Tag: ‘ndrangheta

  • Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Non ebbe, forse, il clamore esplosivo della vicenda di Paul Getty III né creo catene di solidarietà in tutto il Paese, come il caso di Cesare Casella.
    Tuttavia, il sequestro di Marco Forgione, dieci anni compiuti l’antivigilia del Natale 1979, scosse Cosenza e divenne un caso nazionale.

    La città “babba”

    Cosenza ha solo la fama di zona civile e tranquilla. In realtà, in quell’ultimo scorcio di anni ’70 si spara e ammazza alla grande.
    L’escalation inizia il 14 dicembre 1977, con l’omicidio di Luigi Palermo detto ’u Zorru, lo storico capo della vecchia malavita bruzia.

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    John Paul Getty III

    Sotto la patina di un’apparente tranquillità i cosentini vivono quasi sotto coprifuoco.
    In questo contesto, il sequestro del piccolo Forgione è il primo punto di rottura. È il primo segnale all’opinione pubblica nazionale che anche il nord della Calabria è come tutto il resto del Sud infestato dalla mafia. Già: i sequestri di persona, negli anni’70, significano soprattutto ’ndrangheta.
    Certo, ci sono stati i sardi, in testa Grazianeddu Mesina, e poi ci sono state le spacconate di Vallanzasca. Ma i calabresi sono un’altra cosa: con loro non si può assolutamente scherzare.

    Il sequestro

    È la sera del 9 novembre 1979. Una Fiat 500 imbocca lo svincolo per Pianette di Rovito, una manciata di chilometri dal capoluogo.
    La guida Davide Forgione, un ragazzo di 19 anni, rampollo di una celebre famiglia di commercianti di calzature. A bordo con lui c’è Marco, il fratello minore.

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    La 500 su cui viaggiava Marco Forgione

    All’improvviso, due auto bloccano la 500. Ne escono otto uomini armati, che bloccano Davide per circa mezzora e rapiscono Marco.
    È l’inizio di un calvario, per il piccolo e la sua famiglia, che durerà cinquantasette giorni.

    Silenzio, parla il Papa

    Il 16 dicembre 1979 Karol Wojtyla è Papa da poco più di un anno. Più deciso e carismatico dei suoi due predecessori immediati (Paolo VI e Giovanni Paolo I), inizia a prendere posizione nei confronti delle mafie, sulle quali la Chiesa aveva tenuto fino ad allora atteggiamenti altalenanti.
    Quel 16 dicembre è domenica e Giovanni Paolo II dedica la sua omelia proprio a Marco.
    «Ho presente in questo momento il piccolo Marco Forgione, rapito a Cosenza nel mese scorso e che l’antivigilia di Natale compirà il decimo anno di età», dice il Papa alla folla che riempie piazza San Pietro.

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    Il ritaglio di Gazzetta del Sud con la notizia del rapimento

    E continua: «La sua voce e quella di altre persone che versano nella stessa dolorosa condizione, giunge al mio cuore, insieme a quella dei familiari, carica di ansia e di angoscia».
    Infine l’appello: «È questo dolore profondo di anime innocenti e di famiglie colpite nei più intimi affetti che mi induce a rivolgere un accorato appello ai rapitori: la grazia del Natale tocchi i loro cuori, li distolga dai loro propositi e li induca a restituire alle famiglie i loro cari».
    Non è ancora il Pontefice che, tredici anni dopo, lancerà la scomunica ai mafiosi, ma la strada è quella.

    La parola ai comunisti

    Anche l’altra Chiesa italiana, cioè il Pci, prende posizione sul rapimento di Marco. Sulle colonne de L’Unità del 27 dicembre Filippo Veltri riporta una dichiarazione del papà del piccolo prigioniero: «Non fategli sapere che è Natale».
    I comunisti vivono l’era Berlinguer e tentano il dialogo con la “borghesia”, fino ad allora trattata con sospetto da molta sinistra. Disinteressata o meno, la linea legalitaria, sperimentata già con grande durezza nei confronti delle Br durante il sequestro Moro, assume definitivamente le vesti dell’antimafia.

    L’articolo dedicato da L’Unità al sequestro Forgione

    Proprio a fine ’79, il Partito comunista organizza due dibattiti sulla criminalità mafiosa: uno a Paola e l’altro a Sibari. E di questa criminalità i sequestri di persona sono un segno tangibile.
    O meglio, «un segno ulteriore di come la piovra mafiosa si sia ormai propagata in tutta la regione, non risparmiando oasi un tempo ritenute felici ed immuni dalla criminalità organizzata».

    La liberazione

    Più che le parole del Papa e le polemiche dei comunisti, per Marco è stato decisivo il riscatto: circa quattrocento milioni di lire dell’epoca.
    Il piccolo ritrova la libertà il 5 gennaio del 1980, quando i suoi carcerieri lo rilasciano nella periferia di Sant’Onofrio, il paese del Vibonese noto per il rito religioso dell’Affruntata.
    Le indagini, coordinate dal procuratore capo Saverio Cavalcanti e dai suoi sostituti Oreste Nicastro e Alfredo Serafini, approdano a poco, tanta è l’omertà. Che, tuttavia, non riguarda solo l’affaire Forgione.

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    Marco Forgione assieme al sostituto procuratore Oreste Nicastro

    Alfredo: l’altro bambino rapito

    Marco è il più piccolo tra i sequestrati di quell’anno.
    Poco più grande di lui, Alfredo Battaglia in quel terribile ’79 ha compiuto tredici anni. Alfredo, figlio di un gioielliere di Bovalino, viene sequestrato il 30 ottobre ed è rilasciato il 23 febbraio del 1980, dopo centoquindici giorni di prigionia vissuti in piena sindrome di Stoccolma.
    Intervistato dalla neonata Rai 3 durante il sequestro, suo padre si dimostra duro: «Non si tratta solo dei mafiosi ma dei politici che li proteggono, che alle elezioni li abbracciano e li baciano sui palchi dei comizi».

    Enrico: lo studente universitario

    Piuttosto giovane è anche Enrico Zappino, che nel ’79 ha ventidue anni e studia all’Università di Pisa.
    Figlio di Pasquale, ufficiale medico di Mileto, nel Vibonese, e della professoressa Giuseppina Naccari Carlizzi, Enrico viene sequestrato il 22 dicembre e torna in libertà quattro mesi dopo. Il suo riscatto subisce varie negoziazioni: all’inizio i rapitori pretendono due miliardi, alla fine si “accontentano” di duecento milioni.
    Quando si dice chiedere cento per ottenere dieci…

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    Adolfo Cartisano, il fotografo morto in balia dei rapitori

    Zappino torna agli onori della cronaca nel ’93, quando si offre prigioniero al posto di un altro rapito di Bovalino: il fotografo Adolfo Cartisano, sequestrato a luglio di quell’anno e non ancora liberato, a dispetto dell’avvenuto pagamento del riscatto.
    Il gesto è nobile ma inutile: Cartisano, probabilmente, era già morto. I suoi familiari ne ritrovano il corpo solo nel 2005, in seguito alla cantata anonima di un pentito.

    Gli altri

    Antonio Rullo, imprenditore di Reggio Calabria, resta botte di mesi in mano ai suoi rapitori.
    I quali, tuttavia, gli consentono di inviare lettere e foto ai suoi familiari perché si affrettino a liberarlo.

    L’articolo de L’Unità sul sequestro Rullo

    L’ultimo della lista è Domenico Frascà, farmacista di Locri, anche lui imprigionato per mesi.
    Forse anche questa sequenza di rapimenti stimola il legislatore a far presto sulla normativa antimafia, all’epoca in elaborazione, che sarebbe stata varata solo nel 1982, sulla scia dell’impatto emotivo del delitto dalla Chiesa.
    Ma nel ’79 la consapevolezza del pericolo mafioso era comunque alle stelle. Scrive ancora, al riguardo, Veltri: «Attenti che si è giunti ad un punto limite». Col senno del poi, è impossibile dargli torto.

