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  • MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    Basta trovare un calabrese che commette crimini vari all’estero per annunciare la presenza della ‘ndrangheta oltremare? No, non dovrebbe bastare. Eppure due eventi recenti in Canada, uno in Ontario e uno in Quebec, quando letti insieme, ci offrono uno spaccato interessante dello stato dell’arte – e della difficoltà di comprensione e accettazione – delle dinamiche criminali para-mafiose quando si ha la cosiddetta dimensione etnica all’estero.

    Il delitto Iacono: Calabria e ‘ndrangheta in Canada

    L’evento più recente riguarda un omicidio avvenuto a Montreal. A cadere è stata Claudia Iacono, il 16 maggio, uccisa in pieno giorno davanti al salone di bellezza di cui era proprietaria. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che fosse proprio lei la vittima designata. Ma non sembra nemmeno essere un colpo da professionisti.
    A rendere morbosa (più del solito) l’attenzione su questo omicidio sono l’identità della vittima e quella della sua famiglia. Claudia Iacono era una influencer locale. Ed era sposata con Antonio Gallo, il figlio di Moreno Gallo, un tempo importante membro della cosiddetta fazione calabrese della mafia di Montreal.

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    Antonio Gallo e Claudia Iacono

    Laddove Claudia Iacono non sembra essere stata coinvolta in attività criminali, lo stesso non si può dire per suo marito e suo suocero. Moreno Gallo fu assassinato in un ristorante italiano in Messico nel 2013, dopo essere stato espulso dal Canada.
    A molti dei locali il delitto Iacono pare illogico: che senso avrebbe toccare la nuora di un boss? Forse avrebbe avuto più senso che la vittima fosse stata suo marito.
    Nonostante ancora non ci sia chiarezza sulle motivazioni dell’omicidio, subito si è consolidata una teoria che lo collega ad una faida di criminalità organizzata. E siccome si tratta di Montreal, per niente estranea a questo tipo di violenza (sono già 8 gli omicidi in città nel 2023), questa teoria non è affatto campata per aria.

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    Moreno Gallo, ucciso in Messico 10 anni fa

    Calabria vs Sicilia: ‘ndrangheta e Cosa nostra in Canada

    Di faide a Montreal non ne sono mancate. L’ultimo troncone, a più riprese e con periodi di pausa (forzata o forzosa) è in corso dalla morte, nel 2013, del boss Vito Rizzuto. Rizzuto era una storica figura della mafia canadese, legato alla famiglia Bonanno di New York City e originario di Cattolica Eraclea, in provincia di Agrigento.
    Come ho già delineato in un altro articolo, l’origine del dominio della famiglia Rizzuto è collegato ad una faida con un’altra famiglia, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli in provincia di Reggio Calabria, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

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    Vito Rizzuto è stato il capo della Sesta Famiglia in Canada fino alla sua morte

    Tra le fila dei Cotroni-Violi c’erano dei vecchi affiliati di ‘ndrangheta. Poi, però, come è successo nella vicina città di Hamilton, il gruppo si è trasformato in una famiglia criminale ibrida, senza ‘bandiere’ mafiose chiare. E, soprattutto, legata alle dinamiche locali e non internazionali.
    Alla base del potere mafioso di Montreal c’è dunque un male primigenio mai davvero risolto che è passato alla storia cittadina come faida tra siciliani e calabresi. E qui torniamo a Moreno Gallo, di origine calabrese ma effettivamente mafioso nelle fila dei Rizzuto. Quindi, “ufficialmente” legato a Cosa nostra americana nella sua versione canadese.

    Montreal: ma la Calabria in Canada è tutta ‘ndrangheta?

    La sua è una parabola normalissima per quei territori. Lì la regionalizzazione del crimine organizzato italiano – calabresi e siciliani – non ha lo stesso significato che può avere da noi. Nel periodo di vuoto di potere legato alla carcerazione del boss Rizzuto, Gallo si era legato a un gruppo di dissidenti interno alla famiglia Rizzuto. Erano i cosiddetti calabresi, guidati però da un siciliano di Castellammare del Golfo, Salvatore Montagna, da Joe Di Maulo, molisano, membro apicale della famiglia (di origini calabresi) Crotoni, e suo cognato Raynald Desjardins, nemmeno italiano.

    E qui arriva il vero nocciolo della questione. Molti giornali italiani hanno infatti riportato la notizia della morte di Claudia Iacono definendola “vittima di ‘ndrangheta” o da inserire comunque all’interno di una faida di ‘ndrangheta a Montreal. Quest’accezione non potrebbe essere più errata: non solo Moreno Gallo non era ‘ndrangheta, ma praticamente quasi nessuno dei cosiddetti calabresi di Montreal ha qualcosa a che vedere con la ‘ndrangheta (salvo alcuni collegamenti storici o legati a business vari ed eventuali).

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    Una strada del quartiere Little Italy – o, meglio, Petite Italie – a Montreal

    Anzi, tale confusione finisce per alzare il profilo di alcuni di questi soggetti, rendendoli più di quel che sono, nel mondo criminale. Ma la questione si fa ancora più complicata quando si va ad allargare l’analisi oltre Montreal. Che esista una fazione calabrese nella mafia canadese/americana/italiana a Montreal che non è collegata con la ‘ndrangheta ovviamente non significa che non esista la ‘ndrangheta sul territorio. Anzi.
    Il secondo evento ci dimostra che così non è. E che la confusione che regna sovrana nel leggere gli eventi di mafia canadese in una connotazione etnica non fa altro che aiutare quelli che ‘ndranghetisti sembrano proprio esserlo.

