Tag: ‘ndrangheta

  • Droga: testa a testa tra Calabria e Sardegna

    Droga: testa a testa tra Calabria e Sardegna

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    Cocaina: è l’ennesimo record di una certa Calabria. Se positivo o meno, dipende dai punti di vista. Le Forze dell’ordine hanno sequestrato, da noi, oltre una tonnellata di polvere bianca ogni 100mila abitanti di età tra i 15 e i 74 anni. In pratica, il 68% del mercato totale italiano. Questi, almeno sono i dati della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga).

    Calabria vs Sardegna: una sfida tossica

    Calabria e Sardegna si tallonano per il primato assoluto nelle varie classifiche nazionali sugli stupefacenti.
    Infatti, la Sardegna è risultata prima per tonnellate di droga sequestrate in un anno e la Calabria seconda. Ma per la cocaina, evidentemente, il porto di Gioia Tauro fa la differenza, quindi le parti si invertono.
    I dati dettagliatissimi emergono dall’ultima relazione al Parlamento (2022) sulle tossicodipendenze, che fotografa un fenomeno in continuo movimento.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Cocaina e Calabria: il dossier del Governo

    Il dossier, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, prende spunto principalmente dal report annuale della Dcsa e ne integra i risultati con altri documenti che coinvolgono i principali Ministeri (interno, giustizia e salute), tutti gli enti locali, l’Istat, l’istituto superiore di sanità, il Cnr e altre organizzazioni.
    È quindi il dossier italiano più completo in materia di droghe.
    La Direzione centrale per i servizi antidroga è l’ufficio nazionale del Viminale attraverso il quale il capo della polizia assicura, in base alle direttive del ministro dell’Interno, il coordinamento dei servizi di polizia per la prevenzione e repressione del traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope.
    È un organo interforze, costituito in maniera paritetica dalla Polizia, dall’Arma dei carabinieri e dalla Guardia di finanza.

    Droghe: tutti i numeri

    Il 34,1% delle quantità di droghe sequestrate è nelle isole, prevalentemente in Sardegna (kg 23.676, pari al 28% del totale).
    Il 26,8% e il 25,6%, invece, circola, rispettivamente al Sud e al Nord del Paese, in particolare in Calabria e Lombardia. Infine, il 13,4% gira nelle regioni centrali, soprattutto in Lazio.
    I quantitativi di stupefacenti sequestrati, corrispondono, in rapporto alla popolazione residente, a oltre 190 kg ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, con valori che in Calabria superano i 1.000 kg per 100.000 residenti di pari età e in Sardegna raggiungono quasi i 2.000 kg.
    In Calabria sono 15,7 le tonnellate di droghe sequestrate nell’ultimo anno monitorato, (2021), in Sardegna 23. Segue la Lombardia con 12 e il Lazio con 7.

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    La sede della Dsca

    Cocaina: Calabria superstar

    Se si analizzano solo i dati della cocaina il discorso cambia e la Calabria è prima assoluta.
    Il 68% della polvere bianca sequestrata (circa 13,6 tonnellate) è stata intercettata in Calabria. Ma tutto lascia pensare che le Forze dell’ordine hanno trovato solo una parte della coca che circola, in Calabria come altrove.
    I sequestri di cocaina, effettuati presso le frontiere marittime, si riferiscono agli interventi nelle aree portuali del versante occidentale.
    Dal porto di Gioia Tauro, che incide per il 97,5% (13.364,94 kg), proviene la maggior quantità di cocaina. Seguono quelli di Vado Ligure (Savona) (138,29 kg) e di Livorno (kg 118,53).

    Isole e Sud al top

    Al Sud e nelle Isole sono state intercettate grandi quantità di cocaina. Al Nord, invece, le Forze dell’ordine hanno trovato quantità più contenute, legate prevalentemente al mercato dello spaccio.
    In rapporto alla popolazione, in Italia sono stati sequestrati kg 45,3 di cocaina ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, valore che in Calabria raggiunge quasi kg 1.000 ogni 100.000 residenti di pari età. Il dato calabrese è più che evidente, quindi, su 15 tonnellate di droga sequestrate, 13 sono di cocaina.

    Un sequestro di droga

    La cocaina dalla Calabria all’Europa

    Il consumo di coca in Europa cresce costantemente, come ha affermato di recente l’Osservatorio europeo sulla droga.
    Va da sé: quando si parla di cocaina si parla di ‘ndrangheta. Ovviamente e non esistono altri canali di approvvigionamento, a differenza delle altre droghe, se non quelli che passano attraverso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, che ha la capacità di trattare direttamente con i cartelli sudamericani rispetto alle altre organizzazioni. Repressione e prevenzione non bastano mai.

  • MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

    MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

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    Nel novembre del 2022, in Germania, il Tribunale di Costanza ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di Salvatore Giorgi (33 anni) di origini calabresi, cameriere in un ristorante di Überlingen, sul Lago di Costanza. Il tribunale, la cui sentenza è divenuta definitiva questa settimana, ha giudicato Giorgi colpevole di traffico di droga e riciclaggio di denaro e lo ha condannato a un totale di tre anni e sei mesi di carcere (poi ridotta in appello a due anni e cinque mesi).

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    Il tribunale di Costanza

    Come hanno ricostruito i giornalisti di MDR, la cosa notevole di questa sentenza è che Giorgi ha subito la condanna anche per aver sostenuto un’organizzazione criminale straniera. Quale? La ‘ndrangheta.

    La prima condanna “ufficiale” per ‘ndrangheta

    Secondo la ricostruzione di MDR, questa è la prima volta che la Germania giudica la ‘ndrangheta in modo ufficiale in un tribunale. Il paragrafo 129 del Codice Penale tedesco – reato di formazione di un’associazione a delinquere – è stato riformato nel 2017 per facilitare il lavoro delle forze dell’ordine. Ma, come riportato sempre da MDR, le condanne sono ancora molto poche.

    Il paragrafo 129 recita, tra le altre cose:

    «Chiunque costituisca un’organizzazione o partecipi in qualità di membro a un’organizzazione i cui obiettivi o attività siano finalizzati alla commissione di reati punibili con una pena detentiva massima di almeno due anni incorre in una pena detentiva non superiore a cinque anni o in una multa. Chiunque sostenga tale organizzazione o recluti membri o sostenitori per tale organizzazione incorre in una pena detentiva per un periodo non superiore a tre anni o in una multa».

    La norma successiva, 129b, precisa che il paragrafo 129 si applica anche a organizzazioni criminali transnazionali e/o straniere.

    Il primato di Giorgi

    Ecco dunque che Salvatore Giorgi, condannato per reati di stupefacenti, risulta anche condannato – sebbene poco cambi per la sentenza in sé – per favoreggiamento della ‘ndrangheta, per aver sostenuto e supportato la mafia calabrese. La ‘ndrangheta è tutt’altro che sconosciuta in Germania anche a livello giudiziario: ricordiamo che nell’ottobre del 2020, in seguito agli arresti incrociati a livello europeo nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, conosciuta anche come Pollino, è iniziato a Düsseldorf in Germania, un processo contro 14 imputati principalmente per traffico di droga in cui si contestano, tra le altre cose, la partecipazione diretta all’associazione calabrese e suo favoreggiamento. Ma questa condanna a Giorgi è arrivata prima, per un procedimento separato, del 2021, in seguito all’operazione Platinum-Dia, sempre tra Italia e Germania, col supporto di Europol e Eurojust.

    Ristoranti, cocaina e omertà

    La sentenza tedesca ricostruisce l’organigramma dell’organizzazione criminale di San Luca a cui appartiene Salvatore Giorgi, e in particolare il clan Boviciani, noto per il particolare interesse nel traffico di cocaina, oltre che per il radicamento in Germania. Ricostruisce MDR come Salvatore Giorgi lavorasse come cameriere a Überlingen in un ristorante situato direttamente sul lungolago turistico. Gli investigatori considerano questo ristorante e altri due a Baden-Baden e a Radolfzell come appartenenti al gruppo.

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    Agenti tedeschi perquisiscono un ristorante

    Giorgi era anche stato il direttore della società che gestiva il ristorante sul lago di Costanza. Il tribunale, dunque, ritiene che Giorgi abbia sostenuto il gruppo criminale di San Luca nella sua attività relativa ai narcotici. L’associazione ‘ndranghetistica di San Luca viene descritta nei ruoli dei suoi membri. Scrivono i giornalisti Margherita Bettoni, Axel Hemmerling e Ludwig Kendzia, per MDR: «Si parla di una cassa comune di circa cinque milioni di euro; si parla del voto di silenzio tipico della mafia, l’omertà». La ‘ndrangheta, e il clan Giorgi che ne fa parte, diventano per il tribunale l’organizzazione criminale straniera sottostante a una serie di altri reati.

    Canada e ‘ndrangheta

    Se questa è la prima volta che la Germania riconosce la ‘ndrangheta come organizzazione criminale straniera ai fini di una condanna penale, non è la prima volta che ciò accade all’estero. E febbraio è il mese fortunato.
    Il 28 febbraio 2019, la Corte Suprema dell’Ontario condannava Giuseppe Ursino (11 anni e mezzo) e Cosmin Dracea (10 anni) per reati di criminalità organizzata, incluso il traffico di stupefacenti. Tra le altre cose, si imputava ai due di aver trafficato cocaina «a beneficio di, sotto la direzione di, o in associazione con, un’organizzazione criminale, vale a dire la ‘Ndrangheta, commettendo così un reato contrario alla sezione 467.12 del Codice penale».

    In questo caso la norma riguarda un “reato commesso per conto di un’organizzazione criminale” e recita, al comma 1:
    «Chiunque commetta un reato perseguibile d’ufficio ai sensi della presente o di qualsiasi altra Legge del Parlamento a beneficio di un’organizzazione criminale, sotto la sua direzione o in associazione con essa, è colpevole di un reato perseguibile d’ufficio e passibile di reclusione per un periodo non superiore a quattordici anni».

