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  • RITRATTI DI SANGUE | Milano, la capitale degli affari della ‘ndrangheta

    RITRATTI DI SANGUE | Milano, la capitale degli affari della ‘ndrangheta

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    Reggio Calabria e la sua provincia sono riconosciute, unanimemente, come le capitali “politiche” e “amministrative” delle ‘ndrine. Milano è invece la capitale economica della ‘ndrangheta. Il capoluogo lombardo e il suo hinterland, da sempre, sono terra di conquista per le cosche. E nulla conta la convinzione del profondo Nord di avere gli anticorpi per resistere al contagio del crimine organizzato su quei territori.

    Milano, l’altra capitale della ‘ndrangheta

    È proprio a Milano e dintorni che la ‘ndrangheta muove le masse di denaro più cospicue. E, come spesso accade, tra i primi a capire che quello è il canale giusto ci sono i De Stefano. Ossia la cosca che maggiormente ha modernizzato la ‘ndrangheta, facendola passare da una condizione agro-pastorale a una holding del crimine.

    La presenza capillare della ‘ndrangheta a Milano è ormai anche riconosciuta da sentenze definitive, quali quelle arrivate con le due maxi-inchieste “Crimine” e “Infinito”. Entrambe testimonieranno la fitta comunicazione, sempre attiva, sempre costante, tra chi opera al Nord e la “casa madre” calabrese. Partirà, per esempio, proprio dalla Calabria la decisione di “posare” Carmelo Novella, detto Nunzio, boss scissionista. Voleva fare le cose in grande, ma la sua voglia di indipendenza verrà soffocata sul nascere e nel sangue.

    Gli affari nella “Milano da bere”

    Già a partire dagli anni ’80, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investono ingenti capitali nel Nord Italia, in particolare nel capoluogo meneghino. A Milano spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa 6 mesi una sanguinosa faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi. Il pretesto per scatenare la guerra era un diverbio tra Franco Coco Trovato e Salvatore Batti durante un incontro nell’appartamento dove Pepè Flachi si nascondeva durante la sua latitanza.

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    Pepè Flachi

    Negli anni ’90, dunque, la ‘ndrangheta capitalizza quello che ha costruito a partire dagli anni ’70. La forza della ‘ndrangheta sta anche nell’essere riuscita a colonizzare Milano e il ricco Nord, entrando con maggior forza nel traffico di stupefacenti e vedendo accrescere il proprio potere nel contesto delinquenziale anche a livello nazionale. Secondo alcune fonti, nel 1980 Giuseppe Piromalli entra a far parte della “commissione interprovinciale” di Cosa Nostra in rappresentanza di tutte le famiglie calabresi. Ruolo centrale quello rivestito, ancora una volta, dalla famiglia De Stefano, che riuscirà a comprendere prima di tutti l’importanza di colonizzare luoghi come la Lombardia, attraverso famiglie ad essa collegate.

    De Stefano a Milano: la ‘ndrangheta mette su famiglia

    Uno dei figli di don Paolino De Stefano, Carmine, dopo l’uccisione del padre si trasferisce per alcuni mesi, unitamente al fratello Giuseppe ed alla madre, nella residenza francese dei De Stefano e, precisamente, nella villa “Tacita Georgia” di Cap d’Antibes. Nel capoluogo meneghino, poi, la cosca De Stefano mette radici. E famiglia. Carmine De Stefano, infatti, diventa genero di Franco Coco Trovato, considerato uno degli esponenti più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia.

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    L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes

    Quello, infatti, è un territorio fondamentale e assai fluido: personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte.

    Basta la parola

    L’attività delle cosche sul territorio si svolge soprattutto nella commissione dei reati di estorsione, traffico di stupefacenti e di armi, di rapine, furti e truffe, nonché di fabbricazione e spaccio di banconote false. Ma i clan mettono le mani anche sui locali della “Milano da bere” e non solo: discoteche e night club anche nel Comasco e nel Varesotto.

    Spesso non sono necessari atti di violenza per riscuotere le tangenti. Ormai la situazione si era stabilizzata nel senso che i titolari degli esercizi pubblici taglieggiati erano in condizioni di sottoposizione e di impossibilità di reagire, che rendono palese l’efficacia minatoria dell’associazione indipendentemente dall’effettivo ricorso alla violenza, di cui bastava solo la prospettazione, anche implicita.

    Franco Coco Trovato, uno dei signori della ‘ndrangheta a Milano

    Uno dei gruppi più importanti nasce nel 1986 dalla fusione di due sodalizi distinti, quello dei Flachi e quello dei Coco Trovato. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ‘ndrangheta gliela fornisce. Emblematico quanto dichiara in collaboratore di giustizia: «[…] In Comasina si smerciavano due chili di eroina ogni settimana, in Bruzzano altrettanti, alle “baracche” 7 kg ogni mese, ne smerciavano circa due al mese. Quindi alla fine del mese, si trattava di uno smercio di almeno 25 kg circa di eroina… Questo almeno dall’82 all’86 con incrementi progressivi… per la cocaina confermo quello che ho detto, e cioè che dai palermitani riuscivamo ad avere al massimo due kg al mese, quando loro l’avevano. Tanta ne smerciavamo. Naturalmente, i quantitativi che io ho prima indicato sono da riferire alla sostanza intesa come “pura” che, da me tagliata, si raddoppiava almeno».

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    Franco Coco Trovato

    Gli esordi di Franco Trovato (chiamato Franco Coco fino al 1991, anno in cui è intervenuto un riconoscimento di paternità), notoriamente caratterizzati dall’esecuzione di gravi rapine, sono stati narrati dal collaboratore Antonio Zagari nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero di Milano l’11 novembre 1992.

    Dalle rapine e i sequestri al traffico di stupefacenti

    «Ho conosciuto Franco Coco … nel 1969 o 70. Io, all’epoca, ero giovanissimo ed avevo circa 15/16 anni. […] Ricordo che, trasferitosi al nord, entrò subito a far parte di un gruppo di persone dedito alla consumazione di rapine; di questo gruppo mio padre era il “basista” nella provincia di Varese e ne facevano parte varie persone, tra cui alcune molto importanti nella ‘ndrangheta… su un livello inferiore vi erano membri della ‘ndrangheta più giovani, quali Franco Coco (originario di Marcedusa e trasferitosi nel lecchese)», racconta Zangari.

    «Tutti costoro erano pacificamente e con certezza assoluta appartenenti alla ‘ndrangheta e come tali frequentanti la casa di mio padre… Rividi fuori dal carcere il Coco nell’82 e ’83… a questo punto era assolutamente noto tra di noi che il Coco aveva abbandonato le vecchie attività di rapine e di sequestri di persone e si era dato al traffico di stupefacenti che controllava e dirigeva nella zona di Lecco», prosegue.

    Un locale ufficiale nel lecchese

    La rapida ascesa di Coco Trovato nel panorama della criminalità organizzata di matrice calabrese trova riscontro nei racconti di tutti i collaboratori di rilievo. Anche Saverio Morabito ha riferito che Coco si era rapidamente radicato nella zona di Lecco, intrattenendo rapporti di buon vicinato con altre cosche (egli per esempio, al pari di Flachi e Schettini, si recava a Corsico per intrattenere pubbliche relazioni con la famiglia Sergi e con lo stesso Morabito).

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    Un panorama di Lecco, sul lago di Como

    D’altra parte, grazie ai rapporti sempre più stretti instaurati con la famiglia De Stefano di Reggio Calabria, e dopo alcuni insuccessi, Coco era riuscito ad ottenere il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un “locale” della ‘ndrangheta nel lecchese, struttura della quale era ovviamente il capo riconosciuto.

    Vacanze, Jaguar e colletti bianchi

    Racconta ancora Zagari: «Rammento anche che De Stefano, durante la comune carcerazione a Lecco, offrì ai figli di Coco un soggiorno gratuito a Reggio Calabria per le ferie dell’estate dell’83. Anche noi Zagari, come avevo detto, eravamo all’epoca molto legati al Coco tanto che, sempre nell’83, quando si sposò la sorella del Coco, su richiesta di quest’ultimo formulatami in carcere, io dissi a mio fratello Andrea e a mio cugino Sergi Franco di mettere a disposizione della sorella di Coco, per il matrimonio, una Jaguar nera adatta per le cerimonie, che servì agli spostamenti della sposa».

    Personaggio da Romanzo Criminale, Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da ampia tradizione della ‘ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi”, piegati alle esigenze dei clan. Tra questi, l’avvocato Franco Mandalari (coinvolto in indagini proprio in Lombardia), che secondo alcune fonti giudiziarie poteva ungere gli ingranaggi giusti per ottenere benefici nelle sentenze, qualora gli uomini di Coco Trovato fossero stati arrestati.

    ‘Ndrangheta a Milano: l’unione fa la forza

    L’alleanza tra Pepè Flachi e Franco Coco Trovato, dalla quale nacque l’organizzazione unitaria, fu definitivamente sancita durante l’estate del 1986. Flachi aveva liquidato la sua vecchia società, ed era rimasto con pochi uomini di elevato livello al proprio fianco. Coco, d’altra parte, estendeva sul milanese, per via dell’alleanza, il dominio già esercitato nella zona nord occidentale della Lombardia. E la comune appartenenza dei due uomini alla ‘ndrangheta, che certamente aveva favorito i rapporti tra i due gruppi anche in anni precedenti, aveva di fatto contribuito, dopo uno sviluppo graduale delle relazioni, alla creazione di un’unica struttura delinquenziale retta da un patto di “società”.eroina-cocaina-ndrangheta-milano

    Un altro collaboratore di giustizia, Emilio Bandiera, per anni uomo inserito nella ‘ndrangheta milanese, specifica: «Furono fatti, naturalmente, vari discorsi ed alla fine fu deciso che i due gruppi si mettevano insieme: i proventi del traffico di stupefacenti e di altre attività delittuose (tra cui estorsioni) sarebbero stati divisi al 50%, mentre Coco e Flachi avrebbero unito le forze mettendo insieme le rispettive bande e i propri fornitori di stupefacenti e i clienti».

    «Da quel momento – prosegue Bandiera – presero a controllare un vasto territorio comprendente la Comasina, le baracche di via Novate, Bruzzano e tutto il territorio di Lecco e di parte della Brianza (controllato da Franco Coco). La società determinò subito un vero e proprio salto di qualità nella misura dei profitti che da parte loro si conseguivano. Non esito ad affermare che i due sono proprietari di un patrimonio immobiliare e liquido che è valutabile in decine di miliardi».

    Ci sono anche gli Arena-Colacchio

    Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano, sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto. Le attività criminali, esercitate dal clan, spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni), a quelli relativi a traffici di stupefacenti, di armi, omicidi di appartenenti ad organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche.

    In particolare mettono le mani su ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina ed autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, imprese di demolizione auto e commercio rottami, imprese di trasporto. Tutto, riportano gli atti, per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore, e per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari.

    I rapporti con la mafia siciliana e le stragi

    La Lombardia, da sempre, è una sorta di camera di compensazione. Lì le consorterie criminali dei vari territori d’Italia si incontrano e si spartiscono gli affari. Quasi sempre in maniera piuttosto lineare e senza bisogno di spargimento di sangue.
    Sul punto riferisce, tra gli altri, il collaboratore Franco Pino, uomo forte della ‘ndrangheta del Cosentino in contatto con i Piromalli, i Mancuso, i Pesce, ma anche con i casati del capoluogo reggino, e quindi i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Fontana. Pino ricorda traffici di armi con la Sicilia e in particolare un carico di kalashnikov proveniente da Palermo arrivato a Cosenza.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Pino racconta anche dell’ormai celeberrima riunione di Nicotera, dove Cosa Nostra, in quel periodo impegnata nella sua strategia stragista, avrebbe chiesto il coinvolgimento della ‘ndrangheta. In quell’occasione Coco Trovato e Pesce illustrano una proposta portata dai Brusca per conto di Totò Riina.
    I siciliani avevano già iniziato a commettere le stragi. E dicevano di volere un appoggio sull’attività stragista da parte della ‘ndrangheta, anche perché le eventuali conseguenze negative della legislazione sarebbero ricadute sulla criminalità calabrese.

    Il racconto di Franco Pino

    «In particolare chiedevano se noi fossimo disposti a commettere, da parte di chi ne aveva la maggiore possibilità, attentati ad obiettivi istituzionali, non per forza rivolti ad uccidere un numero indeterminato di persone ma certamente finalizzati a far capire che si trattava di attentati veri, in modo da procurare più terrore possibile e più danni possibile, ed eventualmente anche vittime; ad esempio obiettivi idonei potevano essere caserme o piccole stazioni dei Carabinieri site nei paesi, o simili. La contropartita consisteva, come fu detto espressamente, nel cercare di ottenere vantaggi dallo Stato, come una sorta di trattativa», afferma Pino.

    ‘Ndrangheta a Milano: Paolo Martino e gli anni 2000

    Ruolo importante, nel Milanese, quello svolto dai De Stefano. Non solo attraverso Coco Trovato. Un nome di grande peso è quello di Paolo Martino, cugino dei De Stefano. Martino viene indicato dai collaboratori di giustizia come uomo forte già negli anni ’90 con riferimento alle riunioni tenute per prendere le decisioni sulla strategia stragista. Negli anni 2000, invece, Martino torna prepotentemente alla ribalta sotto altra veste. Sarebbe lui, infatti, il contatto tra la Giunta Comunale di Reggio Calabria, del sindaco Giuseppe Scopelliti, e l’impresario dei vip, Lele Mora. Il Comune del sindaco Scopelliti, infatti, spenderà oltre 100mila euro per la realizzazione della “Notte Bianca” in riva allo Stretto.

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    L’ex presidente della Regione, sindaco di Reggio Calabria e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti

    All’impresario delle star, Scopelliti sarebbe arrivato infatti tramite quel Paolo Martino, legato da rapporti di parentela alla potentissima cosca De Stefano e della quale sarebbe la diretta proiezione in Lombardia. Così lo definiscono gli investigatori nelle carte d’indagine che lo conducono in carcere per i propri rapporti con il clan Flachi: «Martino è uno di quei personaggi che ha ampiamente superato la fase della delinquenza “nera” per passare al livello della mafia imprenditoriale, con contatti ad alto livello economico e politico».

