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  • MAFIOSFERA | Australia, la grande isola dell’arcipelago ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA | Australia, la grande isola dell’arcipelago ‘ndrangheta

    Ci sono due storie della ‘ndrangheta in Australia. Una la conoscono quasi tutti ormai. È la storia della più potente mafia d’Italia che, soprattutto dagli anni ’90 in poi, ha fatto fortuna in giro per il mondo grazie a un florido mercato degli stupefacenti e a una resilienza dovuta alla capacità di adattarsi ai cambiamenti, di allearsi con vari altri gruppi criminali. E, ovviamente, di mimetizzarsi all’interno della società civile che viene sia vittimizzata sia inesorabilmente manipolata dalla presenza di capitali e di interessi mafiosi sui vari territori.

    L’Australia e l’arcipelago ‘ndrangheta

    È una storia in cui la magistratura e la società civile hanno registrato importanti passi in avanti soprattutto dalla fine degli anni 2000, gli anni ruggenti delle operazioni Crimine a Reggio Calabria e Infinito a Milano. Sono gli anni di processi che finalmente arrivano a compiere quello che si tentava di portare a compimento da anni: dichiarare e riconoscere la ‘ndrangheta come un’organizzazione criminale unitaria e con propaggini fuori dalla Calabria, incluso il Nord Italia, ma anche l’estero, Canada, Germania, Svizzera e anche Australia.

    Sicuramente molto si sapeva già, prima di Crimine-Infinito, soprattutto perché altre indagini – principalmente, ma non soltanto quelle di droga (pensiamo alle operazioni Decollo nei primi anni 2000) – avevano già visto i clan calabresi protagonisti del narcotraffico. Eppure, con Crimine-Infinito si arriverà, nel 2016, a una conferma che servirà per il futuro: la ‘ndrangheta ha una struttura unitaria, per quanto i clan mantengano una propria indiscussa autonomia criminale. L’arcipelago ‘ndrangheta è fatto di tante isole, a nome collettivo e a interesse e brand comune.

    L’unione fa la forza

    Da allora, il ‘marchio’ ‘ndrangheta è soltanto cresciuto. Fino ad arrivare al 2023 a un consenso generale, non solo in Italia, sulla pervasività della mafia calabrese tanto nel mercato globale di cocaina e altri stupefacenti, quanto anche nell’economia legale. Il progetto I-CAN, Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta, nato nel 2020, guidato dall’Italia e composto per ora da 14 paesi, si prefigge proprio un tipo di azione globale che si confa a una minaccia considerata, appunto, globale.

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    Si legge sul sito di I-CAN: «L’insidiosa diffusione della criminalità di tipo mafioso rappresenta una minaccia unica e urgente, poiché i forti legami familiari e le pratiche politiche e commerciali corrotte le consentono di penetrare in tutti i settori della vita economica.
    Spinta dal potere e dall’influenza, la ‘Ndrangheta è coinvolta in un’ampia gamma di attività criminali, dal traffico di droga e riciclaggio di denaro, all’estorsione e alla manipolazione degli appalti pubblici. Questi enormi profitti illegali vengono poi reinvestiti in attività commerciali regolari, rafforzando ulteriormente la presa dell’organizzazione e inquinando l’economia legale».

    Il Barbaro di Melbourne

    L’Australia è partner del progetto I-CAN. Ciò conferma che non solo la ‘ndrangheta ha una presenza globale molto lontana da casa, ma anche che il fenomeno ‘viaggia’ a diverse latitudini e prende forme diverse, seppur riconoscibili.
    Mentre si portavano avanti gli arresti per Crimine-Infinito il 13 luglio 2010, a compimento di due anni di indagine, a Melbourne una corte stava occupandosi di un soggetto, Pasquale Barbaro, arrestato un paio di anni prima all’interno di Operazione Inca, guidata dalla Polizia Federale Australiana (AFP). Avrebbe deciso, nel dicembre del 2010, che Barbaro era a rischio di fuga e di recidiva, pertanto bisognava respingere la sua richiesta di uscita su cauzione.

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    La droga nei barattoli di pelati sequestrata a Barbaro e i suoi soci

    Barbaro, cittadino australiano, doveva rispondere a una serie di accuse per attività di importazione, traffico e distribuzione di MDMA e cocaina insieme ad altri, nonché riciclaggio di denaro, il tutto tra il 2007 e il 2008. Si trattava di quella che è diventata famosa come la Tomato Tin Importation, in quanto lo stupefacente, 4.4 tonnellate di MDMA e 160 kili di cocaina, arrivarono a Melbourne dall’Italia in barattoli di pelati. Quelli della Tomato Tin Importation erano poco più di una decina di uomini, in parte di discendenza italo-calabrese (come, ad esempio, Francesco Madaffari, Saverio Zirilli e Carmelo Falanga) di cui Barbaro era il capo. In quell’occasione la polizia federale riuscì non solo a confiscare la quantità imponente di stupefacente, ma a monitorare la reazione del gruppo criminale così da poter procedere ad arresti e confische.

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    Le pasticche di Mdma sequestrate con impresso il simbolo del canguro

    L’Onorata Società e il delitto MacKay

    A prima vista questa vicenda sembra confermare la prima storia della ‘ndrangheta, la minaccia globale, l’organizzazione unitaria leader nel mercato degli stupefacenti nel mondo. Ma questa è invece la seconda storia della ‘ndrangheta in Australia, l’Onorata Società. E riguarda un gruppo di famiglie – dinastie criminali le dobbiamo chiamare – che dall’Aspromonte è emigrata in Australia dagli anni ’50 in poi.
    Pasquale ‘Pat’ Barbaro, infatti, è uno dei golden boys dell’Onorata Società australiana; figlio di Frank ‘Little Trees’ Barbaro (a sua volta fratello di Rosario, Rosi, Barbaro, storico capobastone di Platì), Pat ha un accento australiano e un network di associati multietnico. Ma ha un cognome che pesa in Australia, risultato di una reputazione criminale costruita negli anni ’70 e ’80 per questioni che con la ‘ndrangheta di oggi, quella globale, c’entrano indirettamente (seppur ovviamente avendo tanto in comune).

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    La polizia australiana e Frank Barbaro davanti a casa di suo figlio Pat

    È la storia, questa, raccontata, da una commissione d’inchiesta sul narcotraffico nello stato del Nuovo Galles del Sud, la Woodward Commission, che dal 1979 al 1981 scandagliò il mercato degli stupefacenti nello stato australiano in seguito all’omicidio del politico e attivista Donald Bruce MacKay nella cittadina di Griffith.
    La Commissione Woodward, in sei volumi fitti di informazioni, audizioni, acquisizioni di prove da varie fonti, parla di un gruppo criminale, con a capo uomini delle famiglie Sergi, Barbaro e Trimboli – tutti originari di Platì – dedite alla coltivazione e distribuzione sistematica di marijuana sul territorio australiano oltre che abile di riciclare denaro tramite il lavoro delle fattorie che possedevano, prestiti interni gli uni agli altri e a compravendite di immobili tra Sydney e Melbourne.

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    Lo schema di prestiti e depositi tra i soggetti coinvolti nelle piantagioni di marijuana a Griffith negli anni ’70

    La ‘Ndrangheta tra Platì e l’Australia

    C’è anche evidenza, nei calcoli precisi della commissione Woodward, di denaro ‘importato’ dall’Italia, donazioni non meglio specificate, che dalla Calabria finivano Down Under. Erano già gli anni dei sequestri e, lo sappiamo, gli ‘ndranghetisti platioti erano in prima linea. Si erano messe su società di varia natura per ‘legittimare’ questi scambi e questi prestiti, e soprattuto per finanziare la compravendita di terreni su cui poi coltivare marijuana. Lo schema era semplice ma efficace.
    Concluderà seccamente la commissione d’inchiesta nel Nuovo Galles del Sud: «Sono state ricevute prove in relazione all’esistenza in Australia e in particolare nel Nuovo Galles del Sud, di una società segreta calabrese, impegnata in alcune attività criminali. L’organizzazione si chiama L’Onorata Società oppure ‘N’Dranghita’ (dialetto calabrese per Onorata Società). (…) Nel nostro caso questo gruppo include persone delinquenti tutte originarie dalla Calabria, e da un piccolo villaggio di nome Platì».

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    Donal MacKay

    Queste persone, continua il rapporto, sono responsabili per aver ‘ordinato’ la sparizione di Donald Mackay. Mackay non fu l’ultimo omicidio con sospetto coinvolgimento della ‘ndrangheta in Australia, ma sicuramente fu il più importante. Sia da un punto di identità dell’organizzazione criminale, sia di ciò che questa divenne agli occhi di tutto il paese. Ancora aperto oggi, il caso rimane un ‘omicidio impunito di mafia’ per tutti.

    La ‘Ndrangheta d’Australia: un unicum al mondo

    Ma alcuni di quegli uomini indicati dalla Commissione Woodward, soprattutto quelli in posizioni apicali, non furono mai perseguiti in una corte di giustizia. Andarono avanti utilizzando i loro appezzamenti di terreno, tanti, per varie cose: case vinicole, fattorie, residenze. I loro figli, come Pat Barbaro ad esempio, hanno spesso seguito le orme dei padri, ma con i cambiamenti dovuti a qualunque scarto intergenerazionale. Si sono adattati all’Australia che chiede loro collaborazione multietnica, flessibilità e soprattutto di essere sia calabresi sia australiani. È una ‘ndrangheta effettivamente transculturale, diversa dalla ‘ndrangheta calabrese sebbene a questa ricollegata e da questa riconoscibile.

