Tag: ‘ndrangheta

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    Cento anni fa la nave Re d’Italia lasciava il porto di Genova e il 18 dicembre 1922 arrivava al porto di Fremantle, borgo marino vicino a Perth, la capitale dell’Australia Occidentale. Da Fremantle, la nave proseguì poi verso Adelaide, nell’Australia Meridionale, poi verso il Nuovo Galles del Sud, a Sydney, e infine a Melbourne, nello stato di Victoria nel nuovo anno (1923). In ognuno di questi porti, tra gli oltre mille passeggeri italiani, scesero tre calabresi, Antonio Barbara (spelling errato per Barbaro), Domenico Antonio Strano e Antonio Macri (spelling errato per Macrì).

    Front Page King of Italy, National Archives of Australia

    Australia: la ‘ndrangheta più longeva del mondo

    Cosa avevano in comune questi tre soggetti? E perché ne spulciamo ancora nomi e dati negli archivi nazionali a Canberra? Antonio Macri(ì) avrebbe fondato il locale di Perth; Domenico Antonio Strano rimarrà nel nuovo Galles del Sud, dove, si dice, morirà nel 1965 con funerali sontuosi. Infine, Antonio Barbara(o) conosciuto come The Toad (il Rospo), sceso ad Adelaide, si sposterà a Melbourne dove sarà una figura singolare nel mondo criminale cittadino. La relazione di una squadra d’indagine guidata da Colin Brown nel 1964 per l’Australian Security Intelligence Organisation e intitolato The Italian Criminal Society in Australia dirà che è proprio con la Re d’Italia che arrivò l’Onorata Società down under, in Australia. Tutti e tre i nostri uomini sono conosciuti – o meglio raccontati – come i fondatori della ‘ndrangheta in Australia. La ‘ndrangheta d’esportazione più longeva del mondo.

    Una pagina del report firmato da Brown

    Three is a magic number

    Chi conosce anche solo le basi della mafia calabrese avrà già forse sorriso. Tre sono i cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero fondato la mafia in Italia partendo proprio dalla Calabria. Sempre tre sono gli individui della ‘copiata’ nei locali di ‘ndrangheta: il contabile, il capo-locale e il capo-crimine che insieme gestiscono le doti sul territorio. Così come tre sono i mandamenti della ‘ndrangheta reggina che confluiscono nella Provincia. E tre sono anche i personaggi su cui giura(va)no i Santisti: Garibaldi, Mazzini, La Marmora. Insomma, nella numerologia della ‘ndrangheta, (e non solo) il numero tre è trinità e fa storia quanto leggenda.

    osso-mastrosso-carcagnosso
    Osso, Mastrosso e Carcagnosso

    Tra storia e leggenda

    Come in tutte le leggende, anche in quella della fondazione della ‘ndrangheta in Australia c’è un fondo di verità storica, oltre all’arrivo comprovato della nave Re d’Italia nel 1922. Le storie su Antonio Barbara(o), per esempio, ci raccontano di come appariva la ‘ndrangheta dei primordi a Melbourne. Barbara(o) fu arrestato varie volte a Melbourne: nel 1926 per stato di ubriachezza; nel 1929, per aggressione; nel 1936, per la vendita di alcolici senza licenza. Per tutti questi reati fu condannato a pagare pene pecuniarie o scontare qualche settimana di carcere, ma nel 1937 fu condannato a 5 anni per omicidio colposo di una donna vicino al Queen Victoria Market, noto mercato di frutta e verdura della città.

    È arrivato un bastimento carico di… calabresi

    Non è inusuale, soprattutto in quegli anni, che l’Onorata Società si faccia vedere con reati contro l’ordine pubblico, e l’escalation fino all’omicidio sarebbe in linea con il profilo di uno ‘ndranghetista in crescita. Barbara(o), infatti, si dedica anche ad altre attività più “organizzate”. Ad esempio, gli archivi ci raccontano che ‘il Rospo’, all’inizio degli anni Cinquanta, aveva ideato un sistema fraudolento per far arrivare alcuni suoi conterranei dalla Calabria, Platì e zona aspromontana per la precisione, verso l’Australia. Lavorando in un ufficio per l’immigrazione, utilizzava nomi di Italiani già sul territorio per contraffare richieste di sponsorizzazione, senza che questi lo sapessero.

    Il primo omicidio di ‘ndrangheta in Australia

    Ma Barbara(o) il Rospo è coinvolto anche in quello che, molto probabilmente, è il primo omicidio legato alla ‘ndrangheta in Australia; si tratta dell’omicidio di Fat Joe (Joe il Grasso) Versace, i cui documenti giudiziari sono stati desecretati solo nel 2020, 75 anni dopo. Siamo in una sera d’ottobre del 1945 nel quartiere Fitzroy di Melbourne. Quattro uomini stanno giocando a carte e bevendo birra a casa di Antonio Cardamona: Michele Scriva, Giuseppe Versace, Domenico De Marte e Domenico Pezzimenti. Tutti immigrati calabresi, tutti impiegati in attività del mercato di frutta e verdura. In seguito a una lite, Pezzimenti avrebbe attaccato Versace con un coltello. Novantuno ferite, alcune post mortem; una ferocia bestiale, l’avrebbe definita il coroner.

    fat-joe-versace-australia-ndrangheta
    La morte di Fat Joe Versace sulle pagine di The Truth del 4 novembre 1945

    Una questione di donne?

    Sembra essere una questione di donne. Honneth Edwards era la compagna di Joe Versace, e sua sorella Dorothy Dunn era uscita un paio di volte con Pezzimenti, il quale però l’aveva insultata dicendole che «puzzava più di sua sorella». Dorothy e Honneth si sarebbero dunque lamentate con Joe e tanto sarebbe bastato per far iniziare una lite tra i due uomini. Dopo l’omicidio, Cardamone prima, Pezzimenti e De Marte poi, decisero di andare a raccontare quanto avvenuto alla polizia – accusando principalmente Pezzimenti di aver colpito Versace, ma allo stesso tempo confermando che era stata auto-difesa.

    antonio-barbaro-ndrangheta-australia
    Antonio Barbaro riconosce il cadavere di Fat Joe Versace. Il documento riporta anche i suoi precedenti penali in Australia

    Scriva venne intercettato poco dopo a casa sua, intento a lavar via il sangue dai vestiti. Versace, dissero i tre calabresi, era notoriamente un poco di buono, un uomo violento e spesso in possesso di armi, era uno che portava guai. Tra le sue frequentazioni c’era Antonio Barbara(o). Sarà proprio lui, il Rospo, uscito dal carcere da poco in seguito alla sentenza per omicidio, a identificare Versace all’obitorio. Aveva lavorato con Versace e i due erano amici.

    Confessioni che non tornano

    Ci sono però varie cose che non tornano in questo caso. Innanzitutto, colpisce lo zelo delle confessioni: in quel periodo i calabresi, e gli italiani più generalmente, non erano molto in confidenza con le forze dell’ordine australiane; spesso vittime di discriminazione e ancora più spesso di pregiudizio, la comunità migrante era notoriamente reticente in quegli anni a collaborare con la giustizia, figuriamoci a farlo volontariamente. Inoltre, le confessioni sembrano in qualche modo artefatte, soprattutto perché non spiegano come sia stato possibile che, da una semplice lite tra due uomini, si fosse arrivati al corpo della vittima sfigurato, «con lo stomaco di fuori, e con larghe ferite sulla faccia e sulla testa», per citare le annotazioni dei detective. Queste ferite sanno di punizione precisa. E poi, il sangue trovato sugli abiti di Scriva e degli altri suggeriscono che probabilmente tutti i presenti erano intervenuti nella lotta.

    versace-ndrangheta-australia
    Una foto scattata sulla scena del delitto

    Il Rospo, il Papa e la ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, che fosse un’escalation di violenza dovuta a una rissa per donne, o che ci fossero altre motivazioni alla base di tale lite, fatto sta che la presenza di Barbara(o) a sancire la morte di Versace non sembra casuale. Antonio Barbara(o) da lì a poco diventerà uno degli uomini più (ri)conosciuti dell’Onorata Società a Melbourne. Partner del capo Domenico Italiano, detto il Papa, e fino alla morte di entrambi nel 1962, questo gruppo mafioso cittadino sarà responsabile di una serie di eventi violenti, estorsivi, fraudolenti e legati a questioni di “onore” all’interno di una ristretta comunità di calabresi che lavorava nel mercato ortofrutticolo.

    funerali-domenico-italiano-ndrangheta-australia
    1962, I funerali di Domenico “The Pope” Italiano

    Alla morte di Italiano e di Barbara(o) e nel vuoto di potere che essi lasciarono, scatterà una guerra di mafia, meglio conosciuta come The Queen Victoria Market Murders – gli omicidi del mercato Queen Victoria. La ‘ndrangheta delle origini, dalla Re d’Italia, era ormai cresciuta. Ma questa, e per i decenni a venire, è un’altra storia.

  • Batoste al Tar e “parentopoli”: che pasticcio a Cirò Marina

    Batoste al Tar e “parentopoli”: che pasticcio a Cirò Marina

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Ha sollevato un polverone a Cirò Marina a inizio estate il “caso padel”  lanciato da I Calabresi. Tutto è nato da un permesso per costruire rilasciato alla ditta Signor Padel Srls. Il provvedimento era opera dell’Ufficio Tecnico del Comune di Cirò Marina, guidato dal presidente della Provincia di Crotone, Sergio Ferrari.

    Galeotto fu il padel a Cirò Marina

    Il terreno su cui costruire l’impianto appartiene ad Antonietta Garrubba, socia unica della srls in questione. Il catasto lo qualifica come uliveto con un reddito agrario di 5,86 euro, perciò non edificabile.
    Una svista amministrativa da sanare in autotutela? Probabile. Ma la Garrubba è moglie dell’amministratore unico e legale rappresentante dell’impresa, Giuseppe Farao. E suo marito è stato condannato nel processo Stige in primo grado a 13 anni e 6 mesi per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato dall’agire mafioso.

    Farao-Silvio-cattura (1)
    La cattura di Silvio Farao

    Inoltre, lo stesso si è visto infliggere alcune pene accessorie: incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per 5 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’espiazione della pena.
    Giuseppe è figlio di Silvio Farao, ritenuto uno dei boss della locale di Cirò, condannato in Stige a 30 anni di reclusione e attualmente detenuto. Padre e figlio, è doveroso aggiungere, sono tuttora sotto appello, quindi le loro condanne non sono definitive.