    L’espulsione di Vincenzo Jimmy DeMaria

    Vincenzo “Jimmy” DeMaria, un uomo di 69 anni, originario di Siderno ma residente in Ontario – in particolare nella zona di Mississauga, un sobborgo di Toronto – è sotto processo (dal 7 maggio) davanti all’Immigration and Refugee Board, il Tribunale per l’Immigrazione. Il Canada vuole rispedirlo in Italia in seguito a una serie di intercettazioni e risultanze italiane, inammissibili però in sede di processo penale, secondo cui DeMaria farebbe parte del Crimine di Siderno, membro della ‘ndrangheta in Ontario. Nonostante i tanti anni in Canada (da metà anni 70) in seguito a una condanna per omicidio – un’esecuzione in piena regola – DeMaria non ha mai potuto prendere la cittadinanza canadese. E l’espulsione per questioni legate a un possibile coinvolgimento con la criminalità organizzata è sempre alle porte.calabria-canada-ndrangheta-tribunale

    Ma facciamo una digressione perché il background qui non è da poco. Il fratello di Jimmy – o Gimì come viene chiamato da alcuni sidernesi ‘in vacanza’ a Toronto – è Joe, Giuseppe. Joe DeMaria, secondo gli inquirenti di Reggio Calabria durante l’indagine Canadian ‘Ndrangheta Connection del 2019, è membro apicale della ‘ndrangheta sidernese della Greater Toronto Area, cioè proprio delle aree intorno a Toronto, da Brampton a Vaughan fino a Mississouga.
    Insieme ai DeMaria, altri membri apicali sarebbero Luigi Vescio, Angelo Figliomeni, Cosimo Figliomeni, Rocco Remo Commisso, Francesco Commisso. Ma coinvolti nel Siderno Group sono i cugini di Gimì e Joe, e in particolare Michele Carabatta sempre in Ontario e Vincenzo Muià, intorno al cui viaggio in Canada si muove quasi tutta l’indagine in questione.

    La ‘ndrangheta del Canada che pesa anche in Calabria

    Muià era, infatti, andato ‘in vacanza’ in Canada per capire come risolvere (e in caso per avere autorizzazione a farlo) l’omicidio di suo fratello Carmelo in Calabria.
    A prescindere da una serie di assoluzioni a processo, l’indagine fu importante perché raccontò di come si andasse a risolvere faccende di ‘ndrangheta sidernese in Canada. Questa ‘ndrangheta di Toronto non solo è ‘ndrangheta DOC, ma è anche ‘ndrangheta che influenza la Calabria (anche se provarlo a processo è un’altra cosa).

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    Beni sequestrati nel corso dell’operazione Canadian ‘Ndrangheta Connection

    Finita questa digressione torniamo a Jimmy DeMaria, che era stato già sotto processo davanti al tribunale per l’immigrazione altre volte. L’ultima – in appello – risale al 2019, prima di Canadian ‘Ndrangheta Connection, e lo vedeva in aula in quanto presunto affiliato alla ‘ndrangheta (riconosciuta come organizzazione mafiosa straniera in Canada) e coinvolto in una serie di attività di riciclaggio grazie a società di servizi finanziari.

    U mastru Commisso e le prove insufficienti

    Nel 2018 il tribunale aveva dichiarato «che esistono ragionevoli motivi per ritenere che il Richiedente (Vincenzo, Jimmy, DeMaria) sia un membro della ‘Ndrangheta». Di conseguenza, si era ritenuto che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che DeMaria e uno dei suoi business, The Cash House, operato da suo figlio Carlo, fossero coinvolti nel riciclaggio di denaro. La cosa portò nello stesso 2018 a un ordine di espulsione dal Canada per DeMaria, che si appellò nel 2019.

    La camera d’appello rifiuterà il primo grado e dirà che: «Il Board sembra partire dal presupposto che, poiché ufficiali e forze di polizia esperti ritengono che il Richiedente [DeMaria] sia un membro della ‘Ndrangheta, ciò costituisca di per sé una ragionevole motivazione. Tuttavia, come ha dimostrato il Richiedente [DeMaria], ci sono problemi significativi con queste prove che il Board avrebbe dovuto affrontare prima di accettare le conclusioni della polizia … Gran parte dell’analisi del Board si basa su “transazioni sospette” e “ipotesi” che richiedono l’appartenenza alla ‘Ndrangheta per essere considerate ragionevoli motivi a cui credere. Pertanto, la decisione deve essere annullata anche per questo motivo e rinviata per un nuovo esame».

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    Giuseppe “U mastru” Commisso

    Insomma, dice il Tribunale amministrativo nel 2019, bisogna dimostrare che DeMaria è ‘ndranghetista. E non solo tramite la testimonianza delle forze di polizia o dei giornali o dalle intercettazioni o da resoconti di sorveglianza. Non è molto chiaro cos’altro effettivamente chieda questo tribunale, dal momento che a processo, contro DeMaria, si erano portate anche delle intercettazioni di Giuseppe Commisso, u mastru, capo indiscusso della ‘ndrina omonima di Siderno e a un certo punto anche capocrimine, che raccontava della connessione tra Jimmy DeMaria e alcuni problemi della ‘ndrangheta con la polizia a Toronto.

    Jimmy DeMaria e la profilazione etnica

    Complice quindi la difficoltà – nota – di provare l’appartenenza alla ‘ndrangheta in Canada, ecco che Jimmy DeMaria in sede processuale non solo dichiara di aver appreso della ‘ndrangheta a/di Siderno soltanto dai giornali, ma anche di essere vittima di profilazione etnica. Prende un’equazione superficiale che equipara lo ‘ndranghetista al calabrese (criminale o meno) e la usa a suo vantaggio.