    Boss in pensione

    Soprattutto, «In un’azione penale per un reato ai sensi del comma 1, non è necessario che l’accusa dimostri che l’imputato conosceva l’identità delle persone che costituiscono l’organizzazione criminale». Questa sentenza descrive la struttura e le attività della ‘ndrangheta grazie ad informazioni fornite da un ufficiale dei Carabinieri dall’Italia. Si descrivono le operazioni di questa mafia nella sua versione canadese, e soprattutto la Corona ha sostenuto che Giuseppe Ursino non solo era un membro della ‘ndrangheta, ma era un “boss” locale. Ciò si basava in modo significativo su conversazioni registrate con l’agente di polizia. Giuseppe Ursino ha negato in sede di testimonianza di essere un membro della ‘Ndrangheta e tanto meno un “boss”. Nella sua testimonianza ha ammesso di essersi riferito a se stesso come tale, ma ha detto che si stava vantando solo per provocare l’agente di polizia.

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    Giuseppe Ursino

    Ursino, originario di Gioiosa Ionica, emigrò in Canada a 18 anni nel 1971. I familiari lo descrivono davanti alla corte come «un marito, un padre e un nonno di buon cuore, premuroso e gentile». Questo, però, non gli impedirà di essere considerato un membro apicale della ‘ndrangheta. Non aveva precedenti penali ed era stato titolare di un’attività di distribuzione di prodotti alimentari a ristoranti e sale per eventi, ma al 2019 era in pensione da due anni. Invece i giudici non hanno considerato l’altro imputato, Dracea, un membro dell’organizzazione mafiosa nonostante della sua attività avesse comunque beneficiato la ‘ndrangheta anche perché sapeva chi era Ursino e che ruolo aveva.

    ‘Ndrangheta all’estero: sempre e solo calabrese?

    Due paesi, due sentenze, due normative simili ma non uguali, e sicuramente diverse dalla normativa italiana. Rimane chiaro che laddove sembri ormai fattibile riconoscere la ‘ndrangheta all’estero come “organizzazione criminale straniera” – in Germania, come in Canada – l’appartenenza alla ‘ndrangheta come organizzazione radicata altrove non è ancora realtà. La criminalizzazione della ‘ndrangheta come organizzazione criminale tedesca o canadese, per capirci, non è ancora realtà. La ‘ndrangheta a processo all’estero rimane calabrese e all’estero per ora si punisce solo chi commette reati in supporto agli ‘ndranghetisti calabresi.

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    Beni confiscati al clan calabro-canadese Figliomeni di Toronto

    Se questo è un enorme passo avanti – soprattutto in paesi che hanno uno storico problema di mafia italiana sul loro territorio – denota ancora un’alienazione- alterità del problema – vale a dire, un riconoscimento del problema mafioso come ‘altro’, ‘straniero’ rispetto alla realtà locale. La ‘ndrangheta in Canada e in Germania – per quanto concerne queste sentenze soprattutto – rimane una questione di importazione criminale e non – come invece dimostra la ricerca – un fenomeno altamente legato ai contesti locali. Certo, la ‘ndrangheta è calabrese – ma in Canada è anche canadese, con dei connotati locali, e lo stesso in Germania -e non sempre si manifesta solo come criminalità di supporto.

    L’Italia nelle indagini sulla ‘ndrangheta all’estero

    L’alienazione-alterità giuridica del fenomeno porta a delle difficoltà procedurali, soprattutto quando c’è di mezzo la cooperazione internazionale. Per esempio, in Canada, un’indagine su un presunto ‘ndranghetista – Jimmy DeMaria rischia di andare a rotoli. Il governo canadese vuole espellere DeMaria sulla base di registrazioni ottenute da intercettazioni telefoniche condotte dalla polizia italiana, sostenendo che le registrazioni provano la sua associazione alla ‘ndrangheta. Ma l’avvocato di DeMaria sostiene che queste sono state ottenute illegalmente – perché effettuate su territorio canadese dalle autorità italiane.

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    L’arresto di Vincenzo “Jimmy” DeMaria

    Infatti, fornire le prove dell’associazione alla ‘ndrangheta rimane spesso una faccenda ‘delegata’ all’Italia e non sempre riconosciuta all’estero. In alcuni casi questo porta all’incomunicabilità tra i sistemi giuridici: si pensi al caso della Svizzera che, in seguito ad operazione Helvetia portò a processo alcuni individui che si ‘dichiaravano’ ‘ndranghetisti, parlavano di rituali e anche di estorsione. Li hanno assolti perché non basta raccontarsi mafiosi, se non lo si fa in pratica. Costoro in Svizzera non commettevano reati identificabili come ‘crimine organizzato in supporto della ‘ndrangheta’ dunque il loro essere o dichiararsi ‘ndrangheta non serviva a molto, giuridicamente.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questo per concludere: ottimo il passo avanti della Germania e in bocca al lupo al Canada nelle loro lotte contro la ‘ndrangheta -o, meglio, le ‘ndranghete – all’estero. Ma il fenomeno mafioso all’estero non è sempre e solo ‘straniero’; la ‘ndrangheta non è solo quello che in Italia chiamiamo ‘ndrangheta. Bisogna che i sistemi giuridici internazionali introiettino la propria ‘ndrangheta, o mafia che sia, senza soltanto ‘trasferire’ conoscenza e aspettative dall’Italia.

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    Serve che in altri paesi si capiscano – oltre alle ramificazioni transnazionali – le evoluzioni locali delle mafie, di varia origine. E, soprattutto, i comportamenti mafiosi “migranti” – che saranno parzialmente diversi, e storicamente differenti, in Germania come in Canada. La ricerca già lo fa. In questo senso, ha successo il modello statunitense che ‘legge’ il fenomeno mafioso – siciliano, calabrese, americano, svedese (se esistesse) non importa – come comportamento di “corrupt enterprise” (impresa corrotta) lesivo dell’economia e della politica locale, in seguito a comportamenti penalmente rilevanti per il sistema nazionale. Ma questa è un’altra storia.

  • RITRATTI DI SANGUE | ‘Ndrine e Servizi: la stagione dei sequestri

    RITRATTI DI SANGUE | ‘Ndrine e Servizi: la stagione dei sequestri

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    La vecchia ‘ndrangheta dei don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo, spazzata via dal nuovo che avanza, dalla famiglia De Stefano, soprattutto. Ma anche dai Piromalli di Gioia Tauro. Negli anni ’70 si registra il cambio di passo della ‘ndrangheta. I vecchi capi, ancorati al traffico di sigarette e contrari a quello della droga, cadono uno dopo l’altro. Si apre così una delle stagioni più oscure della storia recente del Paese. Con manovre torbide tra uomini delle ‘ndrine, faccendieri e pezzi dello Stato.

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    Girolamo “Mommo” Piromalli

    La ‘ndrangheta vuole darsi una svolta. È, in particolare, don Mommo Piromalli, leader carismatico di Gioia Tauro, a tracciare la via. E, immediatamente, la seguono in molti. In particolare Paolo De Stefano, boss dell’omonima, potentissima, cosca di Reggio Calabria.

    La lungimiranza di don Mommo mostra alla ‘ndrangheta quanto possano essere redditizi i sequestri di persona (oltre cinquanta dal 1970 al 1978). E, soprattutto, quanto sia conveniente investire i proventi di questi nell’edilizia. È una vera e propria escalation. E, in Aspromonte, segregato, finisce anche Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano.

    Le parole dei pentiti

    «Per quanto mi risulta, la morte di Antonio Macrì ebbe una duplice motivazione: la prima, più generale, dovuta al fatto che egli si opponeva al riconoscimento della Santa entrando per questo in conflitto con Mommo Piromalli; la seconda perché aveva protetto e continuava a proteggere a Mico Tripodo e quindi si era creato quali nemici coloro che si opponevano al potere del Tripodo a Reggio Calabria» dice il collaboratore di giustizia Gaetano Costa, in un interrogatorio del 12 marzo 1994 confluito agli atti dell’indagine “Olimpia”.

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    Don Mico Tripodo

    Un pensiero ribadito anche da un altro pentito, Giuseppe Albanese, nel tratteggiare la nascita della “Santa”, la sovrastruttura della ‘ndrangheta che permette di gestire i rapporti con mondi occulti come quelli della massoneria e dei servizi segreti deviati. «La “Santa” si proponeva qualunque forma di illecito guadagno, la commissione di delitti che in passato la ‘ndrangheta non consentiva (sequestri di persona e traffico di droga) e il santista aveva l’opportunità di avere contatti con esponenti delle istituzioni, contrariamente con quanto avveniva in passato».

    “Due Nasi”

    Personaggio emblematico di questo nuovo modo di fare è ‘Ntoni Nirta, detto “due Nasi” per il suo vezzo di portare sempre con sé un’arma a doppia canna. Nirta sarebbe stato anche un confidente dei carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino, che poi farà grande carriera all’interno dell’Arma dei Carabinieri. Chiaramente entrambi hanno smentito tale circostanza.

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    John Paul Getty III

    Nirta è tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior (nipote del magnate statunitense, ma naturalizzato britannico, Paul Getty), rapito a Roma il 9 luglio 1973, ma viene assolto per insufficienza di prove.
    Il ragazzo, sedici anni, viene liberato dopo 158 giorni: il riscatto costa alla famiglia 1 miliardo e 700 milioni, a Paul Jr il taglio del lobo di un orecchio.
    Quello è forse il sequestro di persona più celebre: a Bovalino, nella Locride, esiste un intero quartiere denominato “Paul Getty”, proprio perché sarebbe stato interamente edificato con i soldi del riscatto pagato dal miliardario.

    Il caso Paul Getty

    Dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70, la ‘ndrangheta avrebbe rapito quasi 500 persone. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta fa i soldi in quel modo: sequestri di persona e traffico di sigarette. Sarà la prima guerra di ‘ndrangheta, con l’uccisione dei boss Macrì e Tripodo a sancire il cambio di rotta sugli affari, con l’ingresso, prepotente, del traffico di droga, voluto dal “nuovo che avanza”, rappresentato dai De Stefano, soprattutto.