    Una revoca tempestiva

    A seguito della notizia de I Calabresi, il sindaco annunciò dopo poche ore (il primo giugno scorso) la revoca del provvedimento firmato il giorno prima dall’allora responsabile dell’ufficio tecnico, l’architetto Raffaele Cavallaro.
    In effetti, il 3 giugno uscì un altro provvedimento, sempre a firma di Cavallaro. L’atto comunicava l’avvio della revoca del permesso di costruire “incriminato” e la sospensione di ogni effetto, sia per l’errata destinazione d’uso, sia per acquisire «la prescritta documentazione inerente i requisiti dei soggetti richiedenti, dell’impresa e del progettista».

    permesso-padel-farao

    Il ricorso di Farao

    Non si è fatto attendere il ricorso al Tar Calabria di Giuseppe Farao, discusso in udienza pubblica lo scorso novembre. Dinanzi ai giudici amministrativi, Farao ha sostenuto che «l’attività amministrativa (del Comune di Cirò Marina, ndr) sarebbe stata sviata dal clamore mediatico verificatosi, in quanto non sarebbe stata altrimenti necessaria l’acquisizione della documentazione antimafia ai fini del rilascio del permesso di costruire» e che «in ogni caso, l’iter amministrativo seguito sarebbe evidentemente illegittimo, essendo stati contestuali la comunicazione dell’avvio del procedimento, la sospensione degli effetti del titolo edilizio e il suo annullamento». Al contrario, il Comune di Cirò Marina ha rivendicato la correttezza della revoca a firma di Cavallaro.
    Risultato: Comune condannato (in persona del sindaco in carica) alla rifusione delle spese legali a Farao, pari a 4mila euro più oneri.

    Condanna per il Comune di Cirò Marina

    Secondo il Tar Calabria (sentenza 2222 dello scorso 7 dicembre, presidente Giovanni Iannini), «il Comune di Cirò Marina non avrebbe dovuto revocare sic et simpliciter il permesso di costruire in ragione della mancata acquisizione della comunicazione antimafia; piuttosto, avrebbe dovuto acquisire tale documentazione, provvedendo solo all’esito e in base alle risultanze di questa» e che «in ogni caso, la concentrazione in un solo giorno della comunicazione di avvio del procedimento, della sospensione cautelare degli effetti del provvedimento e la revoca del titolo costituiscono, come già sottolineato in sede cautelare, violazione del corretto sviluppo del procedimento amministrativo, da cui deriva l’illegittimità del provvedimento impugnato».

    Sbaglia ma non paga?

    Insomma, secondo il tribunale, il funzionario del Comune ha “toppato” sia nel concedere il permesso di costruire a Farao, sia nel revocarlo.
    Lo stesso 3 giugno scorso, giorno del dietrofront con la Signor Padel Srls, il sindaco Ferrari aveva tolto a Cavallaro la titolarità della posizione organizzativa dell’Area urbanistica per «particolari inadempienze amministrative», pur mantenendolo nell’incarico di istruttore. Un incarico fiduciario, espressamente revocabile «per risultati inadeguati», come rilevato anche dall’ex deputato Francesco Sapia in una formale interrogazione parlamentare al Ministero dell’Interno sul caso padel.

    Raffaele-Cavallaro
    Raffaele Cavallaro

    Lo stesso Cavallaro, benché privato della posizione organizzativa (e, quindi, del potere di firma), è rimasto nel medesimo ufficio con le medesime incombenze. Né risulta aperto un procedimento disciplinare a suo carico.

    Una vittoria di Pirro per Farao

    Quella di Giuseppe Farao potrebbe essere, però, una vittoria di Pirro. La necessità della certificazione antimafia non è infatti il frutto improvviso del “clamore mediatico”.
    Su questo rilevante punto, il Tar cita un precedente del Consiglio di Stato. E rileva che «il permesso di costruire di cui si tratta non è meramente riconnesso al godimento di un terreno di cui la società ricorrente abbia disponibilità, ma – evidentemente – legato all’esercizio di un’attività imprenditoriale relativa al gioco del padel».

    TAR-Calabria
    La sede del Tar a Catanzaro

    Allora, «la fattispecie ricade nell’ambito di applicazione della normativa antimafia che, ad ampio spettro, esige che l’attività economica sia espletata con il corredo della documentazione antimafia che, ove mancante, impone la paralisi dell’attività medesima e la rimozione dei suoi effetti».
    In soldoni: la revoca è stata un gran pasticcio, ma la certificazione antimafia serviva prima e serve ancora adesso. Qualora non fosse rilasciata, il Comune di Cirò Marina dovrà fare una nuova revoca.

    Cirò Marina, una famiglia in Comune

    A Cirò Marina nel frattempo a tenere banco è un altro argomento. Niente a che vedere con i tribunali stavolta, ma c’entra sempre il municipio. È lì dentro, infatti, che si registra il rapido avanzamento di carriera di una dipendente comunale, Maria Natalina Ferrari, sorella del sindaco.
    Con decreto 1 del 28 gennaio 2022, da dipendente di categoria C è diventata responsabile dell’Area servizi alla persona con relativa posizione organizzativa per una indennità di 8.246,11 euro. L’ha nominata il vicesindaco Pietro Francesco Mercuri, benché privo di delega al personale.
    Né risulta dal decreto che Mercuri avesse avuto una delega dal sindaco per questo provvedimento. Insomma, sembrerebbe un altro pasticcio amministrativo. Che, però, non finisce qui.

    pietro-mercuri-ciro-marina
    Pietro Mercuri con Giorgia Meloni

    La supersorella di Ferrari…

    Con la determinazione n. 378 del 27 giugno scorso, il responsabile dell’Area Affari generali Giuseppe Fuscaldo ha indetto una selezione per una procedura comparativa per la progressione verticale di una unità di Categoria D, posizione economica D1, riservata al personale interno di Cirò Marina per il profilo di Istruttore direttivo.
    Una sola candidata ha partecipato alla selezione, come si evince dall’ulteriore determina di Fuscaldo n. 683 dello scorso 20 settembre. Indovinate chi? La sorella del sindaco Ferrari, Maria Natalina, contrattualizzata nel nuovo ruolo dal primo di ottobre.

    ferrari-sorella-ciro-marina
    Il sindaco Ferrari e sua sorella

    Il presidente della Commissione valutatrice era Nicola Middonno, segretario generale della Provincia di Crotone (guidata, ricordiamo, da Sergio Ferrari). I componenti erano Giulio Cipriotti, nominato il 3 giugno 2022 responsabile dell’Area urbanistica dal sindaco al posto di Cavallaro, e Nicodemo Tavernese, vicesegretario comunale e cognato del consigliere comunale di Cirò Marina, Giuseppe Russo (ha sposato la sorella di Tavernese), che a sua volta è zio del sindaco per via materna.

    … e la nipote del vicesindaco

    C’è chi fa rilevare, ancora, che tra i vincitori del concorso per agente di Polizia locale di Cirò Marina (graduatoria finale approvata con determinazione n. 848 del 14 novembre scorso) vi sia anche Morena Pizino, la nipote del vicesindaco Pietro Mercuri.
    Insomma, tra pasticci e promozioni il Comune di Cirò Marina torna a far parlare di sé. In paese e non solo.

  • MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

    MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Nella prima settimana di dicembre, due eventi ci raccontano le ‘ndranghete d’Europa. Al plurale, le ‘ndranghete, perché se non si guardano tutti gli aspetti di questo fenomeno criminale (e sociale) e ci si accontenta della conclamata ‘ndrangheta unitaria – versione da processo necessaria quanto incompleta in realtà – non se ne capisce l’evoluzione. In Europa, in questi primi giorni di dicembre, c’è una storia sulla ‘ndrangheta austriaca impegnata (parrebbe) nel riciclaggio di denaro e una storia sulla ‘ndrangheta imprenditrice della cocaina coinvolta con una rete di importazione tra le più influenti degli ultimi anni. Che differenza e che rapporto c’è tra queste ‘ndranghete? E soprattutto, che ruolo hanno queste ‘ndranghete nei più ampi mercati (criminali) europei?

    I clan e il made in Italy: l’ultimo caso in Austria

    Andiamo con ordine. Entrambi gli eventi appaiono sui giornali il 6 dicembre. Quel martedì, di mattina, i giornali austriaci riportano un imponente raid antimafia nei dintorni di Linz, Leonding e Gallneukirchen, nell’Alta Austria. Centoventi agenti tra la polizia federale (BKA) e la polizia locale, hanno perquisito 14 locali, tra cui appartamenti, pizzerie, uffici, concessionarie d’auto. Non ci sono arresti, ma al centro dell’indagine è un ristoratore italiano, calabrese di Tropea, già noto alle forze dell’ordine, e di interesse della procura antimafia di Catanzaro che ha richiesto assistenza giudiziaria per questo caso.

    bka-austria

    Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che si avanza l’ipotesi d’indagine che dietro al Made in Italy ci sia un interesse dei clan di riciclare soldi all’estero. Anzi, si potrebbe dire che sembra proprio uno dei marchi di fabbrica della ‘ndrangheta – e di altre mafie – quella di utilizzare ristoranti, pizzerie, gelaterie italiane all’estero a fini di riciclaggio. Tali attività commerciali sono di poco impatto sociale e culturale – ci si aspetta che ci siano all’estero ristoranti italiani – e sono anche di poco impatto economico, con ricavi spesso nella media e/o nella norma che non destano dubbi nelle autorità locali.

    Irpimedia, per esempio, aveva raccontato nel 2021 di come, in Lussemburgo, imprenditori della ristorazione originari di Siderno, nel Reggino, si fossero stanziati in una comunità locale ad alto tasso di migrazione dalla Calabria, soprattutto della zona di Mammola, sfruttando e inquinando la migrazione sana dei nostri conterranei. Anzi, ben conosciuti sono gli esempi di estorsione proprio ai danni della comunità italiana all’estero: ricordiamo il caso di operazione Stige, in cui ristoratori italiani in Germania si vedevano imporre vini dalla Calabria per “rispettare” patti estorsivi col clan giù a casa e mantenere rapporti non belligeranti.

    Alla luce del sole

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta principalmente “raccontata” come capace di agire ‘in segreto’ e passare inosservata, a metà tra organizzazione di tipo spionistico e organizzazione eversiva. In realtà, contrariamente alla narrazione, i soggetti che vengono legati alla ‘ndrangheta – spesso solo emissari – come il ristoratore austriaco, se ciò verrà confermato – sembrano essere particolarmente a proprio agio nell’agire alla luce del sole, abbandonando il segreto, all’interno di quelle che sono le opportunità, spesso legali, dei luoghi di destinazione per aprire locali, attività commerciali e anche sfruttare gli stereotipi che spesso accompagnano gli italiani all’estero e le comunità ospitanti: l’italiano si fida meno dell’italiano che del tedesco, il tedesco si fida di più dell’italiano che del greco, l’austriaco valorizza l’intraprendenza dell’italiano ma non si fida di nessuno (questi solo a livello esemplificativo).