    Si tratta di una storia tutta australiana, quella che porta dai ‘castelli d’erba’ di Griffith, the grass castles come vengono chiamati, a un omicidio eccellente, e a un esecutivo di mafia a cuore platiota ancora esistente e resistente. Questa storia tutta australiana, che si intreccia e si confonde con la storia della ‘ndrangheta globale, rappresenta un unicum al mondo. È in Australia molto più che altrove che le varie facce della ‘ndrangheta ci mostrano la realtà complessa di questo gruppo criminale, che non può esistere a livello globale – non a certi livelli – senza riuscire a diventare storia locale. E la storia di Pat Barbaro, delfino degli ‘ndranghetisti di Griffith ma trafficante di stupefacenti a livello globale, non è che l’inizio di questa storia.

  • Sanità: c’è l’accordo tra ‘Ndrangheta e Regione

    Sanità: c’è l’accordo tra ‘Ndrangheta e Regione

    L’intesa era nell’aria e oggi, primo aprile, è arrivata l’ufficialità: sarà la ‘Ndrangheta a gestire per conto della Regione la Sanità in Calabria. Il lungo periodo in coabitazione non pare, infatti, aver risolto gli annosi problemi del settore. Il mondo della politica e quello della criminalità locale hanno studiato a lungo il deficit del sistema sanitario calabrese per arrivare, infine, alla più logica delle conclusioni: Azienda Zero ha concluso quanto Cotticelli finora e gli unici ad avere abbastanza denaro per tappare il buco nei conti degli ospedali pubblici da queste parti sono i clan.

    Sanità dalla Regione alla ‘ndrangheta: le prime reazioni in Calabria

    L’accordo ha la benedizione della Madonna di Polsi, per la gioia della Chiesa, e del Consiglio regionale, con le segreterie di tutti i partiti a inondare le redazioni di comunicati sul rafforzamento della storica partnership tra ‘ndrine e eletti calabresi. Laconico il commento della massoneria deviata: «A noi non cambia nulla».

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    La sigla dello storico accordo

    Timori, al contrario, nel mondo della sanità privata: il nuovo ruolo di un concorrente esperto come la ‘Ndrangheta nel ramo delle doppie fatturazioni rischia di privare gli imprenditori del loro storico monopolio del settore. I contabili di cliniche e clan sono già al lavoro, comunque, per trovare un’intesa accettabile per il futuro.

    Previsto nei prossimi giorni un incontro in Cittadella tra rappresentanti della Santa e stakeholders. Fonti qualificate preannunciano l’apertura imminente di un tavolo tecnico e la firma di un protocollo di illegalità in un appartamento dei Servizi segreti.

    Più ‘ndrangheta, meno Regione: cosa cambia per la Sanità in Calabria

    Stando alle prime indiscrezioni, non dovrebbero registrarsi troppe novità amministrative: i concorsi resteranno truccati, si procederà a gran parte di assunzioni e promozioni sempre e solo per amicizia o clientela e il costo dei dispositivi medici manterrà un prezzo superiore a quello delle altre regioni italiane. Nella scelta dei professionisti su tutto il territorio, però, saranno i clan ad avere la precedenza sui politici, invertendo così il trend degli ultimi anni di commissariamento.tiratore

    Il fenomeno dell’emigrazione sanitaria, costato finora centinaia di milioni di euro all’anno, dovrebbe ridimensionarsi, invece, grazie all’utilizzo di cecchini appostati nelle vicinanze delle strutture extraregionali interessate, pronti ad abbattere i calabresi in trasferta prima del loro ingresso.

     

    Deficit e investimenti

    Serratissimo il cronoprogramma degli investimenti: il piano per la Sanità prevede che la ‘Ndrangheta versi una piccola parte degli introiti del narcotraffico per ripianare quei bilanci che la Regione fatica ad approvare alla luce del deficit accumulato nel tempo. Liquidato così il problema nel giro di una settimana, dalla successiva si partirà con la ristrutturazione degli immobili attraverso ditte di fiducia.

    Grazie al nuovo codice degli appalti approvato dal Governo, niente più lungaggini burocratiche: per i lavori di importo inferiore ai 150 milioni di euro basterà autocertificare di aver giurato fedeltà all’ente appaltante dando fuoco a un santino. Spazio, quindi, alla costruzione di 200 nuovi ospedali in punti a caso non ancora cementificati a sufficienza.

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    Il Ponte può attendere

    Resta, invece, in bilico l’accordo per la costruzione del Ponte di Messina. Governo e Regioni premono per realizzarlo in fretta, ma la ‘Ndrangheta e Cosa Nostra frenano: troppi gli uomini già impegnati altrove al momento per garantire personale, materiali e mezzi necessari anche per la maxi opera.

  • MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    Il 22 marzo 2023, in Australia, sul canale commerciale Channel 9, è andato in onda The Hit, un episodio del programma Under Investigation, che in stile talk-show si occupa di riconsiderare, riaprire e discutere le prove su casi criminali controversi, finiti male o non ancora del tutto finiti.

    Chi ha ucciso il superpoliziotto Winchester?

    The Hit, anche disponibile su YouTube, si pone due domande chiare: chi ha ucciso Colin Winchester, Assistant Commissioner della Polizia Federale Australiana (AFP), il 10 gennaio del 1989? E un’altra domanda che fa rabbrividire: e se la mafia l’avesse fatta franca nell’omicidio di un poliziotto d’alto rango? Siccome siamo in Australia, ed era il 1989, mafia significa Honoured Society, l’Onorata Società, quindi la ‘ndrangheta.

    Riaprite questo caso

    A questo talk-show per Under Investigation ho partecipato da remoto, come accademica esperta di ‘ndrangheta: ma ero affiancata da persone che il caso Winchester lo conoscono molto bene: Terry O’Donnell, uno degli avvocati di David Eastman, colui che per anni è stato considerato il colpevole dell’omicidio, poi scarcerato con tante scuse; Jim Slade, un ex capo dell’intelligence nel Queensland vicino alle indagini, e un altro avvocato, Geoffrey Watson, coinvolto nel caso in vari momenti per assicurarne l’integrità. L’obiettivo – guidato primariamente da Watson, non è solo raccontare il caso, ma chiedere ufficialmente che si apra un’inchiesta pubblica sull’omicidio Winchester che, ad oggi, risulta non solo impunito, ma praticamente “chiuso”.

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    Per la polizia federale australiana non ci sono prove del legame tra l’omicidio Winchester e la ‘ndrangheta

    La Polizia federale australiana: non ci sono prove

    La AFP ha infatti dichiarato nel luglio 2022, in seguito a una serie di articoli che ripercorrevano alcuni degli indizi della cosiddetta pista mafiosa nel caso:  «L’AFP non ha riaperto i fascicoli precedentemente chiusi sull’assassinio di Winchester. Non ci sono prove che suggeriscano che la criminalità organizzata italiana sia responsabile della morte di uno dei nostri, il vicecommissario Colin Winchester. I nostri pensieri sono sempre rivolti alla famiglia Winchester».
    Nello stesso documento si legge: «L’AFP vuole essere chiara: non c’è alcun esame, rapporto o intelligence recente dell’AFP che suggerisca che la mafia sia responsabile dell’omicidio dell’ex vicecommissario Winchester. Non c’è alcuna indagine aperta su questa vicenda. Non è in corso di revisione».

    Winchester, ‘ndrangheta e Rapporto Martin

    Il caso Winchester è piuttosto complicato dopo decenni di tira e molla giudiziari. Un funzionario pubblico, David Eastman, fu condannato per l’omicidio nel 1995, ma 20 anni dopo, nel 2014, a seguito di una Commissione d’Inchiesta (“Rapporto Martin”), un tribunale ha ordinato un nuovo processo e ha riaperto il caso. Il rapporto disse che altre piste investigative non erano state esplorate a fondo; alcune cose erano state attivamente insabbiate. C’erano, tra queste, anche alcune “piste calabresi”. Il 22 novembre 2018, la giuria del nuovo processo dichiarò Eastman non colpevole dell’omicidio. Eastman, che aveva intanto scontato 19 anni di detenzione, ottenne un risarcimento di 7 milioni di dollari australiani nell’ottobre 2019: il caso collassò per problemi legati all’ammissione delle prove, e soprattutto perché ai tempi dell’indagine le forze di polizia avevano avuto una cosiddetta tunnel vision e non avevano adeguatamente escluso altre piste investigative.

    Piantagione di cannabis

    I calabresi coinvolti nella produzione di droga

    Il Rapporto Martin aveva descritto come Winchester fosse percepito come un poliziotto corrotto da alcune famiglie di origine calabrese coinvolte nella produzione di droga. Si tratta di famiglie della zona della Riverina Valley, in particolare legate ai clan di Platì stabilitisi a Griffith, nel Nuovo Galles del Sud. Questi clan hanno fatto la storia della mafia italiana in Australia, in quanto coinvolti in altri eventi “misteriosi” della storia australiana, indirettamente o direttamente. Tali clan, disse l’inchiesta, avrebbero ritenuto che Winchester – corrotto – avesse fallito nel proteggerli, come aveva invece promesso di fare – lasciandoli quindi esposti al controllo della polizia. Erano gli anni delle operazioni Bungadore 1 e 2, condotte da Winchester quando era ancora nella polizia a Canberra, prima della promozione a vice-commissario, sulle piantagioni di cannabis nella Riverina Valley, a firma Sergi-Barbaro-Trimboli.

    Ammazzato prima del processo 

    Winchester fu ucciso due settimane prima dall’inizio dei processi per Bungadore, contro alcuni calabresi ‘ndranghetisti. Giuseppe Verduci, che era l’informatore primario di Winchester – colui che forse faceva il doppio gioco tra i clan e la polizia – si rifiutò di testimoniare a processo per paura, e il processo di fatto finì in un nulla di fatto.

