello hanno sbagliato a considerare De Stefano colpevole anche per il periodo successivo al 2005. Per farlo hanno utilizzato come riscontro le dichiarazioni dei pentiti che avevano iniziato il percorso di collaborazione prima del 2006: «La Corte di appello, ritenendo non operante la preclusione derivante dal giudicato per il periodo fino al 2005 compreso, ha utilizzato le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che hanno riferito su fatti collocati in detto periodo e, sulla base di tali dichiarazioni, ha concluso che già in tale periodo il De Stefano rivestiva un ruolo apicale in seno alla componente riservata della ‘ndrangheta».

    Ma questo, per gli Ermellini, è stato un abbaglio colossale: «Alla luce di tale conclusione, che si pone in netto contrasto con i precedenti giudicati, ha ritenuto provata la prosecuzione della medesima condotta anche per il periodo successivo; in particolare, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno riferito di condotte successive al 2005 sono state ritenute riscontrate da quelle di coloro che avevano iniziato a collaborare con la giustizia prima del 2006».

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    Ci sono circa 5.000 mafiosi italiani in Australia divisi in 51 clan di cui 14 di ‘ndrangheta. Questa la notizia con cui ci si è svegliati nel nostro emisfero la mattina del 7 giugno. Capita spesso di arrivare ‘tardi’ quando qualcosa accade in Australia; complice il fuso orario al nostro risveglio è già successo molto Down under. I principali canali di comunicazione australiani, dall’ABC (Australian Broadcasting Corporation) al The Guardian, hanno pubblicato nella notte la notizia, già commentata in radio e in tv locali, e twittata e condivisa sui social plurime volte, ripresa da un lancio stampa sul sito dell’Australian Federal Police. Nel leggere il comunicato stampa dell’AFP, prima ancora che le news rielaborate, si comprendono una serie di cose.

    Fbi e telefoni criptati: AN0M

    Primo: non si tratta di un’operazione in corso, ma di una serie di chiarimenti sull’operazione Ironside, altrimenti conosciuta come AN0M. Proprio un anno fa, l’8 giugno 2021, uno sforzo congiunto tra FBI americana e AFP australiana portava a centinaia di arresti, oltre 700 in tutto di cui 340 solo in Australia, in Australia, grazie a un’idea geniale: intercettare una app criptata, AN0M, che funzionava solo su un particolare tipo di telefono che costava oltre 2.000 dollari e non aveva accesso né a mail né a GPS, dunque irrintracciabile.

    Calabresi d’Australia e influencer della ‘ndrangheta

    App e telefoni, ideati appunto dalla FBI – che chiamò l’operazione Trojan Shield – erano stati introdotti nel mercato criminale grazie a degli “influencer”, cioè membri di spicco della criminalità australiana la cui voce e reputazione fosse in qualche modo adeguata per un’operazione di marketing. Tra questi, un certo Domenico Catanzariti, di Adelaide nell’Australia meridionale, che di giorno fa l’orticoltore, e nel tempo libero, dicono gli inquirenti, importa cocaina e altri narcotici dall’Europa grazie a un network di ‘ndrangheta e di altri trafficanti locali, tra cui altri australiani di origini calabresi, come Salvatore Lupoi e Rocco Portolesi ad esempio. Altri nomi, chiaramente di origine calabrese, sono quelli di Francesco Nirta e Francesco Romeo, arrestati nell’Australia meridionale. Gli arresti tra Stati Uniti e Australia e alcune indiscrezioni su questo caso sono quindi roba dell’anno scorso. Li hanno ripescati un anno dopo quasi in commemorazione di questa grossa operazione del 2021.

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    Il porto di Melbourne, dove molta della droga importata dai calabresi continua ad arrivare

    Il contributo dell’Italia

    Secondo: l’AFP chiarisce che molta dell’intelligence che si è riusciti a ricavare dall’intercettazione della piattaforma AN0M, è stata studiata in questi mesi grazie all’aiuto delle autorità italiane, di Europol e di Interpol, in particolare il programma I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta), in cui l’Australia è uno degli 11 paesi coinvolti. Per questo oggi, e non un anno fa, si riescono a dire una serie di cose a riguardo della presenza mafiosa nel paese, tipo il fatto che alcuni ‘ndranghetisti prendano ‘ordini’ dalla Calabria, o mantengano vivi i rapporti con la madrepatria, oppure che operino insieme ad altri gruppi locali su cui a volte esercitano un notevole potere.