  • Delitto Belsito: il gup infligge sessantotto anni di carcere

    Delitto Belsito: il gup infligge sessantotto anni di carcere

    il gup di Catanzaro ha condannato tre persone nel rito abbreviato del processo per l’omicidio di ‘ndrangheta di Domenico Belsito, avvenuto nel 2004 a Pizzo.
    Hanno ricevuto 30 anni di condanna Nicola Bonavota e Francesco Fortuna.
    Otto anni per il collaboratore di giustizia Andrea Mantella; assolto Pasquale Bonavota. Belsito fu ferito a colpi di arma da fuoco mentre si trovava in un bar di Pizzo e morì due settimane dopo nell’Ospedale di Vibo Valentia.

    Omicidio Belsito: esecutore e mandante

    Secondo l’accusa avrebbe sparato Francesco Scrugli, ucciso a Vibo nel 2012. L’omicidio, secondo la Dda di Catanzaro, sarebbe maturato per dinamiche interne ai clan, impegnati in una lotta interna alla famiglia di ’ndrangheta dei Bonavota di Sant’Onofrio per definire la spartizione dei territori di competenza.
    A processo con rito ordinario, invece, c’è Salvatore Mantella, ritenuto mandante dell’omicidio e cugino del collaboratore di giustizia che avrebbe partecipato materialmente al delitto.

  • Cocaina dalla Calabria a Messina, in arresto anche il boss Nirta

    Cocaina dalla Calabria a Messina, in arresto anche il boss Nirta

    I Carabinieri del Comando Provinciale di Messina hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 18 persone (per 13 è stato disposto il carcere, per 3 gli arresti domiciliari e per 2 l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), accusate a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina. Tra gli arrestati il boss ‘ndranghetista Paolo Nirta, in affari con i trafficanti messinesi.

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    L’inchiesta, coordinata dalla Dda guidata dal procuratore Maurizio de Lucia, nasce dagli accertamenti fatti dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Messina dal febbraio 2021, a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che ha parlato di una strutturata associazione di trafficanti di droga che operava principalmente nella zona sud della città di Messina.

    Il ruolo della famiglia Nirta

    La banda aveva di fatto quasi interamente monopolizzato l’approvvigionamento in città della cocaina, che poi veniva spacciata al dettaglio a Messina, ma anche nel comune di Tortorici, dove c’era un’autonoma piazza di spaccio gestita da alcuni degli indagati. L’organizzazione si approvvigionava da un esponente di spicco della famiglia Nirta, ai vertici della ‘ndrangheta calabrese. In carcere oggi è infatti finito il figlio di Giuseppe Nirta, detenuto all’ergastolo per la faida di San Luca, e fratello di Sebastiano e Francesco Nirta, all’ergastolo per il loro coinvolgimento nella strage di Duisburg in cui vennero uccise sei persone.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Doppi fondi e telefonini riservati

    Il fornitore si serviva di un’articolata rete di corrieri, alcuni dei quali incensurati e tutti residenti nella provincia di Vibo Valentia, che si occupavano della consegna della droga “a domicilio” fino a Messina. Particolarmente ingegnose erano le modalità di trasporto della cocaina dalla Calabria a Messina. Per sfuggire a eventuali controlli, in particolare nell’area degli imbarcaderi dei traghetti, gli indagati utilizzavano auto modificate in alcune parti della carrozzeria con doppi fondi in cui nascondere la droga. I calabresi, inoltre, avevano dato ai complici messinesi telefoni riservati.

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    Imbarcaderi a Messina

    Tre kg di cocaina dalla Calabria a Messina

    Nel corso delle indagini sono state documentate varie forniture di sostanze stupefacenti dalla Calabria alla Sicilia, che hanno portato al sequestro di 3 chili di cocaina. Oltre alla città di Messina, i vertici dell’associazione erano in grado di rifornire di stupefacente pusher che operavano nella cittadina di Tortorici con i quali avevano creato un canale privilegiato di fornitura. A Tortorici quattro ragazzi avevano avviato un commercio di stupefacenti e quasi settimanalmente acquistavano la droga a Messina. L’operazione di oggi, condotta dai carabinieri, ha impegnato oltre 120 militari del Comando Provinciale di Messina, impiegati anche nelle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. (ANSA)

  • MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

    MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

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    L’11 luglio scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza del maxiprocesso “European ’ndrangheta connection – Pollino” al tribunale di Locri. Nel febbraio 2022 il primo grado si era infatti concluso con 12 condanne per complessivi 172 anni di reclusione e 5 assoluzioni. Le motivazioni confermano in sostanza gran parte della ricostruzione dell’accusa, notando il ruolo di spicco del clan Pelle-Vottari di San Luca nel narcotraffico europeo.

    Il controllo del mercato

    L’operazione si era distinta per gli arresti incrociati, avvenuti in un unico Action day, il 5 dicembre del 2019, tra Italia, Germania, Paesi Bassi e Belgio, coordinati da Europol e Eurojust. Pollino ha fatto luce su una vasta e complessa rete di importazione di narcotici, principalmente cocaina, in Europa e in Sud America: famiglie di ‘ndrangheta storiche, dalla Locride al resto del mondo, avevano dimostrato di avere un ruolo di coordinamento e di gestione del mercato.

    Qualche settimana fa, il 28 giugno, l’operazione antidroga ‘Hermano’ condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia reggina ha portato all’arresto di 19 persone. Hermano riguarda i clan della piana di Gioia Tauro, precisamente sul territorio di Taurianova, ma con proiezioni, e arresti, anche a Milano, Parma, Verona e Vicenza. L’obiettivo ancora una volta il narcotraffico, gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina dal Sud America fino all’Italia.

    Il 7 giugno scorso, infine, il tribunale di Trieste ha eseguito 38 ordinanze di custodia cautelare e disposto il sequestro di due milioni di euro contro narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. L’operazione Geppo2021 aveva portato al sequestro di 4.3 tonnellate di cocaina al porto triestino, il terzo sequestro più grande d’Europa.

    Dal Sud America all’Est Europa

    Rivelano le indagini, anche quelle giornalistiche, che si trattava dei giri di prova di un’alleanza tra il Clan del Golfo e importatori europei. Il Clan del Golfo, anche chiamato Urabeños, è uno dei gruppi di narcotrafficanti più importanti della Colombia, che conta fino a 2000 affiliati. Gli importatori in Europa invece sono un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta ma attivo anche a Roma e a Milano e una rete di individui provenienti dall’Est Europa.

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    Colombia: la cattura di Otoniel, considerato il capo del Clan del Golfo

    Queste tre operazioni non sono le uniche, ma le più rilevanti nel recente periodo. Cosa hanno in comune? Una notevole densità di rapporti con soggetti e organizzazioni criminali estere. Nel processo Pollino si erano visti i rapporti con trafficanti di Guyana e Suriname e con distributori turchi. Nell’operazione Hermano ci sono rapporti con fornitori peruviani. E nella maxi-operazione Geppo2021 compaiono colombiani, albanesi e bulgari.

    L’internazionale della cocaina

    Ovviamente, che la ‘ndrangheta sia un’organizzazione internazionale dedita all’importazione di stupefacenti già si sapeva. Sono noti, ad esempio, i rapporti con dei gruppi criminali brasiliani, come il Primeiro Comando da Capital (PCC) attivati e mantenuti per l’approvvigionamento della cocaina dai porti del Sud America all’Europa. Altrettanto noti sono gli avamposti dell’onorata società in Africa e nel resto dell’Europa. Lo aveva già confermato l’operazione Platinum nel maggio 2021, grazie anche ad approfondite indagini giornalistiche.

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    Una grafica sulla rete internazionale del narcotraffico (fonte Limes)

    I traffici illeciti che spaziano dall’Europa all’America passando per l’Africa, vedono i clan calabresi cooperare e forgiare vere e proprie partnership con Albanesi, Rumeni, Colombiani, Messicani, Brasiliani, Bulgari, Serbi e via discorrendo. È oggi normale, nelle ordinanze di custodia cautelare, dalla Calabria alla Lombardia, vedere tra gli arrestati sia italiani che stranieri. Questa ibridizzazione delle reti del narcotraffico porta a una serie di riflessioni che hanno a che fare sia con la natura dei traffici illeciti sia con l’identità della ‘ndrangheta in questi traffici.