    La pista di mafia, però, fu eliminata quasi subito dalla polizia federale che gestiva l’indagine. Un misto tra difficoltà investigative e possibili insabbiamenti. Non tutti all’epoca si trovarono d’accordo con l’abbandono della pista mafiosa. Per esempio, si legge in una dichiarazione dell’Australian Bureau of Criminal Intelligence del dicembre 1990: «L’omicidio del vicecommissario Winchester, avvenuto il 10 gennaio 1989, è stato commesso da, o per conto di, un gruppo organizzato di italiani, residenti a Griffith e Canberra per proteggere i beni e la libertà delle persone coinvolte nella produzione e commercializzazione su larga scala della canapa indiana in Australia».

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    L’omicidio di Winchester raccontato nel giornale australiano “The Canberra Times”

    I soliti sospetti

    Dello stesso avviso si era in Italia, dove l’omicidio viene infatti annoverato tra i reati di ‘ndrangheta. I dati del rapporto Martin sulla pista calabrese citano i soliti sospetti: membri della famiglia Barbaro-Sergi a Griffith e Melbourne; noti esponenti della criminalità organizzata italo-calabrese con cognomi importanti – Pelle, Nirta, Tizzoni – tutti affiliati a clan mafiosi estremamente noti in Calabria nel locale di Platì, tutti intrecciati in reti familiari e d’affari, come rivelato anche in Australia proprio nelle operazioni Bungadore 1 e 2 e da altre indagini, ad esempio, in occasione della scomparsa (e presunto omicidio) dell’attivista e politico Donald MacKay, nel 1977, a Griffith, commissionato – disse una Royal Inquiry del tempo – dai clan Sergi-Barbaro-Trimboli. Anche in quel caso non si arrivò a un processo penale.

    Winchester, ‘ndrangheta nella pista calabrese?

    C’è comunque una pistola abbastanza fumante, quanto meno come pista investigativa, in tutta questa storia. Riguarda un’altra indagine, l’Operazione Seville, un’operazione congiunta dell’AFP di Canberra e della polizia del Nuovo Galles del Sud, all’inizio degli anni ’80 sulla produzione di canapa indiana all’interno della comunità italiana. Nei file di Seville – che ho visionato nel 2017 quando ho espresso un parere da esperta per la difesa di David Eastman nell’ultima parte del processo che poi lo avrebbe assolto – c’è un documento redatto dai Carabinieri, in Calabria, il 25 gennaio 1989, sei mesi prima dell’omicidio Winchester. Due individui, B. Musitano e G. Ielasi, dice il documento, sarebbero partiti dall’Italia, da Platì, per commettere l’omicidio di un poliziotto, dicono le autorità italiane. I Carabinieri avevano inviato queste informazioni all’AFP dicendo che l’atto sarebbe stato compiuto per “riscattare l’onore della famiglia”.

    I carabinieri avevano inviato un documento alle autorità australiane

    Le autorità italiane avevano avvertito

    Le autorità italiane avevano dunque avvertito che «B. Musitano è noto per le sue associazioni di ‘ndranghita [sic]» ed era considerato una «persona pericolosa a causa del suo background familiare». Inoltre, era un abile maneggiatore di armi. Il 12 giugno 1989, un mese prima dell’omicidio, le autorità italiane inviarono ulteriori informazioni, informando che Musitano era stato mandato in Australia per uccidere il vicecommissario Winchester e che erano stati presi accordi per farlo rimanere in Australia e sposare una residente australiana. Ulteriori dettagli fanno poi riflettere. I carabinieri dicono che Musitano fosse già stato in Australia in passato, nel 1985, per pagare quel «capo della polizia» (che sarebbe Winchester) corrotto, e per garantire, grazie a lui, il passaggio della droga. Musitano dovette poi tornare in Italia ma, quando Winchester apparentemente non accettò la tangente, Musitano tornò per ucciderlo.

    Tutto ciò fu incluso nell’Operazione Peat del 1989 che era sottotitolata “Sospetti di coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese nell’omicidio del vicecommissario Colin Stanley Winchester”. Sembra ovvio chiedersi, come è possibile che queste informazioni non abbiano ribaltato all’epoca l’intero caso, se non altro per introdurre un ragionevole dubbio nel processo contro Eastman?

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    Domenic Perre (foto Adelaidenow.com.au), condannato 28 anni dopo l’Nca bombing

    Musitano e Ielasi

    Operazione Peat si concluse e all’epoca l’AFP dichiarò di non aver trovato «alcuna prova concreta a sostegno delle informazioni ricevute» anche se «le informazioni di Musitano/Ielasi sono state l’indicazione più promettente fino ad oggi che l’omicidio sia stato organizzato ed eseguito da elementi della criminalità organizzata calabrese». Qualche riscontro emerse però in seguito: Musitano aveva parenti a Melbourne – nella famiglia Barbaro – e ad Adelaide – nella famiglia Perre; fu arrestato nel 1993 per produzione di stupefacenti nell’HIdden Valley, in un’organizzazione criminale di matrice ‘ndranghetista guidata da Domenic Perre (e la storia di Perre e un’altra delle storie significative australiane). Ielasi, l’altro uomo citato dalle autorità italiane, rimase invece a Melbourne.

    Troppi ragionevoli dubbi

    Ad oggi i dubbi sono tanti. Ci sono dubbi sul fatto che Winchester fosse o meno corrotto; ci sono dubbi che Verduci, il suo informatore, fosse effettivamente affidabile per Winchester; ci sono i processi falliti di Bungadore 1 e 2; ci sono i documenti dalla Calabria; e c’è, infine, oggi, ma non c’era forse ieri, la consapevolezza che in quegli anni quei clan e in quella zona dell’Australia erano effettivamente all’apice del proprio potere, criminale, sociale, economico ma anche e soprattutto politico.

    Al netto dei dubbi c’è forse una certezza: dopo 34 anni, l’omicidio di uno dei poliziotti più titolati e più senior d’Australia al suo tempo, vicecommissario della polizia federale, non dovrebbe poter rimanere insoluto, che ci sia di mezzo la ‘ndrangheta o meno.

  • ‘Ndrangheta stragista: ergastolo a Graviano e Filippone

    ‘Ndrangheta stragista: ergastolo a Graviano e Filippone

    Un accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, per colpire lo Stato, per destabilizzare il Paese. La sentenza di secondo grado del processo “Ndrangheta stragista” riscrive la storia d’Italia.  La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (Bruno Muscolo presidente, a latere, Giuliana Campagna) ha infatti confermato gli ergastoli già emessi in primo grado nei confronti del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, e dell’uomo forte della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, nell’ambito del procedimento “Ndrangheta stragista”. I due sono stati condannati anche in secondo grado quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto nei pressi di Scilla il 18 gennaio del 1994.

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    Il pubblico ministero, Giuseppe Lombardo

    Una notte della Repubblica

    I giudici di secondo grado, quindi, hanno avvalorato l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Giuseppe Lombardo (applicato anche nel procedimento d’appello) circa l’esistenza di un accordo tra le due principali organizzazioni criminali del nostro Paese nella strategia stragista che doveva cambiare gli equilibri d’Italia, in una fase di passaggi tra la Prima la Seconda Repubblica, dopo l’annus horribilis, il 1992, con l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.

    Il piano di Totò Riina

    L’inchiesta, mastodontica, ha ricostruito il ruolo delle principali cosche della ‘ndrangheta, i Piromalli e i De Stefano, che, attraverso alcuni summit (il più famoso dei quali, a Nicotera Marina), avrebbero aderito al piano eversivo voluto da Totò Riina, in quel momento capo indiscusso della mafia siciliana. Infatti, nel complessivo attendismo della ‘ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti invece, quelle che ruotano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri – che, non a caso avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata di Licio Gelli – si muovono nell’ombra, all’insaputa del resto della consorteria.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Una sentenza di secondo grado che, quindi, inserisce questi fatti in un disegno complessivo, quando, invece, per anni, gli attentati ai militari dell’Arma erano stati inquadrati come episodi sganciati da contesti più grandi. Per gli assalti ai Carabinieri, infatti, vengono utilizzati due giovanissimi criminali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, certamente fedeli, efficienti e spregiudicati, ma non immediatamente riconducibili alle famiglie di ‘ndrangheta che erano alle spalle dell’azione. L’ennesimo, geniale, depistaggio della ‘ndrangheta.

    Franco Pino e gli altri collaboratori di giustizia

    Una inchiesta che si basa, soprattutto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui quelle di Franco Pino, del 2018. Frasi commentate da due soggetti vicini alla famiglia Piromalli in una intercettazione che ha rappresentato il colpo di scena finale nel procedimento di secondo grado. In quelle captazioni del 2021, divenute pubbliche solo in queste ultime settimane, si faceva infatti riferimento al volere dei vertici della cosca di Gioia Tauro di insanguinare anche la Calabria. Apparentemente con azioni scollegate (proprio come gli attentati ai carabinieri) ma, di fatto, inserite in un medesimo e inquietante disegno criminale.

    «Il colpo di grazia allo Stato»

    Collaboratori di giustizia, tanto calabresi, quanto, soprattutto, siciliani. Come Gaspare Spatuzza, per anni braccio destro del boss Graviano. La voce di Spatuzza postula dunque l’esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. In questo contesto la frase di Graviano «… bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi…» pronunciata per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere e colpire ancora.

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    Il collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza

    Da Moro a Berlusconi

    I lunghi, lunghissimi, dibattimenti di primo e secondo grado hanno allargato quasi all’infinito il raggio d’azione, coinvolgendo nella narrazione dei collaboratori figure influenti della politica italiana: da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Ma il procedimento ha attraversato decenni di storia italiana e locale: dal ruolo che la ‘ndrangheta avrebbe potuto avere nel sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alla carriera politica di Giuseppe Scopelliti, ex governatore calabrese, che spiccò il volo dopo l’attentato a Palazzo San Giorgio del 2004, fasullo secondo l’impostazione accusatoria.