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    Vincenzo Jimmy DeMaria

    «A mio parere … molto di questo, se si guarda davvero a molto di questo, c’è un sacco di profiling etnico in corso qui, perché vieni da una certa area, vieni da lì, quindi perché vieni da lì, questo e quello, deve essere il caso». E ancora: «Se vai in un ristorante italiano qui e sei italiano, subito: “Ah, sì, beh, sai, dobbiamo tenere d’occhio questo tizio”, capite? È uno stereotipo che purtroppo quando sei italiano ci vivi dentro». Gli verrà risposto da chi presiede l’udienza con molta attenzione e correttezza politica – e di base per evitare appunto un’accusa di pregiudizio etnico – che così non è, assolutamente, e che tutti conoscono italiani che nulla hanno a che fare con la mafia. Ci mancherebbe, aggiungerei.

    Se la Calabria in Canada equivale alla ‘ndrangheta

    Ma eccoci al cerchio che si chiude. Claudia Iacono – le cui sorti non sono chiare, ma la cui vita (e morte) sono state già legate alla criminalità organizzata – viene tirata dentro all’equazione superficiale criminale calabrese = ‘ndranghetista, a torto. Ma tale equazione è ormai prassi da giornalismo disattento e analisi superficiale. E altro non fa che rafforzare quella trappola etnica da cui dovremmo soltanto voler uscire in nome della chiarezza dei fenomeni.

    Jimmy DeMaria utilizza quella stessa trappola etnica e quella prassi a suo favore, sapendo che potrebbe proprio attecchire. E che è vero, c’è una sorprendente maggioranza di gente che non opera distinzione tra italiano/calabrese e mafioso/‘ndranghetista. Questo alla fine dei giochi confonde la narrativa. Rende rumorose le indagini sul perché abbiano ucciso una donna a Montreal. E rischia di aiutare un presunto ‘ndranghetista a rimanere in Canada.

    Insomma, se le cose hanno un nome vuol dire che quel nome implica dei confini: se c’è ‘ndrangheta, c’è anche una non-‘ndrangheta. E sarebbe il caso di ricordarsi – come ci ricorda il processo a DeMaria – che ad annacquare i nomi e a espandere i confini di un fenomeno sociale si rischia soltanto che ci si ritorca contro. E che il fenomeno perda di chiarezza al punto da non essere proprio più riconosciuto e riconoscibile.

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  • Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Ammalarsi di gioco d’azzardo e rischiare anche di fare gli interessi dei boss. Il quadro, più o meno a tinte sempre più fosche, è noto ma non troppo.
    Certo, se ne parla e magari ognuno conosce qualcuno che “esagera” ma i numeri ufficiali del gioco in Calabria sono preoccupanti. I calabresi risultano sempre più ludopatici. Anche a dispetto delle enormi difficoltà socioeconomiche. Infatti, in un anno ci si è permesso il “lusso” di spendere nell’azzardo, fisico e on line, oltre 4 miliardi.
    Sono cifre fuori da ogni logica, addirittura superiori a quelle di Veneto e Liguria.

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    Giocatori alle prese con le slot machine

    Il gioco d’azzardo secondo i Monopoli e l’Antimafia

    Questo quadro inquietante emerge dai dati dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Adm), analizzati e elaborati sia dalla Direzione investigativa antimafia sia dall’ultima Commissione parlamentare antimafia.
    Nella relazione finale (la numero 37 del 2022), pubblicata nei giorni scorsi, la Commissione punta il dito sull’influenza della criminalità organizzata nel mondo del gioco legale per attività di riciclaggio, infiltrazione e ovviamente manipolazione delle vincite e dell’intero settore. Il risultato è praticamente uguale a quello dell’ultimo report semestrale della Dia.

    Gli appetiti delle ’ndrine sul gioco d’azzardo

    In particolare i clan di ‘ndrangheta e di camorra sono considerati i principali responsabili di questi continui tentativi di impossessarsi di un settore da oltre 110 miliardi di euro l’anno, da tempo nella top five delle “aziende” con il maggior fatturato. Questo oceano di denaro, ovviamente, ha stuzzicato gli appetiti di boss e picciotti, che si sono sempre “interessati” di gioco e dintorni.

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    Gioco d’azzardo online

    Calabresi spendaccioni

    Nel 2021 in Calabria sono stati spesi 1 miliardo e 100milioni in gioco fisico (slot, gratta e vinci, lotto, superenalotto, scommesse sportive ecc.) e 3 miliardi di euro in gioco on line per un totale, come detto, superiore ai 4 miliardi. Questo trend è in crescita costante dal 2006.
    Da allora le percentuali tra gioco reale e on line si sono invertite e ormai il web ha superato sale giochi e rivendite. Nel 2021 si è arrivati al 64% on line e 34% gioco fisico. E questo non solo agevola gli eccessi e le ludopatie (che ormai i SerD trattano alla pari delle dipendenze da alcol e droghe) ma anche le infiltrazioni indesiderabili.

    Caccia ai criminali del gioco d’azzardo online

    Sul web “stare dietro” ai criminali è molto più complicato. Tuttavia, la polizia si è data un gran da fare: lo provano numerose operazioni, le più importanti delle quali, come ha sottolineato la Commissione antimafia della precedente legislatura, hanno colpito i principali clan calabresi.
    Giriamo il calendario un po’ indietro: nel 2019 l’Adm ha pubblicato un dossier con i dati di tutti i Comuni italiani divisi per regioni e per tipo di gioco d’azzardo, I suoi numeri si riferiscono al solo gioco fisico che allora in Calabria valeva 1 miliardo e 700 milioni. Questo dato, come già detto, è diminuito. In compenso, è cresciuto il virtuale. Quindi il denaro speso dai calabresi in azzardi vari è quasi raddoppiato.
    In autunno dovrebbero uscire i numeri dell’Adm relativi allo scorso anno, va da sé stimati in rialzo come in tutti gli ultimi anni escluso il 2020, l’anno del covid e delle restrizioni maggiori per tutti i cittadini.