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    Cesare Casella

    Ma tra gli anni ’60 e gli anni ’70, il business è quello: furono nel mirino dei sequestratori i professionisti e gli imprenditori più benestanti della ‘ndrangheta; unico sequestro avvenuto in un arco temporale diverso, quello (tra i più celebri) del giovane Cesare Casella, del 1988 e durato 743 giorni. Le persone sequestrate venivano nascoste nel territorio aspromontano, le ‘ndrine coinvolte erano quelle di Platì e San Luca che operavano in Piemonte, quelle del reggino e del lametino in Pianura Padana e infine quelle di Gioia Tauro e della Locride a Roma.

    La stagione dei sequestri: la ‘ndrangheta e i servizi segreti

    La stagione dei sequestri, comunque, non sarebbe stata solo una questione delle ‘ndrine. Ancora una volta, le cosche calabresi e i pezzi deviati dello Stato si sarebbero seduti allo stesso tavolo. È il collaboratore di giustizia Nicola Femia ad aprire nuovi inquietanti scenari. Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori per porre fine a quella fase, che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.

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    Nicola Femia

    «Mazzaferro – spiegherà Femia in un’udienza pubblica – si incontrava con uomini dello Stato o mandava il suo autista, Isidoro Macrì». Un rapporto, quello tra il boss e gli 007, che sarebbe servito per acquisire informazioni reciprocamente, ma anche per permettere allo stesso Mazzaferro di mantenere l’impunità.
    Una lunga stagione, che verrà interrotta perché quelle azioni attiravano troppo l’attenzione dei media e dello Stato che in quel periodo portò in Aspromonte anche l’esercito.

    Dove finiscono i soldi?

    Femia ricorda gli incontri a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: «Sono andato dentro le mura praticamente. Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui». Quelli non sono solo gli anni dei sequestri, ma anche dello sviluppo delle rotte del narcotraffico con il Sud America. E così, in Colombia, i miliardi delle cosche si sarebbero trasformati in tonnellate di droga.

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    Paolo De Stefano

    Il sostituto procuratore antimafia di allora, Vincenzo Macrì, ipotizzò che il motivo dietro la brevità dei sequestri, a parte casi eclatanti, fosse probabilmente una presunta connessione diretta fra Stato, “organi occulti” e criminalità che si accordavano sul pagamento. Una circostanza che ha confermato, molti anni dopo, lo stesso Femia: «Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri. All’epoca erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo».

    ‘Ndrangheta, servizi e sequestri

    Femia parla anche di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: «Dopo il sequestro Casella, i capi si riunirono per far cessare la stagione dei sequestri, per via della troppa attenzione da parte dello Stato. Ma Vittorio Jerinò fece ugualmente il sequestro Ghidini per fare un dispetto al fratello Giuseppe, di cui era sempre stato invidioso».

    Una liberazione non facile, quella della Ghidini, avvenuta dopo un periodo molto intenso di trattative tra la ‘ndrangheta e pezzi dello Stato: «Vincenzo Mazzaferro fu scarcerato velocemente dal carcere di Roma dove era detenuto per risolvere la situazione». Tra gli uomini dello Stato coinvolti nelle trattative, Femia ricorda poliziotti, carabinieri organici ai servizi, avvocati, ma anche giornalisti.  

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    Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza

    La liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire. Soldi che, a dire di Femia, avrebbero diviso tra loro Mazzaferro, Jerinò e i Servizi Segreti: «Il coinvolgimento dei Servizi Segreti nei sequestri è una cosa che nel nostro ambiente sanno anche i bambini» afferma Femia. Una trattativa Stato-‘ndrangheta inquietante, anche per quello che sarebbe avvenuto in seguito. Vincenzo Mazzaferro verrà ucciso pochi anni dopo: «Nessuno della ‘ndrangheta voleva la sua morte», afferma Femia. E allora, il sospetto: «I protagonisti di quelle vicende sono tutti morti, ma senza una spiegazione di ‘ndrangheta».

  • MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

    MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

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    Si dice spesso che la ‘ndrangheta non abbia confini. Ma di fondo, qualche confine chiaramente ce l’ha, o meglio ancora, le viene imposto. Si tratta molto spesso di confini anche abbastanza prevedibili, in realtà, se i diretti interessati – gli affiliati in questo caso – fossero tutti persone dotate di senso pratico, arguzia, acume e soprattutto mancassero di deliri di onnipotenza. Un viaggio, una vacanza dall’Australia all’Indonesia quando si è nell’elenco dei latitanti ricercati in mezzo mondo, infatti, non rientra tra le attività che uno ‘ndranghetista dovrebbe intraprendere.

    ‘Ndrangheta e I-Can: 3 anni, 42 latitanti in arresto

    Le autorità locali – con il supporto dell’Unità I-Can – Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta e dell’esperto per la sicurezza italiana a Canberra hanno arrestato Antonio Strangio, 32 anni, all’aeroporto di Bali, in Indonesia, mentre sbarcava da un volo proveniente dall’Australia. è stato arrestato. La notizia è dell’8 febbraio.  «Con Strangio», rende noto la direzione centrale della Polizia Criminale, «sono 42 i latitanti arrestati in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio del progetto I-Can, che sta raccogliendo i risultati di un lavoro volto a far crescere nelle forze di polizia di 13 Paesi la consapevolezza della pericolosità globale dalla ‘ndrangheta».

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    Antonio Strangio dopo l’arresto a Bali

    Antonio Strangio è affiliato del clan omonimo – alias Janchi (i bianchi) – di San Luca, feudo aspromontano in provincia di Reggio Calabria che non ha tristemente bisogno di introduzioni quando si parla di mafia. La famiglia mafiosa in questione è balzata agli onori della cronaca, tra le altre cose, per una faida durata decenni e culminata con la strage di Duisburg, in Germania, nel 2007. Strangio era ricercato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso in seguito all’operazione Eclissi 2 nel 2015, tra San Luca e San Ferdinando, contro esponenti del clan Bellocco della Piana.

    Latitante ma non troppo

    In fuga dal 2016, Strangio in realtà latitava poco. Era infatti in Australia, pare principalmente ad Adelaide, in quanto cittadino australiano naturalizzato. La Red Notice di Interpol – l’avviso di cattura internazionale per i soggetti ricercati in tutto il mondo – non lo toccava in Australia, in quanto il paese non agisce per una segnalazione di Interpol e quindi non procede all’arresto di un proprio cittadino ai fini dell’estradizione. Ma le autorità lo seguivano, lo guardavano, lo tracciavano.

    La domanda vera, dopo l’arresto, non può che essere: cosa ha fatto in questi anni Strangio ad Adelaide o, in generale, in Australia? E richiede il solito abbozzo di risposta difficilissima da contestualizzare e molto facile da manipolare per giustizialisti dallo sguardo miope: aveva famiglia in Australia, legami di sangue e legami di territorio. Ma il caso di questo Strangio non è né il primo né l’ultimo del suo genere.

    Antonio Strangio: un nome, due latitanti

    Un altro Antonio Strangio, alias U Meccanico o TT, praticamente della stessa famiglia, finì in manette nel 2017 a Moers, vicino a Duisburg, in Germania. All’epoca aveva 38 anni, lo arrestarono esattamente nel quinto anniversario dall’inizio della sua latitanza. In questo caso, a raggiungere questo Strangio fu un mandato di arresto europeo. Cosa ci faceva TT nell’area di Duisburg? Risultava chiaramente alle autorità italiane che altri esponenti della stessa famiglia fossero residenti lì e la strage di Ferragosto del 2007 ne era ovviamente prova indiretta. Quindi, aveva famiglia anche lui.

    In più, c’era l’operazione Extra Fines 2 – Cleandro del 2019, a Caltanissetta, incentrata tra le altre cose sulle attività del clan Rinzivillo di Cosa nostra. In Germania, emergeva – mi ricordano fonti tedesche – che il presunto referente del clan Rinzivillo a Colonia, Ivano Martorana, fosse dedito a reperire e trafficare stupefacente e che a tale scopo era in contatto con altri soggetti, tra i quali proprio Antonio Strangio, TT. Dunque, sembrerebbe che lo Strangio di Germania facesse ancora quello per cui era ricercato e fu arrestato: traffico e importazione di stupefacenti.

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    Antonio “U meccanico” Strangio

    Infatti, U Meccanico fu coinvolto anche nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, altrimenti conosciuta come Operazione Pollino, nel 2018. C’era anche lui tra i 90 individui in arresto per un traffico internazionale di stupefacenti tra Belgio, Paesi Bassi, Germania, Italia, Colombia e Brasile. L’operazione coinvolse affiliati clan di San Luca e di Locri, come i Pelle-Vottari, i Romeo alias Stacchi, i Cua-Ietto, gli Ursino e appunto i Nirta-Strangio (nonché esponenti della criminalità turca). Oltre a diverse tonnellate di cocaina e alla scoperta di azioni di riciclaggio, l’operazione rivelò anche l’uso di attività di ristorazione – segno di presenza stabile sul territorio – in supporto alla logistica del narcotraffico.

    ‘Ndrangheta, latitanti e famiglia

    Oltre al nome, questi Strangio hanno in comune la latitanza all’estero e la protezione che deriva dal nascondersi “in famiglia”. Perché se c’è una cosa che è cambiata, con i processi di globalizzazione e con l’amplificazione dell’interconnettività che questi processi hanno attivato per le esistenti comunità di immigrati in giro per il mondo, è proprio la famiglia.
    Se un tempo poteva apparire dispersa, dislocata in vari luoghi di migrazione, è oggi famiglia integrata, interconnessa. Ci si telefona o video-telefona, ci si visita, ci si collega coi parenti all’estero per motivi di studio, lavoro, esperienza, vacanza. Vale per moltissimi emigrati (o immigrati) e vale anche per le dinastie criminali di ‘ndrangheta. Forse anche di più per alcune dinastie criminali di ‘ndrangheta come gli Strangio, che della famiglia hanno fatto un business, rendendola la chiave del loro successo criminale, quanto della loro reputazione. Nel bene (per loro) e nel male (per noi).