    Scrive il Ros: «Non vi è dubbio che Martino Paolo, rispetto alla normalità dei soggetti attenzionati e gravitanti nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, rappresenti un livello qualitativo decisamente più elevato. Nato nel rione Archi del capoluogo calabrese, roccaforte destefaniana, è cugino del noto capomafia De Stefano Paolo e si è inserito, all’interno della cosca, con l’autorevolezza e la forza del mafioso di rango. Le sue vicende criminali, iniziate negli anni Settanta, lo hanno progressivamente qualificato come elemento di vertice di quell’aggregato mafioso».

    Il boss, il sindaco e il manager dei vip

    Oggi ultrasessantente, Martino comincia a sparare da minorenne e già a partire dai primi anni ’80 inizia a collezionare condanne su condanne, per associazione mafiosa e per droga, passando anche diversi periodi in latitanza. Sarà lui stesso a dichiarare al Gip di Milano, Giuseppe Gennari, il quale firma la maggior parte delle ordinanze contro la ‘ndrangheta in Lombardia, di aver messo in contatto Mora e Scopelliti: «Arriviamo lì e ci sediamo in ufficio. Io dico: “Lele, oltre a essere sindaco di Reggio Calabria è un amico mio. Però la cosa importante è che ti sto portando una persona che ti porta lavoro, cerca di fare qualche cosa interessante insieme”».

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    Lele Mora

    Al Gip Gennari, Martino racconterà inoltre di conoscere un po’ tutti i membri della famiglia Scopelliti: oltre a Giuseppe il politico, anche Consolato (detto Tino) e un altro fratello, anch’egli impegnato in politica, a Como. «Perché sono una persona perbene», dice. Affermazioni che, tuttavia, non hanno mai portato ad alcun coinvolgimento penale delle persone menzionate da Martino.

    Valle e Lampada: al servizio della cosca Condello

    Non ci sono solo i De Stefano, tuttavia. Anche la cosca Condello, soprattutto nei primi anni 2000, avrebbe avuto i propri importanti avamposti milanesi. In particolare nei membri delle famiglie Valle e Lampada. Secondo gli accertamenti svolti dal Ros, «i fratelli Lampada (Giulio e Francesco, ndr) rappresentano quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso, compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso investigato, riconducibile a Condello Pasquale». Non una cosca indipendente, dunque, ma una propaggine del più famoso clan Condello.

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    Franco Morelli ed Enzo Giglio

    Negli anni in cui gli uomini del Ros redigono l’informativa, i Lampada sono ancora degli “illustri sconosciuti”. Che, però, svolgerebbero già il ruolo di teste di ponte del “Supremo” in Lombardia «con il compito di reinvestire nell’economia pulita, gli enormi profitti illeciti». Lì a Milano, i Valle-Lampada avrebbero avuto relazioni privilegiate con diversi esponenti politici, tra cui l’allora consigliere regionale Franco Morelli. Ma anche con i magistrati Enzo Giglio e Giancarlo Giusti. Anche i rapporti con il mondo della politica, sarebbero, secondo il Ros, indicativi del legame, strettissimo, tra i Lampada e i Condello. Dati, quelli raccolti dai Carabinieri che darebbero la misura di «quanto fosse forte l’esistenza di un intreccio di affari criminali – economici tra gli appartenenti alla famiglia Lampada e lo stesso mondo politico calabrese, asserviti alle esigenze ed all’ottenimento di “favori” personali, comunque, riconducibili alla consorteria di Pasquale Condello».

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    Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri

    I macellai e il Supremo

    I Lampada, dunque, anche attraverso il business delle slot machine, sarebbero riusciti, in poco tempo, a costruire un impero partendo praticamente da zero: quando vanno via da Reggio Calabria, infatti, sono proprietari solo di una macelleria nel rione Archi. A Milano, invece, avrebbero conquistato fette enormi di mercato nei settori più svariati: «Si tratterebbe e non potrebbe essere diversamente, di patrimonio riconducibile alla cosca Condello, reinvestito nella città di Milano dai suoi sodali. E qui emerge tutta la forza e la potenza della cosca indagata, capace di mimetizzare l’immenso capitale acquisito illecitamente, mediante nuove e più efficienti forme di riciclaggio e di reinvestimento dello stesso, sempre più tendente ad un’unificazione del mercato legale e di quello illegale».

    ‘Ndrangheta a Milano: i Piromalli

    Ma, come nei più classici cliché dei “corsi e ricorsi storici” di Giovambattista Vico, si parte dai Piromalli di Gioia Tauro, per ritornare, infine, proprio al grande casato di ‘ndrangheta. Una delle grandi inchieste degli ultimi anni, denominata “Provvidenza”, certificherà la presenza, ancora importante, ancora pervasiva dei Piromalli negli affari milanesi.

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    Giuseppe “Pino Facciazza” Piromalli

    Elemento centrale, Antonio Piromalli, figlio di Pino Piromalli, detto “Facciazza”. Proprio per volere del padre, Antonio Piromalli si era trasferito a Milano, nel tentativo di abbassare l’attenzione su di lui, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche delle altre famiglie mafiose. Pino Piromalli “Facciazza”, classe 1945, aveva infatti investito il figlio di pieni poteri, sebbene l’uomo avesse continuato a reggere le fila della cosca, prima dal 41bis dopo la condanna definitiva nel processo “Cent’anni di storia”, e poi da uomo libero, con la scarcerazione avvenuta nel 2014.

    «Hanno amici dappertutto»

    Lo storico casato gioiese, peraltro, muoveva ingenti somme di denaro con l’esportazione di prodotti ortofrutticoli verso i mercati del nord Italia, controllando alcune aziende inserite nel mercato ortofrutticolo milanese, a cui assicurava, per il tramite di un consorzio con sede nella Piana di Gioia Tauro, la fornitura dei prodotti, garantendo, con le note tecniche di intimidazione, prezzi di acquisto concorrenziali e il buon esito delle operazioni commerciali

    Per il pentito Furfaro, inchieste, arresti e decessi non hanno incrinato la leadership della cosca di Gioia Tauro: «Oggi i Piromalli sono la famiglia militarmente più forte d’Italia. Hanno “amici ” dappertutto. Questo tanto a Gioia Tauro quanto fuori. La Lombardia è nelle loro mani, ogni questione relativa ad appalti e quant’altro viene ripartita tra le famiglie più importanti. È quindi inevitabile che abbiano un peso specifico anche lì. Si diceva fosse Antonio Piromalli, classe 1972, occulto gestore del mercato ortofrutticolo a Milano e che questi avesse significativi interessi anche in questo settore; Gioacchino Piromalli andava spesso a Milano. Credo che lì avesse uno studio in comune con altro avvocato».

  • MAFIOSFERA | Massondrangheta? Ce n’è una, ma non chiamiamola così

    MAFIOSFERA | Massondrangheta? Ce n’è una, ma non chiamiamola così

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    Riassunto delle puntate precedenti: Matteo Messina Denaro viene arrestato il 16 gennaio 2023 dopo latitanza trentennale. Nel frastuono mediatico, si è rinvigorito lo spettro massonico, ossia l’evocazione di un potere occulto, nutrito di mentalità mafiosa, che avrebbe coperto il boss impedendone la cattura. Tesi accattivante, non fosse per la vaghezza di queste affermazioni.
    Troppo spesso una presenza massonica viene richiamata senza curarsi delle evidenze storiche e sociologiche (per non parlare della rilevanza penale) di quel fenomeno – esistente, seppur dai confini labili – che è la borghesia mafiosa. Tale si definisce quella classe sociale connotata da pratiche illecite sistematiche, alimentate dal contatto ravvicinato tra mafie e “potere” (istituzionale o politico). Nonostante le ambiguità, rimane valida la domanda: che tipo di protezioni ha avuto Matteo Messina Denaro, e soprattutto, quanto c’entra la massoneria?

    Massondrangheta e apericene

    I termini massomafia e massondrangheta dovrebbero cadere in disuso. Parole assimilabili a ristopizzerie, gastropub, o apericene: espressioni lessicali che fondono due cose diverse, preservandone l’identità doppia. Per pigrizia linguistica, non si trovano espressioni più appropriate e articolate. Si uniscono due concetti singolarizzati all’estremo – tutti fenomeni plurali, compositi, stratificati – come massoneria e mafia o ‘ndrangheta (fino a che non esca una massocamorra, o peggio una massosacracoronaunita…). Poi li si semplifica fino all’osso sublimandone la natura in un concetto sdoppiato, indefinito, inutilizzabile a livello di analisi.

    massoni

    La massoneria è un fenomeno storico, sociale e organizzativo, contraddistinto da fumose aspirazioni di elevazione personale e sociale. La mafia e la ‘ndrangheta sono organizzazioni criminali, da contestualizzare storicamente e sociologicamente. Di fatto, le condotte di mafiosi e massoni vanno attribuite a specifiche persone e sottogruppi, con un impatto differenziato a seconda della funzione esercitata.

    Massoni deviati e mafiosi

    Il ruolo sociale con cui si arriva alla massoneria spesso detta la motivazione per entrarvi: opportunità di affari, per molti; volontà di seguire un percorso d’illuminazione spirituale, per alcuni; opportunità di incontrare persone di analoga estrazione sociale e accrescere il proprio prestigio, per altri. Il comportamento qui conta più che lo status. Del resto, lo status di “massone” – a differenza, in certi casi, di quello del “mafioso” – non è affatto indipendente. Nessuno è “professionalmente” soltanto massone (a parte forse i vertici delle principali obbedienze). Esistono il medico-massone, l’avvocato-massone, il politico-massone, e via discorrendo.

    Si possono individuare quattro formule di interazione in cui la figura di un massone deviato, cioè un massone che non segue la vera ‘chiamata’ della massoneria – all’interno di logge irregolari, spurie, coperte, segrete, o interamente devianti – interferisce nel rapporto tra mafie e potere. Le abbiamo individuate e analizzate in una ricerca sviluppata assieme al professor Alberto Vannucci.

    P2 e Iside 2: comandano i venerabili

    Prima formula: il massone (formalmente in regola o meno con gli statuti della sua obbedienza, ma comunque deviato) è promotore di condotte illecite in un network in cui egli stesso fa da garante agli scambi tra attori di varia estrazione, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari. Questo è il caso della P2 di Licio Gelli – ragno in mezzo alla sua ragnatela, o meglio burattinaio, come lui stesso si autodefinì – nella vicenda che ha irreversibilmente modificato la narrazione sulla natura della massoneria contemporanea in Italia, ridotta nell’immaginario collettivo a sede occulta di affari illeciti e maneggi loschi affidati alle potenti mani di insospettabili.

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    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    È anche il caso, sempre negli anni ’80, della loggia Iside 2 di Trapani (che faceva capo al Centro studi Scontrino) – unico processo penale in cui si è applicata con successo la legge Anselmi (approvata dopo lo scandalo P2) contro l’interferenza nella vita pubblica delle società segrete. Il maestro venerabile della loggia Iside 2, il docente Giovanni Grimaudo, imitando Licio Gelli, pilotava le attività illecite di un reticolo di affiliati composto da “colletti bianchi”, ma anche da alcuni esponenti di Cosa nostra: tutti portavano in dote opportunità, entrature, risorse.

    Grimaudo, come Gelli, offriva servizi di “protezione”, risolvendo i problemi che affliggevano i fratelli nei loro rapporti con l’apparato pubblico. Sia nella P2 che in Iside 2 ai massoni era reso pressoché impossibile incontrarsi e accordarsi tra di loro: tutto doveva passare per l’intermediazione dei maestri venerabili, realizzando così una piena personalizzazione in capo a un solo soggetto dell’attività massonica deviata.

    Rinascita-Scott, la quasi massondrangheta

    Seconda formula: il massone (deviato) è parte di un network di vari soggetti, coinvolti in attività e scambi informali, illeciti, o criminali, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari, senza che nessuno abbia un ruolo dominante. Qui il massone deviato opera all’interno di una cerchia in cui gli scambi di favori, gli illeciti e gli abusi coinvolgono congiuntamente una pluralità di attori. Sono le frequentazioni tra avvocati, medici, politici e imprenditori, oltre che con mafiosi o ‘ndranghetisti, più che lo status di massone, a facilitare la loro proficua interazione. Lo status di massone può amplificare la devianza, all’interno di una camera di compensazione tra contropartite.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    È questo il caso presentato nel maxiprocesso Rinascita-Scott – non concluso– quando si fa riferimento ad avvocati presunti massoni coinvolti in pratiche di corruzione e presunti reati di concorso esterno in associazione mafiosa.
    È anche il caso dell’operazione Geenna, in Valle D’Aosta: un massone (presunto/irregolare) avrebbe tentato di coordinarsi con ‘ndranghetisti locali per convincerli a entrare in una nuova loggia utile a canalizzare consenso elettorale; alcuni degli ‘invitati’ si sentono tra loro per valutare questa opportunità e rinunciano, ma stringono altri accordi sottobanco.

    La paramassoneria e la mafia defilata

    Terza formula: il massone (deviato) è figura marginale in un network dominato da ‘potenti’ (in ruoli politici e istituzionali) che regolano autonomamente attività illecite, con la sporadica inclusione dei mafiosi. Nell’Operazione Artemisia (2019) a Trapani, o meglio a Castelvetrano (paese di Matteo Messina Denaro) un ex assessore regionale siciliano avrebbe dato vita a un’entità para-massonica, in parte sovrapposta ad una loggia ufficiale, della quale il vero maestro venerabile ignorava l’esistenza. Il gruppo operava a prescindere dalle direttive della loggia regolare, permettendo ai suoi membri ‘coperti’ di aiutarsi a vicenda, a spese dei massoni regolari, in caso di necessità. A queste intese nell’ombra partecipavano altri soggetti, spesso neppure massoni, che influenzavano assunzioni e carriere negli enti pubblici.

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    Matteo Messina Denaro nella sua foto più celebre

    In un simile contesto la capacità di accordarsi ‘privatamente’ può tenere ai margini la mafia, giacché i mafiosi “portano problemi”. Un massone siciliano coinvolto in Artemisia racconta che il maestro venerabile della loggia aveva preferito cambiare obbedienza, dalla Gran Loggia d’Italia al Grande Oriente, per ragioni di opportunità, ossia “il tentativo dei massoni della Gran Loggia d’Italia di Agrigento di far entrare nella loggia di Castelvetrano personaggi vicini a Cosa nostra”.
    I mafiosi, dunque, e solo alcuni – persino qualcuno come Matteo Messina Denaro – possono restare defilati, clienti o amici di un gruppo di potenti “colletti bianchi” in grado di “governare” autonomamente i propri patti segreti senza ricorrere ai mafiosi. L’ex consigliere regionale dichiarerà di conoscere Messina Denaro fin dall’adolescenza, e di avere avuto il suo appoggio in ambito politico-elettorale, non massonico.