    È una ‘ndrangheta che manda via il denaro dall’Italia, come farebbe qualunque soggetto, mafioso o meno, che non vuole perdere i propri soldi, per raccontarsi sempre la stessa storia: me li sono guadagnati (anche se illegalmente), e ne voglio prima o poi poter disporre. Per utilizzare questi capitali, spesso, si vuole immaginarne un loro riutilizzo semi-legale, come se tale riutilizzo semi-legale potesse giustificare l’origine illegale anche moralmente. E qui poi si vede la volontà di investire in ciò che più ci è ‘familiare’, quasi stereotipato: il cibo, l’Italianità all’estero, le Porsche o le case.

    Raffaele Imperiale, il narcotrafficante pentito

    Ma torniamo al 6 dicembre 2022. Sempre quello stesso martedì, in serata, La Repubblica dà la notizia che Raffaele Imperiale si è pentito a Napoli. Imperiale, per anni ricercato dalle polizie di mezzo mondo e finalmente arrestato a Dubai nell’agosto del 2021, è stato un narcotrafficante di riferimento per network criminali italiani, irlandesi, olandesi e ovviamente latinoamericani. La storia di Imperiale è rocambolesca, al punto da includere il rinvenimento di due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam nel 2002 nella sua casa di Castellammare di Stabia nel 2016.

    raffaele-imperiale-van-gogh-2
    I due Van Gogh trovati in casa di Imperiale

    Riduttivamente, si racconta di Imperiale come un camorrista che ha fatto strada a livello internazionale nel mercato della cocaina. Sono noti i suoi rapporti col clan napoletano Amato-Pagano, consolidatisi in occasione della guerra di mafia degli Scissionisti di Secondigliano dal clan di Lauro a Scampia. In quella faida Imperiale si sarebbe non solo schierato con gli Amato-Pagano, ma a detta dei pentiti ne sarebbe diventato un affiliato a tutti gli effetti. Ma la storia di Imperiale non è una storia (solo) di camorra.

    Il super cartello della cocaina

    È una storia di un network internazionale che secondo la DEA (Drug Enforcement Administration) statunitense avrebbe per anni rifornito di cocaina mezza Europa grazie a varie ‘teste’ tra cui, oltre a Imperiale, figurano Ridouan Taghi – membro di spicco della criminalità di origine marocchina in Olanda (la cosiddetta Moccro-Mafia, anche se di mafia non ha proprio nulla…) arrestato nel 2019, e Daniel Kinahan, irlandese e capo del clan che reca il suo nome, su cui il Dipartimento di Stato degli USA ha stanziato una ricompensa per informazioni che portino alla sua cattura di addirittura 5 milioni di dollari.

    Il “super cartello” della cocaina, come lo chiama(va) la DEA e in seguito Europol, non era però uno e trino. Nonostante i tre nomi di spicco, moltissimi gli attori – clienti e partner – che alimentavano sia la reputazione sia la capacità di questi network intrecciati di intensificare i traffici dello stupefacente più lucrativo al mondo. Tra questi, anche uomini di ‘ndrangheta.

    I rapporti con la ‘ndrangheta

    Grazie a un intenso coordinamento di polizia da parte di Europol sulla decriptazione di chat sulle piattaforme Encrochat e SkyECC, si sono potuti tracciare i collegamenti tra i vari ‘nodi’ dei network criminali in questione. Imperiale aveva rapporti intensi con i Morabito-Palamara-Bruzzaniti, ‘ndrina egemone nel locale di Africo (RC) e con il clan Mammoliti, di San Luca. Giuseppe Mammoliti acquistava cocaina da Imperiale e il suo gruppo la trasportava e distribuiva nel sud e centro Italia, spesso con carichi in arrivo in Belgio o Olanda o a Milano attraverso altri corrieri di Imperiale anche connessi con il clan nella sua propaggine lombarda.

    Bartolo Bruzzaniti, detto Sonny, nato a Locri ma iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) in Costa d’Avorio e domiciliato a Invorio (Novara), si metteva a disposizione di Imperiale per il recupero della cocaina importata via mare dal Sud America e in arrivo in vari porti europei tra cui Gioia Tauro, grazie all’aiuto di Jolly, un funzionario doganale, e di una squadra ben rodata nel porto della Piana.

    zes-nuovo-flop-calabria-se-burocrazia-frena-sviluppo-innovazione
    Il porto di Gioia Tauro

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta opportunista, disinvolta, che utilizza il proprio nome (cognome) quando serve, se serve, ma con poca attenzione all’onore, o al potere di sovranità mafiosa più largamente intesa.
    È interessante uno scambio in chat tra Bruzzaniti e un suo interlocutore a Gioia Tauro, in cui Sonny spiega di dover mantenere un basso profilo in Calabria «Se sapevano i miei quantitativi mi impazzivano compà… Sanno che lavoro ma non sanno niente… Compare se i miei parenti sapeva che numeri faccio al mese mi dovevo dare latitante ahahahaha compà».

    I compari non devono sapere

    È chiaro che entrare in contatto con Imperiale e il suo network è stata una svolta per Bruzzaniti: il contatto con Imperiale ha reso possibile – a lui e non necessariamente a tutto il suo gruppo di ‘ndrangheta – importare e rivendere ulteriori quantità di stupefacente, più di altri conterranei. C’è invidia da parte di altre organizzazioni criminali mafiose sul territorio, conferma l’interlocutore di Sonny: «Si compare qua da noi nn posso parlare con nessuno se sentono questi numeri a 24 ore siamo bruciati…Che qua se la contano per invidia… Altro che Sud America… Sanno che invece di 3 scaricatori ne ho mandato 6 per trasportare le borse… Chi ai (sic)dovere lo sa quanto e il lavoro… abbiamo fatto una bella selezione».

    giudice-pecci-ucciso-cartagena-si-fa-troppo-presto-dire-ndrangheta-i-calabresi

    Questa ‘ndrangheta ha evidentemente il know-how per partecipare ai grandi traffici, che però sono gestiti da Imperiale e dai suoi contatti in Europa. È Imperiale che comunica coi fornitori e comunica l’arrivo dello stupefacente. È Imperiale ad avere il controllo e la supervisione; Bruzzaniti coordina e rivende. L’uno non potrebbe funzionare senza l’altro, ma il livello a cui opera Imperiale è di gran lunga più ad ampio raggio di quello di Bruzzaniti.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questa ‘ndrangheta che si occupa di traffici di cocaina in giro per l’Europa è una ‘ndrangheta che guarda in faccia solo se stessa, vive in un eterno presente, cerca di evitare i conflitti sul territorio, perché col territorio non vuole necessariamente condividere tutto di sé. Vuole sedere al tavolo, meglio se internazionale, con chi, come Raffaele Imperiale, può attivare circuiti, aprire porte e garantire guadagni grazie a una fitta rete di contatti transfrontalieri. Il traffico di cocaina in Europa è concorrenziale e caratterizzato da una concentrazione di mercato: pochi attori emergono come nodi del network, e tutti gli altri cercano di legarsi a tali nodi. Bisogna essere capaci di stare al gioco, escludere i concorrenti (anche di famiglia) e soprattutto essere pronti ai cambiamenti repentini.

    Questa ‘ndrangheta della cocaina con Imperiale, e quella dei ristoranti in Austria per noi, Italiani, con cultura (giuridica) antimafiosa, è sempre la stessa ‘ndrangheta, calabrese, e collegata – quando serve – per ragioni di gestione di potere ‘reale’ sul territorio, e di potere politico, per la resilienza dell’organizzazione e del brand. Ma a livello criminale e in Europa si tratta di ‘ndrangheta diverse, che sebbene intenzionate a più livelli a fare e mantenere profitti illeciti, danno vita a fenomeni criminali diversi, spesso scollegati e soprattutto dipendenti più dal luogo di ‘destinazione’ e dagli attori con cui ci si interfaccia, che dalla reputazione criminale di casa propria.

  • Da Rosarno alla Lombardia, passando per Ostia: affari e alleanze della cosca Bellocco

    Da Rosarno alla Lombardia, passando per Ostia: affari e alleanze della cosca Bellocco

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Uno dei casati storici della ‘ndrangheta reggina. Di quelli capaci di sedersi al tavolo con l’élite della criminalità organizzata calabrese, per dirimere controversie, per determinare strategie della ‘ndrangheta unitaria. La cosca Bellocco di Rosarno non ha mai perso, però, la propria vena imprenditoriale, con la capacità di colonizzare territori diversi, allacciando alleanze con altre consorterie criminali. Alternando, inoltre, il volto “pulito” degli affari, con quello più violento dell’intimidazione tipicamente mafiosa. Una cosca capace di rigenerarsi, anche grazie alle nuove leve, succedute ai boss più anziani.

    Gli affari della cosca Bellocco

    Un quadro che emerge in tutta la sua completezza con gli arresti che hanno sconquassato non solo il territorio calabrese, ma anche quello lombardo e laziale. Un’operazione congiunta, tra la Dda di Reggio Calabria, che ha curato la sponda dell’inchiesta denominata “Blu notte” e quella di Brescia, la cui indagine è denominata “Ritorno”. Complessivamente 65 soggetti arrestati – 47 in carcere, 16 agli arresti domiciliari e 2 sottoposti all’obbligo di dimora –  ritenuti responsabili – in particolare – di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, porto e detenzione di armi comuni e da guerra, estorsioni, usura e danneggiamenti aggravati dalle finalità mafiose, riciclaggio e autoriciclaggio, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

    Un settore di importanza strategica è risultato essere quello della spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. Stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, i contratti per lo sfruttamento delle risorse montane venivano stabiliti proprio dal vertice della cosca Bellocco: «I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa». A pronunciare queste parole nel novembre 2019 è Francesco Benito Palaia, 49 anni, considerato uno degli uomini di fiducia di suo cognato, il boss Umberto Bellocco detto “Chiacchiera”, 39enne e nuovo capo del clan.