    Succede dunque che al 2023 – ma anche prima a dir la verità, ché la globalizzazione e i suoi processi non sono certo roba così recente – la famiglia amplificata e interconnessa sia la normalità. Idem per una serie di altre ‘prassi’: la doppia lingua, la doppia cittadinanza, due passaporti, ad esempio. Quindi non sorprende che in paesi di migrazione stabile dalla Calabria, come la Germania e l’Australia (ma anche ovviamente gli Stati Uniti, il Canada, la Svizzera, il Belgio…) sia proprio all’interno di alcune famiglie (dinastie criminali, appunto) che si innestano servizi e attività in supporto al crimine organizzato, laddove questo sia organizzato proprio a dimensione familiare.

    ‘Ndrangheta e latitanti: i casi Vottari, Crisafi e Greco

    Simili a quello di Antonio Strangio, l’ultimo della dinastia sanlucota arrestato a Bali qualche giorno fa, furono altri arresti di suoi ‘vicini di casa’. Anzi, di case al plurale: Calabria e Australia). Le manette scattarono a Fiumicino per Antonio Vottari nel 2016, anch’egli di San Luca, latitante e nascosto in Australia dalla “famiglia” ad Adelaide. Stessa sorte e stesso aeroporto per Bruno Crisafi, anche lui sanlucota, in arrivo dall’Australia nel 2017. Clan Pelle-Nirta-Giorgi, alias Cicero, risiedeva da anni – e faceva il pizzaiolo – a Perth. Entrambi, Vottari e Crisafi, legati al narcotraffico con altri pezzi di famiglia tra Germania (e Olanda, Belgio e Nord Europa) e Calabria, tra l’altro.

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    Edgardo Greco

    Può sembrare, quello di Crisafi, un primo «ciak, si gira!» del film appena andato in scena con l’arresto di Edgardo Greco in Francia. Altro latitante calabrese del Cosentino (la sua appartenenza alla ‘ndrangheta andrebbe problematizzata, proprio per il suo ruolo – killer – e i gruppi a cui si legava, più gangsteristici che ‘ndranghetisti, tra l’altro), Greco faceva lo chef. C’è differenza, però, tra chi scappa e si nasconde all’estero per mimetizzarsi e nascondersi – «Il modo migliore per nascondere qualcosa è di metterlo in piena vista», in fondo già scriveva Edgar Allan Poe – e chi scappa all’estero come estensione della propria protezione familiare, facendo in fondo ciò che farebbe anche a casa propria.

    Dinastie criminali stabili

    L’arresto di Antonio Strangio a Bali – e la sua permanenza in Australia – come quelle di Vottari e di Crisafi prima di lui o dell’omonimo TT in Germania – ci confermano anche stavolta una cosa: la forza della ‘ndrangheta – quella “doc” – è legata anche alla presenza stabile di dinastie criminali internazionalizzate che possono offrire servizi in giro per il mondo. Ad altri ‘ndranghetisti o anche ad amici o ai colleghi degli ‘ndranghetisti, si veda Edgardo Greco.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    I clan di San Luca (e non sono i soli), nello specifico, “hanno famiglia” sia ad Adelaide che a Perth, in Australia, tanto quanto ne hanno a Duisburg o a Erfurt, in Germania. Questo permette loro non solo di avere protezione – nel senso di ‘nascondiglio’ durante la latitanza – ma anche e soprattutto di stabilirsi in Australia qualora decidano di farlo, come fossero a casa. Alcuni lavorando, come Crisafi il pizzaiolo. Altri studiando, come Vottari, che aveva un visto da studente per iniziare un corso a un’università di Melbourne. Spesso, ancora, dedicandosi al narcotraffico comunque, come lo Strangio di Germania.

    Cognomi che pesano

    Sempre attività di famiglia. Questo non significa assolutamente che tutte le famiglie con tali cognomi o con legami a tali cognomi all’estero siano ‘omertose’ o famiglie di ‘ndrangheta. Esattamente come questo non sarebbe il caso nemmeno a San Luca. Le stesse variabili, di intento quanto di contesto, operano anche all’estero nelle famiglie migranti. Ma all’estero sono molto più difficili da districare e comprendere.San-Luca-latitanti-ndrangheta

    Al di là del panico mediatico che si scatena ogni qual volta la ‘ndrangheta si scopre all’estero, in realtà c’è davvero poco da sorprendersi. Quando della ‘ndrangheta si comprendono i tratti caratterizzanti, tra cui il funzionamento delle dinastie internazionali all’interno di processi più complessi e spesso ‘banali’ nel senso di ‘ricorrenti’ della migrazione che la ‘ndrangheta sfrutta e macchia (come fa in Calabria con interi paesi e dinastie), appare chiaro che questa risorsa diventi preziosa.
    Se come diceva George Bernard Shaw «una famiglia felice non è che un anticipo del paradiso», probabilmente una famiglia di ‘ndrangheta “felice”, o quanto meno assestata, non è che un anticipo dell’inferno o del purgatorio. Soprattutto per chi, ricordiamolo, con certi soggetti condivide legami di famiglia e magari non vorrebbe.

  • Calatruria, la strada dei fuochi e i veleni della ‘ndrangheta in Toscana

    Calatruria, la strada dei fuochi e i veleni della ‘ndrangheta in Toscana

    Dodici persone dovranno comparire davanti al giudice per le indagini preliminari di Firenze il prossimo 4 aprile.  L’accusa, a vario livello e titolo, è di aver interrato rifiuti tossici provenienti dalle concerie del Pisano in alcune strade provinciali della Toscana. In particolare, nella Sp 429 che è di fatto stata ribattezzata “la strada dei fuochi” nel processo Calatruria.
    Dei dodici sono nove quelli nati in Calabria: Domenico Vitale; Bruno Vitale; Nicola Chiefari; Ambrogio Chiefari; Antonio Chiefari; Nicola Verdiglione; Pasquale Barillaro; Rocco Bombardiere; Francesco Lerose. Gli altri tre sono Graziano Cantini (nato a Vicchio), Luca Capoccia (nato a Bagno a Ripoli) e Massimo Melucci (nato a Caserta).

    Politici e ‘ndrine nel mirino della Dda

    La Dda di Firenze ha chiuso le indagini, sempre a novembre scorso, e chiesto il rinvio a giudizio anche per altre 26 persone nel processo originario denominato Keu, dal nome del materiale di risulta delle concerie. I due procedimenti fanno parte di una maxi inchiesta unica, iniziata nel 2019 e terminata nel 2021 con arresti e denunce per politici, imprenditori, amministratori e referenti dei clan calabresi di ‘ndrangheta, in particolare Gallace e Grande Aracri.

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    Uno striscione di protesta dopo la scoperta dello smaltimento illecito dei rifiuti delle concerie

    Calatruria: i conciatori e i calabresi

    Alcune ditte di movimento terra, in mano ai calabresi, avevano ottenuto – secondo l’accusa –  il mandato da alcune concerie toscane di smaltire i loro rifiuti, tossici e pericolosi, ma per risparmiare invece di seguire il normale iter si era deciso di sotterrarli, dopo averli trasformati in materiale per l’asfalto. Per gli inquirenti a organizzare il pactum sceleris sarebbero stati i conciatori, in accordo con alcuni politici e amministratori toscani, e grazie ad alcune ditte complici dei calabresi.

    Le presunte minacce e l’azienda “amica”

    I dodici del processo Calatruria dovranno difendersi, a vario titolo, dalle accuse di associazione per delinquere, illecita concorrenza ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, corruzione, detenzione e spaccio di stupefacenti.
    Il filone d’inchiesta che coordinano il pm Eligio Paolini e il giudice Luca Tescaroli (il magistrato che sta indagando sulle stragi di mafia del ’93 e sui mandanti esterni) riguarda la presunta estromissione di un imprenditore dai lavori di movimento terra nel cantiere del lotto V della strada provinciale toscana 429. Soggetti vicini alla cosca Gallace e ai “fratelli” Grande Aracri avrebbero minacciato l’uomo per far subentrare un’azienda “amica” dei clan.

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    Luca Tescaroli

    Calatruria, cromo e arsenico

    Successivamente, sempre secondo la Dda, i rifiuti sono finiti nell’asfalto di alcune strade provinciali della Toscana. A quel punto la Dda ha chiesto ad Arpat (l’Agenzia regionale per l’ambiente della Toscana) di mettere in sicurezza i siti coinvolti nell’inchiesta per poi stabilire cosa fosse successo all’ambiente. Ma non si tratta di una situazione definitiva perché potrebbero manifestarsi mutamenti nel medio e lungo periodo. Mutamenti che potrebbero essere determinati anche da carenze di manutenzione del manto stradale o da altri elementi.

    Per questo il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa sta conducendo uno studio proprio su incarico di Arpat e Regione Toscana. Il problema sono le sostanze che vengono fuori dal Keu, in particolare cromo esavalente e arsenico, che sono tra i principali materiali di scarto di chi lavora il cuoio. Dopo la messa in sicurezza nei giorni scorsi sono partite anche le bonifiche delle strade toscane coinvolte.

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    Un’immagine dell’inchiesta toscana

    La strada dei fuochi

    Nei giorni scorsi sono partite le bonifiche delle strade mentre la messa in sicurezza di emergenza era stata effettuata già lo scorso anno nei tratti dove la Dda ha ritenuto potesse essere presente materiale di risulta contenente Keu. E si parla di centinaia di tonnellate. Il tratto di strada “incriminato” è lungo circa 300 metri, ma bisogna capire bene dove sia finito il Keu: sotto l’asfalto, inglobato nel cemento armato o anche in altri punti?
    La Regione Toscana è già all’opera ma sarà lo studio scientifico dell’Università di Pisa i cui risultati dovrebbero arrivare a inizio estate prossima a fare luce sul tipo di inquinanti eventualmente presenti.

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  • RITRATTI DI SANGUE | Faide, affari e finti pentimenti: storia di Nicolino Grande Aracri

    RITRATTI DI SANGUE | Faide, affari e finti pentimenti: storia di Nicolino Grande Aracri

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    «In Emilia Romagna le mafie sono figlie adottive». Così, appena pochi giorni, fa, il procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, definiva la presenza della criminalità organizzata in quella regione. Terra di affari l’Emilia Romagna. Ma anche terra di omicidi e di faide.