    Giocatori d’azzardo calabresi Comune per Comune

    Nella città di Cosenza, secondo l’Adm nel solo 2019 sono stati spesi 73 milioni, a Catanzaro 93 milioni, a Reggio Calabria 198 milioni, a Crotone 53 milioni e a Vibo Valentia 59 milioni. Questi dati riguardano solo le sale.
    Tra gli altri Comuni calabresi, impressionano i 14 milioni di euro di Pizzo Calabro, i 24 milioni di euro di Villa San Giovanni, i 17 milioni di Taurianova, i 18 milioni di Melito, i 21 milioni di Bovalino, i 18 milioni di Cirò, gli 8 milioni di Spezzano Albanese, i 14 milioni di Amantea, i 13 milioni di Scalea, i 14 milioni di San Marco Argentano, i 7 milioni di San Lucido, i 17 milioni di San Giovanni in Fiore, gli 86 milioni di Rende, i 18 milioni di Paola, i 30 milioni di Montalto Uffugo, i 12 milioni di Crosia, i 91 milioni di Corigliano, i 19 milioni di Castrovillari e i 13 di Acri.
    Questi numeri parlano da soli.

    Operazione Stige

    Per la Commissione antimafia è preoccupante la crescita della ‘ndrangheta di diverse aree della Calabria in questo settore. E si citano, al riguardo, due operazioni di polizia (tra le tante) per testimoniare tanta preoccupazione.
    Esemplari, ad esempio, i dati dell’operazione Stige della Dda di Catanzaro, che ha disarticolato la locale di Cirò, capeggiata dalla cosca Farao-Marincola, con diramazioni in numerose regioni italiane e in Germania.
    Le indagini hanno accertato il controllo di fatto di un punto Snai, localizzato a Cirò Marina, basato su complesse operazioni societarie e cambi di intestazione finalizzati a occultare la riconducibilità della sala alla cosca.

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    Finanzieri in azione

    Operazione Galassia

    L’operazione Galassia è un vero e proprio riassunto della struttura e delle funzioni di un network criminale composto da tutte le matrici mafiose italiane: dalla ‘ndrangheta alla Camorra, da Cosa Nostra alla criminalità organizzata pugliese. L’indagine, coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ha integrato diversi procedimenti condotti dalla Procure di Reggio Calabria, Bari e Catania.
    Al riguardo, la Commissione si concentra proprio sulle dinamiche che nel tempo sono mutate in relazione al gioco e agli “appetiti” delle cosche. Infatti, si apprende dalla relazione 37: «Se ancora sul finire degli anni Novanta la polizia giudiziaria era impegnata principalmente su fenomeni delinquenziali correlati alle corse negli ippodromi e nei cinodromi, ai combattimenti clandestini combinati tra animali, alle sale da gioco ambigue (parte semilegali e gran parte totalmente illegali) e ai quattro casinò autorizzati (Campione d’Italia, Venezia, Saint Vincent, Sanremo), successivamente il quadro dell’offerta di gioco muta considerevolmente».

    La mafia corre sul web

    Cosi, «dal progressivo processo di espansione dell’offerta pubblica e ancor più con il salto delle tecnologie digitali che ha consentito l’esplosione del mercato delle scommesse online, avviene anche il salto evolutivo dell’intervento delle mafie nel comparto».
    Morale della favola: si gioca troppo e così tanto da attirare le mafie.
    Impedire le infiltrazioni criminali è affare degli investigatori. Invece, ridurre gli sperperi nel gioco è un compito che spetta a tutti. Ma come? La domanda resta aperta. Per tutti.

  • MAFIOSFERA | Operazione Eureka: una guerra europea alla ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA | Operazione Eureka: una guerra europea alla ‘ndrangheta

    Una delle cose più interessanti nel seguire i movimenti globali della ’ndrangheta è l’entrare in un mondo di specchi. Lì le cose si riflettono l’un l’altra, e alcuni pattern di movimento emergono con più chiarezza di altri.
    L’Operazione Eureka ha portato all’arresto di 108 persone in Italia, legate in vario modo a clan di ’ndrangheta, 30 in Germania, 13 in Belgio, più una serie di perquisizioni e confische anche in Spagna, Portogallo, Francia, Romania e Slovenia, e poi Brasile e Panama.

    Eureka vista dagli inquirenti

    Oltre ai numeri, rileva la novità del meccanismo di coordinamento europeo.
    Infatti, anche se gli arresti sono in maggioranza italiani, Eureka è l’esito di uno sforzo europeo, perché europei sono i fatti contestati agli imputati.
    Lo descrivono bene Europol, la polizia di coordinamento europeo, ed Eurojust, l’autorità di coordinamento giudiziario europeo. Ecco cosa racconta al riguardo Eurojust:
    «Eurojust ha sostenuto le autorità coinvolte istituendo e finanziando due squadre investigative congiunte. L’agenzia ha inoltre ospitato dieci riunioni di coordinamento e ha istituito un centro di coordinamento per consentire una rapida cooperazione tra le autorità giudiziarie coinvolte nell’action day. Tre casi collegati sono stati aperti presso Eurojust su richiesta delle autorità italiane, tedesche e belghe. Eurojust ha inoltre facilitato la trasmissione e l’esecuzione degli ordini di indagine europei».
    Il Progetto di analisi sulla criminalità organizzata italiana di Europol ha fornito pacchetti di intelligence alle unità investigative nazionali coinvolte.
    In totale, riporta Europol, sono stati scambiati più di 200 messaggi tra i Paesi coinvolti.