    Massondrangheta: la Santa e Porta Pia

    Quarta formula: il massone (deviato) è mafioso egli stesso o pienamente coinvolto in una struttura mafiosa che ha tratti (para/pseudo) massonici, essendosi appropriato del capitale simbolico (e relazionale) della massoneria. È quanto emerge a Reggio Calabria dagli ultimi processi Gotha, ‘Ndrangheta Stragista, Meta e altri più datati come Olimpia, trent’anni fa. In questo contesto alcuni massoni (deviati) vengono “plasmati” nella loro nuovo identità dalla ‘ndrangheta, facendo emergere col tempo un sistema di potere integrato, in cui solo i clan hanno mantenuto la loro identità criminale, mentre si è diluito fino a perdersi del tutto il senso di fratellanza a una “obbedienza massonica”. Non ci sono più politici che supportano i clan, o viceversa, bensì politici legati a doppio filo all’associazione tra vari clan dominanti in quel territorio.

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    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Quest’associazione – a un dato momento chiamata Santa o Società di Santa – agiva/agisce come una setta segreta, una sezione riservata (invisibile, per gli inquirenti) che si eleva al di sopra della ‘ndrangheta dedita allo sgarro (la criminalità comune). Il santista era allo stesso tempo massone e ‘ndranghetista: perché ciò potesse accadere, si operò negli anni ‘60-‘70, un cambiamento radicale all’interno dell’élite dell’Onorata Società, ammettendo anche “esterni”, non ndranghetisti. Non più intermediazione massonica tra “mondi” (criminali e dei colletti bianchi) autonomi e separati, ma integrazione tra ruoli, all’interno di un’infrastruttura organizzativa, con un capitale simbolico e relazionale comune, che è terza – né massoneria, né mafia, ma con attributi di entrambe – cesellata da rituali massonici prestati alla ‘ndrangheta.

    Dirà il collaboratore Cosimo Virgiglio: «Dopo il 1995, abbiamo descritto il rapporto con questa criminalità, con la ‘ndrangheta, come un “varco” e nel nostro linguaggio, nel nostro gruppo riservato, si parlava di “Porta Pia”, in riferimento alla “breccia di Porta Pia”… Diverso il discorso per gli ‘ndranghetisti, per i quali questa apertura era chiamata Santa». È il caso più eclatante di rapporto integrato tra massoneria deviata e ‘ndrangheta, in cui entrambe le organizzazioni sembrano cambiare pelle nel perseguire le finalità degli affiliati, al punto da dar vita a una nuova entità che conserva alcuni attributi delle sue matrici, ma non gli scopi originari.

    La vera anomalia italiana

    Che in Italia vi siano state molteplici occasioni di incontro tra mafiosi, politici, imprenditori e professionisti – che erano/sono anche massoni per scelta o per occasione – non implica che dalle loro relazioni nascoste sia germogliato il seme di un’integrazione, o che si siano alterate identità e finalità. La compresenza di fenomeni diversi non significa che siano correlati, né che tra essi esista un nesso causa-effetto.
    Se cercassimo quanto più si approssima all’ambiguo concetto di massomafia, solo la quarta formula potrebbe esservi – con cautela – assimilata. Le altre realtà, in misura maggiore o minore, raccontano di sovrapposizioni e intrecci strumentali, talvolta solo occasionali, legati a personaggi e contesti specifici.massondrangheta

    Ma da queste formule si ricava uno spunto importante: mafiosi e massoni deviati si trovano spesso in posizioni subalterne o paritarie rispetto a politici, funzionari e figure istituzionali o professionali coinvolti in scambi illeciti o favoritismi a sfondo criminale. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza formula: la vera anomalia italiana è l’ampiezza delle sfere di informalità, illegalità e corruzione che coinvolgono i “potenti”. E la loro attività criminale si nutre di segretezza, simboli, riconoscimenti, frequentazioni, ostentazioni di onnipotenza, aspettative di impunità.
    Mafia e massoneria (deviata) sono interlocutori e sedi ideali per propiziare i crimini dei potenti, la cui complessità richiede però nuovi concetti e strumenti di analisi per essere compresa.

    (in collaborazione con Alberto Vannucci, professore di Scienze politiche, Università di Pisa)

  • MAFIOSFERA | Messina Denaro: aridaje con la massondrangheta

    MAFIOSFERA | Messina Denaro: aridaje con la massondrangheta

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    Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma si potrebbe aggiungere anche sventurata la terra che ha bisogno di antieroi. E noi italiani ne abbiamo, di eroi e di antieroi, soprattutto quando si tratta del nemico numero uno per eccellenza dello Stato italiano e della sua storia: la mafia. Al netto delle congratulazioni per aver portato a termine con successo un’operazione complessa, come può essere la caccia e l’arresto dell’ultimo latitante stragista – l’ultimo antieroe – Matteo Messina Denaro, la cerchia vociante di alcuni analisti dell’antimafia – una nutrita compagine di magistrati, giornalisti, accademici, portavoci e analisti specializzati (inclusa chi scrive) – non può non lasciare perplessi e anche un po’ sopraffatti.

    Messina Denaro, eroi ed antieroi

    Abbiamo tutti troppo da dire per nessuna ragione, oppure c’è davvero troppo da dire? È appurato che sappiamo in questo caso chi è l’antieroe, l’incarnazione del male e l’obiettivo del disappunto e della rabbia (giustificata certamente) di un popolo che ricorda le stragi degli anni ’90. Ma siamo sicuri di sapere chi sono gli eroi di questa storia, a parte ovviamente il procuratore capo Maurizio De Lucia che, da grande conoscitore del fenomeno mafioso nella sua Palermo, ha dimostrato di avere il polso insieme al suo sostituto Paolo Guido e a tutti le forze dell’ordine dispiegate, di completare tale operazione. Sicuramente non ci sono eroi politici, ma ci sono eroi della memoria, coloro che, anche per la memoria, sono stati sacrificati. Ed è difficile districarsi tra complotti, speculazioni e scarsa memoria storica.

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    Paolo Guido, il magistrato cosentino tra i protagonisti dell’arresto di Messina Denaro

    La storia si ripete

    Scriveva Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo (1966): «Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». I «quarant’anni fa» di Sciascia non sono i nostri “quarant’anni fa” ovviamente, eppure la citazione ancora vale.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Nella cattura di Matteo Messina Denaro ci sono tragedie e farse, corsi e ricorsi storici, che rimandano alla memoria di quel che accadde in seguito alla cattura di Totò Riina, e in parte a quella di Bernardo Provenzano. Ma c’è soprattutto la lingua, la lingua che si accompagna all’antimafia contemporanea che non è nata ovviamente il 16 gennaio 2023, al momento della cattura del super latitante stragista, ma che in seguito a quest’arresto è quanto di più visibile e riconoscibile.

    Messina Denaro e le zone grigie

    Ad esempio, si parla molto in questi giorni, ragionevolmente, delle protezioni che avrebbero – che hanno – permesso a Messina Denaro di nascondersi praticamente a casa sua per 30 anni. Ritornano nomi e cognomi di politici, regionali e nazionali, delle donne intorno al boss (aiutano i dettagli sulla presenza di viagra e preservativi nel covo di Campobello di Mazara…) e si fa un gran rumore parlando di poteri occulti, zone grigie e zone proprio nere, che avrebbero aiutato il boss a muoversi fuori dalla Sicilia e poi a proteggerlo sull’isola.

     

    Ritorna, prepotente, il tema delle massomafie, entità invisibili, potentissime proprio perché dai confini imperscrutabili, popolate da classi dirigenti e dalla ‘borghesia mafiosa’, e che si proteggono grazie ad agganci più o meno regolari, spesso spurie, alla massoneria (deviata). Ha dichiarato per esempio Teresa Principato, magistrata oggi in pensione, a Repubblica, che è grazie a un network (non meglio specificato) di massoni che Messina Denaro sarebbe stato protetto; sull’Huffington Post abbiamo conferme, ma anche note critiche a questa tesi, sollevate da Piera Amendola; e ricorda il Quotidiano del Sud, che Messina Denaro era originario – e si nascondeva – in uno dei ‘feudi massoni’ per eccellenza, la provincia e la città di Trapani. Dulcis in fundo, il medico Tumbarello, indagato per aver curato il boss, era pure massone ed è stato già espulso dal Grande Oriente d’Italia.

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    Il medico Alfonso Tumbarello, espulso dalla massoneria dopo l’arresto del boss

    Ma che cos’è questa massomafia?

    Ma siamo sicuri che tale linguaggio sia neutro, oppure utile? Che esistano segmenti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni coinvolte in attività criminali anche di matrice mafiosa, è innegabile. Innegabile anche la densità di strutture massoniche (regolari, riconosciute) o para-massoniche (spurie, irregolari o coperte) in certi territori, soprattutto del Sud Italia, come – tra le altre cose – rivelato dalla Commissione Antimafia in una relazione del 2017. Sono comprovati i legami di una certa classe dirigente con i clan mafiosi; alcuni mafiosi sono stati anche massoni; alcune strutture massoniche o para- (o pseudo) massoniche sono stati luoghi di incontro e camere di compensazione di comitati d’affari illeciti a partecipazione mista.

    Ma usare questa terminologia vaga, imprecisa quanto suggestiva, per imboccare dietrologie e poteri occulti alla base dei grandi segreti inconfessabili e soprattutto inconfessati (che a pensar male si fa sempre bene in Italia…) ha come risultato solo indebolire il discorso ed eventualmente dire niente. Chi sarebbero poi i massomafiosi? Cosa fanno, se esistono? Ma soprattutto, siamo davvero sicuri che l’appartenenza alla massoneria, regolare o spuria che sia, abbia davvero un peso nelle scelte che alcuni ‘potenti’ fanno di avvicinamento alla criminalità organizzata?

    La confusione aumenta

    Non sarà che un incrocio tra comportamenti, aspettative legate al territorio, voglia di affari e soprattutto disponibilità a trafficare favori, non siano molto più utili come criteri analitici che non uno status vacuo e vuoto come quello della ‘massomafia’? Esistono relazioni tra soggetti, individui (massoni e mafiosi) come organizzazioni, ad esempio clan e logge (coperte o no) – che convergono per interessi, scambi e alleanze di vario genere: ma spesso, quasi sempre, le logiche, le strategie, e gli obiettivi di tali soggetti rimangono distinte: bisogna leggere le (non tante ma dense) indagini che fanno un po’ di luce su queste realtà composite e complesse.massoni

    Parlare di massomafia per spiegare i segreti d’Italia – come la cattura o la protezione di un boss stragista – attiva e consolida una narrativa ammantata di originalità e segretezza, ma che effettivamente altro non fa che nutrire una confusione concettuale: ammettere che un aggregato, la massomafia – impossibile da vedere, da studiare, da generalizzare – abbia poteri occulti e come tali non misurabili perché fonde due poteri spesso allineati (mafia e massoneria) che sulla segretezza e l’evasione hanno costruito fratellanze, è sostanzialmente un fallacia logica e metodologica.

    E poi c’è la massondrangheta

    Si confondono organizzazioni e comportamenti, criminali e non, fintanto che appaiono insieme, in unico calderone, invocando una realtà che non esiste se non in alcuni suoi attributi. Cum hoc vel post hoc, ergo propter hoc, si dice in logica, “dopo questo, dunque a causa di questo”. Si basa sull’idea che, quando due cose, vaghe, si presentano insieme, vengono pensate come correlate, ma in fondo così non è. La correlazione è forse probabile, ma non ci aiuta a capire alcuna verità sostanziale.
    Se poi oltre alla massomafia esce anche la massondrangheta – perché è ‘naturale’ che la mafia calabrese, oggi considerata e definita la più potente, abbia la propria formula individuale di massoneria deviata mischiata con mafia – comprendiamo che la confusione sulla lingua della mafia è dunque sistemica.

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    Un’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista

    La massondrangheta è tornata alla ribalta recentemente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro durante il processo ‘Ndragheta Stragista: consolidata è oggi la narrativa autonoma della ‘ndrangheta rispetto alla mafia (siciliana), ergo anche quella della massondrangheta rispetto alla massomafia di siciliana memoria. Sicuramente vertici di Cosa nostra e ‘ndrangheta si sono incontrati, parlati, alleati. Sicuramente ci sono state delle sinergie, e direi, anche ovviamente è così: ci si aspettava forse che ai vertici di due organizzazioni criminali di questo calibro ci fossero uomini che non vedessero il beneficio di allearsi gli uni con gli altri? Sarebbe contraddittorio della loro ‘potenza’ e lungimiranza.

    Messina Denaro e «un’unica famiglia»

    Ed ecco che non sorprende che nella storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove si è già parlato dei rapporti del boss con la Calabria, alle commistioni di mafia, massoneria, massomafia e politica, non potevano mancare ‘ndrangheta e eventualmente massondrangheta. Avrebbe detto, Matteo Messina Denaro, nel 2015 che Cosa nostra e ‘ndrangheta dovevano «lavorare assieme per diventare un’unica famiglia»; Messina Denaro, consapevole o meno, va ad aggiungersi a quella schiera di analisti che, partendo da indubbie sinergie tra le mafie italiane (o tra i capi, o tra singoli clan) parlano da qualche anno di un’unica grande mafia a regia unica.

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    Matteo Messina Denaro tra gli uomini del Ros dopo l’arresto

    Il processo ‘Ndrangheta stragista ci racconta certamente di una regia intenzionata a essere unica nel periodo stragista. Ma vale tale intenzione di alcuni a cambiare i connotati della ‘ndrangheta? A giudicare da quel che è venuto dopo, direi di no. Di nuovo calderoni dai confini impossibili, di nuovo gli aggregati dall’impossibile concettualizzazione che rischiano di far dimenticare non solo le specificità (territoriali quanto storiche) dei fenomeni, ma anche che le alleanze e le sinergie portano semmai a fenomeni terzi, plurali e integrati, di nuova fattezza, non a fenomeni ibridi e dall’identità confusa.