    La successione

    Gli accertamenti, infatti, avrebbero delineato i nuovi equilibri della cosca Bellocco e le proiezioni di questa cosca di ‘ndrangheta nel Nord Italia. Come le cosche più importanti, infatti, negli anni anche la famiglia Bellocco ha subito l’offensiva dello Stato. Ma ha saputo rimanere in piedi, retta sulle spalle dell’anziano patriarca Umberto Bellocco, classe 1937, deceduto alcuni mesi fa. Uomo dal carisma criminale indiscusso, cui viene persino ricondotta la nascita della Sacra Corona Unita pugliese – fatta risalire alla notte di Natale del 1981 all’interno del carcere di Bari.

    umberto-bellocco
    Umberto Bellocco, patriarca dell’omonima cosca, morto di recente

    Alla morte del boss, allora, la diretta prosecuzione del comando sarebbe finita al nipote omonimo, classe 1983. Un’ascesa naturale non frenata nemmeno dalla detenzione in carcere. Come documentato dagli accertamenti svolti dai carabinieri, Bellocco poteva godere, dietro le sbarre, di telefoni cellulari, grazie al supporto di altri detenuti e dei familiari di questi, per lo più semiliberi e/o ammessi ai colloqui.

    Ancora una volta, da una maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta, emerge il ruolo crescente rivestito dalle donne. In questo caso, spicca la figura di Maria Serafina Nocera, 69enne madre del nuovo boss Umberto Bellocco. Sarebbe stata lei a tenere la chiave della “cassa comune” cui il clan attingeva. Un “tesoretto” che serviva per il sostentamento dei detenuti e per l’attuazione del programma criminale del figlio.

    I brindisi per le nuove cariche

    umberto-bellocco-nipote
    Il giovane Umberto Bellocco ha ereditato il potere da suo nonno

    Anche dal carcere, Bellocco avrebbe potuto supervisionare le nuove cariche, deciso i nuovi assetti, arginato le frizioni. L’inchiesta coordinata dal pm antimafia Francesco Ponzetta ha documentato anche il brindisi con il quale un anziano della consorteria, davanti ai nuovi adepti ed agli alti ranghi della cosca, ha voluto esaltare quel momento di vita associativa pronunciando la frase: «È cadda… è fridda… e cala comu nenti, a saluti nostra e di novi componenti».

    Moltissimi sono i summit di mafia che l’inchiesta sarebbe riuscita a ricostruire. Alcuni necessari all’attuazione del programma criminale della cosca, che generalmente avvenivano all’interno dell’abitazione della sorella di Umberto Bellocco, e quelli, ben più complessi, organizzati nelle aziende agrumicole di Rosarno, dove si regolavano le controversie con gli altri esponenti della ‘ndrangheta.

    Ai summit era solito prendere parte, in diretta, anche il boss detenuto dal carcere, che con la propria presenza, “partecipata” a distanza, era naturalmente portato ad irretire le iniziative dei convenuti.

    «Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno»

    Come detto, la famiglia Bellocco, da sempre, appartiene al gotha della ‘ndrangheta, dividendosi il controllo su Rosarno e San Ferdinando con l’altra potentissima cosca dei Pesce ed estendendo la propria influenza anche sul porto di Gioia Tauro, dove, comunque, un ruolo primario lo hanno da sempre i clan gioiesi Piromalli e Molè.

     

    Diverse, negli anni, le inchieste che hanno colpito la cosca. A cominciare da quella “Tallone d’Achille”, con la coraggiosa denuncia dell’imprenditore Gaetano Saffioti, passando poi per le inchieste “Nasca” e “Timpano”. E, ancora, l’inchiesta “Pettirosso” curata dall’allora pm antimafia Roberto Di Palma, che ha permesso di ricostruire tutto il circuito criminale che ha favorito per anni la latitanza di Gregorio e Giuseppe Bellocco, esponenti di vertice della cosca rosarnese considerati fra i trenta ricercati più pericolosi d’Italia. In un’indagine di qualche tempo fa, proprio l’anziano patriarca Umberto Bellocco dirà: «Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno».

    I Bellocco al Nord

    Già le inchieste degli scorsi anni “Vento del Nord”, “Blue call” e “Sant’Anna” avevano certificato la presenza e lo strapotere del clan su territori lontani dalla nativa Rosarno. L’Emilia Romagna, in particolare, era diventata una terra di conquista florida, dove poter far proliferare gli affari.

    La sponda bresciana dell’inchiesta avrebbe invece confermato la presenza attiva dei Bellocco in Lombardia. Non solo nella provincia di Brescia, ma anche in quella di Bergamo. Anche su quei territori, senza mai perdere il contatto con la casa madre calabrese, i Bellocco avrebbero infiltrato la fiorente economia legale di quei luoghi.

     

    Nell’operazione sono stati individuati «i terminali calabresi (stanziali a Rosarno) della struttura criminale lombarda i quali concorrevano nella gestione delle molteplici attività economiche di interesse del sodalizio realizzate prevalentemente tramite un imprenditore» attivo tra Brescia e Bergamo nei settori edile e immobiliare.

    Il traffico internazionale di stupefacenti

    Da tempo, peraltro, gli inquirenti, hanno messo nel mirino il ruolo crescente del clan nel traffico internazionale di stupefacenti. Il 18 giugno 2019 si conclude l’operazione “Balboa” della Guardia di Finanza di Reggio Calabria che arresta cinque persone. Lavoravano per conto della cosca Bellocco per l’importazione dal Sud America di eroina da far arrivare nel porto di Gioia Tauro. Pochi mesi dopo, a novembre, sono invece ben 45 gli arresti nell’ambito dell’inchiesta “Magma”, anche in questo caso con l’accusa di narcotraffico internazionale.

    La droga arrivava dal Sudamerica, dall’area tra Buenos Aires e Montevideo, dove i clan erano riusciti a stringere legami con diversi colletti bianchi locali. E sembrerebbe che grazie a questi contatti e pagando l’equivalente di 50.000 euro siano riusciti a liberare Rocco Morabito detto “U Tamunga” evaso il 29 marzo 2019 dal carcere di Montevideo.

    L’alleanza dei Bellocco con la famiglia Spada

    Quelle indagini già cristallizzavano l’importanza criminale della cosca in provincia di Roma. Ma sono gli arresti delle ultime ore a sancire ulteriormente i rapporti illeciti con quei territori. Uno dei dati di maggior interesse investigativo emerge con l’alleanza tra la cosca di Rosarno e il potente clan degli Spada, egemone a Ostia e sul litorale romano. Gli Spada sono emersi negli anni come clan violento e capace di esercitare un controllo oppressivo sulle attività economiche del Lazio, anche in combutta con l’altra nota famiglia Casamonica. Negli scorsi mesi, peraltro, la famiglia Spada è stata riconosciuta da alcune sentenze come organizzazione mafiosa.

    anzio
    Anzio vista dall’alto

    Un’alleanza, soprattutto per quanto concerne il traffico di cocaina, che sarebbe nata proprio dietro le sbarre. In particolare, l’accordo stretto tra gli esponenti dei due clan, oltre a scandire le gerarchie criminali all’interno del penitenziario, ha riguardato i traffici di cocaina effettuati dalla Calabria verso il litorale romano e la risoluzione di situazioni conflittuali tra gli Spada e alcuni calabresi titolari di attività commerciali nelle aree urbane di Ostia ed Anzio.

    BONARRIGO-Gioacchino-2
    Gioacchino Bonarrigo ad Amsterdam

    «La verità fra’, la verità! Oggi io sono stato invitato ad un tavolo, eravamo diciassette persone, tutti… la ‘Ndrangheta!», dice in un’intercettazione uno degli indagati. Le cimici dei carabinieri hanno anche captato il tentativo di vendita di una consistente partita di cocaina da parte del clan Bellocco in favore di narcotrafficanti di Ostia esponenti degli Spada.

    Per conto dei calabresi, a condurre le trattative con il clan romano sarebbe stato Gioacchino Bonarrigo, di 38 anni, che risulta tra le persone coinvolte nel blitz. Soggetto storicamente inserito non solo nella ‘ndrangheta, ma anche nel narcotraffico. Arrestato nel 2017 da latitante ad Amsterdam. Bonarrigo si sarebbe recato più volte a Ostia per incontrare esponenti degli Spada che voleva rifornire con la droga importata dall’estero.

  • MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

    MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.

    Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.

    viminale
    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

    Migranti in casa della ‘ndrangheta

    Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.

    Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale

    In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.

    migranti-ndrangheta-finanza
    Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi

    Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.

    Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.

    Via dalla Calabria

    Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.

    Migranti-140-sbarcati-crotone-ultimi-due-giorni

    Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.

    Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta

    Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.

    Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).

    Affari paralleli

    Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.

    migranti-ndrangheta-san-ferdinando
    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando

    Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.

    Il mercato dell’asilo politico

    Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.

    migranti-ndrangheta-asilo-politico
    Richiedenti asilo politico manifestano in strada

    Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.

    Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza

    Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.

    Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta

    Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.

    persone-scomparse-i calabresi
    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.

  • Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

    Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Per qualcuno, una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. Per altri, invece, un’adunanza di nostalgici, che mai avrebbe potuto prendere il potere. Si dibatte ancora, a distanza di 52 anni, sul tentato golpe Borghese. E tante sono, ancora oggi, le zone d’ombra su un’azione che aveva come proprio centro nevralgico la Calabria.

    golpe-borghese-intrecci-ndrine-servizi-segreti-massoni
    Il “Principe Nero” Junio Valerio Borghese molti anni prima del tentato golpe

    Il Golpe dell’Immacolata

    Un ex gerarca fascista, pezzi di destra eversiva, la P2 di Licio Gelli, pezzi di ‘ndrangheta. Una commistione di realtà e di interessi che, a metà tra storia e mito, rende il racconto ancor più inquietante. Quel progetto eversivo sarebbe dovuto scattare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. E si incastra in un momento di enorme cambiamento nelle dinamiche della ‘ndrangheta.

    golpe-borghese-intrecci-ndrine-servizi-segreti-massoni
    Ciccio Franco, uno dei protagonisti della Rivolta di Reggio

    Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della Destra eversiva. Secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.

    Un uomo da romanzo, il “principe nero”. Ex comandante della Decima Mas, fiero e carismatico avrebbe tentato di mettere in atto l’ultimo colpo d’ala di una vita avventurosa. Sfruttando, peraltro, il periodo che viveva la Calabria. Esattamente in quegli anni, infatti nasce la Santa, la ’ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria. Un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.