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    La statua di Peppone a Brescello (RE)

    Nicolino Grande Aracri: da Cutro all’Emilia Romagna

    Se oggi si può parlare di presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, molte delle responsabilità sono in capo a Nicolino Grande Aracri. Il boss venuto da Cutro, in quei luoghi, avrebbe ricreato nell’economia, ma anche nella politica, le medesime dinamiche della casa madre. Lo chiamano “Il Professore” o “Mano di gomma”.

    Quando, nel gennaio 2015, i carabinieri lo arrestano, nel corso di una perquisizione domiciliare rinvengono anche una spada simbolo dei Cavalieri di Malta. È la maxi-inchiesta “Aemilia” a mostrare e dimostrare, in tutta la sua ampiezza, la capacità della ‘ndrangheta non solo di penetrare tutti i territori, ma anche di entrare in stanze apparentemente inaccessibili. Da Cutro, paese in provincia di Crotone, Grande Aracri infatti avrebbe costruito un impero in Emilia Romagna, ma si sarebbe mosso in ambienti impensabili, se non si considera la ‘ndrangheta come l’organizzazione criminale più potente d’Italia e tra le più potenti in Europa e al mondo.

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    Una guardia svizzera in Vaticano

    Le ingerenze di Grande Aracri, infatti, sono da registrare negli ambienti massonici, ma anche in Vaticano e fino alla Corte di Cassazione. Un’inchiesta mastodontica, quella che svela gli affari della ‘ndrangheta crotonese in Emilia Romagna, con cui gli inquirenti scoprono lucrose operazioni finanziarie e bancarie che alcuni soggetti avrebbero messo in atto per conto di Grande Aracri, ponendosi come intermediari tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati.
    Ancora una volta la ‘ndrangheta si mostra per quella che è: non solo una banda armata, ma un’organizzazione che ha come proprio principale scopo quello di tessere relazioni sociali e istituzionali al fine di arricchirsi e condizionare i territori su cui opera.

    Grande Aracri e la massoneria

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    Nicolino Grande Aracri in un’immagine di qualche anno fa

    Come emerge dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Kyterion”, Nicolino Grande Aracri sarebbe stato molto ben inserito in ambienti massonici, ottenendo anche l’investitura a “Cavaliere”. È lo stesso boss originario di Cutro a confermarlo in una conversazione captata: «Io ho avuto la fortuna di capire certe cose…sia dei Templari…sia dei Cavalieri Crociati…di Malta…la Massoneria di Genova…».
    Sono gli stessi soggetti intercettati nell’inchiesta a dar peso al legame tra massoneria e criminalità organizzata: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure».

    Il meccanismo è quello che nasce con la “Santa”. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire – è scritto negli atti processuali – “pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.

    Le amicizie romane di Grande Aracri

    Grande Aracri avrebbe cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto del cognato. Quella sentenza fu effettivamente annullata con rinvio dalla Cassazione, ma gli inquirenti non riusciranno ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.

    Sempre per aiutare il cognato, Nicolino Grande Aracri avrebbe speso (senza successo, tuttavia) anche le proprie amicizie in Vaticano. L’obiettivo è spostare il parente detenuto dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo tale che fosse più vicino ai familiari: la provincia crotonese, infatti, non dista molti chilometri dal capoluogo di regione. Tramite un’amica giornalista, Grande Aracri prova a intervenire in Vaticano.

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    Il carcere di Siano

    La donna, infatti, è in stretto contatto con un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. «Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua», dice la donna dopo l’incontro, avvenuto in Vaticano. Il monsignore manda anche i saluti alla moglie del detenuto: «Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri».

    In Emilia Romagna si spara

    Non solo affari. Anche sangue. E a fiumi. Nonostante il negazionismo della classe dirigente, in Emilia Romagna la ‘ndrangheta è presente e influente almeno dagli anni ’80. Ma è negli anni ’90 che l’Emilia Romagna si trasforma, sostanzialmente, nella provincia di Crotone. Non solo per la presenza delle cosche che, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, sarebbe organizzata in cerchi, con un ruolo predominante da parte di Nicolino Sarcone. Ma anche perché, nei primi anni ’90, in Emilia Romagna si spara. Proprio come se ci si trovasse nell’entroterra calabrese.

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    Nicolino Sarcone

    È il 1992 quando vengono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe “Pino” Ruggiero. Non a Cutro. Il primo (a settembre) a Pieve Modolena. Il secondo (a ottobre) a Brescello. Proprio sui luoghi di don Camillo e Peppone.
    E i mandanti sarebbero proprio due tra i boss più carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone, che delle cosche di Cutro sarebbe l’avamposto a Reggio Emilia.

    Per Grande Aracri la svolta arriva con la carcerazione di Antonio e Raffaele Dragone, i boss crotonesi a cui era inizialmente legato. La scissione con il clan Dragone comincia a maturare proprio in quegli anni fino a sfociare in una vera e propria faida che raggiunge il culmine quando, nel 1999, viene assassinato a Cutro Raffaele Dragone, figlio dell’anziano capobastone. Seguirà una lunga scia di sangue. Tra il 1999 e il 2004 in provincia di Reggio Emilia cadono uccise dodici persone.
    Eppure, dovranno passare diversi lustri, con l’inchiesta “Aemilia” prima, curata dal pm Beatrice Ronchi, e con l’inchiesta “Grimilde” poi, per poter parlare, con voci negazioniste più blande, di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.

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    L’auto di Antonio Dragone dopo l’agguato mortale

    Il 19 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha condannato Nicolino Grande Aracri ed il fratello Ernesto, entrambi all’ergastolo. Sentenza divenuta definitiva nel giugno del 2019, per l’omicidio del vecchio capobastone di Cutro, Antonio Dragone, avvenuto nel 2004 nelle campagne del Crotonese, del quale Nicolino Grande Aracri era stato il braccio destro.

    Gli affari di Nicola Femia

    Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone sono forse i due boss maggiormente carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ma non gli unici.
    Un nome importante è quello di Nicola Femia. Per anni fa girare diversi soldi in quei luoghi, poi lo arrestano e diventa collaboratore di giustizia.
    Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. L’impero delle slot machine, soprattutto.

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    Nicola Femia

    Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori nella stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
    Questo ruolo, gli avrebbe consentito di conoscere la trattativa che le Istituzioni avrebbero imbastito con la ‘ndrangheta, in particolare per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.

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    Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza

    Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: quella liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire, in una valigetta che avrebbe fatto il giro della Locride tra le mani proprio di Mazzaferro, appositamente fatto uscire dal carcere di Regina Coeli – in base all’oscuro “accordo” – per assolvere tale ruolo. Una delle stagioni più oscure della storia d’Italia, di cui, al momento, si conoscono solo pochi flash, come quelli, inquietanti, spiegati da Femia: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi».

    Il finto pentimento di Nicolino Grande Aracri

    Anche i protagonisti della ‘ndrangheta emiliana si muovono sempre in ambienti torbidi e occulti. E, stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, utilizzano anche i metodi più subdoli della ‘ndrangheta d’élite. Nell’aprile 2021, infatti, è dirompente la notizia del pentimento di Grande Aracri. In tanti sperano che la ‘ndrangheta possa aver trovato il suo Tommaso Buscetta. Un boss di altissimo rango in grado di aprire le porte più inaccessibili sulla struttura della ‘ndrangheta unitaria, ma anche sui suoi riferimenti istituzionali.

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    Il procuratore Nicola Gratteri

    L’illusione durerà solo pochi mesi. La collaborazione di Grande Aracri viene gestita dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, che impiegherà pochi mesi per bollare come inattendibile la scelta e fantasiose le rivelazioni di Grande Aracri e a smascherare la manovra, rispedendolo al 41bis.
    Una manovra per incolpare qualche nemico storico, per sminuire i suoi crimini, ma, soprattutto, per salvare la famiglia. La moglie e la figlia, soprattutto. In una relazione depositata, i pm antimafia parleranno anche del “sospetto peraltro che l’intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso”.

  • MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

    MAFIOSFERA | Dalla Calabria alla Colombia: una lezione di criminalità

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    Cosa può imparare da noi italiani – e calabresi in particolare – la Colombia?
    Parliamo di un Paese che ha (e ha avuto) gruppi criminali armati, alcuni anche ideologicamente orientati: ricordate le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e il negoziato di pace del 2016?.
    Non solo: la Colombia rimane ad oggi il primo produttore al mondo di cocaina, sfruttata e gestita da gruppi criminali organizzati più o meno territorialmente radicati.

    Calabria e Colombia: ridurre la violenza

    Presto fatto. La prima domanda emersa nella conferenza internazionale organizzata da Fundación Ideas Para La Paz, Global Initiative Against Transnational Organized Crime e Konrad Adenaur Stiftung (enti che si occupano di consulenza e ricerca su strategia internazionale e sicurezza), è: come si riduce la violenza della criminalità organizzata?
    Questa, nella loro prospettiva internazionale, diventa la domanda posta anche a me: come ha fatto l’Italia a ridurre la violenza mafiosa? E cosa può insegnare la Calabria con la mafia più importante d’Italia?

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    Esercito e polizia colombiani in un’operazione interforze

    Due giorni su Calabria e Colombia

    Le risposte sono difficili. Vi si sono impegnati, per due giorni, il presidente del Congresso colombiano Roy Barreras, il capo della Procura generale del Paese (la Fiscalia) Francisco Barbosa, l’ex capo della Polizia nazionale ed ex vicepresidente colombiano, Oscar Naranjo, insieme a Sergio Jaramillo, ex viceministro della Difesa ed ex Alto Commissario per la pace (per capirci, l’incaricato della gestione dei negoziati con le Farc fino all’agosto 2016).
    A loro si sono uniti accademici nazionali e internazionali (come chi scrive), giornalisti da tutto il Sudamerica, analisti ed esperti del territorio.
    Il tutto è terminato in una cena-discussione con il ministro della Giustizia, il Viceministro della difesa, e il capo dell’Unità investigazioni della Polizia colombina.