    Le regole del narcotraffico

    Innanzitutto, il narcotraffico si muove con regole che non sono della ‘ndrangheta, nonostante il ruolo di spicco che la criminalità calabrese ha assunto e consolidato negli anni. Prendiamo la cocaina. Il mercato globale della cocaina si muove sui canali dei traffici legali, tra porti, marine, aeroporti, strade, utilizzando – sfruttando – la logistica interconnessa della nostra epoca. La produzione della cocaina è ai massimi storici negli ultimi anni, complici politiche sociali malriuscite del Sud, in paesi come Perù, Bolivia e Colombia, e drammatici flop della “guerra alla droga” (war on drugs) da parte del ricco Nord, come Stati Uniti, Canada, ed Europa.

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    Il consumo di cocaina è incostante aumento

    A questo aumento della produzione e della disponibilità del narcotico, si affianca l’atomizzazione dei gruppi criminali: in breve, c’è più gente che produce e vende la coca, c’è più gente che l’acquista. La retorica che la ‘ndrangheta controlli il mercato della cocaina europea è soltanto questo, retorica. Non solo si tratta di un mercato incontrollabile – in cui qualunque gruppo criminale alle giuste condizioni può effettivamente entrare – ma anzi, il dominio del mercato della cocaina è assolutamente concorrenziale.

    Uniti per gli affari

    Se si considera l’ascesa dei clan balcanici – che in alcuni casi hanno imparato il mestiere dai nostri corregionali ‘ndranghetisti, iniziando dalla manovalanza ai porti di Brindisi, Bari, Genova, Livorno ad esempio – si vede chiaramente come il settore in questione permetta a chi abbia denaro da investire, disponga di una gestione efficace della logistica e abbia la capacità di trovare sodali disponibili di entrare e acquistare velocemente una fetta del mercato.

    Questo implica che da una parte i clan di ‘ndrangheta hanno perso parte del loro tanto sbandierato controllo e dominio del mercato della cocaina e hanno imparato che senza collaborazione con altri nodi della rete non si sopravvive. Allo stesso tempo questa perdita di posizione non necessariamente si traduce in un guadagno minore, essendo appunto il mercato molto florido: c’è più cocaina per tutti i gruppi criminali che sanno collaborare, e le partnership cambiano quando serve agli affari.

    Ci sono un italiano, un peruviano e un albanese…

    In operazione Hermano, per esempio, leggiamo di come un gruppo calabrese utilizza come canale di approvvigionamento principalmente per cannabis e hashish dei partner albanesi, ma in seguito a un debito contratto con loro, cercano e trovano un gruppo di peruviani, stanziato a Milano e con broker anche italiani, per l’approvvigionamento di cocaina che permette un guadagno più alto e dunque permetterebbe loro di saldare il debito più velocemente.

    Un uomo della Dia intercetta una telefonata

    «Decisamente, se non ci sono i soldi, si può risolvere con macchine [ndr, cocaina, per saldare il debito con gli albanesi]».
    «Abbiamo litigato pure io con tutti…con gli albanesi, pure Flamur s’è incazzato con me (…)».
    «Ma lo sai che io ho perso diecimila euro qua con questi figli di puttana [il gruppo peruviano], ti ricordi quella sera che ti dicevo io che avevo anticipato io i soldi per le tre Pande [riferimento ad automobili, per intendere partite di cocaina]?».
    «E come fai a perdere diecimila euro… (…) vieni che ci andiamo insieme e le recuperiamo».
    «E certo che le devo recuperare, sto aspettando che viene zio qua a Baggio».
    «Perché per questo figlio di puttana qua, perché avevo preso impegni con Flamur»
    «Gli dici, Flamur, qua è successo questo, questi qua ci hanno preso per il culo e non rispondono più, hanno preso ancora giorni e a me non mi va di fare più figure di merda con le persone, basta!».

    Il potere della reputazione

    A questo si deve aggiungere una seconda riflessione. Certamente l’identità della ‘ndrangheta si fonda su un potere reale, concreto, che interferisce con la vita della gente di Calabria e non solo, dall’estorsione all’intimidazione, dalla violenza all’infiltrazione nella politica paesana o cittadina. La ‘ndrangheta ha ancora oggi un potere intimo, familiare, locale.

    Ma diverso dall’aspetto identitario locale e familiare, è il potere economico prettamente criminale dei clan, che una volta sui mercati globali non hanno bisogno di identificarsi come ‘ndrangheta o mafia, ma utilizzano la solidità della loro reputazione di acquirenti e fornitori che saldano i conti e sanno aggirare le forze dell’ordine. Proprio come si legge anche dall’intercettazione precedente e in quella successiva che proprio di questa solvibilità parla.
    «Sistemiamo così che è la migliore cosa perché non voglio fare casini perché dopo perdo l’amicizia capito? (…) Perdo la stima che avevo io su di lui e lui proprio mi dice ma che persona sei, capito?».

    Nessuno è infallibile

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    Finanzieri in azione nel porto di Gioia Tauro

    Se le due anime dell’organizzazione criminale stanno insieme da un punto di vista analitico, da quello meramente fattuale questa unità non aiuta a comprendere il successo – o il fallimento – nei mercati illegali. Infatti, ricordiamoci anche che le operazioni contro narcotraffico sono iniziative fallite, intercettate dalle forze dell’ordine quindi andate male. Ci mostrano clan che a volte faticano a far tornare i conti, altre volte sbagliano a fidarsi di qualcuno, altre volte ancora incappano in problemi dalla fornitura alla distribuzione, fino al pagamento. E non capita poi così di rado. Di questo, in fondo, ci si può rallegrare: sicuramente neanche la ‘ndrangheta è infallibile, quanto meno nel frammentato e concorrenziale mercato degli stupefacenti.

  • Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

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    Iniziamo con una data: 28 giugno 1982. L’avvocato Silvio Sesti, penalista cosentino di grande livello e specchiata onestà, cade sotto il fuoco di due sicari, che lo freddano nel suo studio.
    Di questo cold case della storia criminale calabrese rimane un dettaglio vistoso. Gli assassini non sono calabresi, ma due napoletani: Alfonso Pinelli e Sergio Bianchi, detto ’o Pazzo.
    «Sparava come un dio e non gliene fotteva niente di nessuno», ha detto di lui Pasquale Barra, detto ’o Animale che, prima di pentirsi, faceva il killer delle carceri per conto della Nuova camorra organizzata. Suo l’assassinio truce di Francis Turatello, nel carcere di Badu ’e Carros.
    Ma in quanto a sangue versato, Bianchi lo fregava: portava sulla coscienza (posto che ne avesse una) trecento morti ammazzati. A questo punto, la domanda vera è una: cosa ci facevano due killer campani a Cosenza? Un altro dettaglio può aiutare: anche ’o Pazzo faceva parte della Nco. E la Nco significa solo un nome: Raffaele Cutolo.

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    Il funerale di Silvio Sesti

    Cosentini in trasferta

    Facciamo un passo indietro e cambiamo zona: il 3 settembre 1981 i carabinieri arrestano a Napoli Franco Pino, boss rampante della malavita cosentina, l’ultima che si era costituita in ’ndrangheta.
    Assieme al giovane boss (29 anni all’epoca), finiscono in manette i cosentini Giuseppe Irillo, detto ’a Vecchiarella, e Antonio De Rose, che qualche anno dopo sarebbe diventato il primo pentito di Cosenza. Più il paolano Osvaldo Bonanata, detto ’u Macellaiu. Più vistosi i nomi dei napoletani arrestati assieme ai compari calabresi: Francesco Paolo Alfieri e suo padre Salvatore, entrambi uomini di spicco della Nco. Di nuovo Cutolo. La domanda, stavolta, è invertita: che ci facevano i quattro cosentini a Napoli?

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    L’alleanza d’acciaio

    Per Franco Pino è facile rispondere: il boss dagli occhi di ghiaccio aveva l’obbligo di dimora fuori regione e risiedeva all’Hotel Vittoria di Sapri.
    Ma anche a Napoli Pino si era fatto notare, almeno dalle forze dell’ordine che lo sospettavano di alcune rapine.
    In realtà, il rapporto tra il clan Pino-Sena e la Nco faceva parte di una strategia più complessa e sofisticata, messa a punto da don Raffaele, all’epoca latitante nel suo castello di Ottaviano.