    Più sostanza, meno suggestioni

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    Pasquale Gallone

    Ricordiamo le parole di Pasquale Gallone, storico braccio destro del boss Luigi Mancuso, mandate in onda da LaCNews nel programma Mammasantissima; «Messina Denaro? È buono, fa sempre cose buone ma i siciliani… i siciliani hanno ‘a vucca, specialmente i palermitani e i catanesi. Per fare un calabrese ce ne vogliono 10 di siciliani!». Per quanto siano solo frasi in libertà queste parole consolidano comunque una precisa narrativa: riaffermare le identità d’origine (di ‘ndrangheta) e i confini della sinergia (tra ‘ndrangheta e Cosa nostra).

    Quindi, aspettiamo di carpire ulteriori dettagli inutili quanto suggestivi su borghesie massomafiose, protezioni, e alleanze calabresi dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra. Aspettando di capire se costui è intenzionato a parlare almeno un po’ di tutti quei segreti che si dice si porti dentro. E proviamo – anziché cadere vittima del pourparler che fa sempre piacere a chi vive di eroi ed antieroi – a chiedere un po’ di sostanza alle cose che vengono dette. Nomi, cognomi e condotte delittuose se si può, fino a prova contraria ovviamente. E nei limiti dello stato di diritto e non solo della morale.

  • Matteo Messina Denaro: il filo rosso che lo lega alla ‘ndrangheta e alla Calabria

    Matteo Messina Denaro: il filo rosso che lo lega alla ‘ndrangheta e alla Calabria

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    Fine della corsa, trent’anni dopo. È finita in una clinica di Palermo la lunga, lunghissima, latitanza della “primula rossa” di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Esattamente trent’anni dopo. Non solo trent’anni dopo l’inizio della sua latitanza. Ma anche a trent’anni di distanza dalla cattura di un altro superboss della mafia siciliana Totò Riina. Oggi, come allora, la cattura è ad opera del Ros dei Carabinieri.

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    I carabinieri del Ros circondano la clinica che ospitata il latitante

    Trent’anni dopo: la cattura della “primula rossa”

    Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma.

    L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano, Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Messina Denaro era latitante dall’estate del 1993. Si trovava in una clinica palermitana, dove si curava da un anno circa con il finto cognome “Bonafede”.

    https://www.facebook.com/watch/?v=906861293654377

    Pochi mesi prima della sua scelta di rendersi irreperibile, proprio i carabinieri del Ros avevano catturato Totò ‘u curtu. Anche in quel caso, non troppo distante dai “suoi” luoghi. E come per Riina, anche per Messina Denaro non mancano i contatti con la ‘ndrangheta.

    Matteo Messina Denaro in Calabria?

    Addirittura, in un’inchiesta di qualche anno fa sulla rete di protezione di Messina Denaro, uno degli affiliati, inconsapevole di essere ascoltato dagli inquirenti, dirà del boss: «Era in Calabria ed è tornato». Una intercettazione che fa il paio con quanto dichiarato, in un’intervista concessa in quello stesso periodo a Klaus Davi, dall’allora procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato: «Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro. I rapporti fra la malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili. Contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina. Non c’è niente di nuovo. La leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati».

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    Luciano Liggio

    Non sarebbe la prima volta. Già nell’estate del 1974, secondo un’informativa della Guardia di Finanza, “Lucianeddu” Liggio avrebbe trascorso una parte della sua latitanza ad Africo. E sempre ad Africo “u zi Totò”, vestito da prete, si sarebbe recato spesso. Qui il boss corleonese sarebbe stato ospitato dal mammasantissima Giuseppe Morabito alias “U’ tiradrittu”. Fu durante una delle tante visite in Calabria che Riina stipulò l’alleanza con la ‘ndrangheta? È nella Locride che calabresi e siciliani decisero di dar vita alla stagione delle cosiddette stragi “continentali”?”.

    Tutti insieme appassionatamente

    I rapporti con la mafia siciliana, Cosa Nostra, sono indicativi del prestigio che le ‘ndrine acquistano col tempo: il vecchio patriarca Antonio Macrì, don ‘Ntoni, è amico di Luciano Leggio (Liggio per i nemici), dei fratelli La Barbera, intrattiene rapporti con i Greco di Ciaculli. Ancor prima, invece, conosce il dottor Michele Navarra, leader dei corleonesi negli anni ‘50, durante il soggiorno obbligato di quest’ultimo a Marina di Gioiosa Jonica, paese della Locride. Domenico, don Mico, Tripodo, figlioccio di Macrì, invece, è, addirittura, il compare d’anello di Totò Riina, che il 16 aprile del 1974 sposa Antonietta Bagarella.

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    Don Mico Tripodo

    «Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». Ad affermarlo è Gioacchino Pennino, medico palermitano, mafioso ed espressione dell’alta mafia, capace di dialogare con il mondo delle professioni e delle Istituzioni.

    Matteo Messina Denaro e il patto con le ‘ndrine

    Numerosi, peraltro, i riferimenti dei collaboratori di giustizia ai contatti e alle riunioni di inizio anni ’90 per concordare una strategia comune di attacco allo Stato. I primi anni ’90, infatti, saranno quelli che insanguineranno l’Italia, tanto con le uccisioni di Falcone e Borsellino, quanto con le stragi continentali. Il processo “Ndrangheta stragista”, che si celebra a Reggio Calabria, sta tentando proprio di ricostruire il presunto e comune disegno eversivo delle due organizzazioni criminali, di cui farebbe parte anche il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo.

    «Nel 2015 Matteo Messina Denaro e altri capi di Cosa Nostra avevano stretto un patto con i capi della ‘ndrangheta per “lavorare insieme e diventare un’unica famiglia”». Recentissime, di fine 2022, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia ascoltato dalla procura di Torino nell’ambito del maxiprocesso Carminius-Fenice sulla presenza della criminalità organizzata nella zona di Carmagnola.

    Il delitto del giudice Scopelliti

    Cosa Nostra avrebbe avuto anche un ruolo importante nella fine delle ostilità scoppiate nel 1985 in riva allo Stretto, tra il cartello dei De Stefano-Tegano e quello dei Condello-Imerti. Settecento o forse più morti ammazzati per le strade e la fine di tutto, dopo il delitto del giudice Antonino Scopelliti.

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    Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991

    Circa quattro anni fa, il ritrovamento nelle campagne catanesi di un’arma che sarebbe stata quella utilizzata per l’omicidio, avvenuto nell’estate del 1991. L’indagine della Dda di Reggio Calabria coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola.
    Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.

    Uno scambio di favori

    Lo scenario inquietante, da sempre paventato, è quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Scopelliti potrebbe essere stato ucciso dalle ‘ndrine per fare un favore a Totò Riina che temeva l’esito del giudizio della Cassazione sul maxiprocesso a Cosa nostra. In quel procedimento istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare l’accusa. Cosa Nostra, quindi, avrebbe fatto da garante per la pace delle cosche calabresi dopo gli anni della mattanza, in cambio dell’eliminazione di Scopelliti, voluta, secondo l’ex braccio destro del boss siciliano Marcello D’Agata, quel Maurizio Avola oggi collaboratore di giustizia, anche da Matteo Messina Denaro.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Sarebbe stato proprio Avola a far ritrovare nelle campagne catanesi il fucile che sarebbe stato utilizzato per uccidere Scopelliti. Un fucile calibro 12, 50 cartucce Fiocchi, un borsone blu e due buste, una blu con la scritta “Mukuku casual wear” ed una grigia con scritto “Boutique Loris via R. Imbriani 137 – Catania”. Purtroppo, però, gli accertamenti tecnici non avrebbero dato alcun esito.

    Superlatitanti: dopo Matteo Messina Denaro ne restano quattro

    Uno dei tanti misteri che avvolgono la figura di Messina Denaro e che lo legano alla ‘ndrangheta. Indecifrabile quanto potrebbe accadere ora, dopo 30 anni di latitanza, da quell’estate 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l’inizio della sua vita da primula rossa. «Sentirai parlare di me – le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità».

    Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Quattro i superlatitanti che restano ora nell’elenco del Ministero degli Interni.

    • Attilio Cubeddu, nato il 2 marzo 1947 a Arzana (Nuoro) e ricercato dal 1997 per non aver fatto rientro, al termine di un permesso, nella Casa Circondariale di Badu ‘e Carros (Nuoro), ove era ristretto, per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime.
    • Giovanni Motisi, esponente dell’Anonima Sequestri, ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage ed altro.
    • Renato Cinquegranella, camorrista ricercato dal 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro.
    • Il vibonese Pasquale Bonavota, ricercato dal 2018 per la sua partecipazione alla ‘ndrangheta e per omicidio.
  • MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

    MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

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    “Batterie per auto da smaltire, così la ’ndrangheta di Cosenza vuole trasformare il piombo in oro” – così titola LaCNews, a firma di Marco Cribari, il giorno dell’Epifania. Seguono altre testate, come CosenzaChannel “‘Ndrangheta Cosenza, ecco come i clan vogliono smaltire le batterie per auto”, Calabria7 che riprende AffariItaliani, “Batterie esauste, il nuovo business della ‘ndrangheta che avvelena l’Italia”.

    La notizia suggerisce chiaramente un business dei clan cosentini nei rifiuti speciali. Si fa riferimento ad un’informativa del 2020 allegata alle ultime indagini che la DDA di Catanzaro ha effettuato nel cosentino sugli interessi dei clan mafiosi cittadini. Tale informativa confermerebbe che carichi di batterie per auto esauste, ergo da smaltire, partono dal Cosentino per venire poi interrati in modo illecito in provincia di Caserta, a Marcianise per la precisione. Si tratta di rifiuti speciali e dunque, dicono le notizie riportando i risultati della DDA, di ingenti guadagni per le cosche, sempre fameliche di soldi facili e illeciti.

    ‘Ndrangheta, Cosenza e rifiuti speciali

    Come ogni volta che sui giornali c’è una notizia che riguarda faccende di mafia – che ha nel titolo la ‘ndrangheta e qualche suo business come in questo caso – è spesso necessario “pelare” la notizia, come si fa con le cipolle per capirci. Strato dopo strato, bisogna levare via le superfici per cercare di arrivare al cuore della faccenda, possibilmente senza lacrimare troppo.
    Appare chiaramente dalle notizie, una volta lette fino in fondo e una volta approfonditi i dati riportati, che prima di reati di mafia qui si tratta innanzitutto di reati ambientali.
    Cosa è successo, dunque, in questo caso?

    ‘Ndrangheta, Cosenza e il traffico di rifiuti

    Nella geografia dei clan mafiosi della città di Cosenza (spesso per semplicità chiamati clan di ‘ndrangheta, nonostante per alcuni non sembra essere confermata l’affiliazione alla casa madre) si trovano i cosiddetti clan ‘italiani’ a confronto con i clan degli “zingari” o “nomadi”. Quest’ultimo gruppo, secondo le cronache, avrebbe detenuto un monopolio sul traffico di rifiuti speciali fino a qualche anno fa.
    Ma ecco che un imprenditore cosentino – e qui la questione diventa interessante – è intenzionato ad ampliare il mercato e a coinvolgere anche gli altri clan “italiani” della città. Può farlo, tale imprenditore, perché in possesso della licenza che gli consente di smaltire batterie esauste in modo lecito e regolare.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma avrebbe commesso una leggerezza: a fronte di un investimento iniziale di duecentomila euro, ne ha dovuto sborsare oltre la metà di tasca propria in quanto solo un’altra persona ha risposto all’appello per investire nel business. L’obiettivo, dunque, è recuperare gli investimenti e per farlo serve coinvolgere altre società del cosentino e del crotonese, di fatto interessate a frodare lo Stato – quindi a non smaltire regolarmente le batterie esauste – e così facendo, a condonare quell’avvelenamento che lo smaltimento illegale necessariamente provocherà, a Marcianise nel casertano.

    I clan al servizio delle imprese

    Nella gerarchia della serietà della condotta criminosa in questo caso, il traffico di rifiuti speciali e pericolosi sovrasta – per danno sociale – il coinvolgimento mafioso. In pratica questo vuol dire che i reati relativi ai mafiosi sono dipendenti dal reato madre, che è il reato ambientale a opera di colletti bianchi. Detto ancora più chiaramente: la condicio sine qua non di questa vicenda – cioè l’elemento che, qualora mancasse, cambierebbe l’evento stesso – non è la disponibilità della mafia cosentina, italiani o zingari che siano, a essere coinvolta nel traffico di rifiuti, bensì l’esistenza di imprenditori che tentano di aggirare le regole sullo smaltimento dei rifiuti. E che, per farlo, chiedono aiuto a chi, come certi gruppi mafiosi, non si fa problema a entrare nel business illecito.

    La mafia che presta servizi in mercati illeciti lucrativi è variabile dipendente rispetto all’intenzione dell’imprenditore di turno, che dà il via alla partita. Europol, nel suo report sui rischi legati ai crimini ambientali del 2022, ricorda appunto come, a differenza di altri settori in cui sono gruppi di criminalità organizzata si attivano autonomamente, nel settore del traffico di rifiuti, pericolosi e non, il motore criminale parte dalle imprese che cercano di tagliare e evitare i costi dello smaltimento. I gruppi criminali, dunque, non solo in Italia, agiscono sempre più a servizio delle imprese, o “da dentro” di esse.

    Privacy a imputati alterni

    Ma c’è in questa notizia ancora altro che stona. Sui mafiosi o presunti tali coinvolti ci sono dettagli, nomi, cognomi e analisi di intenzioni e possibilità. Così non è né per l’imprenditore cosentino che avrebbe avviato il tutto, né per le società che si sarebbero prestate, o dimostrate interessate, alla frode insieme a lui. Non solo non sappiamo chi sono (e questo potrebbe essere giustificato in termini di privacy), ma non sappiamo nemmeno se e quando qualche provvedimento verrà preso nei loro confronti o se quanto meno ci sia un modo – ideato o potenziale – di protezione di questo mercato.

    Sicuramente siamo tutti pronti a indignarci e gridare allo scandalo della mafia onnipotente perché i mafiosi cosentini fanno i mafiosi, o ci provano: vogliono fare soldi facilmente anche con attività di servizio altrui e questo è riprovevole, come sempre. Ma come mai non ci indigniamo allo stesso modo per i colletti bianchi che quel servizio lo creano? E come mai non ci indigniamo ancora di più quando oltre al mercato illecito che porta guadagni indebiti si commette anche un’atrocità ambientale?