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    Un momento della conferenza stampa di Eureka a Reggio

    Prima di Eureka

    Questa cooperazione ovviamente non nasce dal nulla. Europol ed Eurojust sono in partnership con la Direzione nazionale antimafia nel progetto Empact, azione operativa 2.3, che si occupa principalmente di ’ndrangheta e mafia siciliana, ritenute gruppi criminali ad alto rischio.
    Inoltre, l’indagine e la giornata d’azione comune sono state sostenute dalla Rete @ON finanziata dall’Ue (Progetto ISF4@ON) e guidata dalla Direzione Investigativa antimafia italiana (Dia).
    Eureka, soprattutto, si basa su di una serie di messaggi decriptati – nei citati pacchetti di intelligence– all’interno delle maxi operazioni Encrochat e SkyEcc, le quali negli ultimi anni hanno fatto emergere, e smantellato, canali di comunicazioni nel sottobosco criminale di mezzo mondo.

    Una battaglia europea

    Oltre che per le informazioni sulla ’ndrangheta all’estero, Eureka fa scuola perché è il risultato di anni di compromessi e difficoltà nella cooperazione, pratiche e concettuali, sia da parte delle istituzioni europee sia da parte di quelle italiane. Chi scrive ha condotto una ricerca nel 2021 proprio con Eurojust, Europol e le procure italiane.
    Da essa emerge che, al netto delle frustrazioni espresse da qualche pubblico ministero o da qualche analista poco attento, non è affatto vero che all’Europa o agli Stati europei importi poco della mafia, e dell’antimafia, italiana.
    Anzi, l’attenzione è molto alta, la capacità di adattare le leggi e le procedure nazionali per raggiungere risultati comuni è una priorità.

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    Gendarmi tedeschi impegnati negli arresti di Eureka

    Antimafia made in Ue

    Soprattutto, si sono fatti molti passi avanti, in quei Paesi – pensiamo a Germania e Svizzera – che hanno un problema di infiltrazione mafiosa di origine italiana e matrice ’ndranghetista notevolmente più alto di altri.
    Stesso discorso per i Paesi Bassi e il Belgio – di storica presenza mafiosa, siciliana, campana e calabrese – che negli ultimi anni hanno sviluppato squadre di indagine specializzata, squadre investigative europee. Di più: hanno sviluppato processi autonomi alle cellule criminali, all’interno dei propri ordinamenti.
    Tutta quest’attenzione europea alle mafie italiane è, va da sé, anche il risultato dell’incessante lavoro delle procure (in particolare, Reggio Calabria prima di tutte, ma anche Milano, Genova, Torino, Catanzaro per dirne alcune) interessate a informare le autorità estere e a collaborare senza pregiudizi.

    Tutti i problemi dell’antimafia internazionale

    Non ogni cosa funziona, si badi bene, e non sempre la frustrazione passa.
    C’è ancora tanto da mettere a punto nei rapporti tra l’Antimafia italiana e quelle europee. Ad esempio, nelle modalità di confisca e in quelle di ricerca congiunta della prova nelle indagini transfrontaliere. E restano problemi nelle normative sulle indagini bancarie in materia di riciclaggio. Per tacere delle difficoltà di allargare le indagini oltre il crimine organizzato e verso la criminalità dei potenti.
    La lista è lunga, complice anche un po’ di schizofrenia italiana nel definire i campi di azione di alcune indagini antimafia (con una tendenza ad allargare il concetto di mafia oltre quello compreso e comprensibile all’estero).
    Ma ci si lavora costantemente per migliorare almeno i risultati. Ed Eureka, lo ripetiamo, è chiaramente il prodotto di questi sforzi.eureka-segreti-primo-vero-blitz-europeo-anti-ndrangheta

    Eureka: i dettagli che contano

    Eureka offre tantissimi spunti di interesse anche al ricercatore-analista. I giornali locali, moldo più di quelli nazionali, hanno riportato vari dettagli. Le vicende raccontate nell’inchiesta (che riguardano principalmente affiliati e associati ai clan Nirta-Strangio di San Luca e i Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo) toccano il traffico internazionale di cocaina e il riciclaggio di denaro tra pizzerie, gelaterie e altre attività commerciali.
    Ma in quest’operazione ci sono anche spunti notevoli sulla struttura della ’ndrangheta. Quest’ultima è sì aperta alle collaborazioni, tra clan e con tanti altri gruppi criminali europei e non, soprattutto per la cocaina, ma rimane legata al territorio e alla sua reputazione sul territorio.

    Bevilacqua: un cervello in fuga

    Altro elemento di interesse è il ritorno di certi “cervelli in fuga”.
    Pasquale Bevilacqua, imprenditore ritenuto dagli inquirenti vicino ai clan di Bianco, in provincia di Reggio Calabria, è una figura centrale dell’inchiesta. Cittadino australiano, Bevilacqua è rientrato dall’Australia e da li avrebbe portato, oltre ai soldi, anche “metodi” di arricchimento alle spalle dei calabresi che lui stesso considera potenziali “soldati”. Essi vanno tenuti «molto poveri» per avere sempre manovalanza «da mandare a fare il traffico o per andare in carcere per loro [gli ‘ndranghetisti]». Un vero e proprio manifesto della ‘ndrangheta, il suo.