    Lo strano battesimo

    Tutto comincia in carcere, quando (erano gli anni ’70) Egidio Muraca, storico boss di Lamezia, inizia Raffaele Cutolo alla ’ndrangheta.
    Altra domanda: perché Cutolo aveva bisogno di farsi iniziare in un’altra struttura criminale, tra l’altro più giovane della Camorra? E ancora: perché la ’ndrangheta, struttura notoriamente “chiusa” e familistica, accettava tra le sue file un napoletano?
    La risposta è articolata. Iniziamo dal punto di vista napoletano: la Camorra, a differenza delle sorelle calabrese e siciliana, non ha mai avuto una struttura compatta e verticistica e, tranne qualche ritualità, non ha mai fatto davvero il salto di qualità verso la mafiosità “vera”. Detto altrimenti, Cutolo aveva bisogno di farsi riconoscere per ritagliarsi un ruolo.
    Viceversa, per i calabresi trovare contatti di rilievo era vitale per mettere un piede a Napoli, fino ad allora “colonizzata” dai siciliani. Insomma, un matrimonio d’interesse in piena regola, che diede i suoi frutti.

    …E se n’è gghiuto puro ’o calabrese

    Qualcuno ricorderà la scena del delitto in carcere de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, un classicone dei mafia movie.
    Bene: la sequenza richiama l’omicidio di don Mico Tripodo, lo storico boss di Sambatello, nemico giurato del reggino Paolo De Stefano, con cui Cutolo aveva stretto un’alleanza di ferro.
    Tripodo fu ammazzato da due giovani cutoliani: Luigi Esposito e Agrippino Effige, neppure cinquant’anni in due.

     

    L’alleanza tra Cutolo e gli emergenti della ’ndrangheta prevedeva lo scambio di killer: i calabresi in Campania e, viceversa, i campani in Calabria.
    Questa gestione non era una novità per i reggini. A Cosenza, invece, era quasi inedita.
    Franco Pino, infatti, non era solo un boss che sgomitava per emergere: tentava di trasformare la mala cosentina in ’ndrangheta vera e propria. E questo spiega perché la Calabria Citra, a un certo punto, si riempì di camorristi.

    Sul Tirreno

    Un uomo chiave di questa trasformazione è il sanlucidano Nelso Basile. Anche Basile aveva un legame d’acciaio coi cutoliani: il suo compare d’anello era Antonio Russo di Afragola. Russo, a sua volta, agiva in Calabria assieme a Bianchi e a Nicola Flagiello di Sant’Antimo.

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    Un ritaglio d’epoca sull’arresto di Pino a Napoli

    Quest’ultimo aveva un ruolo fortissimo nella Nco, perché cognato di Antonio Puca, detto ’o Giappone, luogotenente di Cutolo. I cutoliani venivano in Calabria non solo ad ammazzare, ma anche a svernare, cioè a sottrarsi ai killer della Nuova Famiglia, contro la quale ’o Professore aveva ingaggiato una guerra senza quartiere.
    Secondo varie testimonianze i napoletani si rifugiavano nelle montagne di Falconara Albanese, dove non davano nell’occhio.
    Ma al riguardo è meglio non andare oltre. Soprattutto, è importante evitare paralleli strani con la tragedia tuttora irrisolta di Roberta Lanzino, che morì proprio in quei luoghi.

    Sulla Sibaritide

    Il primo grande boss della Sibaritide, Giuseppe Cirillo, non era calabrese. Neppure napoletano: era di Salerno.
    Anche lui aveva un legame forte con Cutolo, che passava attraverso suo cognato Mario Mirabile, capoparanza della Nco a Salerno. Come se non bastasse, Cirillo era vicino anche a Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone, altro uomo di fiducia di don Raffaele.

    La parabola criminale

    Questo intrico termina col declino di Cutolo, che a partire dalla seconda metà degli anni ’80, viene emarginato dalla scena criminale e non solo.
    Forse il suo progetto di una Supercamorra organizzata in maniera militare era un po’ troppo, sebbene avesse sedotto tantissimi soggetti borderline: si contano, al riguardo, cinquemila tra affiliati e fiancheggiatori negli anni d’oro della Nco.

    Raffaele Cutolo alla sbarra

    Ma i calabresi e i cosentini, cosa facevano per Cutolo? Franco Pino, in uno dei suoi verbali fiume, fa un nome: Francesco Pagano, che a suo dire agiva coi campani e, quando era necessario, andava a sparare in trasferta.
    Un’altra “cantata” di Pino getta luce sul delitto Sesti: secondo il superpentito, lo avrebbe commissionato Basile. Ma quest’ultimo non può confermare né smentire: è stato ucciso nell’83.
    Stesso discorso per Bianchi ’o Pazzo, morto com’è vissuto: ammazzato per strada a Napoli nella seconda metà degli anni’80.

  • 2022, fuga da Reggio Calabria: uffici in Procura sempre più vuoti

    2022, fuga da Reggio Calabria: uffici in Procura sempre più vuoti

    Fuga dalla Procura di Reggio Calabria. Negli anni, l’ufficio requirente della città dello Stretto è stato l’avanguardia della lotta alla ‘ndrangheta. Gli anni iniziati, nel 2008, con l’avvento in città del “corso palermitano” targato Giuseppe Pignatone, ma anche Michele Prestipino e Ottavio Sferlazza, hanno segnato una svolta nella lotta al crimine organizzato.

    Procura di Reggio Calabria: arrivano i palermitani

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    Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria

    All’avvento dei palermitani, infatti, la lotta alla ‘ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria era quasi all’anno zero, ferma agli anni del maxiprocesso “Olimpia”. In circa quattro anni di gestione, quel modello portò all’arresto di quasi tutti i boss di Reggio e provincia, che erano latitanti da decenni. Da Pasquale Condello, “il Supremo”, a Peppe De Stefano, l’elemento più carismatico del casato del rione Archi, fino a Giovanni Tegano, “l’uomo di pace”. E poi, ancora, le inchieste “Fehida”, che ricostruì la strage di Duisburg e la faida di San Luca. O ancora, spostandosi sulla Piana di Gioia Tauro, le operazioni “Cent’anni di storia” e “Maestro”, contro le cosche Piromalli e Molè. Oppure quelle “All inside” e “Vento del Nord”, sui clan Pesce e Bellocco. Un (iper)attivismo giudiziario culminato con l’operazione “Crimine”, scattata il 13 luglio 2010, che porterà alla fondamentale pronuncia dell’unitarietà della ‘ndrangheta.

    Con Gratteri l’attenzione si sposta su Catanzaro

    Una Procura d’avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta, insomma. A proseguire l’opera anche il successore di Pignatone, quel Federico Cafiero de Raho che, con metodi diversi, con una strategia comunicativa più “smart” ha portato l’ufficio del sesto piano del Cedir a fuoriuscire dalla dimensione provinciale ed essere ambito anche per la possibilità di far carriera. Gli stessi capi, Pignatone e De Raho, avevano, infatti, un curriculum importante nella lotta ad altre organizzazioni criminali, come Cosa nostra e camorra.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    Se, quindi, per circa un decennio, è stata la Procura di Reggio Calabria a dettare la linea del contrasto repressivo alla ‘ndrangheta, l’avvento di Nicola Gratteri a capo della Procura di Catanzaro ha spostato nel capoluogo di regione l’attenzione (anche mediatica) sul fenomeno ‘ndranghetista. Tutto ciò corrisponde anche a uno svuotamento che la Procura reggina sta subendo. Non tanto e non solo in termini numerici, quanto in termini qualitativi.

    Il “decennio d’oro” della Procura di Reggio Calabria

    Se, infatti, dal 2008 al 2018, la Procura di Reggio Calabria è stata un ufficio di frontiera, dove poter misurare le proprie doti di investigatore con quella che, unanimemente, è riconosciuta come l’organizzazione mafiosa più ricca e potente, negli anni successivi si è ritornati a quella dimensione ristretta che, nella scelta della collocazione, attira, quasi esclusivamente, magistrati locali oppure di prima nomina. Negli anni, infatti, diversi sono stati i magistrati che, conoscendo e fiutando la verve di Gratteri, hanno scelto di spostarsi nel capoluogo. Qualche esempio? Antonio De Bernardo, che alla Dda di Reggio Calabria ha colpito duramente le cosche della Locride. Oppure Annamaria Frustaci, che oggi è alla Dda di Catanzaro. O, ancora, Giulia Pantano, per anni pm antimafia con competenza sulla Piana di Gioia Tauro e oggi procuratore aggiunto di Reggio Calabria.