    Nonostante l’inserimento degli eco-reati nel Codice penale dal 2015, la complessità delle normative in materia di rifiuti, spesso associata a scarse risorse per il monitoraggio, l’ispezione e l’applicazione delle norme, comporta ancora rischi ridotti per coloro che infrangono la legge a monte – colletti bianchi, imprenditori e più o meno grandi società e imprese – mentre i profitti illeciti che possono trarre da questo settore sono elevati. Nel caso delle batterie si parla di 1.500-1.800 euro a tonnellata.

    Chi sta sul carro

    Ma il problema non è solo l’arricchimento indebito e illecito – reale o potenziale – di qualche clan mafioso; il problema vero qui è che ci sono pratiche, quasi interamente condonate, di avvelenamento del territorio con i liquidi contenuti all’interno delle batterie esauste, mistura di acqua e acido solforico. Il traffico di rifiuti speciali o la mala gestione dei rifiuti pericolosi non ha solo ha gravi implicazioni per l’ambiente e la salute. Ha un impatto economico anche sulla concorrenza, ponendo le imprese che rispettano i regolamenti per lo smaltimento in una posizione di svantaggio economico.

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    Qual è l’incentivo a seguire i regolamenti se chi non li segue, o cerca di aggirarli, di solito non viene punito? Infatti, si puniscono facilmente i mafiosi coinvolti in questo traffico proprio perché sono “già” mafiosi, ergo già sotto osservazione delle forze dell’ordine; ma in questo mercato i clan sono solo una delle ruote del carro: sul carro stanno imprenditori, colletti bianchi, a volte grandi imprese e i loro arsenali di avvocati.

    Non solo ‘ndrangheta

    Mi permetto un’ulteriore riflessione. A guardare le notizie di cronaca in Calabria sembra spesso che a fare da protagonista assoluta, in faccende criminali di una certa serietà e complessità, sia sempre e solo la ‘ndrangheta: estorsioni, droga, traffici illeciti, appalti truccati, corruzione politica. Sicuramente, nella nostra regione, esistono monopoli criminali; c’è una densità tale dell’operatività dei clan mafiosi che spesso erroneamente si presume che ogni nefandezza che succede qui da noi debba passare dalla ‘ndrangheta, sia collegata alla ‘ndrangheta, oppure sia ideata dalla ‘ndrangheta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Non paiono esistere, nella pubblica percezione calabrese, reati complessi e attività lucrative che non coinvolgano la ‘ndrangheta: reati ambientali, reati societari, reati dei colletti bianchi, reati finanziari e via discorrendo. Fa eccezione, per ora, solo il traffico di migranti, che esula dagli interessi mafiosi perché di base non riguarda il territorio. Quando tali reati complessi si manifestano– e questo caso del traffico di batterie ne è esempio lampante – non paiono esistere in formula del tutto autonoma dall’interesse dei clan, da essi, o dalla loro narrazione, vengono fagocitati Questo non sorprende nessuno, vista appunto la capacità dei gruppi mafiosi locali di penetrare l’economia legale (come illegale) in modo totalizzante e vista la capacità legata alle indagini di mafia di ‘scoprire’ anche altri reati che ruotano intorno ai soggetti attenzionati per mafia.

    I colpevoli dimenticati

    Ma così facendo si rischia, come in questo caso cosentino, di mancare il focus, attribuendo tutto il male di vivere della nostra amara terra a una ‘ndrangheta onnivora mai sazia di denaro facile e moralmente sempre corrotta, senza vedere le sfumature, le differenze tra i clan. E, soprattutto, senza realizzare che le fattispecie criminali locali sono molto più complesse della volontà, dei successi e dei fallimenti della ‘ndrangheta. È un po’ come chi guarda il dito e non la luna: a furia di concentrarsi solo sul ruolo della ‘ndrangheta come protagonista in tutto ciò che non va in Calabria, si rischia di banalizzare fattispecie e attori criminali a volte molto più dannosi e a volte più scaltri di tanti gruppi mafiosi. Quando si riesce a identificare e accusare il mafioso, altri spesso finiscono nel dimenticatoio: per condannare la ‘ndrangheta, si finisce per assolvere de facto altri potenziali colpevoli.

  • RITRATTI DI SANGUE | Paolo De Stefano, il braccio armato della Madonna

    RITRATTI DI SANGUE | Paolo De Stefano, il braccio armato della Madonna

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    Il più spregiudicato. Ma anche il più visionario. Quello capace di far fare il salto di qualità. Non solo alla sua famiglia. Alla ‘ndrangheta intera. Paolo De Stefano è unanimemente riconosciuto come uno dei boss più importanti della storia delle ‘ndrine.

    Quartetto d’Archi

    Secondo di quattro fratelli che, insieme ai Piromalli di Gioia Tauro, riusciranno a scalzare la “vecchia ‘ndrangheta” di don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo. Quest’ultimo troverà la morte nel carcere di Poggioreale. Ordine di Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata, parrebbe. E su esplicita richiesta proprio di Paolo De Stefano, col quale il boss napoletano intrattiene ottimi e duraturi rapporti.
    Secondo i collaboratori di giustizia, Paolo De Stefano fu tra i primi a raggiungere il ruolo di “santista”. Perché è proprio con l’istituzione della “Santa” che la ‘ndrangheta fa il salto di qualità. Passa dalla dimensione agro-pastorale a qualcosa di diverso. Allacciando rapporti con il mondo delle istituzioni, della destra eversiva, della massoneria deviata. Tutti rapporti che De Stefano ha coltivato fino alla sua morte.

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    Arresto di Mico Tripodo (a destra, in primo piano)

    Sopravvive alla prima guerra di ‘ndrangheta, a differenza dei fratelli Giovanni e Giorgio. Sarà ucciso però agli albori della seconda. Ma il casato dei De Stefano continuerà a dettare legge grazie all’opera di Orazio, unico tra i quattro fratelli rimasto in vita. Ma anche tramite i figli di Paolo De Stefano, in particolare Peppe De Stefano, considerato il “Crimine” delle cosche reggine, almeno fino all’arresto, avvenuto nel dicembre 2008.
    Questo perché solo la progenie di un capo carismatico come Paolo De Stefano poteva essere “degna” di ricoprire quel ruolo negli anni 2000.

    I rapporti di Paolo De Stefano

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    ‘Ntoni Macrì

    Emblematico il fatto che nell’aprile del 1975, nemmeno due mesi dopo l’eliminazione del boss di Siderno don ‘Ntoni Macrì, le forze dell’ordine sorprendano Paolo De Stefano insieme al boss della Banda della Magliana, Giuseppe Nardi, Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale nei pressi del locale “Il Fungo” di Roma. Gli agenti erano appostati lì per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa.

    Doveva essere un incontro molto importante, visto che, oltre a De Stefano, partecipano uomini forti della ‘ndrangheta, come Piromalli, ma anche Condello (Il Supremo, negli anni a venire), nonché Urbani, Er Pantera, re delle bische e delle scommesse clandestine. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi giungono su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si sono allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo viene trovato in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.

    Nero di Calabria

    De Porta persino il suo nome uno dei processi più importanti alla ‘ndrangheta negli anni ’70: il processo De Stefano+59, il cosiddetto “Processo dei 60”. Già nel 1979 il Tribunale di Reggio Calabria rilevava l’esistenza di una «ferrea solidarietà che accomuna le cosche dell’intera provincia, nel rispetto del più assoluto principio di giustizia distributiva a fronte di un noto utile finanziario, che bene avrebbe potuto costituire accaparramento della sola cosca della Piana». A decine le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che legano il nome di De Stefano e dei De Stefano alla destra eversiva. A soggetti da “notte della Repubblica”, quali Stefano Delle Chiaie, ma anche Franco Freda. I collaboratori parlano anche degli incontri tra i capi della cosca De Stefano e Junio Valerio Borghese, per il tentativo di realizzare un colpo di Stato in Italia.

    Il potere di Paolo De Stefano

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    Giorgio De Stefano, fratello di Paolo e suo predecessore ai vertici dell’omonimo clan

    All’inizio degli anni ’80, quindi, Paolo De Stefano era da considerare l’espressione più tipica del nuovo manager dell’impresa criminale calabrese. Fu lui il primo, proseguendo nell’opera intrapresa dal fratello Giorgio, ad intuire e realizzare il necessario salto di qualità attraverso una serie di cointeressenze operative realizzate con esponenti diversi della malavita nazionale ed internazionale.
    Morto Giorgio De Stefano, Paolo assume infatti i pieni poteri dell’omonimo clan. Tuttavia, con il passare del tempo, l’enorme potere sapientemente accentrato sulla propria persona, oltre ad indubbi benefici, provoca due effetti collaterali. Si riveleranno fatali per il boss di Archi.

    De Stefano, che in verità non ha mai abbandonato l’idea di vendicare l’eliminazione dei fratelli, comincia ad isolarsi e a diffidare di chiunque, anche dei suoi più stretti collaboratori. Tanto che qualsiasi manifestazione di autonomia, anche quella che appare insignificante, subisce una dura repressione.
    La sua politica espansionistica, poi, innesca un clima di sospetto nei suoi confronti da parte dei leader degli altri clan affiliati – o, comunque, non in contrasto – che operano nella provincia di Reggio Calabria, timorosi di vedersi relegati a funzioni di secondo piano.

    Il braccio armato della Madonna

    All’interno dello stesso clan di Archi si determina una situazione non meno esplosiva. Vari affiliati tra i più rappresentativi iniziano a manifestare insofferenza verso il comportamento dispotico di don Paolino, che pretende di sottoporre a controllo qualsiasi attività criminale dei suoi accoliti e punisce duramente chi viola la sua regola.

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    L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì

    Racconta il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Sostenne che per raggiungere il vertice dell’organizzazione aveva dovuto pagare un prezzo altissimo sia perché due suoi fratelli erano stati uccisi sia perché aveva anni di carcere da scontare. Per contro altri vivevano tranquillamente e senza problemi. Capii da quelle parole che qualcosa di grave in seno al clan arcoto si era verificato. Considerata la piega poco piacevole presa dalla discussione, ritenni opportuno sdrammatizzare, sostenendo che da tutti era voluto bene e  non soltanto dagli arcoti. La replica fu che tutti erano amici per paura e che, comunque, egli viveva per fare giustizia in quanto era il braccio armato della Madonna di Polsi, la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta».

    Gli equilibri in riva allo Stretto

    Proprio a metà degli anni ’80, Paolo De Stefano avverte il pericolo dell’avvicinamento tra due famiglie assai potenti: i Condello, anch’essi originari del rione Archi di Reggio Calabria, e gli Imerti di Villa San Giovanni. Già in quel periodo, infatti, si parla di ponte sullo Stretto. La guerra è alle porte.

    Si legge, infatti, nelle carte giudiziarie che ricostruiranno quel periodo: «Attonita e sorpresa all’inizio, successivamente sempre più fatalisticamente rassegnata e quasi indifferente, la popolazione ha assistito all’incalzante succedersi di agguati e sparatorie di cui sicari spregiudicati, quasi sempre infallibili e giovanissimi, si sono resi protagonisti, spingendosi fin nelle strade del centro cittadino, in ore di punta, tra passanti inermi ed atterriti (…) Padroni del territorio e timorosi solo della reazione degli avversari, bande di criminali si sono per anni affrontate in quella che gli inquirenti hanno definito guerra di mafia e che ha mietuto numerose vittime… Di tale feroce guerra è stata individuata una data di inizio ben precisa: l’11 ottobre 1985».

    Autobomba e moto

    Secondo taluni, Paolo De Stefano teme un arbitrario inserimento nelle “sue” zone da parte di Antonino Imerti, detto Nano Feroce, e che il suo gruppo potesse essere insidiato da quello dei Condello. Avrebbe deciso così di porre fine a quell’alleanza decretando l’eliminazione di Antonino Imerti per poi farne subdolamente ricadere la colpa su altri.
    Il boss di Villa San Giovanni, tuttavia, si salva miracolosamente dall’autobomba che invece dilania la sua scorta.

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    Orazio De Stefano

    Per altri, in realtà, Paolo De Stefano con quell’attentato non avrebbe nulla a che fare. Non sembra preoccupato, infatti. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò. Si trova ad Archi, cuore del suo regno incontrastato, quando i sicari entrano in azione. I due (entrambi latitanti, Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiano a bordo di una Honda Cross intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.

    Paolo De Stefano, il boss dalle scarpe lucide

    Così Pantaleone Sergi su La Repubblica in quei drammatici giorni: «Don Paolino De Stefano era uno di quei boss dalle scarpe lucide che con la loro ascesa hanno segnato la storia della ‘ndrangheta calabrese negli ultimi 15 anni. Re di Archi, fatiscente quartiere-casbah alla periferia Nord della città, spregiudicato quanto diplomatico, violento e guardingo assieme, era il punto di riferimento delle mafie internazionali per il traffico di droga, armi e diamanti che ha portato miliardi e miliardi nei forzieri delle cosche. Ma la guerra che si sta combattendo sulle sponde dello Stretto, che in 48 ore ha lasciato sul campo cinque morti eccellenti, non lo ha risparmiato, anzi ha avuto in lui l’obiettivo più alto. La sua eliminazione, plateale perchè avvenuta nel suo regno, conferma che chi ha scatenato questa guerra vuole fare piazza pulita, vuole avere insomma il terreno sgombro per nuovi e più lucrosi affari».

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    L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes

    Paolo De Stefano viene ucciso nel suo regno. Nonostante due giorni prima sia avvenuto l’enorme attentato a Nino Imerti, il boss di Archi gira tranquillamente per il proprio quartiere. Don Paolino, però, avrebbe inviato alle altre famiglie un messaggio: sebbene tutti sospettino di lui, a mettere la bomba a Nino Imerti sarebbe stato qualcun altro.
    Dopo quella che in ambienti di ‘ndrangheta viene definita “ambasciata”, De Stefano si sente dunque al sicuro da possibili attacchi. Ma si sbaglia. La guerra tra clan sta per esplodere in maniera dirompente e drammatica. E, fin da subito, trame e complotti vengono messi in atto, in una vera e propria strategia bellica.