    Crimine, servizi segreti e massoneria

    Il quadro inquietante nella commistione tra organizzazioni criminali, politica, massoneria, viene completato dal ruolo rivestito dai servizi segreti. Impegnati per decenni in attività volte ad assicurare la permanenza del paese nel blocco occidentale, prevenendo ed impedendo infiltrazioni del blocco avverso, venuto meno, per l’appunto, la controparte, sentivano di avere perso la loro missione e con essa gli enormi spazi di manovra – talora illegali –  che la stessa gli garantiva. Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile, così, per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere.

    Insomma, le mafie e le schegge infedeli di apparati statali sembrerebbero accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema: entrambe avrebbero concorso per il mantenimento dello status quo. La strategia stragista doveva proprio permettere di individuare i nuovi referenti politici, in grado di portare avanti i piani granitici elaborati ed eseguiti nel corso della Prima Repubblica. Perché più le cose cambiano, più restano le stesse.

  • Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    «Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
    Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.

    Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel

    Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».

    Il Paese soffre ma dice di arricchirsi

    La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».

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    Un sequestro di sigarette di contrabbando

    La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale

    Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.

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    Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi

    Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.

    Mafia Spa: più criminalità, meno crescita

    La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.

    Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».

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    Un altro grafico dal report di Bankitalia

    I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.

    Mafia Spa e pubblica amministrazione

    Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».

    Le conclusioni della banca centrale italiana

    Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».

  • MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    I Piromalli, il narcotraffico e non solo. È il 2 novembre 2020: 800 panetti di cocaina, per un peso totale di circa 932 kg vengono sequestrati e recuperati sul container reefer MSCU7430870, proveniente da Coronel (Cile) e diretto a Napoli, con scalo intermedio a Rodman (Panama).
    Due settimane dopo, il 17 novembre 2020, un altro sequestro recupera 38 imballi per un peso totale di circa 720 kg di cocaina sul container siglato MSDU9014828. La merce, stavolta, proviene da Guayaquil (Ecuador). Siamo a Gioia Tauro e questi sequestri di quasi due tonnellate di cocaina fanno male ai clan.

    Un sequestro in Brasile

    Il 26 novembre del 2020 le autorità sequestrano 298 kg in 270 panetti di cocaina al porto di Santos, in Brasile.
    La spedizione sarebbe passata da Gioia Tauro, e poi sarebbe finita in Israele. Lo stupefacente era nel mezzo di un carico di carta.
    Tuttavia, grazie a un’analisi basata su criteri oggettivi di rischio, il contenitore in cui era nascosta la cocaina è finito nei controlli. E questo a dispetto dei risultati del Rapporto globale sulla cocaina di metà marzo 2023 dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime), per cui le confische di cocaina nel 2020 in Brasile erano in calo.
    Anche questo sequestro fa male ai clan. Specie a Gioia Tauro.

    Finanzieri in azione a Gioia Tauro

    Chiacchiere tra trafficanti dei Piromalli

    Lo sanno bene i fratelli Domenico e Cosimo R., che aspettavano quei panetti di coca al porto della Piana, tra l’altro in periodi di restrizioni dovute al Covid. «Ieri sera ci è caduto il lavoro dei trecento», ha detto uno di loro all’indomani del sequestro a Santos.
    «L’hanno trovata di sotto», dice uno. «L’hanno trovata?», incalza l’altro. «Mhm …in Brasile», conferma. «Non mi fare … (imprecazione)… mille e trecento, io me n’ero dimenticato, e tu ora me li hai messi di nuovo in testa …», conclude l’interlocutore. Parlano di quei chili di droga già sequestrati nello stesso mese.

    Altro sequestro dal Brasile

    I due fratelli non si danno per vinti. Già qualche giorno dopo parlano di un nuovo carico, partito il 29 novembre con la MSC Adelaide dal Brasile. Aspettano 216 kg di cocaina («Ieri sera sono partiti altri duecento»).
    Ma anche stavolta, il 18 dicembre successivo, lo stupefacente finisce sotto sequestro a Gioia Tauro.
    Il 17 dicembre, Domenico e Cosimo R. ricevono una visita da San Luca e insieme commentano l’arrivo, proprio in quelle ore, della MSC Adelaide al porto, controllabile da Marine Traffic, un sito semi-aperto dove è possibile seguire le navi e gli scali portuali di tutto il mondo. Hanno paura che anche questo carico venga sequestrato e che, ovviamente, questo provochi dei problemi con altri compratori, che crederanno al sequestro «solo quando esce sui giornali».

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    Un indagato in manette durante l’operazione Hybris

    Hybris racconta i Piromalli

    Queste tonnellate di cocaina non arrivano a Gioia Tauro grazie a un’efficace serie di interventi delle forze dell’ordine.
    I dettagli dei fallimenti di Domenico e Cosimo R. sono immortalati nell’operazione Hybris. Quest’operazione ha fatto scattare le manette a metà marzo 2023 a vari soggetti gravitanti attorno ai clan di Gioia Tauro. In particolare, Piromalli e Molé (Domenico e Cosimo, infatti, sono considerati parte del clan Piromalli). Oltre che dell’importazione di cocaina, i due fratelli dovranno rispondere di vendita di vari chili di cannabis, detenzione di armi, estorsioni, danneggiamenti e intimidazioni.

    Non solo coca: anche l’erba conta

    I problemi con la cocaina, tra l’altro, non bastano: si mescolano a quelli legati allo smercio di cannabis;
    Domenico B., che fa affari con i due fratelli per la cannabis, si lamenta infatti della scarsa qualità dell’erba e dello scarso profitto tra ottobre e novembre dovuto a «brutte figure» con chi di cannabis invece se ne intende.
    Ci sono problemi di capitali investiti e non recuperabili. Tuttavia i costi della cannabis – si ragiona su 1.300 euro per kilo, a seconda della qualità del prodotto – non sono quelli della cocaina, che invece va a 35-37 mila euro al kilo.

    Coca e cannabis: l’oro vegetale dei clan

    La leadership dei Piromalli

    Gioia Tauro è un centro nevralgico del crimine organizzato, mafioso e non, grazie all’esistenza e operosità del porto e alla versatilità del clan Piromalli, il gruppo più forte, alleato con i Molé in diversi momenti storici e per varie attività. L’insuccesso e la difficoltà sono la normalità del crimine.
    Invece, la capacità di risolvere i problemi e mantenere la reputazione è una specialità dei Piromalli. Non a caso nell’operazione Hybris vi sono affiliati e simpatizzanti dei Piromalli e Molé imputati di una serie di condotte illecite che restituiscono la fotografia di una realtà mafiosa poliedrica e stratificata, nonostante i problemi.

    Una criminalità piena di “hybris”

    Si legge infatti nell’ordinanza di Hybris:
    «Ciò che si ricava è l’immagine di un aggregato criminale che, seppur provato dalle vicende interne legate alla mancanza di un capo carismatico accettato da tutti i propri componenti, mantiene intatta la propria “hybris”, ovvero la propria tracotanza criminale e, in un periodo di depressione economica e sociale, determinato dalla restrizione connesse all’emergenza sanitaria derivante dalla pandemia da covid-19 che caratterizzano l’interno arco temporale investigato, trova nuovo linfa ripiegandosi in attività delinquenziali “classiche”, quali le estorsioni ai commercianti e ai piccoli imprenditori agricoli della zona di stretta competenza territoriale (coincidente con il territorio del Comune di Gioia Tauro), il traffico di armi e di stupefacenti».

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    Pino Piromalli, alias “Facciazza” tra i carabinieri

    Il ritorno di Pino “Facciazza” Piromalli

    Dall’operazione Hybris arriva un’intercettazione bomba ammessa al processo ’ndrangheta stragista, che conferma il ruolo che i Piromalli avrebbero avuto nella strategia stragista di Cosa Nostra negli anni 90.
    Pino Piromalli (Facciazza) scarcerato nel maggio 2021, quindi nel pieno degli eventi descritti in questa indagine, sarebbe stato l’artefice dell’accordo con i siciliani, avallando le stragi di stato.
    Il suo rientro a Gioia Tauro dopo anni di detenzione è il perno di tutto ciò che accade in questi anni nel sottobosco mafioso della città della Piana. Senza il capo meccanico, come lo definirà uno dei reggenti del clan, Girolamo Piromalli, alias Mommino, c’è anarchia, c’è confusione, e si rischia che la gente non sappia stare al suo posto. Senza il capo legittimo, riconosciuto da tutti, il caos degli insuccessi è più difficile da superare.

    Un’immagine simbolo della strage di Capaci

    La ’ndrangheta? Tutta questione di prestigio

    Come si collegano dunque le attività delinquenziali classiche – l’estorsione, il traffico d’armi e di stupefacenti – con il ruolo storico della dinastia mafiosa gioitana per eccellenza?
    È tutta una questione di riconoscimento sociale e di reputazione, nonché di amplificazione del potere mafioso-criminale.
    La scarcerazione di colui che per successione dinastica guida il clan è questione di reputazione. Il clan deve avere un suo capo “storico”, dal cognome e dalla storia pesante, anche se questo capo non dovesse decidere di tutte le attività criminali dei vari segmenti della ’ndrina e della “locale”.
    Ma c’è di più: la perdita dei carichi di stupefacente non è solo un fatto negativo: è un vero e proprio smacco per i clan.