    Vecchi e nuovi addii

    Ma negli anni la Procura di Reggio Calabria ha perso magistrati che sono andati a occupare incarichi di primissimo livello. Da Giovanni Musarò, cui si deve il merito, da pm a Roma, di aver riaperto il caso Cucchi. A Matteo Centini, il pm che, andando via da Reggio, ha scoperto la caserma degli orrori a Piacenza. E, ancor prima, Beatrice Ronchi, che in riva allo Stretto aveva indagato sui rapporti tra ‘ndrangheta e magistratura e che da pm antimafia di Bologna lega il proprio nome all’inchiesta “Aemilia”, la più importante sulle cosche in Emilia Romagna. Ha deciso di allontanarsi dal sesto piano del Cedir anche Roberto Di Palma, uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta, oggi procuratore per i minorenni.

    Il Cedir a Reggio Calabria

    Nei prossimi mesi si libereranno altri due posti in Dda: andranno via Francesco Ponzetta (pm con competenza sulla Piana di Gioia Tauro) e Antonella Crisafulli (che invece si occupa delle cosche della Locride). A fronte di perdite del genere, l’ufficio si è rimpolpato di un numero congruo di giovani magistrati, spesso di prima nomina. Fin qui, però, non sono riusciti a portare i risultati che un territorio come quello reggino necessiterebbe.

    La Procura di Reggio Calabria decapitata

    Tutto questo in un momento in cui anche l’immagine pubblica dell’Ufficio è stata scalfita dalla decisione del Consiglio di Stato che ha annullato (dopo quattro anni) la nomina di Giovanni Bombardieri a capo della Procura, definendola “illogica” nelle motivazioni. E sono tuttora vacanti due posti di procuratore aggiunto su tre. L’ultimo in ordine di tempo, il procuratore aggiunto Gaetano Paci che, dopo otto anni, ha ottenuto la nomina come procuratore di Reggio Emilia. È invece vacante da oltre otto mesi l’altro posto di procuratore aggiunto, quello lasciato libero da Gerardo Dominijanni, che si è insediato in Procura Generale il 15 ottobre 2021.

  • MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    Il 30 giugno 2022, ad Adelaide, capitale dell’Australia Meridionale, un uomo è stato condannato per l’omicidio di un detective, Geoffrey Bowen, e il tentato omicidio di un avvocato, Peter Wallis, dopo 28 anni. Quest’uomo è Domenic(o) Perre, originario di Platì, in Aspromonte.

    Emigrato da Platì in Australia

    Emigrato con la sua famiglia in Australia nel 1962, come tanti altri dalle sue parti in cerca di fortuna, Perre è protagonista di uno degli eventi più chiacchierati della cronaca australiana: il cosiddetto NCA bombing. L’NCA era la National Crime Authority (istituzione non più esistente oggi, ma assimilabile all’attuale Australian Criminal Intelligence Commission) i cui uffici nel centro di Adelaide saltarono in aria il 2 marzo del 1994, a causa di un pacco bomba che era indirizzato a Geoffrey Bowen.

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    L’ufficio dell’Nca dopo l’esplosione del 1994 che costò la vita al detective Bowen

    La bomba uccise il detective e ferì severamente l’avvocato Peter Wallis, con lui in quel momento, che perse un occhio nell’esplosione. La morte di Geoffrey Bowen è stata per 28 anni uno dei principali cold cases – casi irrisolti – in Australia, nonostante le indagini, sin da subito, si fossero concentrate su quest’uomo, Domenic Perre, che non solo aveva un chiaro motivo per uccidere Bowen, ma, a quanto pare, anche i mezzi per farlo.
    Il 2 marzo 1994, poco dopo le 7 del mattino, un dipendente dell’NCA si apprestava a distribuire la posta del giorno.

    “Potrebbe essere una bomba”

    Un cartellino rosso nella cassetta della posta indicava che c’era un pacco in attesa di essere ritirato dallo sportello. Era un pacco Express rosso, bianco e giallo, indirizzato a ” Geoffrey Bowen, NCA”. Il mittente sembrava essere “IBM Promotions”.

    Geoffrey Bowen arrivò nel suo ufficio al 12° piano alle 9 del mattino, chiamò l’ufficio postale e chiese se fosse arrivato qualcosa per lui. Stava aspettando alcuni reperti che gli sarebbero tornati utili per un processo a cui doveva presenziare il giorno dopo, contro un uomo di nome Perre.

    Gli fu detto che era arrivato un pacco, qualcosa a che fare coi computer. E Bowen, confermando che non aspettava niente da IBM, scherzò, tragicamente: “Potrebbe essere una bomba!” Poiché si trattava di posta non attesa, il pacco fu scansionato, ma la scansione non mostrò alcuna anomalia. Alle 9.15 Bowen aprì il pacco.

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    Geoffrey Bowen, il detective ucciso dal pacco bomba

    «Si sentì un forte crack, come un colpo di fucile o qualcosa di simile, e ricordo che Geoff emise un grido strozzato, un urlo, e cadde di lato. E poi – deve essere stato quasi istantaneo – c’è stato un enorme soffio di vento e un suono acuto che posso solo descrivere come elettricità statica molto forte. Ecco com’era. Sono stato immediatamente accecato. Quella è stata l’ultima cosa che ho visto».
    Queste furono le parole di Peter Wallis, l’avvocato che lavorava con Bowen, e che appunto rimase gravemente ferito nell’esplosione. Wallis è morto qualche anno fa. Geoffrey Bowen rimase ucciso quasi sul colpo, all’età di 36 anni.

    I soccorsi all’avvocato Peter Wallis dopo l’esplosione del pacco bomba

    L’arresto di Domenic Perre

    Nove giorni dopo l’esplosione, Domenic Perre fu arrestato e accusato dell’attentato.
    Perre era già noto alle autorità australiane perché era stato coinvolto fin dagli anni 80 nel traffico di cannabis. In particolare, nel settembre 1993, la polizia del Territorio del Nord aveva scoperto una piantagione di cannabis, composta da 10.000 piantine, in una località remota della Hidden Valley, che aveva un valore complessivo di oltre 40 milioni di dollari australiani. Francesco Perre, fratello di Domenico, fu arrestato insieme ad altre 12 persone, tra cui altri calabresi per lo più della zona Aspromontana.

    Francesco Perre

    Tra loro c’era Antonio Perre, zio di Domenic e Francesco, che all’epoca si trovava in Australia con un visto turistico. Antonio Perre era entrato in Australia dopo aver dichiarato falsamente di non avere precedenti penali: in realtà, era stato condannato per omicidio in Calabria e aveva trascorso 12 anni in carcere. Per l’operazione dell’Hidden Valley, Antonio Perre fu condannato a 18 mesi di reclusione ed estradato in Italia nel 1994. In seguito alla retata, si capì subito che le persone arrestate erano solo una parte dell’organizzazione criminale. Le indagini confermarono che Domenic Perre e altri erano i reali finanziatori dell’operazione.

    La ‘ndrangheta? In Australia la chiamano Onorata Società

    Comparve quasi subito l’ombra dell’Onorata Società, la ‘ndrangheta come viene ancora chiamata in Australia. Emersero collegamenti, incluse parentele molto scomode, tra la famiglia Perre ad Adelaide e le famiglie di ‘ndrangheta a Griffith, nel nuovo Galles del Sud, tra cui i Barbaro e i Sergi, che nei primi anni ’90 erano già notoriamente conosciuti come la Griffith Mafia, e abbondantemente collegati al commercio di cannabis e ad altre attività tipicamente mafiose, dall’estorsione all’omicidio alla corruzione politica nonché a un altro omicidio eccellente, quello dell’attivista-politico Donald Mackay nel 1977, tutt’ora caso irrisolto nonostante una commissione d’inchiesta abbia indicato le famiglie dell’Onorata Società di origine platiota quali responsabili dell’omicidio.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Geoffrey Bowen aveva guidato le indagini dell’Hidden Valley, e avrebbe dovuto testimoniare a processo contro i Perre e gli altri coinvolti, uno o due giorni dopo la sua morte. Le sanzioni per questo caso arrivarono nel 1997/1998 e segnarono l’inizio di una serie di condanne, per droga ma non solo, in capo a membri della famiglia Perre. Ma l’attentato all’NCA del 1994 rimase sullo sfondo, perché le indagini procedettero in modo schizofrenico.