    Un sentiero che porta a Montalto, nel cuore dell’Aspromonte

    Il summit di Montalto

    Tutto affonda nel summit di Montalto del 26 ottobre 1969. In quell’incontro, nel cuore dell’Aspromonte, l’anziano patriarca Peppe Zappia ammonisce sulla necessità della ‘ndrangheta di organizzarsi, di essere unita. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndrangheta di ’Ntoni Macrì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», dovrà tuonare nel corso della riunione. Si discute di strategie, si discute di equilibri, si discute dell’alleanza con la Destra eversiva. Quella di Junio Valerio Borghese. Ma anche di Stefano Delle Chiaie, uomo forte di Avanguardia Nazionale. Legami, quelli tra le cosche calabresi e la destra eversiva, che si protrarranno per anni, fino ai rapporti tra la cosca De Stefano e Franco Freda.

    Stefano Delle Chiaie in un’aula di tribunale durante uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto

    Le divergenze tra i clan scaturiranno, invece, negli anni Settanta, nella prima guerra di mafia, in cui cadranno, tra gli altri, don ’Ntoni Macrì, e don Mico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale), oltre ai fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano, che fanno parte, però, della “nuova mafia”. Del nuovo che avanza, appunto.

    La ‘ndrangheta e le mafie in generale sarebbero dovute essere l’esercito di Borghese. Di contatti fra elementi mafiosi ed emissari di Junio Valerio Borghese parla anche il boss siciliano Luciano Liggio nel corso di una udienza svoltasi il 21 aprile 1986 dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Liggio racconterà di una riunione che si era tenuta a Catania con la presenza di Salvatore Greco, Tommaso Buscetta e dello stesso Liggio per discutere in merito all’adesione al golpe.

    Il piano per il Golpe Borghese

    Proprio i De Stefano e i Piromalli – le due cosche che, più delle altre, sarebbero artefici dell’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria – sarebbero state le famiglie calabresi più impegnate a favore del progetto di Borghese. A un nucleo speciale coordinato da Gelli sarebbe stato affidato il compito di rapire il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

    Il particolare emerge dalla sentenza-ordinanza emessa dal giudice di Milano, Guido Salvini. «Si trattava di un compito primario sul piano operativo e istituzionale nell’ambito del progetto di golpe e non è un caso che tale incarico fosse affidato ad un uomo del livello di Gelli, che godeva di molteplici, e allora ancora nascosti, contatti con i Servizi Segreti, l’Esercito, l’Arma dei Carabinieri e forse con Centrali internazionali» – si legge nel documento.

    La presa del potere

    «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: Italia, Italia, viva l’Italia!»

    Con queste parole, l’ex comandante della X Mas avrebbe dovuto salutare la presa del potere. Non un progetto fantasioso di arzilli nostalgici del Ventennio, ma un piano studiato nei minimi particolari in accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri. Il golpe del Principe nero prevedeva l’occupazione del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi Rai e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Tra i primi a riferire, nel 1992, dei legami tra ’ndrangheta e Destra eversiva per il tentato golpe Borghese è il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro. Dichiara anche che nell’estate del 1970 avvenne un incontro a Reggio Calabria tra i capibastone dei De Stefano (Paolo e Giorgio) e il principe Borghese attraverso l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo (secondo il collaboratore, ’ndranghetista ed esponente di Avanguardia Nazionale) per discutere sul colpo di stato.

    golpe-borghese-intrecci-ndrine-servizi-segreti-massoni
    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985

    Le sue dichiarazioni sono contenute nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, sulle attività della Destra eversiva. Nello stesso procedimento figuravano, tra gli altri, proprio Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli: «[…] Più volte alla ’ndrangheta fu richiesto di aiutare i disegni eversivi portati avanti da ambienti della Destra extraparlamentare fra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Paolo Romeo. I De Stefano erano favorevoli a questo disegno e in particolare al programmato golpe Borghese».

    A parlarne è anche l’ex estremista nero, Vincenzo Vinciguerra: «La mobilitazione avvenne nella provincia di Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. Anche in Calabria venne fatto riferimento, da persona che non intendo nominare, alla possibilità di mobilitare 4000 uomini sempre appartenenti alla ’ndrangheta ove la situazione politica lo richiedesse».

    Gli appartenenti alla ’ndrangheta, armati e mobilitati per l’occasione sull’Aspromonte, erano stati messi a disposizione dal vecchio boss Giuseppe Nirta, estimatore di Stefano Delle Chiaie il quale era in grado, secondo lui, di «ristabilire l’ordine nel Paese». Sul punto, anche il collaboratore Serpa ricorda come il summit di Montalto, dell’ottobre del 1969, dovesse servire per trovare un accordo tra i clan e il principe Borghese: «A Montalto doveva essere sancita l’alleanza tra l’organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe Borghese».

    Golpe Borghese, salta tutto

    Il golpe sarà però annullato per motivi ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, oscuri. Con l’avvio delle indagini Borghese fuggirà in Spagna, dove morirà nel 1974. I procedimenti imbastiti, tuttavia, finiranno con un nulla di fatto. Piuttosto accreditati, ma non provati, i coinvolgimenti sia dei Servizi segreti italiani, in particolare il Sid (Servizio Informazioni Difesa), sia della Cia americana. Un progetto che avrebbe visto un inquietante connubio tra destra eversiva, Servizi segreti, massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli) e criminalità organizzata.

    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985
    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    Da ultimo, sul punto, il racconto di Carmine Dominici, ex appartenente ad Avanguardia Nazionale e in quegli anni molto vicino proprio a Delle Chiaie. Quando decide di collaborare con la giustizia, Dominici parla del ruolo che l’organizzazione estremista avrebbe avuto in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia, tra cui la strage di piazza Fontana. Parla anche del golpe progettato da Junio Valerio Borghese. E racconta delle grandi manovre gestite, in quel periodo, dal marchese Fefè Genoese Zerbi, che era il referente di Avanguardia Nazionale sul territorio:

    «[…] Anche a Reggio Calabria eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dei Carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa. Il contrordine a livello di Reggio Calabria venne da Zerbi».

  • Cosa succede all’interno delle carceri reggine?

    Cosa succede all’interno delle carceri reggine?

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «La vita carceraria fa vedere le persone e le cose come sono in realtà. Per questo ci si trasforma in pietra», scriveva Oscar Wilde. Vale per i detenuti, certamente. Ma vale anche per chi, a vario titolo, svolge un ruolo nell’amministrazione penitenziaria. E ciò che, negli ultimi mesi, è emerso e sta emergendo sugli istituti penitenziari di Reggio Calabria è a dir poco inquietante.

    La ‘ndrangheta dietro le sbarre del carcere di Reggio

    Due le strutture del capoluogo dello Stretto. La prima è lo storico edificio di San Pietro, che oggi ospita i detenuti di alta sicurezza e coloro i quali stanno scontando la propria pena definitiva. Negli anni, quel carcere che costeggia il torrente Calopinace ha ospitato i boss più importanti della ‘ndrangheta.

    Lì viene anche ucciso Pasquale Libri, figlio naturale del superboss don Mico Libri. È il 19 settembre del 1988, quando viene freddato con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria.
    I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, sito tra via Carcere Nuovo e vico Furnari, in un luogo che si affaccia sul cortile della sezione “Cellulare” dell’istituto penitenziario di San Pietro. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

    condello-carcere-reggio
    Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine di Pasquale Condello, il “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime.

    Il caso Saladino: morire in infermeria a 29 anni

    Di più recente costruzione la casa circondariale di Arghillà, che sorge nel quartiere degradato a nord della città. Ospita una popolazione molto più ampia di detenuti, essendo destinata a quelli di media sicurezza. E lì, in quelle celle – forni in estate e freezer in inverno – che muore il giovane Antonio Saladino, ristretto in custodia cautelare. È il 18 marzo 2018.

    antonio-saladino-troppe-visite-infermeria-carcere-prima-di-morire-i-calabresi
    Antonio Saladino, morto a 29 anni nel carcere di Reggio Calabria

    Un decesso, ancora oggi, avvolto nel mistero. Saladino, stando alle testimonianze rese dai compagni di cella, accusava già da parecchi giorni malessere e disturbi fisici culminati in un tragico epilogo: la morte del detenuto, a soli 29 anni, nell’infermeria del carcere.

    A distanza di quasi quattro anni da quella vicenda, l’inchiesta non ha ancora chiarito alcunché. L’ultimo passaggio, a settembre scorso, quando il Gip ha rigettato la seconda richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica, disponendo ulteriori accertamenti.

    L’ex direttrice e i presunti favori ai detenuti

    È invece attualmente a processo l’ex direttrice delle due carceri, Maria Carmela Longo, coinvolta in un’inchiesta per presunti favori ai detenuti. L’arresto per lei è a arrivato nell’estate 2020 con l’accusa di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Questo perché l’allora direttrice avrebbe favorito anche esponenti di spicco delle cosche reggine. In questo modo «concorreva – è scritto nel capo di imputazione – al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico».
    Per i pm, all’interno del carcere di Reggio Calabria c’era «una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria».

    maria-Carmela-Longo
    Maria Carmela Longo, la direttrice dei penitenziari reggini sotto accusa

    Tra i detenuti che sarebbero stati favoriti dall’ex direttrice del carcere anche l’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare condannato poi nel processo “Gotha”. Ma anche affiliati alle famiglie mafiose reggine e della provincia come Cosimo Alvaro, Maurizio Cortese, Michele Crudo, Domenico Bellocco, Giovanni Battista Cacciola e altri.
    Nel blitz, furono coinvolti anche alcuni agenti penitenziari, poi scagionati successivamente. Nel processo, insieme all’ex direttrice, solo il medico del carcere di San Pietro.

    I pestaggi in carcere a Reggio

    Ma il vero bubbone, circa le condotte che si sarebbero perpetrate dietro le mura carcerarie, è scoppiato appena pochi giorni fa, con l’arresto di alcune guardie penitenziarie, tra cui il comandante del Corpo presso la casa circondariale, per il presunto pestaggio di un detenuto napoletano, avvenuto proprio nel giorno della visita in città dell’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia.

    cartabia
    L’ex ministro Marta Cartabia

    Gli agenti coinvolti rispondono, a vario titolo, di tortura e lesioni personali aggravate, ma anche di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, omissione d’atti d’ufficio, calunnia e tentata concussione. Arresti arrivati a quasi un anno dall’accaduto. I fatti risalgono infatti al 22 gennaio 2022, quando gli agenti avrebbero sedato con immane violenza la protesta del detenuto che non voleva far rientro nella propria cella.

    E così, senza alcuna determinazione del direttore del carcere, avrebbero condotto l’uomo in una cella di isolamento, dove sarebbe scattato il pestaggio, unito a violenze psicologiche di vario tipo. L’uomo sarebbe stato colpito con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni, facendolo spogliare e lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella ove era stato condotto.