    Carabinieri del Ros

    Dall’Australia alla Calabria

    Bevilacqua ha ottenuto il massimo nel Nuovo Galles del Sud, in Australia. Lì, insieme a moglie e figli, avrebbe attività commerciati di carne, servizi legati all’acqua, ospitalità e una serie di immobili di ingente valore. Inoltre, giocherebbe al casinò, anche per muovere capitali.
    Inoltre (e ovviamente) avrebbe legami con presunti ’ndranghetisti australiani e spiega come in Australia si sia abituati a fare affari con chiunque, a prescindere da affiliazioni e alleanze. Dice al riguardo: «Noi in Australia siamo abituati così… ti dico subito … io conoscevo a tizio … la mangiata mia era là … nessuno me l’ha tolta! mai! gli amici miei … sempre!». Tradotto in parole povere: a prescindere dai necessari legami di business, la struttura di mafia (dove, appunto, si ha la “mangiata”) non cambia e gli amici (gruppo di riferimento mafioso) non cambino.
    Un’interessante conferma sia dell’importanza dei “ritorni” di personaggi che portano in Calabria ciò che hanno imparato all’estero sia della scissione tra struttura organizzativa e attività criminale che ha sempre caratterizzato la ’ndrangheta.

    Quattro chiacchiere su San Luca

    Oltre ai commenti di Bevilacqua, altre conversazioni degne di nota vengono da Giuseppe Scriva e Stefano Soriano che commentano il gruppo di Erfurt in Germania (collegato ai clan di San Luca). In particolare, i due parlano di Domenico Giorgi detto Berlusconi per la ricchezza accumulata col narcotraffico. «Pensa da quanto sta questo qua in Germania … infatti non gli hanno fatto proprio niente … quante indagine pipipipi pipipipi … che vuoi hanno fatto un casino, hanno ucciso sei persone». Il riferimento va alla strage di Duisburg – considerata un errore di calcolo che ha dato troppa visibilità ai Sanlucoti – e, al contempo, alla capacità del soggetto, e del gruppo, di non farsi toccare più di tanto dalle azioni di contrasto. Tutto questo accresce la reputazione dei Sanlucoti visti non solo come uomini d’onore di successo ma anche come persone scaltre che eludono i controlli diversificando gli investimenti in Europa.
    «Loro sono sempre i vincenti, loro sono tosti come i selvaggi…ma tu ti rendi conto?… poi ne hanno un altro confiscato … qua … in Germania ne hanno quattro ed a Lisbona in Portogallo, uno … hanno nove locali … che cazzo gli devono prendere, questi spendono centomila euro al giorno, minimo … solo dove stiamo andando noi pagano …incassano quindicimila euro al giorno … loro fanno attività … ma questi ormai con le attività pulite guadagnano».

    Carabinieri del Ros eseguono alcuni arresti di Eureka

    Eureka: un nuovo racconto della ’ndrangheta

    Il modo in cui la ‘ndrangheta e le sue strutture si “raccontano” in Calabria è diverso dalla percezione che se ne ha nel resto d’Europa. Infatti, in Calabria si parla di strategia, reputazione, riconoscimento criminale e sociale. In Europa si parla di capacità manageriali, stupefacenti, movimenti di denaro, porti in cui “entrare”, e corruzione.
    Alcuni colleghi criminologi-accademici, non amano il termine “glocale” per definire questa peculiarità organizzativa e narrativa. Ma siamo tutti d’accordo che solo guardando al fenomeno sia nelle dimensioni locali che in quelle globali si possono fare passi avanti.
    Già: raccontare (e aspettarsi) solo una ’ndrangheta globalizzata sui mercati del narcotraffico è un errore. Ma lo è anche raccontare (e aspettarsi) la ’ndrangheta come organizzazione altamente ritualizzata e definita da criteri di riconoscimento e reputazione all’estero come al paesello. Queste due anime stanno insieme da tempo. Ed è per questo che di Eureka, probabilmente, parleremo ancora.

  • MAFIOSFERA | Bonavota e non solo: cambia la caccia alle “primule”

    MAFIOSFERA | Bonavota e non solo: cambia la caccia alle “primule”

    È proprio cambiato il linguaggio, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro e in seguito alla sua trentennale latitanza.
    Dal 16 gennaio 2023 – giorno della cattura del boss di Castelvetrano – è cambiato il linguaggio di giornalisti e autorità, e non solo italiani, in riferimento alla cattura di altri latitanti di mafia. Quest’attività è diventata uno sport nazionale in cui le nostre autorità chiaramente primeggiano.
    Proprio a partire da gennaio c’è stata quasi un’inflazione delle catture. Le quali sono proseguite a febbraio con Edgardo Greco (che boss non era ma come tale è passato al momento dell’arresto in Francia). E poi con Antonio Strangio, beccato all’aeroporto di Bali. entrambi a febbraio 2023.
    L’ultimo (per ora) è Pasquale Bonavota, arrestato il 27 aprile mentre pregava in una chiesa di Genova, dove pare risiedesse da tempo con sua moglie.