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    Un momento del convegno di Bogotà

    Faide, sequestri e stragi

    La violenza mafiosa, e della criminalità organizzata in generale, non è una caratteristica dell’Italia odierna, ma è parte di tutta la nostra storia.
    Oltre le stragi di Cosa Nostra, tutte le mafie hanno prodotto in diversi periodi livelli di violenza molto elevati.
    Nella guerra di ’ndrangheta tra il 1985 al 1991 a Reggio Calabria, i morti accertati furono poco più di 600, ma le stime oscillano tra i 500 e i 1000.
    La ’ndrangheta, infatti, ha costruito la sua reputazione sulla violenza.
    Ne sono esempi le faide per il controllo del territorio che hanno decimato intere famiglie (ad esempio quelle di Siderno, 1987-1991, tra i Costa e i Commisso, in cui vinsero questi ultimi), o che addirittura si sono manifestate all’estero (la strage di Duisburg del Ferragosto del 2007, segmento della guerra di San Luca tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari iniziata nel 1991).
    E ne sono altri esempi gli oltre 200 sequestri di persona in Aspromonte tra gli anni ’70 e i primi ’90, alcuni caratterizzati da inaudita bestialità.
    La violenza sistemica della ‘ndrangheta ha sicuramente lasciato un’eco nella popolazione che è parte del fenomeno mafioso calabrese e della sua reputazione.

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    L’esterno del locale in cui si è consumata la Strage di Duisburg

    Tre lezioni dall’Italia

    Cosa può insegnare l’Italia alla Colombia? Tre cose principalmente:

    • Una risposta dello stato molto forte, con un arsenale antimafia fatto di normative dirette (repressive) e indirette (di prevenzione) che contengono un messaggio primario: la violenza non conviene.
    • Una capacità delle organizzazioni criminali (non ideologiche né insurrezionaliste) di trovare altri mezzi per risolvere i propri problemi (tra cui il coordinamento, l’alleanza e soprattutto la corruzione).
    • L’accettazione di un livello di violenza “tollerabile” e la definizione (negoziazione interna) della soglia di tollerabilità. La violenza mafiosa non è sparita, ma il suo allarme sociale si: dà allarme quella violenza oltre un certo soglia, o in mercati “anomali” (sorprenderebbe violenza nelle attività semi-lecite delle mafie, ma non nel mercato della droga).

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      Scorcio di piazza Bolivar a Bogotà

    Tre lezioni calabresi

    Altre cose le può insegnare proprio la Calabria.

    • Innanzitutto, il decentramento della violenza nel crimine organizzato moderno: non c’è una testa pensante nella ’ndrangheta che commissiona o modula la violenza. Questo da una parte è un un vantaggio, dall’altra porta anche a reazioni molto diverse a seconda di luoghi e tempi in cui questa violenza si manifesta.
    • Si è anche parlato di quella violenza che per alcuni violenza non è, ma che tuttavia è pronunciata in certi posti della Calabria: l’estorsione ambientale. Questa si configura quando il clan è abbastanza potente da non avere più necessità di fare richieste palesi, con le relative minacce. Ormai basta il sussurro e l’allusione.
    • Per ritenere estinta o ridotta qualsiasi violenza la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. Laddove si riuscisse, come in Italia e Calabria, a ridurre il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità, la vittimizzazione diventerebbe più subdola quanto più l’organizzazione rimanesse economicamente e socialmente potente, come la ‘ndrangheta in alcune parti del nostro territorio.

    Paz Total: il sogno di Gustavo Petro

    Questa domanda sulla riduzione della violenza deriva dalla proposta ambiziosa, forse troppo, del nuovo presidente della Colombia, Gustavo Petro.
    Petro, ex guerrigliero del gruppo M-19, è stato eletto nel giugno 2022 con una piattaforma politica incentrata sulla promessa della Paz Total, la pace totale.
    Questa pace, secondo Petro e i suoi ministri, si può raggiungere negoziando con l’ultimo gruppo di guerriglia rimasto, l’Eln (Ejército de liberación nacional), come si è fatto con le Farc, ma anche con oltre altri 20 gruppi “ad alto impatto”, solo criminali, coinvolti nel mercato di cocaina, marijuana e altre attività illecite di criminalità organizzata.

    Gustavo Petro, il presidente della Colombia

    Tregua delle armi e legalizzazione

    Aprire i negoziati di pace – strumenti di solito legati ai conflitti internazionali – alla criminalità organizzata, che non è in conflitto con lo Stato colombiano ma è spesso violenta al suo interno, crea cortocircuiti concettuali e pratici.
    Già: cosa si offre a questi gruppi? Come si permette ad essi un incentivo a collaborare? In che modo si riduce la loro violenza? E si può impedire che “morto un gruppo se ne faccia un altro”?
    Quesiti molto politici (e metodologici) per la paz total immaginata da Petro. Ma Petro non vuole fermarsi qui: il suo esecutivo ipotizza anche una depenalizzazione della cocaina e della marijuana, che sono tra i business illegali più lucrativi del Paese, e non solo.
    La decriminalizzazione della cocaina, unita a un tentativo di pacificazione del crimine organizzato, avrebbe effetti rivoluzionari – positivi e negativi – sul mercato globale dei narcotici. Cioè sul settore più redditizio dell’economia criminale.

    Guerriglieri di Eln

    La ’ndrangheta senza Colombia

    E qui arriva la seconda domanda sottoposta alla prospettiva internazionale, e soprattutto relativa alla ‘ndrangheta.
    Eccola: cosa succederebbe a quegli importatori più attivi sul mercato internazionale della cocaina – cioè alcuni gruppi di ’ndrangheta – se si arrivasse, anche parzialmente, alla paz total in Colombia con qualche cartello?
    Meglio ancora: cosa accadrebbe alla ’ndrangheta e ai suoi traffici se si sconvolgesse – coi negoziati e la decriminalizzazione – il mercato colombiano?

    Broker ’ndrine e narcos tra Calabria e Colombia

    Le risposte non sono semplici: siamo nel regno delle ipotesi.
    Come detto nella puntata precedente di questo viaggio, i rapporti tra ’ndrine storiche e cartelli storici del narcotraffico in Colombia sono consolidati e intergenerazionali, intra-cartello (a monte e a valle), e basati su contratti a rinnovo automatico.
    La cocaina arriva dalla Colombia in Calabria grazie a broker specializzati con rapporti solidi in entrambi i territori. Dunque, è possibile immaginare che tali broker si muoveranno per restaurare l’“ordine”, a dispetto delle politiche di “pace” e decriminalizzazione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    Liberalizzare? Impossibile, in Calabria e Colombia

    È improbabile che si arrivi a una liberalizzazione delle droghe a livello internazionale. Perciò il mercato delle importazioni rimarrà inalterato, seppur con iniziali possibili difficoltà di procacciamento della merce.
    Infatti, la cocaina è un bene a domanda “rigida” (vale a dire che non solo non esistono beni simili sul mercato, ma a domanda pressoché fissa) perci l’offerta rimarrà quanto meno costante.

    Bolivia e Perù: gli astri nascenti della coca

    Quindi se la situazione diventasse più complessa in Colombia, anche temporaneamente, la Bolivia (dove la coca è anche spesso più pura) e soprattutto il Perù (dove i gruppi criminali hanno uno stile imprenditoriale) potrebbero sostituirla nella produzione e nell’approvvigionamento. Per farla breve, ai nostri ’ndranghetisti servirà rimanere flessibili, comprendere il sistema locale e offrire soldi e risorse anche all’estero per risolvere problemi.

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    I partecipanti al convegno internazionale di Bogotà

    La lezione colombiana

    Dalla Colombia, però, abbiamo da imparare anche noi.
    A sentire l’insistenza con cui si parla di pace, inclusa quella dal crimine organizzato, è interessante riflettere sugli strumenti collettivi per ottenerla. Tra questi, la ricerca della verità, la riconciliazione tra vittime e carnefici, la memoria.
    Senza memoria (del dolore, delle armi, della violenza, dei traumi collettivi) non si può avere riconciliazione e non si può tentare la pace.
    Questo, forse, dovrebbe essere uno spunto di lavoro per la nostra classe dirigente, che si scorda come intere fette della popolazione, soprattutto del Sud (per esempio alcune comunità Aspromontane), debbano ancora comprendere e affrontare le ferite della violenza che fu, con memoria storica, verità e per riconciliarsi con l’eco della violenza attuale.
    Ma questa è un’altra storia.

  • Edgardo Greco, scovato a Saint-Étienne il “killer delle carceri”

    Edgardo Greco, scovato a Saint-Étienne il “killer delle carceri”

    Era partito dalle cucine nella sua Cosenza, Edgardo Greco, e nella cucina di una pizzeria di Saint-Étienne lo hanno trovato, 17 anni dopo che si era persa l’ultima traccia di lui. Da ex cuoco, d’altra parte, il latitante aveva scelto un coltello per farsi un nome nella mala bruzia in gioventù, quando in galera tentò di trafiggere il boss Franco Pino durante l’ora d’aria. Tentativo fallito, ma sufficiente a far ribattezzare “killer delle carceri” uno la cui specialità erano fino a quel momento le rapine.

    A Cosenza in quegli anni c’è la guerra tra clan ed Edgardo Greco ha già scelto di schierarsi con quello Perna-Pranno, proprio per un pestaggio che uomini dei Pino-Sena hanno rifilato a lui e suo fratello Riccardo. Ma è per un altro delitto, duplice e riuscito, e un ulteriore tentato omicidio che l’antimafia lo inseguiva ormai dal 2006. Nel primo caso, in qualche modo, c’entra ancora il cibo.

    Edgardo Greco, i fratelli Bartolomeo e Mosciaro

    L’esecuzione arriva, infatti, il 5 gennaio del 1991 dentro  una pescheria cosentina riconducibile ai Pranno. I fratelli Stefano e Pino Bartolomeo bramano maggiore autonomia criminale, un tentativo di secessione da soffocare nel sangue. Li attirano lì con l’inganno poi li uccidono a suon di botte, percuotendoli a sprangate. I corpi? Irreperibili ancora oggi. Pochi mesi dopo, il 21 luglio, Greco tenterà di eliminare anche Emiliano Mosciaro. La morte dei Bartolomeo gli costerà una condanna all’ergastolo, tanto’è che proprio a seguito di essa, su Greco pendeva un mandato di cattura internazionale dal 2014.