    Una macchina economica

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    Don Mommo Piromalli, storico leader del clan

    Non riuscire, per ragioni indipendenti dalla propria volontà, a portare a casa tonnellate di cocaina è certamente un danno economico. Ma la capacità di organizzare importazioni ogni due settimane – mettendo quindi in allerta le forze dell’ordine e il porto- aiuta il riconoscimento sociale del gruppo che cura l’importazione.
    Si sa che sono loro a importare: lo sanno gli altri clan, lo sanno i “capi”. I soldi del traffico di cocaina – tanti – girano e le perdite si ammortizzano grazie anche ad altre attività criminali che confluiscono nelle “bacinelle”.
    Ciò accade perché i Piromalli non sono un clan come gli altri. Sono una dinastia mafiosa della prima ora, che ha partecipato alla formazione della ’ndrangheta contemporanea, come nessun’altra famiglia.

    Contro i Piromalli la repressione non basta

    Appurato che il capo legittimo è fuori, che l’ordine si può ristabilire e che le alleanze sono sotto controllo, perdere denaro in fondo non è un problema. Beninteso: fintanto che reputazione e riconoscimento sociale restano.
    Pertanto, continuino pure le forze dell’ordine a fare un eccellente lavoro di interruzione delle attività criminali a Gioia Tauro.
    Ma non ci si scordi neppure un momento che il potere di questo casato sta nella caratura criminale dei capi storici. E che essa amplifica ogni attività degli affiliati. Interrompere questo circolo vizioso richiede molto di più che semplici repressioni.

  • RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

    RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

    Lo chiamano “Nano feroce”. Sicuramente non in sua presenza. Antonino Imerti è uno dei boss storici della ‘ndrangheta del Reggino. C’è il suo nome sull’evento che, nell’ottobre del 1985 cambia la storia della provincia di Reggio Calabria e, forse, anche dell’intera Calabria. La sua, come tante di quelle dei boss della ‘ndrangheta, è una vita da romanzo noir.

    1985: si parla già del ponte sullo Stretto

    Nino Imerti è originario di Fiumara di Muro ma, ormai da tempo, ha spostato il centro degli affari a Villa San Giovanni: un luogo più redditizio. Villa San Giovanni è un paese in crescita, un centro che ben presto potrebbe diventare una gallina dalle uova d’oro. Questo le cosche reggine lo hanno capito. Lo hanno capito gli Imerti, che tengono parecchio alla leadership nel Villese. E lo hanno capito i De Stefano, di cui Imerti è stato, per tanto tempo, fedele alleato.

    Le cose però, negli ultimi mesi del 1985, sono cambiate: i rapporti tra le famiglie De Stefano e Imerti non sono più cordiali come lo erano in passato. Da un po’ di tempo, inoltre, si parla con insistenza della possibilità di costruire un ponte sullo Stretto di Messina, che congiunga Calabria e Sicilia: con i soldi a nessuno piace scherzare e gli appalti del ponte mettono sul piatto decine di miliardi. È un’occasione che le cosche non vogliono assolutamente lasciarsi scappare.
    Siamo nel 1985 e oggi, a distanza di oltre trentacinque anni, del famigerato ponte non esiste nemmeno un pilastro. Ma questa è un’altra storia.

    Nino Imerti, “Nano feroce”

    Nino Imerti è un uomo giovane, non ha nemmeno quarant’anni, di corporatura minuta: per questo lo chiamano “Nano Feroce”.  Un soprannome che Imerti non gradisce affatto. E non perché non si riconosca nell’aggettivo “feroce”.
    Nino Imerti è, fin dagli anni ’70, un boss di tutto rispetto: nel 1975 evade dal carcere di Augusta, all’interno del quale è detenuto, e vive da latitante per cinque anni. Poi, viene arrestato. Adesso, nell’autunno del 1985, è libero da un anno e mezzo. Imerti è in libertà vigilata, è un sorvegliato speciale. Non solo da parte delle forze dell’ordine, a quanto pare.

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    Domenico “Micu ‘u pacciu” Condello

    Dichiara il collaboratore di giustizia Giuseppe Scopelliti: «Nel corso della guerra di mafia che ha visto tutte le famiglie di Reggio Calabria schierate su due fazioni contrapposte, posso riferire che per quanto riguarda il nostro gruppo si sono succedute due fasi: la prima concerne il periodo in cui era detenuto Pasquale Condello. In tale fase la direzione delle operazioni militari era stata assunta da Nino Imerti, che si avvaleva della consulenza di Mimmo Condello […] Nel momento in cui uscì dal carcere Pasquale Condello, egli assunse la direzione di tutte le azioni belliche sul territorio del capoluogo, lasciando a Nino Imerti le decisioni sulla zona di Villa San Giovanni e comuni limitrofi. Si costituì una direzione strategica delle operazioni tra Pasquale Condello, Paolo Serraino e Diego Rosmini (senior), lasciando sempre a Nino Imerti la zona di Villa San Giovanni…”.

    I matrimoni prima della guerra

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    Giacomo Lauro

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, da quel 16 giugno 1985, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile.  Il collaboratore di giustizia, Giacomo Lauro, racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel 16 giugno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

    La famiglia De Stefano “risponde”, nello stesso anno, con un altro matrimonio di prestigio: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

    L’autobomba di Villa San Giovanni

    Nino Imerti non è né stupido, né, tantomeno, sprovveduto. Per questo si muove a bordo di un’auto blindata, nel caso in cui a qualcuno venisse qualche strana idea. L’11 ottobre del 1985 è un venerdì, sono le 19.10. Nella centrale via Riviera di Villa San Giovanni, a pochi metri dalla caserma della Guardia di Finanza, parcheggiata accanto all’auto blindata di Nino Imerti, c’è una Fiat 500.

    Nessuno, probabilmente, nota quella Fiat 500, un’automobile come tante altre, in sosta in una delle zone più frequentate di Villa San Giovanni. Quell’auto, però, non è un’auto come le altre. Nino Imerti e i suoi uomini di scorta non lo sanno, ma quella Fiat 500 è imbottita di esplosivo.  Imerti e i suoi quattro guardaspalle sono appena usciti dalla sede dell’Italia Assicurazioni, che è gestita proprio dal “Nano Feroce”.

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    La scena dell’attentato a Nino Imerti

    È un attimo. Un boato assordante che riecheggia anche a diversi chilometri di distanza: sul selciato restano in tre e la notizia si diffonde a macchia d’olio, nel giro di pochi minuti. Nino Imerti sarebbe morto sul colpo, insieme con altri due uomini. Altri due individui rimangono feriti. Via Riviera viene isolata, recintata da Polizia e Carabinieri. I rilievi proseguono fino a notte fonda: il commissario Blasco, il tenente colonnello Palazzo, nuovo comandante del Gruppo carabinieri di Reggio Calabria, e il capitano Pagliari si danno da fare per raccogliere possibili prove, elementi anche apparentemente insignificanti.

    Nino Imerti è morto?

    Per tutta la notte il nome di Antonino Imerti è inserito nella lista dei morti. Gli avversari festeggiano, hanno fatto bingo: avendo mandato all’altro mondo un leader così potente e carismatico, potranno adesso gestire a proprio piacimento gli affari di Villa San Giovanni e, soprattutto, gli appalti miliardari del ponte sullo Stretto di Messina.

    La “festa”, però, dura solo poche ore perché, alle prime luci dell’alba, arriva il colpo di scena, la rettifica. Nino Imerti è vivo. È lui, insieme con Natale Buda, uno dei due feriti. Morti, ed irriconoscibili per l’effetto della dinamite, Umberto Spinella e i fratelli Vincenzo e Angelo Palermo, guardie del corpo di Imerti: il “Nano Feroce” usa lo sportello dell’auto, che è blindata, come scudo e rimane illeso.

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    Nino Imerti

    Così Pantaleone Sergi su La Repubblica racconta quel giorno: «Per gli inquirenti è un boss di spicco, di quelli che contano, con legami saldi ed importanti in Calabria e fuori: al suo matrimonio con una maestrina elementare, nella scorsa primavera, sarebbero stati visti gli “ambasciatori” di cosche palermitane, catanesi, della camorra campana. Ora è in stato di arresto. Si rifiuta di collaborare con la giustizia e per gli inquirenti proteggerebbe così i propri mancati killer».

    È forse questo il punto cruciale della scalata criminale di Antonino Imerti, fino ad allora esecutore integerrimo degli ordini impartiti dal di lui cugino Pasquale Condello, e ora oggetto dell’attenzione del contrapposto schieramento destefaniano, che riesce a capire l’effettiva caratura del personaggio.

    La “tragedia”

    L’autobomba da cui si salva miracolosamente Nino Imerti è l’inizio della fine. L’inizio di circa sei anni di guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria e nella sua provincia. Sei anni cui si conteranno sul selciato circa 700 morti ammazzati.
    L’inizio delle ostilità viene ricordato anche dal collaboratore di giustizia Cesare Pollifroni nel verbale del 14 aprile del 1994 davanti al pm Enzo Macrì: «Tutto ebbe inizio con una “tragedia” organizzata da Paolo De Stefano in danno di Imerti Antonino. Avvenne, infatti, che di un carico di droga o armi, organizzato insieme ai palermitani, non venne dato conto ai palermitani di Cosa Nostra che vi avevano interesse. Richiesto dai siciliani, Paolo De Stefano addossò tutta la colpa su Nino Imerti, contrariamente al vero, aggiungendo che lui non poteva intervenire contro Imerti, in quanto suo alleato, ma che avrebbe appoggiato le decisioni prese da Cosa Nostra. Fu così che venne organizzato l’attentato con autobomba ai danni di Imerti, al quale prese parte qualche uomo di Cosa Nostra. Imerti, però, scampò all’attentato e capì il gioco. In seguito egli riuscì a chiarire con i palermitani la sua estraneità alla vicenda e a diventarne alleato».