    All’inizio del settembre 1994, il direttore della pubblica accusa emise un nolle prosequi in relazione a entrambi i capi d’accusa contro Perre: non c’erano prove sufficienti. Ma l’ufficio del coroner, medico legale, dello stato dell’Australia Meridionale aprì una nuova inchiesta nel 1999. Gran parte dell’inchiesta ruotava intorno al comportamento di Domenic Perre prima e dopo l’attentato; si documentò la sua avversione nei confronti di Bowen che era diventata quasi un’ossessione. Si scoprirono molte delle menzogne che all’epoca furono raccontate alla polizia per confondere le indagini.

    Victoria Square, Adelaide

    Passarono quasi vent’anni da quell’inchiesta del coroner, ma quando la polizia dell’Australia Meridionale decise di riprendere in mano il caso, nel 2018, grazie a nuove prove finalmente disponibili, sostanzialmente decise di ripartire da li. Proprio dal comportamento di Perre e della sua famiglia, dal suo movente e dalla sua capacità di costruire un pacco bomba e porre in atto l’attentato. Il tutto ovviamente supportato da nuove prove forensi sull’esplosivo e sul DNA.

    In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è necessario però riprendere quella scomoda domanda sui collegamenti alla ‘ndrangheta che erano apparsi già nel 1994, e mai sono stati effettivamente né chiariti né negati.
    Nel 2018 l’accusa mi chiese di redigere una relazione – e poi presentarla alla corte – in qualità di esperta di cultura e mafia calabrese, da portare tra le prove a processo contro Perre. Le domande che mi vennero fatte erano su questi toni: «Esiste un modo per collegare la cultura calabrese e la (sotto)cultura mafiosa? Cosa hanno in comune, come si differenziano? Si può sostenere che il comportamento di qualcuno è in realtà legato a entrambe queste culture?».

    L’equazione sbagliata tra Calabria e ‘ndrangheta

    La tesi dell’accusa si basava sul presupposto che a prescindere dal fatto che l’imputato si identifichi o meno come membro della ‘ndrangheta, lui e la sua famiglia erano cresciuti e hanno vissuto in quella (sotto) cultura sia a Platì, sia in Australia. Si legge nell’atto di accusa: «Alcuni atteggiamenti culturali hanno un’influenza sulla valutazione di una serie di aspetti delle prove di questo caso, tra cui: l’importanza e la sacralità della famiglia; il ruolo delle donne; la sfiducia nell’autorità, in particolare nelle forze dell’ordine; la cultura del silenzio».

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    Australia: armi, droga e denaro sotto sequestro a seguito dell’operazione Ironside del 2021

    Bisogna chiarire: il processo contro Perre dopo 28 anni dall’NCA bombing non è un processo alla ‘ndrangheta in Australia. Eppure, denota un chiarissimo cambiamento di approccio alla criminalità mafiosa da parte delle autorità australiane. Se da una parte è molto promettente, dall’altra rischia di creare ulteriori fraintendimenti sulla presenza dell’Onorata Società nel paese.

    È promettente che si ammetta che esiste in Australia un sistema di potere criminale che si alimenta di una condivisa e cristallizzata cultura mafiosa, risultato di una manipolazione di comportamenti, valori e tradizioni calabresi che la comunità migrante ha portato con sé. Riconoscere come avviene la manipolazione della cultura migrante, cosa differenzia un mafioso calabrese, uno ‘ndranghetista, da un calabrese onesto è un passo fondamentale proprio per preservare quella stessa cultura migrante e non fare di tutta l’erba dei calabresi d’Australia un fascio.

    La “trappola etnica”

    Ma, allo stesso tempo, un focus culturale sulla mafia porta sempre con sé il seme della potenziale discriminazione. Si tratta della ‘trappola etnica’ che porta alcune autorità estere a presumere che certi atteggiamenti e certe forme di criminalità (quella mafiosa in primis) siano legati a una specifica comunità migrante, e che, di conseguenza, ci sia qualcosa di sbagliato nella cultura di uno specifico luogo, in questo caso la Calabria, che rende più probabile per coloro che da lì migrano essere coinvolti in certi tipi di criminalità. Questo è problematico in quanto non vero; i comportamenti mafiosi possono appartenere potenzialmente a tutte le culture, e sopravvivono fintanto che ci sono meccanismi economici e sociali che nulla hanno a che fare né con la cultura d’origine né con la migrazione (si pensi al supporto alla ‘ndrangheta dei colletti bianchi o dei politici o degli industriali, del nord e centro Italia come dell’Australia).

    Un panorama di Platì

    No, il processo contro Perre non è un processo alla ‘ndrangheta, ma è il primo processo australiano che davvero parla di ‘ndrangheta come sistema di potere a connotazione culturale, oltre il traffico di stupefacenti.

    Salvo il diritto d’appello e altri step procedurali, Perre – attualmente in carcere per altra condanna legata a un’importazione di stupefacenti – sconterà forse una lunga pena carceraria. Rimane però da chiedersi, conoscendo la ‘ndrangheta sia calabrese che quella australiana, quanto di concertato ci possa essere stato dietro all’NCA bombing. Se davvero ci sono dei legami della famiglia Perre con il resto della ‘ndrangheta Australiana, viene appunto da chiedersi se qualcun altro sapeva, e approvava, quest’omicidio, o se qualcuno ha aiutato dietro le quinte, anche per far si che per 28 anni non si arrivasse a una condanna.

  • Il Brasile salva Morabito: come mai salta l’estradizione del re della coca?

    Il Brasile salva Morabito: come mai salta l’estradizione del re della coca?

    In Brasile è già una celebrità. Il suo caso sta dividendo l’opinione pubblica e gli esperti. E, probabilmente, lo farà ancora per un po’ di tempo. Perché in Brasile, Rocco Morabito, rimarrà ancora. Secondo quanto rivelato dalla stampa locale, lo stato carioca avrebbe bloccato l’estradizione di quello che è considerato uno dei boss della ‘ndrangheta più importanti, nonché uno dei narcotrafficanti più influenti a livello globale.

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    Rocco Morabito scortato dalla polizia federale brasiliana

    Brasile: Morabito salvato dalla carceri italiane

    Morabito potrebbe essere (temporaneamente?) salvato dalle carceri italiane per via di alcuni cavilli giurisprudenziali brasiliani. Avrebbe infatti commesso reati per i quali la sua estradizione in Italia potrebbe essere posticipata fino alla conclusione di un eventuale nuovo processo. Un caso piuttosto insolito – emerge da fonti brasiliane de I Calabresi – dato che, assai recentemente, la Corte suprema del Brasile (una sorta di organo a metà tra la Cassazione e la Corte Costituzionale) aveva confermato l’estradizione del boss calabrese.

    Ma ora l’autorità brasiliana contesta a Morabito altri reati prima dell’ultima cattura. Avrebbe infatti commercializzato droga fino a poche settimane prima rispetto al suo arresto avvenuto nel 2021. Un business messo in atto con il cartello brasiliano Primo comando della capitale (Pcc), che a sua volta li avrebbe venduti a trafficanti brasiliani che li avrebbero distribuiti in località del litorale di San Paolo come Guarujà.

    Chi è Rocco Morabito

    «El rey de la cocaina en Milàn». Così il giornale El Observador definiva qualche tempo fa Morabito. Al momento della sua cattura era considerato il ricercato più pericoloso dopo Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa Nostra, irreperibile da decenni. Condannato in contumacia a 30 anni dalla giustizia italiana, comminata dopo che agenti sotto copertura lo avevano sorpreso a pagare 13 miliardi di lire per un carico di droga di quasi una tonnellata.

    Originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria, feudo della cosca di Peppe, “u Tiradrittu”, la definizione data dal giornale El Observador non è casuale. Morabito a 25 anni ha lasciato l’Aspromonte per Milano dove era entrato nel giro dei giovani rampanti del centro per curare lo spaccio di cocaina. Stando alla sua storia giudiziaria e criminale, tra il 1988 e il 1994 avrebbe fatto parte di un gruppo del narcotraffico, nel quale organizzava il trasporto della droga in Italia e la distribuzione a Milano.

    “Tamunga” – questo il suo soprannome, dalla storpiatura dell’indistruttibile fuoristrada tedesco Dkw Munga. Restano nella “storia” del traffico internazionale di stupefacenti alcuni carichi di droga che Morabito avrebbe trattato. Nel 1993 di 32 kg di cocaina in Italia, operazione fallita a causa della cattura in Francia di un trafficante, e di 592 kg nel 1992 dal Brasile all’Italia, droga confiscata in quest’ultimo Paese. Da ultimo, un’operazione l’anno successivo con 630 kg di cocaina.

    Morabito è detenuto in Brasile da circa un anno, quando, cioè, un blitz interforze lo scovò a Joao Pessoa insieme a un altro latitante, Vincenzo Pasquino, ricercato almeno dal 2019. Da quel momento si è iniziato a lavorare per la sua estradizione nel più breve tempo possibile.

    Il business con le cosche della Piana

    La sua figura emerge con grande chiarezza nell’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro le cosche Bellocco e Gallace, attive proprio nel traffico internazionale di stupefacenti con il Sud America.  Le investigazioni avrebbero di dimostrato come i Bellocco, uno dei casati storici della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, avessero esportato anche oltreoceano le loro attività criminali, grazie alle relazioni con cosche come i Morabito e i Mollica di Africo.

    Così, nell’area platense, tra Buenos Aires e Montevideo, i calabresi dialogavano da pari a pari con i cartelli sudamericani, coordinando l’acquisto e la spedizione di quintali di cocaina verso l’Italia e l’Europa. L’area platense, quella che si trova vicina al Rio della Plata su cui si affacciano quasi dirimpettaie Buenos Aires e Montevideo, capitale dell’Uruguay è diventata da tempo una zona su cui si sono installati vari gruppi di ‘Ndrangheta in contatto con i narcos di Colombia, Bolivia e altri paesi Centroamericani.

    L’indagine prese avvio dopo il sequestro di 385 chili di cocaina rinvenuti in mare al largo di Gioia Tauro. Da quell’episodio la Guardia di finanza ha ricostruito la rete dei Bellocco che avevano da tempo ormai loro referenti in Sudamerica. Tra cui proprio Rocco Morabito, “Tamunga”.

    Il primo arresto

    Già nel 2017, infatti, era stato arrestato in un hotel di Montevideo dopo 23 anni di latitanza. In quell’occasione, “Tamunga” si celava dietro la falsa identità di un imprenditore brasiliano di 49 anni, di nome Francisco Cappeletto. Stratagemma, questo, che gli aveva consentito di ottenere una carta d’identità uruguayana.

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    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    La cattura era avvenuta in un hotel di Montevideo, insieme alla moglie, una 54enne angolana con passaporto portoghese. Morabito risiedeva da 13 anni nella vicina località balneare di Punta del Este. Si sospettava che fosse fuggito in Brasile ma le indagini in Uruguay erano scattate dopo che aveva iscritto una figlia a scuola sotto il suo vero nome. A Morabito furono confiscati una pistola, un coltello, due autovetture, 13 cellulari, 12 carte di credito e assegni in dollari.

    Specialista in evasioni

    La revoca dell’estradizione di Morabito sta facendo discutere il Brasile. Anche perché il narcotrafficante calabrese è esperto in evasioni dalle carceri sudamericane. Nel giugno 2019, la clamorosa evasione mentre anche in quel caso era in attesa dell’estradizione.

    Morabito sarebbe riuscito a fuggire insieme ad altri tre detenuti dalla terrazza del carcere ubicato nel pieno centro della capitale. Si sarebbe quindi introdotto in un appartamento confinante situato ai piani alti e, dopo aver derubato una donna, sarebbe scappato in taxi.

    Scene da film, latitanze dorate, possibili anche grazie alla sua fitta rete relazionale costruita in Sud America. Fin dai tempi della vita a Milano, infatti, Morabito spicca per la sua capacità di inserirsi molto bene nei salotti più importanti dell’alta società. Anche con lo scopo di penetrare le istituzioni.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Brasile: Morabito è un caso che divide il Paese

    Ora una nuova tappa nell’incredibile vita di “Tamunga”. La sua estradizione, infatti, nonostante le pronunce della Corte suprema, doveva essere autorizzata dal presidente Jair Bolsonaro. Ma proprio nelle ultime ore, il ministero della Giustizia avrebbe bloccato tutto.

    L’ordinanza è firmata dal segretario nazionale alla Giustizia, Josè Vicente Santini, uno dei fedelissimi di Bolsonaro. Ma la vicenda, anche sotto il profilo legale, non è così chiara. La legge in vigore in Brasile impedirebbe l’estradizione se vi sono procedimenti pendenti o condanne definitive in Brasile. Tale procedura può essere completata solo su richiesta della persona che dovrebbe essere trasferita. Oppure su autorizzazione della giustizia brasiliana.

    Insomma, per qualcuno, Morabito potrebbe essere deportato in Italia solo quando il caso si fosse concluso. Ma altri giuristi sostengono che “Tamunga” potrebbe rientrare in Italia prima della conclusione di un eventuale nuovo processo. Ma per adesso il re del narcotraffico non tornerà in Italia, da dove manca (almeno ufficialmente) da oltre 30 anni.

  • Traffico internazionale di droga tra Sudamerica e Reggio Calabria: 19 arresti

    Traffico internazionale di droga tra Sudamerica e Reggio Calabria: 19 arresti

    È scattata all’alba l’operazione antidroga “Hermano” con l’arresto di 19 persone. I carabinieri hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Al centro dell’inchiesta ci sono diversi soggetti residenti a Taurianova, nella Piana di Gioia Tauro. Il blitz ha interessato anche le province di Milano, Parma, Verona e Vicenza. Gli indagati sono accusati di aver fatto parte di un’articolata organizzazione criminale, capace di gestire un fiorente traffico di sostanze stupefacenti. Stando alle risultanze investigative dei carabinieri, coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri, la droga veniva acquistata in Sudamerica e, passando attraverso il canale spagnolo, arrivava poi in Italia dove veniva rivenduta in diverse città settentrionali.

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    Il procuratore di Reggio Giovanni Bombardieri

    Erano in contatto con narcos peruviani le 19 persone arrestate, sette in carcere e 12 ai domiciliari, nell’ambito dell’operazione “Hermano”. Tra i destinatari del provvedimento di arresto emesso dal Gip Giovanna Sergi, c’è Carmelo Bonfiglio, di 42 anni, ritenuto uno dei promotori e organizzatori dell’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Stando all’indagine Bonfiglio teneva i contatti con i fornitori spagnoli e albanesi. Ma soprattutto con i peruviani. Con questi ultimi produttori di cocaina, infatti, secondo la Dda, gli arrestati avrebbero goduto di rapporti privilegiati grazie ai quali erano in grado di acquistare partite di droga a prezzi concorrenziali: 32mila euro al chilo a fronte di un prezzo di mercato che va dai 35 ai 40mila euro.

    Carcere anche per Rocco Camillò di 44 anni, Diego Giovinazzo (46 anni), Palmiro Cannatà (62 anni), Salvatore Sanò (60 anni), Damiano Veneziano (33 anni) e Antonio Pedullà (36 anni). Il gip ha disposto i domiciliari per Antonio De Luca di 71 anni, Antonio Ranieli (71 anni), Francesco Macrillò (64 anni), Francesco La Cognata (44 anni), Maurizio Scicchitani (55 anni), Antonio Zangari (53 anni), Gino Carlo Melziade (50 anni), il peruviano Oscar Bruno Bagigalupo Lobaton (47 anni), Donato Melziade (63 anni), Endri Dalipaj (33 anni), Gioacchino Marco Molé (30 anni) e Riccardo Ierace (34 anni). Sono 56 gli indagati dell’inchiesta partita nel dicembre 2017 dopo un arresto per durante un controllo di polizia.