    Il racconto del collaboratore

    È il collaboratore Giacomo Lauro, nell’interrogatorio reso il 25 ottobre 1993, a ricostruire quei drammatici giorni. «In questa prima fase non si erano definiti gli schieramenti in quanto ancora appariva nebulosa la responsabilità del gruppo di Paolo De Stefano, che peraltro subdolamente accreditava l’attentato di Villa San Giovanni con l’autobomba alla cosca Rugolino di Catona. In tale ottica si spiega la visita di Pasquale Tegano, mandato da Paolo De Stefano la stessa sera dell’attentato, a trovare Giovanni Fontana per invitare il suo gruppo ad una riunione nelle ville site sulla collina di Archi di proprietà del De Stefano. A tale invito il Fontana rispose che non avrebbe preso alcuna decisione sul piano militare se prima non avesse parlato con Pasquale Condello, all’epoca detenuto presso il carcere di Reggio Calabria, col quale avrebbe avuto un colloquio il lunedì successivo (il 14 ottobre, nda)».

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    Pasquale “il Supremo” Condello

    «Fu per detta ragione – continua Lauro – che Paolo De Stefano si spostò liberamente quel fatidico 13.10.1985, quel giorno in cui non si aspettava di essere colpito dai Condello, avendo interpretato nelle parole di Giovanni Fontana un impegno a non iniziare le ostilità prima che Pasquale Condello desse la sua risposta. Lo stesso itinerario seguito dal De Stefano che transitò dinanzi alla casa dei Condello nel rione Mercatello di Archi dimostra la sua totale tranquillità e l’assenza di qualsiasi precauzione almeno sino al lunedì successivo».

    La morte di Paolo De Stefano

    La situazione, dunque, sembra essere chiara. Paolo De Stefano era tranquillo non solo perché vigeva una sorta di “tregua armata”, come descrive Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello. Ma anche perché aveva già avuto assicurazioni dal boss della Piana di Gioia Tauro, Nino Mammoliti, circa la fedeltà dei Condello e dei Fontana. Nella circostanza, contrariamente al solito, non seppe ben valutare i suoi avversari.

    È una piovosa domenica pomeriggio. La Honda con in sella Paolo De Stefano e Antonino Pellicanò sfreccia lungo via Mercatello, nel cuore del rione Archi. Quello è il loro ultimo viaggio in moto. A un tratto, proprio nelle vicinanze dell’abitazione della famiglia Condello, una raffica di pallottole li investe. Colpisce prima Pellicanò, che è alla guida. La moto sbanda, i due passeggeri cadono a terra, gli assassini continuano a sparare. L’esecuzione di Paolo De Stefano avviene mentre il boss è per terra e inveisce contro gli assalitori.

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    Archi, Reggio Calabria

    Sul luogo del duplice delitto vengono rinvenute dieci cartucce per fucile da caccia calibro 12 e sei bossoli di pistola calibro 7,65 parabellum. Gli stessi resti verranno trovati all’interno della Fiat Ritmo, utilizzata dai killer per la fuga e distrutta dalle fiamme sul greto del torrente Malavenda.
    A circa cinquanta metri di distanza dai corpi di De Stefano e Pellicanò si trova, riversa per terra, la vespa bianca del figlio di don Paolino, Giuseppe, utilizzata probabilmente come “staffetta”. Giuseppe De Stefano ai tempi non ha nemmeno sedici anni. Sarà arrestato il 10 dicembre del 2008 dalla polizia, dopo cinque anni di latitanza. È proprio lui il nuovo “Crimine” della ‘ndrangheta.

    La guerra di ‘ndrangheta

    Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna in Corte di Cassazione.
    L’assassinio di Paolo De Stefano, comunque, è il punto di non ritorno. L’omicidio del boss più potente della città, infatti, squarcia in due il cielo della ‘ndrangheta reggina, ma non solo. Con la famiglia De Stefano, orfana del proprio leader, si schierano le cosche Libri, Tegano, Latella, Barreca, Paviglianiti e Zito. Assai composita anche la fazione degli Imerti, con cui si schierano i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice.

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    L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti

    Reggio Calabria, ben presto, si trasforma in un campo di battaglia. Numerosi morti, anche nell’arco della stessa giornata. La città vive in un clima infame. La gente, anche quella perbene, ha paura per i propri bambini. Chiunque teme di rimanere coinvolto, inconsapevolmente, in uno dei tanti agguati giornalieri. I boss si guardano le spalle, si nascondono nelle proprie ville, nei nascondigli, veri e propri bunker. I capi sono introvabili. E allora ci vanno di mezzo i gregari, ma anche chi con la ‘ndrangheta non c’entra nulla. Le cosche colpiscono proprio tutti. La gente ha paura di uscire fuori di casa dopo una certa ora. C’è il coprifuoco, proprio come nelle zone di guerra.
    Alla fine, si conteranno oltre 700 morti sul selciato. Il primo, proprio come lui voleva essere, fu proprio Paolo De Stefano.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    Caro ‘ndranghetista ti scrivo, ma da distrarsi c’è molto poco.
    Nella generalizzata incapacità analitica che caratterizza gli organi di potere e alcuni organi di stampa, italiani e non, non sorprende che a fare presagi sull’anno che verrà, quando si tratta di criminalità organizzata, ci si confonda soltanto.
    Da una parte, è ormai consolidata una retorica per cui certa parte della criminalità organizzata – primariamente la ‘ndrangheta calabrese – onnipresente e onnivora, sia praticamente indomabile. E, dunque, a che serve fare pronostici?

    Dall’altra, la difficoltà a mettere ordine tra dati, tendenze e orientamenti occasionali di mercati illeciti, che dipendono da tante variabili sovrapposte e sovrapponibili, chiama in causa i ricercatori. Che, si sa, non comunicano sempre molto bene o non sono chiamati a farlo da chi poi si occuperà di comunicazione o politiche di massa. E, dunque, come ci si può districare tra i mille dati, spesso contraddittori?

    Cinque elementi da considerare nel 2023

    Il mondo cambia poi troppo velocemente, tra pandemie, guerre, nuovi e vecchi volti della politica mondiale. E i fenomeni sociali sono un po’ come le funzioni matematiche: una scatola che collega vari elementi, in dipendenza tra loro. Se aumentano gli elementi in campo, i fenomeni sociali – sì, anche la mafia – si atteggeranno e si manifesteranno diversamente. Ma questo non ci esime, al volgere del nuovo anno, dal guardare al futuro. E, una volta tirate le somme di quello appena trascorso, da quelle somme immaginare l’anno che verrà.

    L’anno che verrà per la ‘ndrangheta è un anno schizofrenico. Come schizofrenica è la realtà che circonda clan, favoreggiatori, e tutta la popolazione che sta intorno ai clan – sia in supporto che in contrasto. Ci sono però almeno cinque elementi da considerare nel 2023, ognuno dei quali può cambiare la mafia calabrese, fermarne quanto agevolarne gli affari e il potere locale e internazionale.

    Il mercato della cocaina cambia

    Primo fra tutti, il mercato della cocaina che in questi ultimi anni – tendenza assolutamente confermata nel corso del 2022 – è sicuramente cresciuto. Cresciuta la produzione nei paesi dell’America Latina – fino a oltre 4 volte in più rispetto a cinque anni fa – e cresciuta l’importazione e il consumo in Europa. Riporta l’EMCDDA (European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction) di come siano aumentate le confische nei porti europei. E come, secondo i dati di Europol, oltre il 40% dei gruppi criminali attivi in Europa si occupi di narcotraffico, in cui la cocaina è regina. Sono tante le rotte della cocaina e ancora di più gli snodi per la distribuzione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    I trend del mercato della cocaina portano a un incremento degli attori criminali e a quella che in principio era apparsa come una frammentazione del mercato, ma che, guardando meglio, ha anche dei tratti di segmentazione. Più attori si occupano di momenti diversi nel mercato in questione (produzione, importazione, traffico, distribuzione) ma al contempo esistono più attori in generale che si occupano di quello stesso nodo. In altre parole, laddove per anni (decenni?) si è raccontata una ‘ndrangheta (indistinta) leader incontrastata nel mercato della cocaina, questa leadership è oggi sicuramente condivisa con altri gruppi criminali in Europa come nel mondo. E, soprattutto, più che una leadership si tratta di una compartecipazione con sodalizi multi-etnici e transfrontalieri.

    Ciò non significa meno soldi per i clan, ma meno potere di influenzare questo mercato criminale rispetto a quello che spesso si racconta. L’anno che verrà testerà i clan di ‘ndrangheta attivi nel mercato della cocaina. Quelli capaci di adattarsi a partnership composite e caratterizzate da cambiamenti repentini riusciranno a mantenere i profitti e margini di manovra. Altri invece, se arrancheranno in questi sodalizi, dovranno pensare a piani B.

    Classici intramontabili

    Da non sottovalutare poi, in seconda battuta, il cambiamento che nuove partnership e sodalizi di diversa natura, origine e destinazione, possono poi portare per i vari clan mafiosi calabresi. A caratterizzare l’anno che verrà sarà una diversificazione interna alle ‘ndrine. Aspettiamoci i gruppi criminali storici, dalla Piana all’Aspromonte, impegnati a mantenere il proprio potere locale ‘chiudendosi’ nelle loro pratiche storicamente vincenti, dalle estorsioni all’assistenza locale o anche alla ‘beneficienza’ mafiosa. Questo potere locale non sempre direttamente collegato al potere affaristico internazionale, ma indirettamente a esso propedeutico, permetterà la sopravvivenza e il superamento delle ‘intemperie’ portate dal mutamento dei mercati criminali e dall’attività delle forze dell’ordine.

    Il brand ‘ndrangheta

    Aspettiamoci però anche clan più ‘spuri’, nuovi o di nuova ‘gestione’ che si attaccheranno al brand ‘ndrangheta perché conviene, ma che della ‘ndrangheta non sempre avranno pedigree, (finti) onori e disonori. Lo abbiamo visto nel 2022. E lo vedremo molto probabilmente nel 2023: clan dai cognomi (calabresi) semi-sconosciuti, impegnati in attività locali, che cercano (e spesso ottengono) di ‘diventare’ ‘ndrangheta in Calabria come altrove, per fare salti di qualità possibili solo con un brand forte. Questi ultimi piacciono tanto a certi media o a forze dell’ordine poco avvezzi a farsi domande sul “controllo qualità” nel crimine organizzato mafioso.

    Tradizione e innovazione

    Nuovi e vecchi mercati, recenti e soliti attori, altro non sono che la conferma della tendenza numero tre, che esiste da sempre nella mafia calabrese (e non solo): la tensione tra tradizione e innovazione. Le nuove generazioni di ‘ndranghetisti – proprio come le nuove generazioni di non ‘ndranghetisti in Calabria – alternano consuetudini e mutamento. Il passato, la memoria, la reputazione e la storia dei clan sono parte della pedagogia della mafia e del suo potere sul territorio.

    Ma il business, il denaro, i cambiamenti tecnologici, richiedono menti abili a gestire il cambiamento, a usare telefoni criptati (pensiamo a Encrochat, SKYECC, AN0M) quanto a parlare le lingue, a ‘leggere’ la realtà dei mercati, a sapersi godere la vita senza dare nell’occhio nell’era dei social. Insomma, l’anno che verrà testerà le famiglie di ‘ndrangheta come tante altre famiglie: sapranno i figli fare meglio dei padri, e allo stesso tempo con altrettanto successo?

    La cooperazione internazionale

    Da ultimo, da non sottovalutare sono altre due tendenze che riguardano il mondo dell’antimafia e del contrasto ai traffici illeciti internazionali. Sicuramente il mondo della cooperazione internazionale ha recentemente messo la ‘ndrangheta al centro come forse si era fatto in passato solo con cosa nostra tra Sicilia e Stati Uniti e con altri clan, come il cartello di Cali in Colombia. Interpol con la sua unità I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta) colleziona arresti eccellenti, come Rocco Morabito, e operazione transfrontaliere antidroga e antiriciclaggio, come quella che ha portato all’arresto di tre donne polacche accusate di aver facilitato clan mafiosi nell’est Europa nel dicembre scorso.

    brasile-morabito-re-coca-salvato-salvato-estradizione-italia
    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Europol non è da meno, con operazioni imponenti, coordinate spesso con Eurojust, la procura europea, della portata di Petrolmafie, nel 2021, ma anche indagini nazionali, specialmente quando si tratta di grosse quantità di stupefacente, come nel caso di oltre 4 tonnellate di cocaina a Gioia Tauro nell’ottobre 2022.

    Se da una parte questa è cosa buona e giusta, non sempre è fonte di salvezza: l’elevazione della ‘ndrangheta a minaccia globale porta anche con sé il germe dell’incomprensione del fenomeno tra media e autorità estere e del suo conseguente ‘annacquamento’ su scala globale. Si perdono di vista le specificità dei clan e si favorisce un discorso generico e di facile consumo.
    Nell’anno che verrà ci si può aspettare sia l’aumento dell’incomprensione che dell’annacquamento su scala transnazionale, ma anche una maggiore capacità delle forze dell’ordine di raggiungere capitali e latinanti in giro per il mondo, e di coordinare risposte di contrasto.

    Mafie e Governo Meloni

    Last but not least, come si dice, ultimo ma non per importanza, si deve fare riferimento alla schizofrenia nazionale in tema di contrasto alla mafia, a firma del governo Meloni (e in parziale continuità con altri governi precedenti). Alzare il tetto del contante da un lato, il condono del reato di evasione fiscale dall’altro (della serie se lo stato scopre che non paghi le tassi te le fa pagare ma ti condona il reato), l’auspicato e temuto programma di limitazione delle intercettazioni e dell’abolizione dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, nonché la riforma delle prescrizioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione, sono tutti punti in agenda di questo governo che nel 2023 rischiano di tradursi in politiche di matrice regressiva sul fronte della lotta alla mafia e alla corruzione, e che facilitano l’illegalità e l’informalità degli scambi illeciti.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Se da una parte la legge di bilancio e i provvedimenti annunciati accrescono le disuguaglianze sociali e portano solo più pressione proprio in quelle aree del paese che di più hanno bisogno di politiche di sviluppo, l’europeismo di facciata del governo Meloni non aiuterà a combattere quella tendenza che è al cuore della mafia, e soprattutto della mafia calabrese, e cioè lo sfruttamento dei canali dell’economia legale, nazionale e non, per ripulirsi dalla sporcizia dei reati di droga e di estorsione.