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    Paolo De Stefano

    La vendetta di Nino Imerti e l’inizio della guerra

    Nino Imerti è vivo, dunque. È stato fortunato, molto fortunato. E, conoscendolo, vorrà sfruttare tale fortuna per vendicarsi di chi lo voleva morto.  Ci sono equilibri da rimettere in discussione, conti da far quadrare e affronti da punire.
    Paolo De Stefano conosce bene Nino Imerti, sa quanto possa essere “feroce”. Non sembra preoccupato, però. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò.

    La vendetta scatta due giorni dopo, con la morte di Paolo De Stefano. Il 13 ottobre, nel rione Archi di Reggio Calabria e cioè nel cuore del suo regno incontrastato, viene ucciso il boss Paolo De Stefano insieme al quale cade il suo fido picciotto Antonino Pellicanò. I due (entrambi latitanti: Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiavano a bordo di una moto Honda Cross, intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio De Stefano (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.

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    Corrado Carnevale

    Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello, per quel duplice omicidio. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna, in Corte di Cassazione.

    Gli ultimi 30 anni di Nino Imerti

    Nino Imerti ha oggi 76 anni. In varie tranche, ne ha trascorsi più della metà in carcere. L’autobomba di via Riviera, peraltro, non è l’unico attentato cui sfugge il “Nano feroce”. Meno di un anno dopo rispetto all’inizio della guerra, Imerti scampa a un altro tentativo di ucciderlo. È il 7 luglio del 1986. Da quel momento si dà alla latitanza.

    Viene arrestato diversi anni dopo, circa trent’anni fa esatti: il 23 marzo 1993, insieme a Pasquale Condello, il “Supremo”. Negli anni, sul suo conto arriveranno diverse condanne: all’ergastolo per omicidio e quindici anni di reclusione per associazione mafiosa.

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    Nino Imerti dopo l’uscita dal carcere

    Poco meno di trent’anni in carcere, di cui quasi dieci in regime di carcere duro, disposto dal Ministero della Giustizia, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il 27 marzo 2012. Ma non ha mai scelto la via della collaborazione con la giustizia. Il 28 luglio 2021 è stato scarcerato dopo 28 anni dietro le sbarre e sottoposto al regime di libertà vigilata.

  • MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    Entrare in aula bunker al carcere dell’Ucciardone a Palermo è un’esperienza che induce alla modestia e alla riflessione. La storia scritta in quest’aula, dagli eroi della prima antimafia giudiziaria in Italia, non è solo storia di Cosa nostra siciliana, o storia della mafia italiana. È storia d’Italia. È solenne, la memoria di quest’aula, le parole dette qui dai pubblici ministeri del pool antimafia siciliano durante il maxiprocesso degli anni Ottanta (e dopo), le parole dette dai mafiosi prima e dopo le condanne da dietro le sbarre delle 30 celle, e infine le ore della corte per leggere i verdetti.

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    L’aula bunker dell’Ucciardone (foto Anna Sergi)

    La memoria di quei mesi e quegli anni ha cambiato il paradigma di quello che la mafia siciliana, Cosa nostra, avrebbe rappresentato da quel momento in poi per l’Italia e i metodi dei suoi investigatori e martiri, per il mondo. Ecco perché, entrare in aula bunker è un’esperienza emotivamente carica. L’essere italiani è in parte definito dalla storia di questa aula. Per questo The Global Initiative Against Transnational Organised Crime, GI-TOC, ha voluto organizzare il 9 marzo proprio nell’aula bunker una giornata di riflessione e conferenza insieme al Tribunale di Palermo.

    L’occasione è stata la discussione dei risultati italiani del Global Organized Crime Index, un imponente lavoro di raccolta dati intorno agli attori e alle attività del crimine organizzato che GI-TOC ha effettuato nel 2021 e si appresta ad aggiornare nel 2023, per tutti i paesi del mondo, con un’infografica snella ed efficace che ben si presta ai canoni comunicativi di oggi.

    ‘Ndrangheta e stragi: un pezzo di memoria mancante

    Nel corso di questa giornata si è discusso dell’apparente paradosso italiano: un ‘punteggio’ molto alto assegnato dall’Index per quanto riguarda alcuni attori criminali (la presenza di gruppi mafiosi), alcune attività criminali (principalmente, il mercato della cocaina e la tratta di esseri umani) assieme a un punteggio molto alto assegnato per la ‘resilienza’ italiana a questi fenomeni. Della serie, l’Italia ha sì un problema di criminalità organizzata molto distinto e molto serio, ma ha anche gli strumenti, non solo giuridici ma anche di attivismo sociale, per rispondere a questo problema. La resilienza italiana al crimine organizzato certamente nasce e si consolida in aula bunker, e ‘scoppia’ in seguito al periodo delle stragi.

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    La strage di Via D’Amelio

    Il modo in cui il Global Organized Crime Index vede l’Italia ha certamente molto a che fare con la Calabria e sicuramente con la ‘ndrangheta, coi traffici di cocaina legati ai nostri clan, e con la presenza che le ‘ndrine hanno nel resto del paese. Ma c’è un’altra ragione – per ora non accertata in tutte le sue componenti – per cui la Calabria, e la storia della ‘ndrangheta, è importante per l’analisi dell’Index. E questa ragione riguarda proprio la memoria delle stragi e il ruolo della violenza e dell’arroganza mafiosa in Calabria e la reazione ad esse. Perché, lo sappiamo, seppur solenne e colossale, la memoria nata e mantenuta in quest’aula bunker non è ancora completa. E tra i pezzi mancanti del periodo delle stragi c’è sicuramente la memoria calabrese.

    Slitta la sentenza

    Questa memoria – o meglio la sua correzione – è il cuore del processo ‘Ndrangheta Stragista, che tra il 10 e l’11 marzo, attendeva a Reggio Calabria il verdetto del processo d’appello. Conferme o ribaltamenti delle sentenze di condanna del primo grado e la definizione (giuridica oltre che storica) dell’apporto che la ‘ndrangheta apicale avrebbe dato ai vertici di Cosa nostra nel periodo delle stragi arriveranno il 23 marzo. Tale apporto sarebbe dietro al duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo nel 1994.

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    Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

    Il verdetto d’appello va posticipato perché, nonostante si tratti di fatti ormai datati, di oltre 30 anni fa, arrivano ancora novità che integrano la mole dei dati a processo. Proprio mentre si attendeva il verdetto, il procuratore generale Giuseppe Lombardo ha infatti chiesto che venissero acquisiti i contenuti di un’intercettazione rivelata all’interno dell’operazione Hybris, di qualche giorno fa, contro il clan Piromalli a Gioia Tauro. Nell’intercettazione, due affiliati, che non sapevano di essere intercettati, discutono del ruolo dei Piromalli nelle stragi e dell’incontro al club Sayonara a Nicotera Marina in cui nei primi anni ‘90 si sarebbe deciso se la ‘ndrangheta si dovesse o meno unire alla strategia siciliana.

    Un posto di serie B

    Ma cosa c’entra tutto ciò con l’Italia, il global index di GI-TOC e l’aula bunker di Palermo? C’entra perché la ‘ndrangheta come la conosciamo oggi – con alcuni clan che si sono resi leader del narcotraffico, altri clan che si sono distinti per le capacità imprenditoriali, in investimenti pubblici e privati e altri ancora che hanno fatto politica cittadina e regionale, non è stata – per la storia – la mafia delle stragi.

    La ‘ndrangheta non è la ragione per cui l’Italia avrebbe sviluppato anticorpi invidiati in tutto il mondo, giuridici e di associazionismo sociale e civile. La ‘ndrangheta violenta delle faide e dei sequestri non ha scritto la storia d’Italia, anzi, è stata relegata dalla storia d’Italia – proprio per la sua violenza primitiva – ad avere un posto di serie B, accanto alla ‘sorella’ siciliana che di quella violenza ne ha fatto politica e strategia di attacco allo stato. Ma, a prescindere dai risultati processuali, e dalle responsabilità personali ivi confermate o meno, sembra accertato che i collegamenti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta ci fossero e ci fossero inter pares – tra persone a pari livello.

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    Giuseppe e Filippo Graviano

    Ecco perché durante la giornata organizzata in aula bunker a Palermo si è discusso della violenza della ‘ndrangheta e delle scelte durante le stragi: perché che si siano accordati o meno, i Graviano e i Piromalli (tra gli altri), per fare le stragi congiuntamente, alcune tra le dinastie storiche della ‘ndrangheta in quegli anni avevano comunque la facoltà di scegliere se farlo o meno, perché gli era riconosciuto e detenevano il potere per farlo. E questo nella storia ufficiale dell’antimafia ancora non c’è.

    Paese che vai, violenza che eserciti

    La scelta di essere stragisti – andata o meno a ‘buon fine’ – ci porta ad affermare che, non per la prima volta, i clan di ‘ndrangheta più stagionati e più importanti usano la violenza strategicamente. E lo fanno perché nonostante l’organizzazione frammentata dei clan del territorio – autonomi per signoria territoriale e attività criminale – i boss dei clan apicali sanno che i contraccolpi dallo Stato e dalla società civile coinvolgono tutti, quando c’è violenza manifesta ed ‘esterna’ all’organizzazione.