    Latitante per 17 anni

    Greco nel tempo era stato collaboratore di giustizia, per poi fare marcia indietro e darsi alla macchia quando – era il 2006 – la legge gli aveva presentato il conto per quei delitti di quindici anni prima. Un fantasma per 17 anni, Edgardo Greco, ma gli inquirenti non hanno mai smesso di dargli la caccia.

    Sembra che per un periodo abbia vissuto in Germania, senza disdegnare però qualche saltuaria capatina dalle parti di casa. Poi lo hanno cercato in Spagna, Andalusia, nel 2008. Ma quando la polizia si è presentata per acciuffarlo ha trovato suo fratello Riccardo e non lui.
    Oggi i carabinieri, insieme a personale delle unità catturandi (Fast) italiana e francese e dell’Unità I-Can dello Scip del Ministero dell’Interno, invece hanno fatto centro. Seppure sotto falso nome, quel pizzaiolo a Saint-Étienne era proprio Edgardo Greco.

  • Don Stilo: Jekyll, Hyde oppure…?

    Don Stilo: Jekyll, Hyde oppure…?

    «La mafia nasce con la questione meridionale che ne è presupposto inscindibile. Non esiste frattura tra vecchia mafia romantica dai nomi misteriosi e romanzeschi che ha solo qualche ambizione di protesta sociale, e nuova mafia delinquenziale aggiornata ai modi del profitto e della rendita dell’economia capitalistica. La mafia ha sempre avuto necessità di surrogarsi ai governi ed alla classe dirigente con responsabilità nella gestione del potere e c’è continuità tra passato e presente, connivenza non interrotta tra mafia e Stato, uomini del Parlamento e del governo, magistratura, polizia e carabinieri. In questi anni abbiamo parlato di ministri, di mammasantissima, di senatori, di picciotti, di onorevoli incappucciati, abbiamo fatto nomi e cognomi ma le nostre interrogazioni sono sempre rimaste senza risposta».

    I recenti fatti di cronaca segnati dalla cattura di Messina Denaro, con i relativi effetti collaterali, mi hanno sollecitato una rilettura di questo breve testo. È nella relazione presentata del deputato socialista Salvatore Frasca alla conferenza promossa dal Consiglio regionale della Calabria tra il 10 ed il 12 aprile del 1976. E mi suggerisce l’attualità di un tema mai fuori moda.
    Ripensare ad una serie di letture più o meno recenti mi ha fatto riaffiorare alla mente la figura di Costantino Belluscio, che conobbi ad Altomonte nel lontano 1997. Il ricordo di quell’incontro mi ha spinto a riprendere in mano alcuni testi che non leggevo da tempo analizzando un profilo su cui mi sono soffermato a lungo negli anni. Tento di capire quale fosse la verità, alla ricerca di un perché a tanta divisione di pensiero.

    Don Stilo: icona del male o parafulmine?

    Mi accorgo di come, ancora oggi, parlare di Don Giovanni Stilo significhi scoperchiare un vaso di Pandora che molti hanno preferito interrare, impegnati in un grottesco tentativo di ricostruzione della verginità perduta. Anche a distanza di tanti anni, la figura di Don Stilo rimane tra quelle più discusse in questa parte di Calabria dove Locride e Area grecanica si toccano in una contiguità territoriale che si sostanzia specie attraverso la via di una montagna che incarna stereotipi e contraddizioni.
    Il mondo di Don Stilo è un microcosmo dai contorni quasi mai netti, dove il mare guarda l’entroterra da vicino ma sempre con distacco. C’è un’aura ionica di fascino e mistero che avvolge questa terra brulla, arsa e scoscesa dove la roverella e la macchia mediterranea in un continuum indefinito cedono il passo alla ghiaia delle fiumare, alle scogliere, alle argille colorate ed alla sabbia finissima.

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    Corrado Stajano

    Tornando agli scritti di Belluscio e Stajano, noto, oggi più che in passato, come siano complementari nonostante l’uno sia contraltare dell’altro per filosofia di pensiero e chiavi di lettura. Complementari perché nella loro dicotomia trovi il senso di una terra controversa come poche.
    Il primo, Belluscio, mosso nel giudizio da un personale rapporto di amicizia e forse anche dalla convinzione che un solo uomo non possa essere portatore di tutte le storture della società, possa invece più facilmente essere parafulmine, agnello sacrificale più o meno consapevole.
    L’altro, Stajano sembra invece catalizzare l’attenzione sulla figura del sacerdote di Africo che diventa icona del male. Nel suo Africo (Einaudi, 1979) non si limita a parlare di un prete padrone che suggerisce la via del trasferimento dalla montagna al mare. Va ben oltre Stajano. Lo eleva ad anello di congiunzione tra ndrangheta, chiesa, malaffare, politica e pezzi deviati delle istituzioni.

    Tanta carne al fuoco

    Certo, è vero, è assai chiacchierato il prete di Africo. La sua figura è accostata per quasi mezzo secolo alla massoneria, alla politica, alla magistratura, ai servizi segreti deviati, alle pagine più scure di una Calabria – in generale, e di una Locride più in particolare – che proprio negli anni di Don Stilo cambiano pelle attrezzandosi in vista dei grandi business miliardari. L’abigeato fa spazio alla droga, alla speculazione edilizia ed ai sequestri di persona. Facile intuire come la carne al fuoco, quando si parla, di lui sia talmente tanta che ci sarebbe da discutere per giorni, senza peraltro riuscire mai a mettere tutti d’accordo. Ecco perché ritengo che la “questione Don Stilo” necessiti di una giusta riflessione.

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    Costantino Belluscio

    «Mai, dico mai, ho fatto parte del coro di aguzzini, più o meno ispirati, che hanno invaso la strada della libertà precludendone, anche solo con le parole, la disponibilità ai diretti interessati. Sempre, sottolineo sempre, ho creduto nella presunzione di innocenza, mai mi ha appassionato lo sport, purtroppo molto praticato, della colpevolezza decisa a tavolino e trasmessa a mezzo stampa».
    Questo breve frammento è tratto dal lavoro di Belluscio Il Vangelo secondo Don Stilo(Klipper, 2009). Belluscio, giornalista con una lunga esperienza da parlamentare dal ‘72 all’87, si è spento nella sua casa romana l’11 febbraio del 2010, neanche due mesi dopo la pubblicazione del lavoro su Don Stilo, quello cui teneva tanto.

    Don Stilo e il trasferimento dall’Aspromonte al mare

    Anche di Belluscio si sussurrò tanto. Si disse ad esempio della sua appartenenza alla P2, quasi a suggerire un legame occulto che avrebbe mosso la strenua difesa del prete.
    Ma rileggere le poche righe che ho riproposto tra virgolette è stato come riaccendere la luce su una storia lunga e travagliata, una di quelle a tinte fosche tipiche di un Paese dove le linee di confine sono assai sfumate e spesso facilmente confondibili. Storie tutte italiane cui la Calabria non si sottrae affatto, mettendoci anzi un marchio di fabbrica quasi a volerle rendere originali e riconoscibili nel bailamme del bel Paese.

    Il Vangelo secondo Don Stilo è un titolo che Belluscio aveva voluto fortemente per il suo valore simbolico, per ricordare la figura del sacerdote di Africo protagonista del trasferimento di quella comunità dall’Aspromonte al mare nel 1951. Il volume, giunto a trent’anni esatti da quello di Stajano, suona quasi come un estremo tentativo di ristabilire un giusto equilibro in un frangente storico dove le analogie si sprecano.

    Un copione che si ripete, ma da rileggere

    Rivisitando in chiave attuale l’essenza dell’uomo e del prete Giovanni Stilo – non solo attraverso le letture, ma anche e soprattutto attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto con sentimenti opposti – ad essere sincero non trovo differenze in un copione che si ripete puntuale ogni qualvolta si parla di personaggi che nel bene e nel male hanno segnato un’epoca.
    Sulla sua figura si è detto di tutto, quasi come se sotto il crocefisso avessero trovato spazio anche tante altre cose, dai grembiuli della massoneria, alle pistole della ‘ndrangheta, dai servizi deviati alle agende della politica nazionale. Insomma, più che un prete, un catalizzatore di interessi oscuri, un deus ex machina di disegni complessi, capace di intrattenere rapporti tanto con i vertici di Cosa Nostra, quanto con i salotti buoni della politica romana.

    Africo vecchia ai tempi dell’alluvione

    Oggi di Don Stilo, di Belluscio, di Stajano non si parla quasi più. Gli anni sembrano avere cancellato con le persone anche i ricordi. Ma certe figure meriterebbero invece un’opera di rivisitazione critica ed asettica da estendere ai ragazzi delle scuole della Locride e più in generale della regione, anche e soprattutto perché l’analisi attenta di uomini e fatti restituisce in modo plastico i contorni dello scenario storico sullo sfondo.
    Il tempo che passa ha il pregio di offrire un’occasione di analisi più distaccata ed imparziale sul passato. E spiega di conseguenza anche molto del presente di questa terra, mutata nei volti e in larga parte anche nello spirito della sua gente, rimasta per contro quasi identica nel fascino del suo paesaggio.

  • MAFIOSFERA | ‘Ndrine, narcos e coca: in tour nella Colombia dei cartelli

    MAFIOSFERA | ‘Ndrine, narcos e coca: in tour nella Colombia dei cartelli

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    «Tenemos muchos otros problemas!», «abbiamo molti altri problemi», mi sorride un agente della Fiscalia General de la Nación, l’ufficio del procuratore nazionale della Colombia, quando iniziamo a parlare della ‘ndrangheta in America Latina. Della serie: sicuramente la ‘ndrangheta è un problema, per l’Italia, l’Europa, il mondo intero, ma di guai legati alla criminalità (organizzata, violenta, strutturata), in Colombia, ce ne sono molti altri.