    Repressione e voti

    In altre parole, è conveniente e populisticamente efficace iniziare il 2023 dicendo che la ‘ndrangheta è potenza europea e internazionale, e dunque ha bisogno di una risposta efficace in Italia e di cooperazione con tutti i paesi dell’Unione e oltre. Aiuta a creare paura questa retorica, nutrita di orgoglio in negativo per la mafia più potente del mondo; questo, in seguito, aiuterà ad attirare voti in favore della repressione. Ma se poi in pratica si vanno a indebolire proprio quegli strumenti nazionali che permettono di intercettare la crescita economica di quei clan che hanno la fortuna di avere successo nei mercati illegali mondiali, ecco che allora l’anno che verrà in fondo per questa mafia così drammatico – almeno in casa – potrebbe non essere.

    Di certo, l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, e quelli che oggi sono solo tendenze e pronostici potranno essere dati più o meno riscontrati o smentiti dai fatti. Ma c’è poco da rilassarsi.

  • Un dicembre che brucia troppo a Fuscaldo

    Un dicembre che brucia troppo a Fuscaldo

    Uno scuolabus in fiamme non è solo inquietante. Ricorda scenari di guerra. Al di là delle cause non ancora accertate, c’è un valore simbolico per l’uso quotidiano del mezzo: trasporta bambini. Gli stessi che ne hanno, probabilmente, visto lo scheletro fumante infine rimosso dalla strada. Solo poco tempo fa sempre uno scuolabus era stato preso di mira da vandali. Entrambi i mezzi sono in uso a una ditta privata. Lo conferma il sindaco Giacomo Middea a ICalabresi.

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    Il piccolo camion con gli aghi di pino andati in fiamme a Fuscaldo

    Mercoledì scorso l’ultimo e strano episodio: bruciano improvvisamente gli aghi di pino nel cassone di un piccolo furgone di proprietà del Comune. Era parcheggiato nel cortile di una scuola media. Mesi fa, invece, sono state squarciate le gomme di un mezzo destinato al servizio di raccolta dei rifiuti. Fatto già accaduto pochi anni fa. Una serie di eventi uniti dal fatto di essere tutti avvenuti a Fuscaldo, cittadina sul mar Tirreno tagliata a metà dalla Statale 18.

    Una “rompiscatole” a Fuscaldo

    Nel silenzio quasi generale spunta Annamaria De Luca. Dopo 20 anni vissuti a Roma, vince un concorso da dirigente scolastico e torna a Fuscaldo. Lavora proprio nella scuola primaria intitolata a sua zia, Angela Maria Aieta, desaparecida durante la dittatura della giunta militare di Videla in Argentina. Annamaria è una di quelle che tanti in paese considerano una “rompiscatole”. Perché non si gira dall’altra parte e fa dell’impegno civile un valore non negoziabile.
    E lei quando vede l’autobus in fiamme avvia subito una diretta su Facebook sollevando il caso. Da giornalista, collabora anche con La Repubblica e il Sole 24Ore, conosce bene la potenza di un messaggio lanciato sui social.

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    Annamaria De Luca, dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo di Fuscaldo (foto Alfonso Bombini)

    «Nemmeno Libera parla»

    «I carabinieri indagano, ma una presa di posizione dei cittadini me l’aspettavo. A parte Italia Viva, nessuno ha inteso dire qualcosa, nemmeno Libera». La dirigente scolastica prova a spiegare cosa succede: «È veramente uno scenario non europeo, di un paese in guerra. Forse c’è una guerra che noi non vediamo, forse siamo in guerra. Di certo devono tenere fuori da questa merda i bambini, loro non c’entrano niente. Non posso permettere che vedano scene di questo tipo. Cerchiamo di dare speranza ai ragazzi, facciamo il giardino dei giusti e l’Aula natura, e poi si trovano di fronte a un’immagine del genere. È disarmante».
    Il Giardino dei giusti è stata una sua idea. Lo ha inaugurato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri nel 2020. Anche questo presidio di legalità ha subito un attacco da parte di ignoti che hanno tagliato gli alberi.

    Le parole del sindaco

    Giacomo Middea viene da Alleanza nazionale. Un passaggio con il Pdl e poi il transito in Forza Italia. Avvocato penalista, da un anno e tre mesi è sindaco di Fuscaldo con una civica di centrodestra. Non si fa mancare un esponente del Pd in maggioranza.
    Sulla questione dello scuolabus in fiamme pronuncia delle parole chiare: «Al momento non abbiamo certezze sulla natura di questo atto. Ma dubito si tratti di autocombustione. Se fosse un gesto doloso sarebbe orribile perché colpisce studenti e ragazzi. Immagini terribili. Siamo pronti a costituirci parte civile se in futuro dovessero essere accertate eventuali responsabilità. Lo faremo immediatamente».

    Il sindaco di Fuscaldo, Giacomo Middea (foto Alfonso Bombini)

    «Intervenga la Direzione distrettuale antimafia»

    Middeo fa il suo mestiere: il primo cittadino. Sa che Fuscaldo è un territorio “caldo”, non più di molti altri paesi lungo la costa.
    Ma non ci sta quando qualcuno vuole dipingere la sua comunità come una terra in piena emergenza criminalità. Non nega la sua presenza. Anzi: «L’inchiesta Tela del Ragno più di dieci anni fa ha allungato i riflettori su questo comune perché c’erano alcune consorterie ritenute tali dalla Dda che operavano ed erano nate nel nostro territorio. Sono fenomeni ad oggi isolati. Mai, però, abbassare la guardia».

    In più circostanze dice di «avere chiesto pubblicamente che fosse implementato il numero di carabinieri a Fuscaldo» e invocato l’arrivo «della magistratura per impedire che determinati fenomeni di malavita organizzata che oggi sono isolati possano diventare consolidati». Le sue parole diventano ancora più perentorie: «Urge un intervento deciso della Direzione distrettuale antimafia». Basta solo questo per capire che il clima non è dei migliori a Fuscaldo. Malgrado i quasi 20 gradi di un dicembre molto caldo. Forse troppo.

    Un tratto del lungomare di Fuscaldo (foto Alfonso Bombini 2022)
  • MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

    MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

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    Quando un giorno di dicembre ci si sveglia con i titoli dei giornali della seguente tipologia “Estorsioni a Manhattan: 18 arresti nel crotonese”, ci si aspetta – prima ancora di capire di che notizia si tratti – che gli arresti del crotonese siano collegati ad arresti a New York. Oppure che ci sia evidenza di estorsioni da parte di soggetti del crotonese a Manhattan. Suona un po’ inusuale, ma sicuramente sarebbe una gran notizia. Ma cosa significa che la ‘ndrangheta, un qualche clan di ‘ndrangheta, effettua estorsioni a Manhattan? Il 19 dicembre, una volta uscita la notizia, dettagli su estorsioni a Manhattan non compaiono né sui giornali né nelle carte dell’operazione. Men che meno tra le notizie americane: non ci sono arresti, indagini, niente di niente, a New York.

    Il 19 dicembre, gli arresti a Rocca di Neto sono tutti concentrati sulla realtà crotonese. Nel corso di quel giorno, aspettando documenti dalle procure e giornalisti che iniziano a raccontare la vicenda, si comprende che gli arresti a Rocca di Neto sono legati ai clan mafiosi, di matrice ‘ndranghetista, e soprattutto alla famiglia Comito-Corigliano, legata a doppio filo al gruppo mafioso Iona-Dima e al locale di Belvedere Spinello, oggetto di plurime risultanze processuali sin dagli anni ’80, «coordinato e diretto da Iona Guirino dal carcere il quale agiva anche all’esterno mandando direttive (tramite il figlio Iona Martino) ai sodali» come si legge già in una sentenza del Tribunale di Crotone già nel 2006.

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    Rocca Di Neto, teatro della recente operazione della Dda di Catanzaro

    Le relazioni pericolose

    Negli atti dell’operazione, riportati su Il Fatto Quotidiano a firma di Lucio Musolino, poi su altri canali nazionali e locali, fino al giorno di Santo Stefano con ulteriori dettagli da Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud, si legge poi che è proprio al clan Iona di Belvedere Spinello e al clan Corigliano di Rocca di Neto, che farebbero riferimento alcuni soggetti dimoranti da tempo a New York e particolarmente nell’area di Long Island. Si tratta di soggetti attenzionati dall’FBI di New York, per ora a livello investigativo, come Teodoro Matozzo, detto Terry, coinvolto con la criminalità organizzata locale – famiglie Gambino e Colombo si dice – e garante dei servizi in tema di estorsioni a un imprenditore newyorkese.

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    Uno scorcio suggestivo della Grande Mela, dove la ‘ndrangheta prospera grazie a Cosa Nostra

    Matozzo, ponte tra la criminalità locale e alcune nuove (e vecchie) leve calabresi a New York, avrebbe incaricato il gruppo criminale calabrese dei rocchitani di compiere ulteriori estorsioni a danno di imprenditori residenti nello Stato di New York, dopo un’estorsione andata a buon fine. Tale gruppo e il loro piano estorsivo sono diventati dunque oggetto di indagine da parte dell’FBI dal marzo del 2020 – in collaborazione con le nostre procure antimafia tramite I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta) e avevano portato anche a osservare le relazioni tra altri soggetti negli Stati Uniti, lì dimoranti o in visita.

    Estorsioni e unità a New York

    Tra questi, Ernesto Toscano, di Rocca di Neto, che grazie a Matozzo aveva iniziato a frequentare New York con vari intenti, alcuni dei quali criminali, come ad esempio cambiare assegni a nome di una società locale appartenente ad alcuni “amici” per liquidità pari a quasi un milione di dollari. Tra chi ha un negozio di compro-oro e cambio-assegni, e chi gestisce imprese di pitturazione o imprese edili, la comunità della zona della Valle del Neto fa cerchia e sostiene i conterranei, vecchi e nuovi. Molti dei soggetti menzionati in questa operazione e indagine hanno business o dimora nelle zone di Franklin Square e Glen Cove, nella Nassau County a Long Island – a est di New York City.

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    Una mappa di New York e Long Island

    Insomma, dicono le carte e raccontano i giornalisti che in questa operazione e indagini collegate, grazie al coinvolgimento dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia americano, si conferma «l’esistenza di un gruppo unitario di ‘ndrangheta operante nell’area di Long Island, direttamente riferibile ai clan Corigliano di Rocca di Neto e Iona di Belvedere Spinello». Ma, dunque, cosa significa che la ‘ndrangheta di Belvedere Spinello e Rocca di Neto, ‘offre’ estorsioni a Manhattan?

    La ‘ndrangheta come manovalanza di chi comanda davvero

    Di base, significa, che questa ‘ndrangheta viene usata come manovalanza per organizzazioni criminali autoctone – principalmente famiglie di Cosa nostra americana – che si ritengono, o sono ritenute, superiori, al punto da poter commissionare ai rocchitani i servizi di racketeering, cioè protezione ed estorsione. È dunque una ‘ndrangheta riconosciuta in territorio statunitense, sebbene criminalmente – nella gerarchia del crimine organizzato – su un gradino inferiore.

    Si parla spesso di ‘ndrangheta globalizzata, come se fosse in qualche modo quasi un “merito” della criminalità organizzata calabrese riuscire a inserirsi in altre realtà criminali e non. E ancora ci si sorprende che l’antimafia italiana e l’FBI facciano operazioni di contrasto comuni (ricordiamo che in realtà ciò accade dai tempi di Pizza Connection con Giovanni Falcome…). Ma da un punto di vista analitico si sa che la globalizzazione del crimine organizzato è effetto collaterale della mobilità del capitalismo: mobile è il capitale, mobile è l’individuo, mobile la comunicazione, mobile è anche l’azione di contrasto.

    È dunque da considerarsi normale – nel senso di atteso, previsto e prevedibile – sia che clan mafiosi facciano affari all’estero, sia che le autorità si adoperino per cooperare e stopparne le attività. È da considerarsi normale attività da mondo globalizzato che si utilizzino le asimmetrie giudiziarie e finanziarie tra Stati Uniti e Italia per spostare i soldi da una parte all’altra e ricavarci qualcosa anche illecitamente. Normale è che da New York si telefoni a Catanzaro sperando di riuscire a coordinare indagini e azioni di polizia.

    Controllo del territorio a New York

    Ma in questo caso a New York ci sono le estorsioni, che non sono “banali” attività criminali da mafia globalizzata. Non si tratta qui solo di iniziative di sfruttamento di contesti diversi e opportunità illecite e di arricchimento all’estero – che pure ci sono. Le estorsioni a imprenditori locali nella città statunitense (effettive o tentate) denotano un certo grado di controllo del territorio – fisico quanto virtuale o settoriale – e soprattutto un gruppo che sul territorio vuole rimanere e si dimostra intraprendente.

    Matozzo e i suoi sodali, per quanto nati in Calabria, questo controllo sembrano avercelo o mirano a consolidarlo perché sono americani sia nello spazio di azione che per la loro rete relazionale. Vengono definiti gruppo di ‘ndrangheta per origini e per collegamenti alla Calabria, ma di fatto sono molto di più. È il loro essere non solo calabresi, ma anche e soprattutto newyorkesi, a renderli capaci di sfruttare al meglio le varie sfaccettature dei possibili scenari illeciti.

    Più americani che calabresi

    Non è il loro essere ‘ndrangheta – qualunque cosa questo implichi – a renderli capaci di offrire servizi di racketeering; è grazie alla dimestichezza con l’economia legale della città americana e ai contatti con le famiglie criminali di Cosa nostra americana che questo gruppo di migranti riesce a cooptare calabresi sbarcati oltreoceano con visto turistico da impiegare in non meglio precisate attività, tra cui verosimilmente lavoro in nero e/o manovalanza criminale in varie aree della Grande Mela. Ad esempio, parrebbe che il gruppo avesse ideato la possibilità di estorcere imprenditori grazie anche all’attività (legale) della moglie di Matozzo, riconosciuta dalle Camere di commercio newyorkesi.

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    Le cinque famiglie di Cosa nostra amaericana (foto Marianne Barcellona, Irpimedia)

    C’è poi un altro dato da considerare in questa vicenda. L’elemento interessante per l’analisi dei fenomeni criminali in questo caso riguarda soprattutto l’assetto criminale della città americana. A New York – come già detto – non può entrare la ‘ndrangheta dalla Calabria a gamba tesa, o chiunque altro, se non per offrire servizi necessari per il crimine organizzato, ma di “derivazione” o su “commissione” di gruppi locali già radicati – protezione, estorsione, distribuzione di sostanze stupefacenti. Esiste un brand più forte, quello di LCN (La Cosa Nostra – americana) con le cinque famiglie, Gambino, Genovese, Colombo, Bonanno, Lucchese che sopravvivono (a fatica, comunque) grazie a un’identità acquisita e consolidata da decenni, a cui gli altri, italiani e calabresi arrivati oggi come 40 anni fa, si legano.