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    Pasquale Bonavota, il boss di Sant’Onofrio arrestato a Genova

    Pasquale Bonavota: la primula di Sant’Onofrio

    Bonavota, a capo dell’omonimo clan di Sant’Onofrio, in provincia di Vibo Valentia, è ricercato dal 2018. È stato assolto in un processo ma è ricercato per Rinascita-Scott. Il suo gruppo criminale compare in molte attività antimafia di questi ultimi anni, da Roma alla Svizzera al Canada, dal Nord Italia a Vibo Valentia.
    Soprattutto, Bonavota era tra i latitanti considerati tra i più pericolosi dalla Direzione centrale della Polizia Criminale nella lista del Ministero dell’Interno. Ora ne restano tre: Attilio Cubeddu, Giovanni Motisi e Renato Cinquegranella.
    E diciamolo pure: prima che venisse arrestato Messina Denaro, pochi sapevano che questi individui fossero in una lista tutta per loro. Ma non c’è dubbio che quello di Pasquale Bonavota sia un arresto molto importante, perché è il vertice di un’organizzazione ’ndranghetista transnazionale e particolarmente attiva in diversi settori.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Il cambio di passo

    A ben vedere qualcosa è cambiato dalla cattura di Rocco Morabito, nel maggio 2021 a Joao Pessoa in Brasile.
    Il cambiamento si avverte sia nel modo in cui si raccontano i latitanti e le loro fughe più o meno rocambolesche o bizzarre. E si avverte nel modo in cui il resto del mondo si interessa a loro.
    Dietro la cattura di Matteo Messina Denaro e Rocco Morabito, c’è un eccellente Reparto operativo speciale dei carabinieri.
    La cattura di Messina Denaro, dunque, ha consolidato l’operato delle forze dell’ordine a caccia di latitanti pericolosi e certe tendenze di narrazione che già il caso di Morabito aveva sdoganato.
    Facile dire cosa siano queste tendenze: subito le varie testate giornalistiche, locali e nazionali, raccontano la storia del boss sotto il profilo criminale e umano con dovizia di particolari Poi alle autorità si chiede di raccontare i dettagli della “caccia”: le intercettazioni, sorveglianza, lavoro di squadra e, ovviamente, la cattura Da ultimo i giornali stranieri riportano la notizia con un titolo di scarsa inventiva «Fugitive Italian mafia boss captured in…while…» (Boss latitante di mafia catturato a…mentre…).

    Pasquale Bonavota: un arresto da copione

    Sulla cattura di Bonavota abbiamo ovviamente visto tutto il repertorio.
    Il perché è facile da intuire: non solo è un latitante di ’ndrangheta, ricercato per il maxi-processo Rinascita-Scott (ad oggi in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme), ma è anche un boss calabrese di particolare caratura criminale.
    Infatti, il mammasantissima di Sant’Onofrio è considerato un simbolo di quel cambiamento generazione della ’ndrangheta vibonese (e non solo) in cui i nuovi boss (Bonavota ha 49 anni e fa il boss da tempo) usano la testa e non solo le armi.
    Abbiamo letto il suo profilo e una sorta di memo sulle sue pendenze giudiziarie e le sue attività criminali sui giornali locali e nazionali.
    E abbiamo appreso i dettagli della cattura.
    Ci si è ovviamente già chiesto chi lo stesse aiutando e dove fosse il suo “covo” (altro dettaglio in voga dopo le avventure a caccia dei covi trapanesi di Messina Denaro). E da ultimo, le testate internazionali, come spesso accade in questi casi, semplificano talmente tanto per agevolare i loro lettori da stravolgere i fatti. Ed ecco che per la Bbc Bonavota «leads the notorious ’Ndrangheta mafia», cioè sarebbe nientemeno che il leader della ’ndrangheta.

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    Edgardo Greco

    La notizia prima di tutto

    A conti fatti la vera notizia non è solo che venga catturato un latitante (chiaramente la stampa estera non sempre entra nel dettaglio di cosa ciò implichi) ma che questo latitante sia di Italian Mafia. Il che significa due cose: la mafia italiana esiste ancora e l’Italia la combatte costantemente.
    Quindi, con una forzatura dei criteri di notiziabilità, non basta che l’arrestato sia pericoloso. Deve essere sempre un leader, un boss, il top boss, dal momento che l’Italia ci investe soldi. Ma soprattutto si tratta di mafia italiana, argomento notoriamente acchiappa-lettori.
    E questo succede sia che si tratti davvero di una figura apicale di un clan, come Bonavota, sia che si tratti di un killer come Edgardo Greco o di un narcotrafficante come Morabito, tutti in vari momenti definiti boss.

    La mafia tira ancora, ma non esageriamo

    Questa lettura estremizzata, spesso spettacolarizzata, di quello che significa catturare un latitante (anche quando non è un big come Bonavota) è anche alimentata dal fatto che tali catture ora sono possibili anche all’estero. E lo ribadiscono i dati di Interpol che grazie al progetto I-Can (Interpol Coordination Against the ’Ndrangheta) ha operato 42 arresti in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio dell’iniziativa.
    La mafia italiana – ora nella versione ’ndrangheta international – tira ancora e i suoi boss, che sempre tentano di sfuggire alla giustizia non hanno scampo.
    Però sarebbe il caso di smetterla di chiamare tutti boss: non si aiuta una narrazione della mafia calabrese (e di tutte le altre mafie) se si dimostra di non capire o non saper raccontare, che queste organizzazioni criminali sono fatte da uomini e non da supereroi in fuga.

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    Matteo Messina Denaro, l’ex superprimula del crimine italiano

    La retorica della cattura

    È una delle più classiche costruzioni narrative: la caccia al malandrino scaltro, al supereroe appunto. Un lavoro d’astuzia, strategia, e con uso mirato delle risorse laddove funzionano di più. Quindi non nella mera “rincorsa”, ma nell’accerchiamento.
    Il risultato, quando si può comunicare l’arresto del latitante, è la gratificazione istantanea per tutti.
    È un risultato spesso preciso e pulito, anche se non veloce, ma soprattutto non equivoco: lo Stato vince, tu, latitante, non puoi scappare. Il messaggio ha valore di sicuro deterrente, ma probabilmente anche dimostrativo.
    E tutto ciò che ne consegue, dalla rassegna delle frasi del boss ai dettagli della cattura, può dimostrare che lo Stato, a prescindere da chi ha davanti, riesce, se vuole, a vincere. Perciò a dimostrare che la lotta alla mafia si fa sul serio.