    All’epoca, infatti, all’interno di un auto, i carabinieri trovarono 3 chili e 400 grammi di infiorescenze di cannabis indica essiccata. Da quel sequestro, si è risaliti prima a Palmiro Cannatà e poi a Carmelo Bonfiglio riuscendo così a ricostruire la filiera della droga, ma anche a delineare la struttura della consorteria criminale capace di gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina. È emerso che gli arrestati riuscivano a importare in Italia ingenti partite di droga. I carichi venivano nascosti in “scomparti segreti” all’interno dei veicoli utilizzati per il trasporto nelle principali città italiane, tra cui Milano e Roma. Lì lo stupefacente veniva suddiviso in dosi e smerciato.

    Libri di cocaina

    Per sviare i controlli delle forze dell’ordine e quelli in aeroporto, la cocaina smerciata dal gruppo criminale smantellato nell’ambito dell’operazione “Hermano” condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria veniva trasportato in forma liquida, chimicamente intrisa nelle fibre di valigie o addirittura saturandola nei libri per poi estrarla attraverso processi chimici di reazione molecolare che ne consentono il recupero. Un metodo emerso in fase di indagini quando a Biella i carabinieri sequestrarono 250 grammi di cocaina trasportata in un trolley insieme a due bidoni di solvente che, secondo gli investigatori, sarebbe servito al processo inverso di estrazione della sostanza. Ai 19 indagati, sette in carcere e 12 ai domiciliari, viene contestata anche l’aggravante della natura transnazionale del traffico di stupefacenti.

    I carabinieri, indagando, sono riusciti a scoprire che il coordinamento delle attività veniva gestito anche dall’interno del carcere di Ivrea. Per il gip Sergi, l’episodio è «degno di un best set cinematografico hollywoodiano». In sostanza, «una banda di detenuti, per la maggior parte sudamericani – è scritto nell’ordinanza – divulgava disposizioni all’esterno su dove, come e quando commercializzare cocaina, oppure ordinava dosi della medesima sostanza stupefacente da introdurre nel carcere e, per finire, dava indicazioni sul traffico della droga da e per l’Ecuador. Il tutto mediante l’uso illegale di un telefono cellulare munito di regolare sim card».

    L’ombra della ‘ndrangheta

    Alcuni indagati sono ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta. Altri, invece, stando all’inchiesta, erano in contatto con personaggi legati alle cosche mafiose calabresi come i Papalia operanti a Milano o affiliati alle famiglie Molé di Gioia Tauro, Cacciola-Grasso di Rosarno, Ierace di Cinquefrondi, Manno-Maiolo di Caulonia e Facchineri di Cittanova. Tra gli indagati, infatti, c’è Luigi Facchineri per il quale il gip ha rigettato l’arresto. Agli atti dell’indagine, coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri, c’è pure la famiglia De Stefano di Reggio Calabria. Secondo i pm, infatti, con un esponente rimasto ignoto del clan di Archi, Carmelo Bonfiglio avrebbe anticipato 25mila euro per l’acquisto in Spagna e il trasporto in Italia di un carico di marijuana.

  • Lettere per Barbara Corvi: contro il potere maschile e mafioso

    Lettere per Barbara Corvi: contro il potere maschile e mafioso

    “Lettere per Barbara Corvi” nasce in seno all’Osservatorio regionale sulle Infiltrazioni e l’illegalità della regione Umbria. L’idea, che ha radici nella storia del movimento antindrangheta, si inquadra nel più ampio lavoro di accompagnamento, supporto e proposta a partire dalla storia della scomparsa di Barbara Corvi.

    In tal senso, l’obiettivo generale della proposta è rendere la memoria di Barbara Corvi una prassi condivisa coinvolgendo persone e associazioni nel territorio umbro e non solo. Si intende così favorire la consapevolezza pubblica e la conoscenza sulla storia di Barbara Corvi affiancando la famiglia Corvi, le associazioni e la società civile rivolgendo insistentemente la domanda “dov’è Barbara?”.

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    La prima lettera per Barbara Corvi

     

    Cara Barbara,

    con questa lettera, nel giorno del tuo compleanno diamo inizio a un nuovo progetto- “lettere per Barbara Corvi” – perché la tua storia continui ad essere memoria collettiva di questo Paese.

    Una storia la tua di quelle che si “vedevano solo nei films” come ci disse tua sorella qualche anno fa. Già, nessuno avrebbe immaginato che nella tua vita avresti fatto esperienza di quello che poi avremmo chiamato potere maschile e potere mafioso. Noi, come osservatorio regionale sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità, abbiamo scelto già dal primo giorno del nostro insediamento di esserci, di accompagnare la tua famiglia e le istituzioni nel faticoso e doloroso percorso della ricerca della verità.

    Dal primo giorno abbiamo riconosciuto nella tua storia tracce di quel potere mafioso che si traduce in forme di violenza maschile e che si costruisce intorno a parole come onore, come ricchezza e riconoscimento. Abbiamo riconosciuto un modello di riferimento e un metodo, che ci riporta a storie lontane di donne scomparse, condannate a morte dalla ‘ndrangheta per le proprie scelte di vita.

    Abbiamo voluto con determinazione, che la tua storia diventasse memoria collettiva in Umbria, affiancando il prezioso lavoro che già le donne di Amelia con il Comitato Barbara Corvi avevano avviato con cura e passione. Piano piano il tuo nome è diventato una storia nella Storia, il tuo volto sorridente è apparso nelle piazze dei comuni della tua regione. Con una frase: verità ora. Chiediamo, cara Barbara, e ci rivolgiamo a coloro che si nascondono dietro silenzi troppo complici, verità: chiediamo dove sei adesso, chiediamo giustizia. E lo facciamo nel grande rispetto verso la tua famiglia, i tuoi genitori e le tue sorelle, che da anni danno a tutti noi, lezioni di dignità.

    Chiediamo a tutte e tutti coloro che potrebbero avere informazioni utili, ad Amelia e non solo, di contattare gli organi competenti: uno scatto di dignità e coraggio in un territorio che non dimentica e che con forza prende le distanze da dinamiche di questo tipo. La complessità della vicenda, legata anche al tema dei collaboratori di giustizia, impone cautela ma molta attenzione, per questo ci appelliamo anche a coloro che all’interno dell’organizzazione ‘ndranghetista, vogliano contribuire ad una scelta di umanità e di riscatto, raccontando la verità sulla scomparsa di Barbara. Continueremo a lavorare in questa direzione, senza cedere di un passo fino a quando non verrà ricostruita la verità.

    Ma accanto alla denuncia, abbiamo voluto lavorare sulla proposta politica, perché anche questo era ed è il nostro compito. Abbiamo voluto che quello che è accaduto a te, possa non accadere a nessun’altra donna. Per questo, dopo anni di studio, approfondimento, dopo anni in cui abbiamo scelto di radicare le nostre scelte nella tua memoria abbiamo voluto fortemente avviare la costruzione di una rete per l’accoglienza, il supporto, l’accompagnamento alle donne che sopravvivono alla violenza mafiosa e alla violenza maschile, e che intendono intraprenderne un percorso di uscita ed autodeterminazione.

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    La presentazione del protocollo “Libere di essere” a Perugia

    Da subito, insieme al Centro per le Pari Opportunità e alla rete dei centri antiviolenza Umbra, abbiamo lavorato a tessere una rete insieme alle Procure e alle Prefetture: una rete che da adesso è realtà. Stiamo completando gli ultimi passaggi burocratici, ma la sostanza è il “protocollo Libere di Essere” dedicato a te, alla tua memoria. Così l’Umbria diventerà la terra dell’accoglienza delle donne, diventerà la terra della possibilità concreta, e della speranza che diventa alternativa di vita.

    In tuo nome verrà data accoglienza, formazione, lavoro, verranno demolite le basi di quel potere- maschile e mafioso- che influisce sulla vita, sui corpi, sulle scelte delle donne.

    Donne che come te vogliono soltanto essere “libere di essere”.

     

    Osservatorio regionale sulle Infiltrazioni e l’illegalità della regione Umbria