    In trasferta è un’altra cosa

    I cinque cognomi – intorno a cui FBI e NYPD (New York Police Department) organizzano il loro lavoro da oltre quarant’anni – sono ormai cognomi tipici dei casati reali, non più indicativi della loro leadership (non c’è un Genovese a capo o nelle fila della famiglia Genovese per dire) ma chiaramente riconoscibili da esterni e interni. Che un gruppo di calabro-americani possa offrire servizi di protezione ed estorsione ad affiliati di una o più delle cinque famiglie, conferma che i clan calabresi – quelli in Calabria – sanno giocare la partita, sanno adattarsi ai campi da gioco, vogliono giocare fuori casa, ma non sempre sono i campioni in carica nelle trasferte.

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    E ci fa riflettere sul fatto che anche quando si tratta di attività che riguardano il territorio – tipo le estorsioni – la presenza e la partecipazione della ‘ndrangheta all’estero è dipendente dagli assetti criminali locali: sono effetto della globalizzazione la mobilità e la fama della mafia calabrese, ma non il successo oltremare.

  • MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    Gli arresti di ‘ndrangheta a Rocca di Neto del 19 dicembre hanno fatto parlare anche per la collaborazione tra le forze di polizia italiane e quelle statunitensi. L’FBI avrebbe infatti fornito delle informazioni cruciali per l’operazione crotonese su legami tra presunti ‘ndranghetisti e controparti newyorkesi.
    Di questa operazione, una volta chiariti i dettagli, si potrà parlare più specificatamente. Perché sì, la ricerca accademica – condotta sia sul campo che su fonti aperte – può fornire analisi del caso e degli scenari a esso connessi che non sempre le notizie di cronaca possono mettere in luce. Eppure, questo bacino di conoscenza che la ricerca scientifica offre, non è, in Italia, considerato sistematicamente nella produzione di conoscenza istituzionale.

    La Commissione Antimafia si congeda

    Che a molte autorità e istituzioni italiane non piaccia la ricerca è forse un dato che non fa notizia. Ma quando questa ignoranza volontaria diventa ragione per missioni istituzionali, che oltre ad avere un costo elevato, producono risultati banali e superficiali, bisognerebbe forse chiedersi cosa ci sia alla radice di questo difficile rapporto con la ricerca. È questo il caso degli ultimi rapporti della Commissione Parlamentare Antimafia uscente, che, a differenza di alcune Commissioni passate e nonostante il potenziale valore compilativo, deludono ricercatori e addetti ai lavori.

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    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E mentre aspettiamo le nomine per una nuova Commissione, usiamo questi ultimi momenti del 2022 per fare un bilancio di quella appena morta e che per gli ultimi 4 anni ha portato avanti – o avrebbe dovuto portare avanti – il lavoro di ricerca, analisi e disseminazione sul fenomeno delle mafie e dei fenomeni a esse collegate in Italia.
    Sicuramente il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia, istituita nel 1963, ha un ruolo di rilievo; una voce istituzionale – a volte più sommessa, a volte urlante – che negli anni ha contribuito a sistematizzare la conoscenza sulla criminalità organizzata nel nostro paese e punto di riferimento dall’estero per qualunque forza politica e autorità voglia un confronto sul tema.

    Passato e presente

    Gli archivi della Commissione sono poi tesoro inestimabile per ricercatori e addetti ai lavori. È la continuità della memoria storica che la Commissione rappresenta a darle, oltre ai singoli lavori e rapporti, il suo valore istituzionale, legislatura dopo legislatura. È ruolo della Commissione, infatti, oltre a preservare la memoria istituzionale, anche dare nuovi indirizzi per analisi innovative.
    La Commissione può arrivare laddove molte ricerche non possono arrivare, o non possono arrivare in breve tempo. Questo vantaggio fa sì che in passato alcuni lavori della Commissione – ad esempio quella presieduta da Rosy Bindi, che ha prodotto rapporti innovativi e fruibili come quello su Mafia e Massoneria – siano diventati punti di riferimento e di partenza, nonché spunti di ricerche, per gli anni a venire.

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    Una seduta della Commissione Antimafia ai tempi in cui a guidarla era Rosy Bindi

    Ecco perché, quando una Commissione Parlamentare Antimafia uscente pubblica la sua relazione di chiusura – approvata, in questo caso, quest’estate ma resa pubblica solo in autunno nei suoi contenuti – il ricercatore va a leggerla con aspettative e attenzione.
    Ma che succede se il ricercatore o la ricercatrice in questione si dimentica di avere comunque a che fare con forze politiche, fatta di politici – quelli degli ultimi anni poi – e non di esperti? E se poi si dimentica di alcune vicissitudini personali di alcuni membri della Commissione in questi anni, che hanno ‘distratto’ dal lavoro? Ecco, il ricercatore o la ricercatrice potranno effettivamente rimanere delusi.

    Niente di nuovo sul fronte criminale (o quasi)

    Nei rapporti che compongono la relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia uscente al dicembre 2022, c’è davvero poco di nuovo. Anzi, non c’è praticamente nulla di nuovo. Fatta eccezione per il valore della sistematizzazione di alcuni fatti da un lato – ad esempio la relazione sulla visita nei distretti di Catanzaro e Vibo Valentia, in seguito alla risonanza mediatica del processo Rinascita-Scott – e l’attenzione posta su alcuni temi – si veda il rapporto su criminalità organizzata e porti, a seguito dei sequestri di cocaina o a processi che guardano (ancora!) al rapporto tra mafia e massoneria – il contenuto analitico di questi rapporti rimane superficiale.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    Eppure, si tratta di rapporti spesso molto densi: quello sui porti è lungo 65 pagine ed è il risultato di una serie di interviste con forze dell’ordine e presidi di sicurezza portuale. Nessuna menzione della ricerca accademica, che, per quanto non nutritissima sul tema di criminalità in ambito portuale, si è focalizzata proprio sui due porti di cui la Commissione si è occupata, Genova e Gioia Tauro con dati spesso più ‘freschi’ di quelli analizzati dalla Commissione.

    A che pro?

    Insomma, un occhio attento vede tre caratteristiche ricorrenti in questi rapporti:

    • la ‘rincorsa’ del tema del momento;
    • l’assenza di analisi indipendente;
    • l’assenza di coinvolgimento della ricerca.

    Tra l’altro, emerge chiaramente che c’è un problema con l’accademia: solo 2 le audizioni di docenti universitari dichiarate dalla Commissione (a fronte di 18 magistrati e 17 funzionari pubblici per esempio), sui temi dell’usura e sui risultati di una ricerca compilativa, sicuramente utile per la Commissione ma poco utilizzata nella pratica, L’Università nella lotta alle mafie.

    Emerge una questione cruciale: quale valore hanno missioni e rapporti di approfondimento su temi specialistici che ignorano lo stato dell’arte della ricerca, sia accademica sia di ricognizione sistemica delle fonti aperte, sui temi prescelti, quando i risultati che si ottengono da tali missioni e per questi rapporti si rivelano datati, carenti e soprattutto non dicono niente di nuovo?

    La Commissione Antimafia sbarca in America

    Prendiamo – nell’ambito dei lavori svolti dalla Commissione uscente – proprio la relazione sulla missione a New York e a Washington dal 13 al 18 gennaio 2020. La relazione è di 27 pagine. Si prefigge, come detto nella sua introduzione «un obiettivo conoscitivo» sui «profili generali concernenti il tema della presenza, negli Stati Uniti, di insediamenti della criminalità organizzata di origine italiana, nonché dei rapporti tra la criminalità organizzata locale e quella del nostro Paese». Altri obiettivi erano «analisi e valutazione dello stato di evoluzione della cooperazione giudiziaria e delle relazioni intercorrenti tra autorità italiane e statunitensi, con specifico riferimento alla materia della criminalità̀ organizzata».

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    La Commissione Parlamentare Antimafia all’ONU presso la missione italiana (Foto Twitter @ItalyUN_NY)

    C’erano poi obiettivi di discussione più specifica sulla legislazione di contrasto al terrorismo e sull’attuazione e aggiornamento della Convenzione ONU di Palermo del 2000, contro la criminalità̀ organizzata transnazionale. Cinque giorni intensi per la delegazione italiana della Commissione, in visita alla DEA (Drug Enforcement Administration), all’FBI (Federal Bureau of Investigation), al Department of Justice. Un tour proseguito incontrando procure specializzate tra Washington e New York, per finire con la Rappresentanza permanente italiana presso l’ONU.

    Nelle puntate precedenti

    Quali i risultati di questo viaggio alla scoperta dell’America? Innanzitutto, una descrizione di come funzionano le autorità statunitensi e soprattutto un’analisi della legislazione sia penale che patrimoniale contro il crimine organizzato. E fin qua, si potrebbe anche dire che sia un esercizio compilativo utile, sebbene si potesse, ovviamente, fare comodamente da casa, sui libri scritti sull’argomento e sui siti web appositi.
    Il resto è un riassunto delle puntate precedenti. La DEA che riassume i suoi rapporti annuali – a consultazione aperta sul web – comunicando le ultime novità in merito a chi traffica cosa e soprattutto chi ricicla denaro: informazioni ancora una volta ricavabili da fonti aperte da un qualunque ricercatore.

    Con altre autorità, soprattutto le procure, si parla di casi negli anni precedenti. L’arresto di Ferdinando “Freddy” Gallina, latitante palermitano vicino a Matteo Messina Denaro, a New York nel 2016, per esempio. Oppure le operazioni New Connection, New Bridge, tra il 2011 e il 2014 e Columbus nel 2015, che hanno riguardato indagini sulla famiglia Gambino in Sicilia e in USA e arresti di soggetti residenti a New York connessi alla ‘ndrangheta. O, ancora, operazioni locali contro le cinque famiglie newyorkesi (Bonanno, Lucchese, Colombi, Gambino e Genovese).

    Basso profilo is the new basso profilo

    L’FBI ha poi confermato «un vero e proprio ruolo di superiorità gerarchica che la mafia di New York esercita rispetto alle altre organizzazioni criminali diffuse sul resto del territorio nazionale», altro fatto decisamente noto alla ricerca. Alle organizzazioni criminali italiane si attribuisce un “nuovo” trend – che nuovo non è per niente, basta chiedere a chiunque si occupi del tema – che sarebbe quello di mantenere un basso profilo, senza violenza.
    Si ritiene rilevante – definito «impressionante» – «il numero di siciliani aventi legami con organizzazioni mafiose che ogni anno compiono viaggi nella città di New York», anche questo fatto noto. Soprattutto, già rilevato in connessione al porto di New York.

    ‘Ndrangheta, molto rumore per nulla

    E poi c’è la ‘ndrangheta, ovviamente, immancabilmente. Ancora una volta molto rumore per nulla, però.
    La Commissione ha sentito di come clan di ‘ndrangheta siano stati accertati a New York (Commisso, Aquino- Coluccio, Mazzaferro, Piromalli). Non sorprende, visto che il cosiddetto Siderno Group of Crime è attivo tra Stati Uniti e Canada da oltre mezzo secolo.
    Operazione Provvidenza, poi, aveva dato dettagli sulla presenza dei clan della Piana in un business di prodotti Made in Italy verso gli Stati Uniti nel 2017.
    Che la ‘ndrangheta abbia attivato collaborazioni con le cinque famiglie newyorkesi è anche roba vecchia. Tale collaborazione di fatto esiste da quando il Siderno Group è attivo, come ha fatto plurime volte notare negli anni la Waterfront Commission per il porto di New York e New Jersey.

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    Il porto di New York

    Questo porta poi a raccontare che tali clan di ‘ndrangheta mantengono rapporti con il Canada e con altri gruppi sul territorio, ad esempio in California. Laddove la ricerca sulla ‘ndrangheta in Canada è notoriamente avviata da decenni, la California sembrerebbe dato nuovo, Ma può leggersi nella più ampia considerazione che tra le 5 famiglie almeno una, i Gambino, sono notoriamente legati a Los Angeles e che i collegamenti tra clan sidernesi e i Gambino sono anche li, notoriamente avviati.

    Da ultimo, la Commissione in America ha fatto il punto sulla collaborazione internazionale e sullo stato dell’arte della normativa penale legata alla Convenzione di Palermo e alla possibilità di attivare non solo arresti, ma anche sentenze e pene transfrontaliere.
    Anche stavolta la ricerca a livello europeo è molto attiva a riguardo. E conforta forse vedere come la Commissione arrivi a risultati in fondo simili: le raccomandazioni sulle squadre investigative comuni, sullo scambio di informazioni, sulla formulazione di indirizzi di pena comuni e via discorrendo.

    Commissione Antimafia impreparata?

    Probabilmente molte più cose avranno ascoltato i membri della Commissione Antimafia in missione negli Stati Uniti, cose che non sono scritte in questo rapporto.
    Il problema non è solo di “risultati” scritti, ma di capacità analitica: se non c’è preparazione a monte, come si fa l’analisi dei dati a valle? Se non si assorbe la conoscenza già in circolazione, come si può davvero elaborare la nuova conoscenza?

    E dunque il dubbio ab origine: sono necessarie queste missioni, che di nuovo non solo non dicono nulla, ma mostrano – urlano – con chiarezza l’assenza di interazione con ricerca sul tema e con la conoscenza pregressa che dovrebbe essere la base per tutti gli interessi di approfondimento politico e istituzionale?
    Alla luce anche dell’operazione di Rocca di Neto, questo porta a un’ulteriore dolorosissima domanda: come possono le forze politiche del nostro paese commentare, intervenire, direzionare il discorso pubblico sull’argomento, se di questo argomento sanno solo notizie di seconda mano raccolte in missioni di 5 giorni?

    Errori da non ripetere

    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E speriamo che gli errori dei padri non ricadano sui figli. E che magari, oltre a fare le audizioni di qualche sparuto collega accademico, si scelga – che so – di creare una unità di ricerca più strutturata, capace di ricerca su fonti aperte, in lingue diverse, e già pubblicate (che già aiuterebbe) e anche collegata con chi sul campo – sui campi – della ricerca sulla criminalità organizzata ci sta da anni.