    Il sistema di omertà

    Luogo chiuso ermeticamente, il carcere. Come ovvio, verrebbe da dire. Ma la chiusura, in taluni casi, rischia di sfiorare e superare il livello dell’omertà. Impalpabile, fin qui, il contributo fornito dalla politica, anche quella maggiormente attenta alle dinamiche carcerarie, come l’ala radicale. Inconsistente l’apporto dei vari garanti, regionale e locale. Difficile, quasi impossibile, ottenere informazioni il più possibile vicine alla realtà su quello che accade in quei luoghi, che si reggono su sottili equilibri.

    Equilibri tra detenuti, evidentemente. Ma anche tra personale sanitario e, ovviamente, polizia penitenziaria. Un turbine incontrollato e incontrollabile di notizie e di rumors, in cui la fuoriuscita o meno di qualche notizia somiglia assai spesso a un tentativo di colpire la “banda” rivale. Per coprire il presunto pestaggio, ed evitare conseguenze per una eventuale denuncia da parte del detenuto, il Comandante del Reparto, avrebbe poi redatto una serie di atti (relazione di servizio, comunicazione di notizie di reato ed informative al Direttore del carcere).

    carcere

    Nessuno ha invece scalfito minimamente il muro del silenzio. Solo le denunce dei familiari del detenuto, infatti, unite all’osservazione delle telecamere, hanno potuto aprire uno squarcio di luce (ancora tutto da dipanare totalmente) su quanto accade in quei luoghi. Gli stessi che, stando a quanto ci insegna la Costituzione, dovrebbero essere deputati alla rieducazione dei detenuti. Dove, invece tutto si mostra come è in realtà. E come scriveva Oscar Wilde, si diventa pietra.

  • Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Soffiano ancora i venti della rivolta di Reggio Calabria, quando si parla per la prima volta del porto di Gioia Tauro, che avrebbe dovuto rappresentare l’affaccio sul mare del Quinto centro siderurgico, un sogno svanito al pari delle altre promesse contenute all’interno del cosiddetto “Pacchetto Colombo”: le Officine Grandi Riparazioni e la Liquichimica di Saline Joniche.

    La-zona-del-5°-centro-siderurgico-durante-i-lavori-nel-1976-Michele-Marino2-1068x714
    La zona del Quinto centro siderurgico durante i lavori del 1976 (foto Michele Marino)

    Oggi di quell’opera non resta che uno scheletro che costeggia la SS106, la “strada della morte”. Uno scenario in cui si sarebbe potuta girare la serie Chernobyl: quel pilone altissimo e, attorno, ruderi, capannoni e paludi.
    Saline Joniche è lo specchio dello sviluppo che non c’è in Calabria. Con la devastazione del territorio ancora lì, come monito, a distanza di decenni. E a nessuno con i tanti, tantissimi, fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è venuta in mente un’idea per provare a rilanciare quell’area in provincia di Reggio Calabria.

    La stagione dei grandi appalti

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Agli inizi degli anni Settanta, conclusi i giorni della rivolta, venne la stagione dei grandi appalti. Un fiume di finanziamenti pubblici inondò Reggio e provincia per la realizzazione di alcune grandi opere. Tra queste, la Liquichimica, il V Centro Siderurgico ed il raddoppio della tratta ferrata Villa S. Giovanni-Reggio Calabria. La prospettiva degli insediamenti industriali e l’esecuzione di alcuni lavori costituiranno quindi il casus belli tra il gruppo emergente della ’ndrangheta, che annoverava nuove leve che sarebbero entrate nella storia della criminalità, e la vecchia generazione che aveva la necessità di riaffermare palesemente il proprio prestigio.

    Da un lato ci sono uomini come i fratelli De Stefano, ma anche Pasquale Condello e Mico Libri; dall’altro ’Ntoni Macrì e don Mico Tripodo. Sono tutti interessati ad opere che non verranno, di fatto, mai realizzate. O che, comunque, non porteranno alcun effettivo beneficio al territorio. Ma alle cosche sì. Grazie a quelle “truffe” governative, la ’ndrangheta si arricchisce e fa il salto di qualità.

    Antonio Macrì

    La crescita della cosca Iamonte

    L’area di Saline Joniche sarà solo un enorme affare per i clan. Come spesso è accaduto in passato. Come spesso accade ancora oggi. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 le cosche calabresi non sono ancora egemoni nel traffico internazionale di droga. Ma proprio attraverso quei denari riusciranno a costruire il proprio futuro. La ‘ndrangheta come la conosciamo oggi è così anche grazie a quei grandi affari. Emblematica, in tal senso, l’ascesa del gruppo Iamonte, una famiglia di macellai assurta oggi al Gotha della criminalità organizzata calabrese. Anche grazie all’affare della Liquichimica e delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato.

    Ne parla, in particolare, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, uno dei primi e più importanti pentiti della storia della ‘ndrangheta: «[…] La cosca Iamonte è cresciuta attraverso gli appalti della Liquichimica e del porto di Saline Joniche… Ulteriore fonte di arricchimento è poi derivata dalla costruzione dell’Officina riparazione treni sita in Saline Joniche. In sostanza la famiglia Iamonte riceveva tangenti dall’impresa Costanzo di Catania, che è risultata aggiudicataria dell’appalto per la costruzione dell’officina di cui sopra. La tangente veniva pagata grazie all’intervento di Nitto Santapaola e Paolo De Stefano…»

    La droga a Saline Joniche

    Ma il canale ben presto si allarga. Proprio al traffico di droga. La merce che giungeva a Saline Joniche, suddivisa in partite, non era diretta a Iamonte, bensì all’organizzazione De Stefano-Tegano e a quelle di Nitto Santapaola, di Domenico e Rocco Papalia di Platì e dei Calabrò di San Luca. Perché far sbarcare la droga, e in alcune circostanze anche delle armi, proprio a Saline? Natale Iamonte riusciva a ottenere una copertura da parte delle forze istituzionalmente preposte al controllo del porto. Poi, a fronte della “base logistica” fornita, percepiva da tutti i destinatari della merce una percentuale. O in sostanza stupefacente, come nel caso di Nitto Santapaola, o in denaro contante.

    Nitto Santapaola

    Ancora dal racconto di Barreca: «Successivamente il clan Iamonte instaurò un binario proprio e autonomo con Nitto Santapaola in funzione del traffico di stupefacenti […]». Santapaola, quando aveva necessità di individuare coste “sicure” per i suoi traffici non esitava a utilizzare quel territorio sotto il controllo completo della cosca Iamonte. Come infatti ha dichiarato, il 27 novembre 1992, Barreca: «[…] Per quanto concerne il traffico di stupefacenti Natale Iamonte e i figli rifornivano buona parte della provincia di Reggio Calabria e di Milano. La droga arrivava via mare, con navi provenienti dal Medio Oriente che attraccavano nel porto di Saline Joniche».

    Il rapimento Di Prisco

    In questo contesto si incastra il rapimento del giovane napoletano Giuseppe Di Prisco. È il 1976, quelli sono gli anni d’oro della ’ndrangheta con i sequestri di persona. Ma quello di Di Prisco è diverso. Viene effettuato non tanto per il riscatto – che alla fine venne pagato: 180 milioni – quanto per costringere la madre del ragazzo, la baronessa Maria Piromallo Di Prisco a piegarsi. A cedere, cioè, per una cifra identica alla parte di terreno di sua proprietà su cui doveva sorgere la Officina Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato. A mettere in atto il rapimento, la cosca Iamonte di Melito Porto Salvo.

    È la stessa baronessa a raccontarlo nel processo che vede imputato e condannato Natale Iamonte. La donna conferma di essere proprietaria dei terreni in Saline Joniche, oggetto di esproprio per dar vita ai due impianti. La Di Prisco si era opposta all’esproprio connesso alla realizzazione della Liquichimica in quanto le venivano formulate offerte imprecise e generiche. Non si era mai giunti alla determinazione della cifra e aveva dato incarico di fare opposizione. La donna avrebbe ricevuto visite di personaggi che si qualificavano rappresentanti dell’Ente ferrovie. Che talvolta le offrivano somme elevate e altre le avanzavano non molto velate minacce («peggio per lei se…» o «meglio per lei se accetta»).

     

    Offerte (più o meno adeguate) e minacce (più o meno esplicite), prima di passare alle vie di fatto. Mandante del rapimento sarebbe proprio Natale Iamonte, il vecchio patriarca della famiglia. Il sequestro di Giuseppe Di Prisco, uno studente ventiduenne, avviene il 22 settembre 1976, poco dopo mezzanotte. In quel momento il ragazzo si trovava nei pressi dell’ingresso della sua proprietà insieme a un amico ad ascoltare musica in macchina.

    L’auto venne ritrovata il giorno successivo in zona pre-aspromontana. Seguirono settimane di trattative e di incontri con intermediari. La richiesta iniziale di riscatto era di due miliardi. All’improvviso i sequestratori abbassarono la richiesta e si accordarono per il pagamento di una cifra di 180 milioni. Il padre del ragazzo, l’avvocato Massimo Di Prisco, pagò l’11 dicembre 1976 lungo una strada che gli era stata indicata, quella che da Melito Porto Salvo sale a Gambarie. Successivamente, vi fu un periodo di silenzio e il ragazzo non venne rilasciato. Fino alla data del 3 gennaio del 1977, quando avvenne la liberazione.

    I motivi del sequestro

    Il collaboratore di giustizia Filippo Barreca parla di un sequestro “anomalo”. Era stato «architettato da Natale Iamonte ed è stato portato a termine dai fratelli Tripodi, i quali sono uomini di Natale Iamonte». Tutto finalizzato ad addomesticare i Di Prisco per far sì che cedessero la loro proprietà. La Liquichimica doveva sorgere ad Augusta, ma era stata spostata per volere di politici importanti in Calabria. Lo Stato aveva stanziato migliaia di miliardi e l’azienda non era destinata a funzionare.

    Natale Iamonte
    Natale Iamonte

    Stando al racconto di Barreca, l’obiettivo del sequestro era quello di conseguire «l’esproprio del terreno. In poche parole, subito dopo il sequestro, il tutto fu sbloccato, mi riferisco agli anni 1976, perché il sequestro avvenne nel 1976 e subito dopo la liberazione dell’ostaggio il tutto fu appianato e quindi iniziarono i lavori per la prosecuzione dello stabilimento della Liquichimica di Saline Joniche». L’altro importante collaboratore degli anni Novanta, Giacomo Lauro, racconta del ruolo degli Iamonte sul sequestro: «Proprio fatto apposta per usufruire di quei terreni dove poi le Ferrovie dello Stato, mi ricordo sempre la frase, “si cambia…”».