    Come bande di motociclisti

    Terzo: c’è un problema di numeri. L’AFP dice che «ci sono 51 clan di criminalità organizzata italiana in Australia. Abbiamo identificato e confermato 14 clan di ‘ndrangheta in Australia, che contano migliaia di affiliati». E ancora «La nostra intelligence suggerisce che il numero di affiliati potrebbe essere simile a quello delle bande di motociclisti» che, per chi non lo sapesse, sono da anni il nemico numero uno delle forze di polizia nella criminalità organizzata australiana. Si è dunque calcolato, arbitrariamente e senza né conferma né smentita dalle forze dell’ordine, che si tratti di circa 5.000 affiliati, visto che appunto questi sono i numeri correnti anche per i motociclisti.

    Bikers di una gang australiana

    E gli altri 36 clan?

    Chi siano poi i 36 clan, di 51 menzionati, che non siano legati alla ‘ndrangheta non è dato ancora sapere. Probabilmente si tratta di altri gruppi criminali, a prevalenza italiana, legati a opportunità nel mondo del traffico di stupefacenti e/o ad altri gruppi minori. Ma il comunicato stampa non parla d’altro che di ‘ndrangheta e si ‘scorda’ di approfondire tutti gli altri ‘criminali italiani’. Visto ciò che si sa sulla criminalità di origine calabrese in Australia verrebbe da pensare che le affiliazioni mafiose siano un po’ più evolute e forse anche un po’ più specifiche del mero attributo etnico ‘italiano’, sebbene sicuramente dai contorni sfumati e di difficile comprensione.

    I 100 anni della ‘ndrangheta in Australia

    Volendo entrare ancora un po’ più a fondo in questa notizia, bisogna sollevare una serie di critiche. Innanzitutto, risulta strano il senso di urgenza e il senso di novità che accompagna questa notizia, non solo nel comunicato dell’AFP quanto in tutto ciò che ne è seguito. Sembrerebbe, a leggere le notizie, che si sia appena scoperta o confermata la presenza della mafia in Australia.
    Questo farebbe quasi ridere: l’Australia è l’unico paese al mondo dove la ‘ndrangheta – e solo la ‘ndrangheta in maniera strutturata – è presente da 100 anni. Anzi, si festeggerà il centenario a dicembre 2022, in ricordo della nave Re D’Italia che ha approdato a Fremantle, Adelaide e Melbourne nel dicembre 1922 portando i tre fondatori della onorata società dalla Calabria all’Australia.

    Adelaide, il pavimento del Museo dell’immigrazione

    Tanta confusione, anche per colpa nostra

    Questo aspetto leggendario della nascita della ‘ndrangheta australiana ne dimostra la forte valenza identitaria. Dal 1922, ciclicamente, l’Australia passa da momenti di panico mediatico a momenti di totale blackout nel capire, ricercare, perseguire la ‘nostra’ mafia. A volte a indurre la confusione sono state le autorità italiane: la commissione parlamentare antimafia negli anni ’70, interpellata dalle autorità australiane su alcuni eventi di sangue nelle comunità calabresi d’Australia, risponderà che non si tratta di mafia (la mafia è siciliana!) e che il mafioso non potrebbe comunque vivere così lontano dal Sud Italia. A volte, è stato per mancanza di fondi che si è smesso di analizzare il fenomeno: la famosa operazione Cerberus proprio sulla criminalità organizzata calabrese e italiana, guidata negli anni 90 dalla National Crime Authority, si chiuse al voltar del secolo per assenza di interesse e risorse.

    La culla della ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, tutto si può dire tranne che la ‘ndrangheta sia un fenomeno urgente e nuovo oggi in Australia, quando nella storia del paese ci sono addirittura omicidi eccellenti legati a questi clan (se ne parlerà nelle prossime puntate della rubrica sicuramente). Inoltre, è in Australia – e non in Italia – che si sono per la prima volta definiti i caratteri organizzativi dell’Onorata Società – in contrapposizione con la mafia siciliana Cosa Nostra – principalmente all’epoca a Melbourne oltre che in una città del Nuovo Galles del Sud, Griffith – considerata la ‘culla’ della ‘ndrangheta platiota in Australia – in documenti di polizia del 1958 e poi nel 1964.