    La violenza, per la ‘ndrangheta, si espone in prima linea spesso solo localmente, dove lascia un’eco per anni ma dove storicamente non ha spesso ispirato atti di denuncia durativi da parte della popolazione. Ma quando la violenza di ‘ndrangheta si è fatta più visibile oltre il locale e l’interno – pensiamo alla strage di Duisburg in Germania o all’omicidio Fortugno – le conseguenze sono state pesanti per l’organizzazione tutta, anche se si trattava di una faida tra due gruppi soltanto.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Inoltre, ricordiamo che la spinta stragista della ‘ndrangheta, diversamente da Cosa nostra, non poteva essere comunque una decisione di ‘tutta’ l’organizzazione, quanto solo di alcuni capi, proprio per la diversa organizzazione delle due mafie. Questo ci conferma che allora come oggi la ‘ndrangheta funziona a compartimenti stagni, dove solo chi deve sapere sa e dove si fanno alleanze strategiche a stretto raggio, con chi serve e con chi è utile senza ‘sprecare’ connessioni. Questo è il modus operandi che si vede nei mercati illeciti, dove la ‘ndrangheta entra ‘piano’ e con alleati misti, dalla cocaina agli appalti, oggi senza il rumore della violenza.

    La storia d’Italia e le scelte della ‘ndrangheta

    Le scelte – o non scelte – di allora ci hanno consegnato la ‘ndrangheta contemporanea. ll Global Index vede l’Italia come estremamente influenzata da gruppi criminali mafiosi – forti in quanto capaci di entrare in vari mercati legali e illegali – ma allo stesso tempo, resiliente perché le stragi (e non solo) hanno reso il paese consapevole del proprio problema mafioso. Questa fotografia del paese è anche, a sorpresa, il risultato della storia della ‘ndrangheta, oltre che quella di Cosa nostra. Quello che i capi della ‘ndrangheta hanno fatto all’epoca delle stragi, o quello che non hanno fatto ma avrebbero potuto fare, la violenza manifesta e quella ‘trattenuta’, hanno definito la storia d’Italia anche senza far parte della ‘narrativa’ principale della nascita dell’antimafia. Proprio come si confà alla ‘ndrangheta nella sua caratteristica più primitiva, l’essere riservata e ‘dimessa’ come l’altro lato della luna.

  • MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

    MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

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    Nessuno, nemmeno i capibastone della ’ndrangheta come Giuseppe Nirta o Pasquale Condello o Paolo De Stefano, è solo un “cattivo”.
    Certo, sono tante le storie di ferocia nella mafia calabrese che toccano i lati disumani di certi soggetti, soprattutto uomini legati una certa generazione di ‘ndrangheta.
    Ma guardare solo alla loro malvagità, e alla loro disumanità non racconta tutta la loro storia. Perché la loro è anche una storia di famiglia.

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    Latitanza finita per “il Supremo”: l’arresto di Pasquale Condello

    La parabola di un boss

    Giuseppe Nirta è morto il 23 febbraio 2023 in carcere a Parma, dove si trovava dal 2016.
    La cronaca racconta che Nirta si sia complimentato con le forze dell’ordine al momento del suo arresto, avvenuto nel 2008 nel suo bunker a San Luca.
    Il boss doveva rispondere della strage di Duisburg, in cui morirono sei appartenenti alla cosca Pelle-Vottari, con cui i Nirta-Strangio erano in faida.
    Inoltre, su Giuseppe Nirta pesava anche l’omicidio di Bruno Pizzata, sempre dovuto alla stessa faida.

    Matrimoni e sangue di ‘ndrangheta

    La faida in questione, si ricorderà, era vecchia di decenni, ma era ripresa in seguito a due omicidi. Quello di Antonio Giorgi ammazzato nel 2005 e quello di Maria Strangio – nuora di Giuseppe Nirta perché moglie di suo figlio Giovanni Luca (il vero obiettivo dell’attacco) – uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato proprio davanti casa del boss Giuseppe. Giuseppe Nirta era un vecchio capobastone della ‘ndrangheta, un mammasantissima, a cui è legata più di una pagina nera della cronaca calabrese, dai sequestri di persona, alla faida.

    La parola ai Nirta

    Ma nessuno, nemmeno Giuseppe Nirta, ripetiamo, è solo malvagio. Al contrario, una certa complessità accomuna il boss a tutti gli altri uomini della sua famiglia, e di altre famiglie del territorio, con passato e presente di ‘ndrangheta.
    Suo figlio Giovanni Luca, parlando a Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera all’indomani della strage di Duisburg dirà:
    «Io sarei ’u boss? La mia casa è blindata? Lo vedete voi, sono qui, niente reti, niente cancelli, io sono solo un bracciante agricolo, coltivo l’orto e sto coi bambini. Da gennaio non esco più di casa perché sono in lutto. (…) A San Luca c’è la faida? Non lo so, mettete un punto interrogativo alla risposta. La faida c’è in tutti i paesi. (…) Ora si dice che la prossima data a rischio qui a San Luca sia il 2 settembre, la festa della Madonna di Polsi. Io ho paura di morire, certo, però mi auguro che non succeda più niente».

    Cesare Casella

    A proposito del sequestro Casella

    I bambini, il lutto, la festa della Madonna della Montagna, a Polsi.
    Riecheggiano in queste frasi le parole di un altro uomo della ‘ndrina Nirta, Antonio, alias ’Ntoni, sorpreso al summit di Montalto del 1969 e all’epoca ritenuto capo-crimine a San Luca (morirà nel 2015, a 96 anni).
    «Ma quale padrino e quale mafioso, io ero e resto un uomo che ha il senso dell’onore, un uomo che ha sempre lavorato per la propria famiglia», dirà a Pantaleone Sergi, come si legge ne La Santa ‘Ndrangheta.
    Erano i mesi del sequestro di Cesare Casella, e della battaglia di sua madre Angela scesa in Aspromonte per smuovere le coscienze e accelerare la liberazione del figlio e che per farlo, menziona proprio i Nirta, che si dice a San Luca, possano tutto.

    La testimonianza di ’Ntoni

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    Le alleanze e le parentele della ‘ndrangheta che conta [da Catino, M., Rocchi, S., & Marzetti, G. V. (2022)]
    Dice ancora ’Ntoni Nirta a Sergi:
    «Mi dispiace, mi creda, per quel ragazzo e per i suoi genitori, mi dispiace pure per la gente di San Luca che viene ingiustamente criminalizzata. Se potessi far qualcosa, come cittadino e come padre, glielo ripeto, lo farei subito. Ma cosa posso fare? Non faccio parte di un mondo “extra”, non sono in grado di intervenire. Come genitore dico: liberatelo, restituitelo alla famiglia. Solo un genitore snaturato agirebbe diversamente. lo sono contrario ai sequestri, alla droga, alla violenza».

    Legami d’acciaio coi matrimoni di ‘ndrangheta

    La famiglia, la paternità, la genitorialità, la gente di San Luca, la Montagna.
    Non è un mistero per nessuno, ormai, il ruolo della famiglia Nirta (e della loro alleanza con gli Strangio) nella ’ndrangheta aspromontana.
    Sono più che noti i vari rami della famiglia (la ’ndrina Maggiore e quella Minore). I suoi uomini si sono distinti per il coinvolgimento ripetuto in una serie di reati: dalla cocaina all’estorsione, dall’associazione mafiosa all’omicidio.
    Ma quello che si tende a dimenticare, non solo in questa storica ’ndrina di San Luca, ma un po’ in tutta la ‘ndrangheta, è proprio la famiglia, l’aspetto famigliare.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Rrobba di famiglia

    La paternità, la maternità, i figli, il quotidiano, il lutto, i compleanni, i matrimoni, le feste del paese. Nemmeno Giuseppe o ‘Ntoni Nirta sono sempre e solo malvagi o sempre e solo ’ndranghetisti; sono anche padri, nonni, zii. Coesistono, in queste persone, molti aspetti, negativi e “normali”.
    Non è una provocazione, tanto meno una giustificazione tipica di quelle tecniche di neutralizzazione di cui molti mafiosi si sono serviti negli anni: ricordare che dietro alla ’ndrangheta ci sono le dinamiche familiari è non solo una necessità storica-sociologica, ma anche giudiziaria.

    Il familismo dei capibastone

    Infatti, non è banale ricordare che dietro alla ‘ndrangheta, in particolare quella reggina e aspromontana, ci sono i legami di sangue. Al contrario, questi legami hanno implicazioni molto concrete.
    La “familiness”, l’aspetto familiare che entra negli affari di famiglia, è assolutamente centrale nella ’ndrangheta: chi si sposa, chi ama, chi non ama, chi è gay e non lo dice, chi vorrebbe studiare e non può, chi deve seguire le orme del padre, chi vuole proteggere la madre, chi vuole proteggere i figli, chi muore prima del tempo, e via discorrendo.

    Parenti e affari

    Gli aspetti familiari sono anche business: i valori della famiglia si confondono o influenzano gli affari di famiglia e gli eventi della famiglia, le caratteristiche delle relazioni familiari, assumono diverse forme che diventeranno eventualmente forme di ’ndrangheta.
    Non ci sono famiglie uguali, nemmeno nella l’ndrangheta. Ogni famiglia ha una sua propria “cultura” , che si riflette nell’attività ’ndranghetistica.
    Ciascuna famiglia ha dei meccanismi propri per gestire gli incidenti di percorso. Ha membri che sono più portati al comando in momenti di crisi, o sono più fragili nelle difficoltà.
    Ogni famiglia, anche quella di ‘ndrangheta, dovrà gestire la successione. E non c’è determinismo, soltanto fattori socio-economico-culturali che in Calabria come in Piemonte o in Canada creano mix diversi da individui diversi, nonostante regole comuni e piani di collaborazione criminale.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Matrimoni strategici

    Una dimostrazione di questa “sinergia” tra aspetti organizzativi e aspetti prettamente familistici sono ad esempio i matrimoni strategici, che storicamente e soprattutto in Aspromonte hanno costituito una delle caratteristiche più conosciute della ’ndrangheta.
    Ma i matrimoni “strategici” non sono un’esclusiva della mafia ma sono tipici di alcune élite (ricordiamo che esistono matrimoni strategici in tutte le famiglie reali e nobili, nonché in dinastie imprenditrici).
    Ricorrere alle alleanze matrimoniali avrebbe avuto, secondo la ricerca, una funzione di amplificazione e di protezione sia degli affari sia della coesione interna del gruppo ’ndranghetista, in alcuni posti più che altri.