    La morte dell’ingegnere Romano

    A rendere la storia della Liquichimica ancora più oscura e inquietante è la morte dell’ingegnere Romano, allora direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, che stilò una perizia in cui sconsigliava l’uso di quel terreno perché altamente instabile. La perizia, infatti, sparì e i lavori proseguirono. Il direttore si oppose ma poi morì in uno strano incidente stradale. La sentenza racconta di una «zona grigia fatta di politica, ’ndrangheta e massoneria».

    Dell’accaduto parla anche il collaboratore di giustizia Barreca: «Nelle more di questo fatto si era verificato un episodio: l’uccisione fu fatta passare come un banale incidente, l’uccisione del capo del genio civile Romano. In buona sostanza, il Romano aveva ostacolato con una relazione, perché si era verificato uno smottamento, la prosecuzione dei lavori per via del terreno su cui era sorta la Liquichimica. Si trattava di un tecnico di alta professionalità, che poi fu sostituito». Al posto di Romano arriva un altro tecnico che Barreca definisce «molto malleabile». L’intreccio tra poteri, evidentemente, ottiene il proprio obiettivo.

    La politica

    Quelle Officine le volevano tutti. La ‘ndrangheta e Cosa nostra – con Iamonte e Santapaola, per il tramite dell’impresa Costanzo – così come i politici della zona, socialisti soprattutto. Ma servivano anche alle Ferrovie. Anche stavolta emergono i presunti legami tra mondi che, tra di loro, non avrebbero dovuto dialogare.
    Ci vorranno anni per accendere i riflettori sulla potenza della ‘ndrangheta in Calabria. E sui legami tra la criminalità organizzata e il mondo istituzionale. Nel 1993, i parlamentari Girolamo Tripodi e Alfredo Galasso presentano in Commissione Antimafia una relazione di minoranza sulla ’ndrangheta e sul caso Calabria. Lo spunto è l’eclatante omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, il reggino democristiano, Lodovico Ligato, assassinato nell’estate del 1989.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    Per i due esponenti politici il movente del delitto Ligato non sarebbe riconducibile a un semplice scontro tra cosche per la conquista del potere., ma a uno scontro politico per la conquista dei fondi pubblici. Un delitto oscuro che vedrà il quasi totale silenzio della Democrazia Cristiana, sebbene Ligato fosse «uno di loro», come dirà Oscar Luigi Scalfaro. Trame oscure quelle della Democrazia Cristiana in quegli anni.

    L’uomo forte in Calabria è il deputato cosentino Riccardo Misasi, anch’egli indagato per associazione mafiosa dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Misasi, peraltro, non è l’unico politico di rango a essere indicato (venendo comunque prosciolto) per rapporti con la ’ndrangheta. Il “leone socialista” Giacomo Mancini  viene menzionato dal collaboratore Giacomo Lauro, con riferimento alla vicenda della Liquichimica di Saline Joniche e ai presunti collegamenti con la cosca di Melito Porto Salvo. Un altro collaboratore, Giuseppe Scopelliti, accosta invece il nome di Mancini al casato dei Piromalli di Gioia Tauro. Cosca, se possibile, ancor più potente della famiglia Iamonte. Tutte accuse che non troveranno alcuno sbocco giudiziario.

    Saline Joniche, l’ultima idea prima del buio

    Oggi l’area di Saline Joniche è quell’ecomostro che chiunque, da un cinquantennio a questa parte, è abituato a vedere quando percorre la SS 106 jonica. Non uno straccio di sviluppo. Né imprenditoriale, né turistico. Chilometri e chilometri di paesini a volte poco abitati, di nulla e di scempi ambientali. L’ultimo tentativo di usarla per qualcosa è di alcuni anni fa. Un colosso svizzero – la SEI Repower – si era messa in testa di costruirci una centrale a carbone. Proprio quando, già da tempo, un po’ ovunque quella fonte di energia scompare, dismessa, sostituita con qualcosa di più sostenibile, l’unica idea per la Calabria riportava indietro di decenni.

    Protesta contro il carbone a Saline Joniche
    Protesta contro il carbone a Saline Joniche

    Una campagna marketing per propugnare l’ecologia di quel progetto. Come se esistesse il “carbone pulito”. Contro quella centrale, infatti, si espresse per mesi il grosso della popolazione calabrese. In particolare quella reggina. Fu, soprattutto, uno sparuto gruppo di cittadini di quelle zone, costituitisi in un comitato spontaneo, a sfidare, anche legalmente davanti alla giustizia amministrativa, quel colosso. Una battaglia che appassionò tutti e che costrinse, alla fine, anche la Regione (che aveva parere vincolante) a schierarsi contro il progetto. Il caso più scolastico della vittoria di Davide contro Golia.

    Neanche stavolta però, con i soldi del Pnrr sul tavolo, qualcuno ha pensato di ridare decoro a quella zona e alla sua popolazione. Che immagina qualcosa di diverso per un’area che è l’emblema dei fallimenti e degli imbrogli della politica. Ma, soprattutto, del degrado calabrese e del disinteresse di cui “gode” la regione a livello nazionale.

  • MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

    MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Silvio Berlusconi disse una volta che a parlare troppo di mafia si danneggia la reputazione del Paese. Venne allora verbalmente redarguito dalle vittime di mafia e dalla società civile, eppure esprimeva un pensiero diffuso, nella politica così come nella società. Gianfranco Micciché, all’epoca candidato alla presidenza della Regione Sicilia, lo espresse con altrettanta decisione nel criticare la titolazione dell’aeroporto di Palermo: «Continuo ad essere convinto che intitolare l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, significa che ci si ricorda della mafia. L’aeroporto di Palermo lo intitolerei ad Archimede o ad altre figure della scienza, figure che suscitano pensieri positivi».

    La Calabria a Londra

    Sulla metropolitana di Londra una sera di novembre mi trovo a chiacchierare con un signore italo-britannico. Abbiamo appena assistito alla proiezione di un film – Una Femmina – di Francesco Costabile, seguito da un dibattito con il regista collegato su Zoom dalla Calabria (sì, Francesco Costabile è di Cosenza).
    Il film, potente, nero e, direbbero in inglese, chilling, raggelante, è una storia di mafia che prende spunto dalla storia di Maria Concetta (Cetta) Cacciola e di altre donne ribelli raccontate dal giornalista Lirio Abbate nel suo libro Fimmine Ribelli. Racconta la storia di Rosa, una bambina che vive in Aspromonte e assiste, senza capire, all’omicidio di sua madre Cetta a opera della nonna e dello zio, e che una volta cresciuta, vuole vendetta nella sua famiglia di ‘ndrangheta.

    lina-siciliano-set-spingola
    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Non è raro che a Londra si proiettino film di questo genere – indipendenti, emergenti. Complici un cinema che ama le gemme, il Garden Cinema, un festival, il Raindance, che da trent’anni si occupa di portare sul grande schermo promettenti lavori di artisti nascenti, e una comunità italiana locale appassionata e partecipe, la proiezione di Una Femmina ha seguito infatti A Chiara di Jonas Carpignano, che a luglio scorso aveva debuttato in UK nello stesso cinema. Anche A Chiara racconta una dimensione familiare e intima della ‘ndrangheta.

    ‘Ndrangheta e reputazione, il niet dell’Istituto di cultura

    Il signore italo-britannico sulla metro aveva assistito anche alla proiezione di A Chiara e in quell’occasione c’eravamo conosciuti. Ha letto il mio ultimo libro Chasing the Mafia (che racconta della mia ricerca sulla ‘ndrangheta nel mondo) e mi ha chiesto di autografarlo. E poi mi dice, senza forse rendersi conto del peso delle sue parole, che aveva parlato con un responsabile durante un evento all’Istituto Italiano di Cultura di Londra e aveva suggerito che si facesse un evento sulla ‘ndrangheta o sulla mafia, suggerendo che io potessi essere coinvolta nell’evento, magari aiutando a organizzarlo. Si era sentito rispondere, un po’ ridendo ma nemmeno troppo, che certo era interessante ma che forse l’Istituto Italiano di Cultura preferisce eventi che danno un’immagine positiva dell’Italia.

    ndrangheta-cultura
    La sede londinese dell’Istituto di Cultura

    Certo, si possono fare eventi sulla commemorazione delle stragi – la memoria è positiva. Si possono fare eventi su questioni spinose della storia d’Italia – la storia è anch’essa positiva, quando affrontata come insegnamento. Ma parlare di mafia, di ‘ndrangheta, oggi, quello non interessa. Argomenti cupi, che restituiscono una pessima immagine dell’Italia e della Calabria, che rovinano la reputazione della regione e dunque del paese. Ovviamente non è questa un’accusa rivolta all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, anche perché non so con chi, intraneo o estraneo, è avvenuta la conversazione. Ma non è la prima volta che mi sento dire che parlare di ‘ndrangheta non è parte del concetto di ‘cultura’ italiana, non promuove la cultura calabrese. Mi venne detto anni fa dalla direzione di un altro Istituto Italiano di Cultura in Australia: «Interessante quello che fai, ma la ‘ndrangheta non è ciò che vogliamo chiamare cultura italiana».

    La Calabria che stupisce

    Falso. Il film Una Femmina è girato in Calabria, in un paese che dovrebbe essere in Aspromonte, ma è invece nel Pollino. Ci sono montagne immense, verde scuro, case diroccate e rovine, costruzioni aggrappate alla montagna e una natura dalla forza dirompente. Tra gli spettatori – italiani e non – ci si chiede dove siano quei posti, dove sia tutta quella bellezza. Si cantano canzoni popolari nel film, si balla la tarantella, si intonano litanie liturgiche. Gli spettatori sono ammaliati dalla musica, invasi dalla gioia delle danze, commossi dalle liturgie. Si chiedono, persone che di ‘ndrangheta e di Calabria nulla o poco sanno, com’è possibile che in una terra così bella succedano certe cose. Ci si indigna.

    a-chiara
    Un fotogramma di “A Chiara”

    Per il film A Chiara, una storia simile: c’è tutta la forza delle immagini del porto, del lungomare di Gioia Tauro, c’è la cittadina della Piana con le sue feste di paese, le celebrazioni familiari tra vino e musica. In quel caso, a chi assiste alla rappresentazione cinematografica viene da chiedersi come sia possibile che una cittadina con un porto che è il vanto del Mediterrano e una voglia di vivere prorompente nella musica e nell’intrattenimento, abbia una sorte così macabra.