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    L’Italian museum di Griffith. La città del New South Wales è considerata la patria della ’ndrangheta in Australia

    Un pericolo tutto calabrese

    Un ulteriore riflessione meritano poi proprio i numeri che arrivano da operazione Ironside. L’AFP negli anni, principalmente dal 2006-2007 quando ha ripreso a occuparsi a tempo pieno di questo fenomeno, ha sempre ammesso che il ‘pericolo’ in Australia è sempre stato solo associato alla ‘ndrangheta. E che gli altri gruppi criminali a cui collaborano persone di discendenza o origine italiana non sono qualificabili come ‘mafie’ né sono cosi rilevanti come la ‘ndrangheta australiana.
    Inoltre, l’AFP lavora per mappe familiari quando si tratta di ‘ndrangheta – family trees – più o meno corrispondente alla ‘ndrina, basata sul cognome e sulle alleanze familiari.

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    La prima pagina del report del 1958 sulla Onorata Società a Melbourne

    L’Australia e la ‘ndrangheta della porta accanto

    In base alla ricerca condotta negli anni sulla ‘ndrangheta in Australia, alla sottoscritta risulta difficile pensare che ci siano “solo” 14 ‘ndrine soprattutto se ci si continua a chiedere chi siano i rimanenti 36 clan dei 51 annunciati. Si potrebbe invece ipotizzare una confusione tra ‘ndrina e locale, non inusuale all’estero, laddove 14 locali e/o 51 ‘ndrine potrebbero effettivamente corrispondere a più realtà. Il che potrebbe ridimensionare anche i numeri totali, nonostante l’affermazione del commissario AFP Nigel Ryan, riportata dal Guardian, secondo cui «è interamente possibile che qualcuno viva vicino a un membro della ‘ndrangheta senza saperlo».

    Il metodo Falcone

    Ma per saperne di più ovviamente si aspettano ulteriori dati. Fatto sta che non risulta contestato che la ‘ndrangheta australiana abbia sue connotazioni precise, storicamente rilevanti e totalizzanti nel panorama criminale ‘italiano’ del paese, dove i clan – soprattutto di origine aspromontana e ionica – offrono continuità e protezione criminale. Si tratta comunque di una notizia che fa ben sperare per il futuro degli sforzi antimafia in Australia. Infatti, come ricorda l’AFP, si è scelto di proseguire tali sforzi partendo dal metodo Falcone, quindi da un focus sul riciclaggio di denaro e il movimento di fondi illeciti nell’economia.

    Il problema non sta certo nella volontà o nella capacità delle autorità australiane nell’agire in questo senso, ma più che altro sta nella difficoltà tecnica di coordinare operazioni di polizia e processi trans-giurisdizionali all’interno di quello che è effettivamente uno stato-continente. Inoltre, il rinnovato interesse all’argomento porterà sicuramente dei finanziamenti e ricalibrerà le priorità delle forze di polizia nel paese che è conditio sine qua non per l’analisi corretta del fenomeno.

    Troppe sfaccettature per un solo metodo di contrasto

    Rimane però da chiedersi se sarà questo finalmente il momento di svolta della lotta antimafia in Australia, e cioè quel momento in cui le autorità down under finalmente inizieranno a perseguire il fenomeno ‘ndrangheta sulla stregua di quello che la ricerca criminologica degli ultimi anni riesce a intuire: un fenomeno multi-sfaccettato contro cui non funziona un solo metodo di contrasto e con diverse manifestazioni da Perth a Sydney, passando per Brisbane, Adelaide, Melbourne, Canberra e l’hinterland.

    Il cimitero di Melbourne, a Carlton, storica e attuale Little Italy e ultima residenza di molti calabresi, ‘ndranghetisti e non

    Particolarmente avvezza alla prossimità politica, con influenza e interesse anche ad alti livelli nazionali, capace ancora di vittimizzare alcune frange della comunità calabrese, meridionale e italiana, e inserita in modo totalmente integrato nella storia economica e sociale del paese, la ‘ndrangheta in Australia, a chi scrive, è sempre sembrata una delle formule più riuscite della mobilità mafiosa.