    A giuste nozze…

    È famoso, per esempio, il matrimonio del “giorno 19” – tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe Pelle detto Gambazza, e Giuseppe Barbaro, figlio di Pasquale Barbaro ’u Castanu, avvenuto il 19 agosto del 2009 – fondamentale per le indagini durante l’operazione Crimine degli stessi anni. I matrimoni sono una costante nelle stesse dinastie, in Calabria come altrove.
    I Sergi e i Barbaro ad esempio, mantengono storicamente una stretta parentela con altre famiglie aspromontane – come i Romeo e i Perre – anche in Australia.

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    Lo schema di potere dei Barbaro (a cura di Anna Sergi)

    Strumenti di potere

    I legami familiari, i cognomi, sono spesso legami ascrittivi, cioè oggettivi: i parenti non si scelgono, in altre parole.
    Ma questi legami familiari possono essere manipolati e alcune dinastie di ’ndrangheta storiche e tradizionali ne fanno strumento di potere. Nessuno è sempre e solo malvagio, nemmeno un mammasantissima. Anche gli ’ndranghetisti hanno molte facce che coesistono. Quella familiare, in cui si manifestano il carattere personale e i valori (reali o meno che siano) del casato, rivela scelte più ampie e capacità di business.

  • RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

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    Una volta, in aula, in un procedimento pubblico, un collaboratore di giustizia ammonì il pubblico ministero che lo interrogava: «Dottore, Pasquale Condello non è chiamato “Il Supremo” a caso» disse, in maniera più o meno letterale. No, nella ‘ndrangheta i soprannomi non sono mai casuali. Ed è la storia criminale a parlare per Condello, uno dei capi più carismatici che la ‘ndrangheta abbia mai avuto.

    Pasquale Condello e l’omicidio di don ‘Ntoni Macrì

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    Giacomo Lauro

    C’era anche lui nel gennaio del 1975, quando finisce la vita terrena e il comando mafioso del boss sidernese, don ‘Ntoni Macrì, esponente della vecchia ‘ndrangheta, che sarà spazzata via, nel corso della prima guerra tra cosche degli anni ’70. È il pentito Giacomo Lauro, nel proprio memoriale a ricostruire gli eventi di quel 20 gennaio 1975: «Macrì aveva appena terminato una partita di bocce presso il campo di Siderno e si accingeva in compagnia di Francesco Commisso inteso “u quagghia“, a far rientro presso la sua abitazione, quando nell’atto di salire sulla vettura di quest’ultimo, una Renault 5, venne affrontato, a viso scoperto, da Pasquale Condello e Giovanni Saraceno, i quali esplosero al suo indirizzo più colpi di pistola, uccidendo Macrì e ferendo gravemente il suo braccio destro, Francesco Commisso».

    Sul posto vennero rinvenuti e repertati 32 bossoli di arma da fuoco corta di vario calibro, appartenenti verosimilmente a quattro armi. Stando al racconto di Lauro, i killer sarebbero giunti sul posto a bordo di un’Alfa Romeo Giulia, rubata a Reggio Calabria, nella zona del tribunale e custodita a Locri dal clan Cataldo. Il gruppo dei killer dopo l’omicidio avrebbe proseguito il proprio viaggio verso Gioiosa Marina trovando rifugio presso il clan Mazzaferro, alleato dei De Stefano.

    La riunione del “Fungo”

    Dettagli che, a dire di Lauro, avrebbe appreso dallo stesso Pasquale Condello durante la comune detenzione presso il carcere di Reggio Calabria: «Condello si abbandonò a questa e ad altre confessioni in quanto indignato per l’ingratitudine della famiglia De Stefano, che gli aveva scatenato contro una guerra nonostante la fedeltà da lui dimostratagli in circostanze significative quali quella dell’omicidio Macrì».

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    Gianfranco “Er pantera” Urbani

    Sì, perché per anni Pasquale Condello è stato uno degli uomini più vicini a Paolo De Stefano. C’era anche lui, nell’aprile del 1975, circa tre mesi dopo l’omicidio Macrì, all’ormai celeberrima riunione romana presso il ristorante “Il Fungo”, del quartiere EUR. Lì ci sono pezzi della banda della Magliana, come Giuseppe Nardi e Gianfranco Urbani, detto “Er Pantera”. Ma anche soggetti di primissimo livello (seppur giovanissimi) all’interno della ‘ndrangheta. Da Paolo De Stefano a Giuseppe Piromalli. E poi lui, Pasquale Condello, che in quel periodo non è ancora “Il Supremo”.

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    Pasquale Condello da giovane, prima di diventare “Il Supremo”

    Le forze dell’ordine si appostano per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi erano giunti su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si erano allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo era in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.

    L’alleanza si rompe

    Un rapporto duraturo, che, di fatto, si incrina nei mesi antecedenti a quella che sarà la sanguinosissima seconda guerra di ‘ndrangheta, che lascerà sull’asfalto oltre 700 vittime tra il 1985 e il 1991. In quel periodo, infatti, si celebra il matrimonio fra Giuseppina Condello ed Antonino Imerti. La prima è la sorella di Pasquale Condello, il secondo è il boss di Fiumara di Muro. Ciò determina la nascita di un’alleanza tra queste due famiglie delle quali, in special modo, quella di Imerti era estranea al territorio reggino poiché esercitava la propria egemonia esclusivamente a Villa San Giovanni e dintorni.

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    L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti dopo l’omicidio di Paolo De Stefano

    Paolo De Stefano avverte subito il pericolo di una simile unione matrimoniale che determina nuove alleanze mafiose e la conseguente crescita del gruppo Condello, il cui capo Pasquale già da tempo rivendicava una maggiore autonomia sui “locali” di Mercatello e di Archi Carmine.

    La seconda guerra di ‘ndrangheta

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile. Il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel giorno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

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    Una foto recente di Orazio De Stefano

    La famiglia De Stefano risponde a stretto giro con un altro matrimonio” di prestigio”: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. Le alleanze si fanno a suon di matrimoni, come in una realtà arcaica: e quella con i Tegano non è un’alleanza da poco. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

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    Giovanni Tegano

    La guerra è quindi alle porte. A contrapporsi, lo schieramento che faceva capo ai De Stefano-Tegano, da un lato e i Condello-Imerti, dall’altro. Sono proprio quelli gli anni in cui Pasquale Condello si guadagna l’appellativo di “Supremo”. A ciò, evidentemente, contribuisce il fatto che, per decenni, rimane uno dei boss liberi e latitanti. Tutto questo crea attorno a lui un’aura di mistero e di invincibilità anche negli anni della pax mafiosa.

    Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    In quegli anni, Condello diventa il “Supremo”. Ordina omicidi, anche omicidi “eccellenti” e rocamboleschi. Su tutti, quello del figlio naturale di don Mico Libri, Pasquale, alleato dei De Stefano. Il 19 settembre 1988, Pasquale Libri viene ucciso con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria. I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, in un luogo che si affaccia sul cortile del penitenziario. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

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    Pasquale “Il Supremo” Condello in una immagine di qualche anno fa

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine proprio del “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime. O quello dell’ex presidente delle Ferrovie, il politico democristiano Lodovico Ligato, da sempre ritenuto vicino alla cosca De Stefano, freddato sull’ingresso della propria residenza estiva a Bocale, località balneare alle porte di Reggio Calabria. Al termine di un complesso iter giudiziario verranno condannati Pasquale Condello, “il Supremo”, Santo Araniti e Paolo Serraino come mandanti, mentre Giuseppe Lombardo, “Cavallino”, verrà ritenuto uno degli esecutori materiali dell’agguato.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    L’incontro con Totò Riina

    La guerra di ‘ndrangheta termina nel 1991, dopo l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nell’atto finale del maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone. Un omicidio che avrebbe commissionato la mafia in combutta con la ‘ndrangheta, offrendo in cambio il ruolo di garante per la pax mafiosa dopo anni di morti e violenze per le strade di Reggio Calabria e della sua provincia.

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    Giuseppe “Tiradritto” Morabito da giovane

    E appartiene al mito il presunto incontro che Totò Riina avrebbe avuto con i boss calabresi, tra cui, appunto, “Il Supremo”. Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso. Totò Riina, che peraltro in Calabria era già stato, ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito, avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato

    La cattura di Pasquale Condello, “il Supremo”

    Tra leggenda e realtà, è lunga l’epopea criminale di Pasquale Condello. Una carriera di sangue nata praticamente da minorenne, che si conclude il 18 febbraio del 2008, allorquando il Ros dei Carabinieri lo scova in un appartamento nella zona di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria. Non un dettaglio di poco conto, dato che, dopo la pax mafiosa, vi sarà sempre maggiore avvicinamento di cosche in precedenza storicamente contrapposte e ad una fattiva alleanza tra di esse. Proprio grazie alle nuove regole sancite dalla pace tra cosche.

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    Don Mico Libri

    Non è un caso, che il “Supremo” venga scovato nel territorio di Pellaro, storicamente sottoposto al controllo mafioso dello schieramento opposto destefaniano. Sarebbe stato Mico Libri, potente boss oggi defunto, a dettare le regole propedeutiche alla pace, che richiedono una previa approvazione di ogni possibile azione delittuosa eclatante.  In nome degli affari. Perché, abbandonate (solo metaforicamente) le armi, Condello ha nei decenni di latitanza allacciato rapporti inconfessabili, con il mondo dell’imprenditoria e della politica.