    I-Can: quattordici polizie contro la ‘ndrangheta

    La mattinata è iniziata presto: riunione alle 8.30 alla sede della Direzione per le indagini criminali della Polizia di Stato Colombiana, dove anche Interpol ha i suoi uffici.
    La Colombia fa parte del progetto I-Can (Interpol cooperation against the ‘ndrangheta), fondato e finanziato dal Dipartimento di pubblica sicurezza in Italia, guidato dalla Polizia di Stato.
    A quest’iniziativa aderiscono altri dodici Paesi, europei e non. La parola chiave di I-Can è cooperazione: cioè condivisione dei dati più veloce, coordinamento delle azioni di contrasto più fluido, e sicuramente un’armonizzazione della conoscenza sul fenomeno ’ndranghetista. Contenuto, accesso e azione.

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    La sede dell’Interpol in Colombia

    La ‘ndrangheta? In Colombia è diversa

    È la prima volta che parlo di ’ndrangheta formalmente con autorità di un Paese sudamericano. Ora che sono qui – soprattutto dopo il commento dell’agente della Fiscalia – mi ricordo come mai c’è voluto più tempo per venire in questo territorio e non, per esempio, in Canada o negli Usa.
    La ’ndrangheta qui è altra cosa rispetto ad alcuni Paesi europei e del globalizzato Nord (allargato anche all’Australia, per ragioni economiche e sociali).

    Già dall’inizio di questa riunione – organizzata dalla sottoscritta a fini esplorativi e di ricerca (e dunque senza contenuti protetti e confidenziali), presenziata da unità scelte di Interpol, Fiscalia, e altri membri delle forze dell’ordine – si inizia parlare di chi è chi, nella ’ndrangheta contemporanea, e soprattutto di chi non è chi.
    La ’ndrangheta, qui in Colombia è un’organizzazione per lo più astratta di cui si conosce poco la struttura – e poco serve conoscerla ai colombiani – la quale ogni tanto si presenta con individui di origine italiana che si muovono in un mercato degli stupefacenti largo e complesso. La criminalità calabrese partecipa da anni a questo mercato, i cui protagonisti assoluti sono però tutti del luogo.

    Salvatore Mancuso: dalle Auc al narcotraffico

    Una persona su cui si è tanto detto negli anni, per esempio, è Salvatore Mancuso. Salvatore Mancuso Gómez – nato a Monteria, in Colombia, e di origini familiari di Sapri, è stato uno dei principali leader dell’Auc – Autodefensas unidas de Colombia.
    L’Auc è stata un’organizzazione paramilitare, dedita al narcotraffico, insurrezionista di estrema destra che durante il conflitto armato interno in Colombia ha combattuto contro Farc, Eln e Epl, altri gruppi di guerriglia organizzata.
    L’Auc smobilitò nel 2006 dopo aver goduto del supporto di vari pezzi dell’élite colombiana. Dalle sue ceneri sono nati altri gruppi criminali: ad esempio il famigerato Clan del Golfo, altrimenti detto degli Urabeños, uno dei principali cartelli della cocaina del Paese. Almeno fino a qualche anno fa.

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    Salvatore Mancuso Gómez, ex leader delle Auc e re della droga

    Il re della droga

    Questo Mancuso, è bene chiarirlo, non c’entra niente con i Mancuso del Vibonese, protagonisti negli ultimi mesi e anni di svariati processi istruiti dalla Procura antimafia di Catanzaro.
    L’omonimia però, non mancano di notare i miei interlocutori, è stata spesso notata e ha portato a una serie di fraintendimenti su chi è chi, e chi non è chi.
    Salvatore Mancuso non è certo uno ’ndranghetista, sebbene tra i suoi clienti ci siano stati  anche i clan calabresi, quelli delle origini, come rivelato da ultimo da un’inchiesta giornalistica di InsightCrime.

    Giorgio Sale, il mediatore di Mancuso

    Mancuso ai tempi dell’Auc era a capo di un’organizzazione che controllava un vasto territorio dove si produceva la coca. «Ma veda, professoressa, c’è spesso qualche grado di separazione tra i broker della produzione e gli acquirenti».
    Detto altrimenti: Mancuso aveva altri che lavoravano per lui e che gli portarono, negli anni ’90, i clienti calabresi.
    Tra questi c’era Giorgio Sale, un imprenditore del Molise, morto nel 2015, semi-sconosciuto in Italia (dove poi verrà condannato per narcotraffico), che in Colombia però aveva ristoranti, bar, proprietà immobiliari, utilizzati per riciclaggio di denaro, legati a Mancuso.

    Il ritratto di Pablo Escobar in un mercatino di Bogotà

    Calabresi e paramilitari: il rapporto perverso

    Questa storia già la si sa – è la storia d’inizio del legame tra alcuni clan calabresi e i gruppi paramilitari (e poi criminali) colombiani. Il legame esiste ancora oggi, nonostante l’arresto (e nel 2020 la scarcerazione) di Mancuso, e lo smantellamento dell’Auc e della rete di interessi di Sale.
    Infatti, al tavolo della riunione gli sguardi scorrono complici quando si fa il nome del prossimo uomo “di interesse”, che prima lavorava con Sale portando gli acquirenti calabresi – e non calabresi qualunque, ma i platioti – fino a Mancuso: Roberto Pannunzi.

    Pannunzi, L’Escobar della ‘ndrangheta in Colombia

    Romano ma di famiglia originaria di Siderno, Pannunzi è definito un po’ da tutti il Pablo Escobar della ‘ndrangheta, di cui è il broker più influente di tutti i tempi. Ai suoi reiterati arresti (l’ultimo nel 2013 a Bogotà) hanno lavorato la Procura di Reggio Calabria, la Guardia di finanza, la Dea americana, la Polizia colombiana.

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    Roberto Pannunzi

    Pannunzi non fa ovviamente affari solo con Mancuso: i suoi rapporti con i cartelli colombiani sono radicati e segnano un salto di qualità di una parte della ’ndrangheta nel mercato della cocaina: mandare i propri emissari, direttamente, in Sudamerica, per negoziare meglio con i produttori.
    Come si farà ancora con Rocco Morabito, in Uruguay (ma di fatto coordinava la negoziazione dei prezzi e delle provvigioni di coca per conto di clan ‘ndranghetisti per tutta l’America Latina).
    Oltre a Pannunzi e in tempi più recenti a Morabito, si fanno i nomi di altri broker italiani, come Enrico Muzzolini, friulano, attivo più o meno negli anni di Pannunzi e in contatto anch’egli con alcuni esponenti dell’ex Auc.

    Il mercato maledetto

    È passata solo una mezz’ora di questa riunione mattutina a Bogotà e stiamo ancora parlando di storia. Non della ’ndrangheta, ma del mercato della cocaina in Colombia, al cuore del conflitto armato e al centro delle negoziazioni per la pace che il governo colombiano ha attivato (e in parte raggiunto con alcuni gruppi) negli ultimi anni.
    I nomi degli ’ndranghetisti che compravano da Pannunzi fino a 10 anni fa, non li conoscono o non li ricordano. Ma in fondo poco conta che fossero i Barbaro-Papalia oppure i Nirta con i loro traffici dalla Spagna, oppure i Commisso per i loro traffici dagli Stati Uniti: «Tenemos muchos otros problemas!», appunto.

    Poliziotti colombiani in azione

    Però l’interesse per la mafia nostrana c’è eccome: anche se i tempi sono cambiati da Pannunzi in poi, ogni tanto compare ancora qualcuno che porta contatti coi calabresi.
    «Se qui le cose sono cambiate, saranno cambiate anche li in Calabria, no?». Questa domanda è l’argomento di un’altra parte della nostra conversazione.
    Ad esempio, mi chiedono, se ricordo l’arresto nel febbraio 2021 di Jaime Eduardo Cano Sucerquia, alias J, che fungeva da link con la Colombia per la mafia calabrese.

    Strani traffici a Livorno

    C’entravano il porto di Livorno e 63 chili di cocaina. Nel 2021, a Livorno, in alcune indagini sul narcotraffico – ad esempio l’operazione Molo 3 – si parlava di un certo Henry, in Colombia, a cui alcuni clan del Catanzarese e del Vibonese si rivolgevano per l’approvvigionamento dello stupefacente.
    Sempre nel 2021, l’operazione Geppo aveva invece raccontato di un certo Leonardo Ferro, alias Cojak, che si era recato da Reggio Calabria a Medellin nel 2017 per trattare gli affari direttamente lì, grazie anche all’aiuto di un soggetto di origini colombiane, ma nato nel Regno Unito: “Alex” Henriquez. Insomma, al pari di J, altri broker condividevano quella rotta su Livorno, e soprattutto, abbiamo concluso, il modus operandi è diverso anche in Calabria.

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    Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel

    Atomizzati i cartelli – «A Medellin ora ci sono 12 gruppi, invece di un cartello” – e arrestato qualche grande leader – Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel, a capo degli Urabeños, che lascia una situazione complessa nel suo gruppo – adesso serve saper fare affari con tutti, perché ci sono più affari da fare. E questo lo sanno anche i calabresi.

    Una mafia senza nomi

    La riunione continua, ma appare chiaro che la ‘ndrangheta a questo tavolo non ha nomi e cognomi. È un’organizzazione “piatta” di cui contano poco i connotati specifici.
    La si conosce, la ‘ndrangheta perché offre dei servizi, ma ne compra di più – primo fra tutti la cocaina – e, diversamente da altre strutture, ha una ramificazione internazionale che permette di “cadere in piedi”.

    ‘Ndrangheta in Colombia? Solo compratori potenti

    Non si parla di riti, di doti, né di capi-mafia e uomini d’onore. Qui – nel Paese che ha il triste primato di esportatore di cocaina verso il ricco Nord del mondo e la ricca Europa – la ’ndrangheta è un gruppo di acquirenti stranieri che, a monte come a valle, ha il potere di influenzare il narcotraffico.
    Cosa dobbiamo sapere, chiedono, della struttura della ’ndrangheta? E cosa dobbiamo sapere noi, chiedo io, dell’attuale situazione colombiana? Lo chiariremo nella prossima puntata.

    (CONTINUA…)