    Dal letame nascono i fior

    E questo non succede solo per i film ben fatti. Succede per le serie tv e per i documentari, succede per i libri, quando hanno la capacità di raccontare la ‘ndrangheta, i suoi inferni privati e le sue bassezze umane all’interno di un contesto più ampio che si integra – non si separa – dalla Calabria, dalla sua bellezza ferita, dal suo potenziale inaspettato, dalla sua cultura centenaria e stratificata tra colonizzazioni, resistenza, autonomia e autoaffermazione. L’ho sperimentato io stessa, da calabrese, che non ha senso tentare di spiegare o studiare la ‘ndrangheta senza prima raccontare le incongruenze del fenomeno rispetto alla sua regione d’origine. La bruttezza vicino alla bellezza.

    Corrado Alvaro

    Grazie alla reputazione della ‘ndrangheta – quella stessa che, si badi bene, fomenta stereotipi negativi sui calabresi all’estero – l’arte produce cultura e il mondo conosce la Calabria e i suoi patrimoni. Si resta ammaliati dalla bellezza sugli schermi, si leggono la storia e le storie sui libri, si apprezza la civiltà e l’umanità del popolo calabrese, si ascolta il dialetto, si sfoglia la letteratura da Corrado Alvaro a Gioacchino Criaco, si ammira l’intraprendenza contadina.

    ‘Ndrangheta, Calabria e cultura

    Il problema non è che la ‘ndrangheta non sia cultura, e peggio ancora che distrugga la cultura e la bellezza della Calabria, o che rovini la reputazione dell’Italia. E il problema non è nemmeno che a furia di parlare di ‘ndrangheta, dell’organizzazione mafiosa più importante d’Italia e tra le più importanti al mondo, si oscura il patrimonio – positivo – della Calabria. Il problema è forse proprio il contrario. Che si insiste nel pensare alla ‘ndrangheta come corpo estraneo alla regione, un virus, una forza malvagia e aliena, dai confini chiari e precisi – diversa da noi – alimentata di uomini (e occasionalmente donne) il cui unico scopo è abusare del patrimonio e della ricchezza di una regione altrimenti bellissima e dal potenziale enorme.

    Friedrich Wilhelm Nietzsche

    Una rimozione che deriva forse dalla paura di identificarsi con il fenomeno stesso: se la ‘ndrangheta è figlia della sua terra e della sua cultura (in modo distorto e abusivo certo), cosa dice tutto ciò di noi Calabresi? Lo diceva bene Nietzsche: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’alternativa non può essere quella di evitare di guardare nell’abisso o di negare i mostri. Perché è nell’alternanza di ombra e luce, nelle guerre contro i mostri, nei racconti delle emozioni e nelle sublimazioni delle paure, è in questi spiragli che si fa cultura.

    Cicatrici di cui andare fieri

    Continuava Micciché su Punta Raisi: «Ritengo, comunque, che sia una scelta di marketing sbagliata… Non ci si presenta ai tanti turisti con il sangue di una delle più profonde e, ancora non sanate, ferite della nostra terra». Eppure, come ci ricorda la pratica nipponica del Kintsugi, la cultura aiuta a trasforma una ferita in bellezza: mostrare con orgoglio le cicatrici è solo un racconto sulla forza della resistenza e sulla voglia di riparazione.

    ndrangheta-cultura-kintsugi
    Un esempio di Kintsugi
  • Cosenza a mano armata

    Cosenza a mano armata

    Il 1981 a Cosenza fu l’anno di due record particolari: gli omicidi (diciannove nel solo capoluogo) e, soprattutto, le rapine a mano armata.
    In particolare, gli assalti ai furgoni o ai vagoni portavalori. In quest’ultimo caso, il bersaglio preferito dei Vallanzasca ’i nuavutri era il treno Cosenza-Paola.
    Allora, in quella tratta, non esisteva la galleria. Perciò, il percorso sui binari della Crocetta era piuttosto lento e accidentato. Insomma, la zona ideale per i banditi.

    Record in punta di pistola

    Iniziamo con una cifra tonda: le rapine a mano armata del 1981 a Cosenza sono 136 in tutto.
    Questa cifra è l’apice di una escalation iniziata cinque anni prima. Al riguardo, la semplice lettura dei numeri dà un quadro impressionante.
    Nel 1976 le rapine sono solo dodici. Salgono a quarantacinque nell’anno successivo e arrivano a sessantacinque nel 1978.
    Nel 1979 si registra un leggero calo (sessantuno “colpi”) e nel 1980 risalgono di molto: novantasei.

    Ma cosa spinge la mala di Cosenza a emulare le gesta di quella del Brenta e, più in generale, delle “batterie” dei rapinatori a mano armata che in quegli anni terrorizzano l’Italia, almeno da Napoli in su?
    E soprattutto: possibile che le bande cosentine avessero sviluppato dal nulla (e praticamente da sole) questa “expertise”?

    La parola al pentito

    In uno dei consueti verbali-fiume, l’ex boss Franco Pino rilascia alcune dichiarazioni inequivocabili.
    La prima riguarda l’ascesa criminale dei gruppi cosentini, avvenuta proprio attraverso le rapine: «Eravamo cani sciolti, poi cominciammo a fare gruppo dando l’assalto ai vagoni portavalori sulla tratta ferroviaria Paola-Cosenza» (appunto…).
    Nella seconda dichiarazione, più generica, Pino fa un riferimento esplicito alla compartecipazione di forestieri, in particolare catanesi.

    cosenza-mano-armata-delitti-rapine-assalti-pentiti
    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Questa affermazione, tra l’altro, è riscontrata da una retata del 19 gennaio 1981. In quell’occasione finiscono in manette trentuno persone, sei di questi sono pregiudicati di Catania.

    Come nasce una ’ndrangheta

    La storia è risaputa fino alla noia, ma occorre un richiamo per chiarire meglio il concetto: con la morte del vecchio boss Luigi Palermo detto ’u Zorru (1977), la mala cosentina cambia struttura.
    Perde l’aspetto popolare, col suo sottofondo di “bonomia”, e mira a diventare una mafia.
    Una cosa simile, per capirci, a quel che nello stesso periodo accade a Roma, in particolare con l’ascesa della Banda della Magliana.

    cosenza-mano-armata-delitti-rapine-assalti-pentiti
    La Banda della Magliana

    Le batterie criminali cosentine confluiscono nei due gruppi che si contendono a botte di morti il controllo del territorio: il clan Pino-Sena e quello Perna-Pranno.
    Le rapine portano soldi, pure tanti, che servono a finanziare le cosche che, come tutte le attività, hanno costi non indifferenti: le paghe ai picciotti o ai killer, l’acquisto delle armi e della droga, le spese legali e l’assistenza ai familiari dei carcerati.
    Ma, anche per questo, le rapine sono un criterio di selezione dei picciotti o aspiranti tali.

    Da “grattisti” a “sgarristi”

    Un’altra frase di Franco Pino definisce con grande efficacia questo processo: «Eravamo grattisti e siamo diventati sgarristi».
    Tradotto in soldoni: i rapinatori più bravi, cioè capaci di tenere il sangue freddo e di non usare a sproposito le armi, entrano nelle cosche col grado di picciotto.
    Assieme a loro, agiscono i professionisti indipendenti: i catanesi menzionati da Pino (e quelli finiti in manette), ma anche romani.
    Il meccanismo è piuttosto semplice: il boss “benedice” e le batterie miste, di picciotti e indipendenti, eseguono. Quindi una quota del bottino finisce al capo e il resto viene diviso.
    Questo spiega perché i colpi diventano sempre più spettacolari e lucrosi. Ad esempio, il celebre assalto al furgone della Sicurtransport.

    Cosenza a mano armata: l’assalto alla diligenza

    L’episodio è uno dei più clamorosi nelle vicende criminali cosentine. Sia per il bottino, novecentotrenta milioni dell’epoca, sia per la dinamica, ricostruita anche dal collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo nelle pieghe del processo Garden.
    È l’11 agosto 1981. Il portavalori viene seguito a distanza proprio da Notargiacomo, che fa da staffetta a bordo di una moto potente.
    Ed è sempre Notargiacomo a segnalare ai suoi l’arrivo del furgone, che finisce in una trappola micidiale.

    Un camioncino, messo di traverso sulla strada, blocca il portavalori. Contemporaneamente, un’altra auto, alle spalle del mezzo, impedisce la retromarcia.
    Quindi escono fuori i rapinatori: uno di loro spara contro il parabrezza, un altro infila un candelotto di dinamite nel tergicristalli.

    cosenza-mano-armata-delitti-rapine-assalti-pentiti
    Mario Pranno

    Sembra la scena di uno di quei poliziotteschi che all’epoca sbancavano ai botteghini.
    Invece è una storia vera, che prova la determinazione con cui i cosentini tentano di non essere secondi a nessuno. Che ci siano le cosche dietro quest’operazione, lo prova la successiva retata, in cui le forze dell’ordine recuperano parte del malloppo e fanno scattare le manette ai polsi di sei persone.
    Tra queste Mario Pranno e Francesco Vitelli.

    Un “milanese” in trasferta

    Nelle rapine cosentine c’è anche chi ci ha rimesso la carriera criminale.
    È il caso di Ugo Ciappina, uno dei più celebri rapinatori italiani.
    Classe 1928, di famiglia comunista originaria di Palmi, Ciappina partecipa alla Resistenza, dove suo fratello Giuseppe ha un ruolo forte: è contemporaneamente dirigente del Pci clandestino di Como e ispettore politico delle brigate Garibaldi.

    Ugo Ciappina in una immagine d’epoca e in una foto di pochi anni fa, ormai anziano

    Nel dopoguerra, Ciappina tenta vari mestieri. Poi mangia la foglia e assieme a varie persone, tra cui un ex fascista, fonda la Banda Dovunque, detta così perché agiva dappertutto. Grazie a questa batteria, il Nostro si fa un nome nella ligera, cioè la mala milanese.
    Tant’è che riprende alla grande l’attività una volta uscito di galera da dove entra ed esce di continuo.

    La rapina di via Osoppo a Milano

    Nel 1958 partecipa a uno dei colpi più sensazionali dell’epoca: la rapina a un portavalori a via Osoppo, nel cuore di Milano.
    Il bottino è lautissimo: 114 milioni di lire di allora, ancora non toccati dall’inflazione. Preso e condannato, esce di carcere nel 1974.
    Eppure proprio a Cosenza, Ciappina prende uno scivolone: lo arrestano sempre nel maledetto 1981 per un tentativo di rapina alla Banca nazionale del lavoro. Ma evita la condanna.
    Alla faccia della città “babba”…