    Le massime di Pasquale Bonavota

    Sono note alcune “perle” di Pasquale Bonavota, riportate negli atti di Rinascita-Scott e dai giornali in questi giorni. Il boss avrebbe detto per esempio: «Mio padre, ha detto una parola che allora io non capivo perché ero un ragazzo, ed oggi debbo dire la verità, se uno vuole fare il malandrino, oltre che devi essere, devi avere pure la mentalità, perché il malandrino, non siamo più che si fa con il fucile, mangiavamo, bevevamo, dopo che ci ubriacavamo … uscivamo in piazza e parlavamo, ormai si fa con il cervello, con diplomazia no?».
    Ma a quanto pare il boss di Sant’Onofrio non ha bene imparato a usare cervello e diplomazia, se oggi è in manette. Il messaggio dello Stato è chiaro e univoco, in un momento storico in cui sull’antimafia i messaggi chiari e univoci non sempre abbondano.

  • RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    Lo chiamano, da sempre, “il Re del pesce”. Già, perché spesso in Calabria l’affaccio sul mare non significa vocazione turistica. Vuol dire che le cosche del luogo sono capaci di sfruttare anche gli specchi d’acqua per fare affari. E di affari, Franco Muto ne avrebbe fatti molti.
    Muto è uno dei boss più longevi della ‘ndrangheta. A inizio anno ha lasciato il 41bis, dove era ristretto, per motivi di salute legati all’età: 82 anni suonati.

    Franco Muto da Cetraro

    Da Cetraro, il suo regno indiscusso della provincia di Cosenza, la cosca Muto, retta da Franco Muto per decenni, avrebbe controllato il settore turistico dell’area. Soprattutto il mercato ittico.
    Soldi che vanno e vengono, tra strutture ricettive e carichi di pesce, ma anche grazie al traffico di droga, che la cosca Muto sarebbe riuscita a controllare anche nell’area campana del Cilento.
    Forse proprio grazie a questa leadership, mai messa in discussione da nessuno, la cosca è riuscita a entrare nel gotha della ‘ndrangheta. Ed è rimasta sostanzialmente immune al già marginale fenomeno del pentitismo, da cui la ‘ndrangheta è sempre riuscita a difendersi meglio rispetto a mafia e camorra.

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    Franco Muto da giovane e in un’immagine più recente

    La leggenda del re del pesce

    Franco Muto è un boss leggendario. Un po’ perché è vissuto tanto a lungo da superare varie epoche. Un po’ perché le inchieste solo in parte hanno fatto luce sui suoi affari. Molto, in realtà, è rimasto avvolto nel mistero, nella leggenda, appunto. Dagli interessi nel campo della sanità (l’ospedale di Cetraro è, da sempre, considerato cosa sua) ai rapporti con i “colletti bianchi”: dalle forze dell’ordine alla magistratura. Tutto, come sempre, all’ombra dei cappucci della massoneria deviata.

    Un regno nato a colpi di pistola

    Come tutte le storie dei grandi clan di ’ndrangheta, anche quella della cosca Muto ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’70, infatti, quei territori sono teatro di conflitti armati in cui la famiglia Muto si distingue in termini criminali. Sono gli anni in cui la ’ndrina costruisce la propria egemonia.

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    Franco Pino e Franco Perna. boss rivali della Cosenza di quegli anni

    Alla fine degli anni ’70 la famiglia si schiera con i Pino-Sena in faida con i Perna-Pranno-Vitelli. Più o meno gli stessi anni in cui anche la provincia di Reggio Calabria è scossa dalla prima guerra di ’ndrangheta. E sono gli anni in cui le cosche si modernizzano e sostituiscono le proprie fonti di guadagno.
    Ovviamente, il cambio di gerarchie e di equilibri non può essere silenzioso e indolore. La faida tra i Pino-Sena e i Perna-Pranno-Vitelli termina solo alla fine degli anni ‘80 con un totale di ventisette morti ammazzati.

    Chi denuncia muore: il delitto Ferrami

    Come detto, le attività investigative solo in parte hanno tratteggiato la vera entità degli affari di Franco Muto e della sua cosca. Allo stesso modo, il “re del pesce”, sebbene coinvolto in diverse inchieste, è uscito spesso “pulito”. Su tutti, gli omicidi di Lucio Ferrami e Giannino Losardo.
    Il primo, nativo di Cremona, aveva spostato la propria attività imprenditoriale di ceramiche nel Cosentino. Per la precisione, nell’area che ricadeva, già tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, sotto l’influenza dei Muto. Proprio dagli ambienti malavitosi legati al “re del pesce”, Ferrami avrebbe ricevuto le richieste estorsive. Non solo tutte rispedite al mittente, ma anche con nomi e cognomi messi a verbale in denunce circostanziate.

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    Lucio Ferrami

    Ma quelli sono gli anni in cui nessuno parla, in cui una denuncia significa condanna a morte certa. E, infatti, il 27 ottobre del 1981 Ferrami rimane vittima di un agguato mentre rientra a casa in auto dal lavoro. La sua vettura e il suo corpo vengono crivellati di colpi e la moglie, Maria Avolio, si salva solo perché Ferrami le fa scudo con il corpo.
    Per il delitto di Lucio Ferrami, il boss Franco Muto, il figlio Luigi e quattro scagnozzi del clan che avrebbero materialmente effettuato l’agguato, saranno condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, ma assolti in secondo grado, con la formula dubitativa, allora prevista dal Codice.

    Franco Muto e il caso Losardo

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    Giannino Losardo

    Grida (e forte) voglia di giustizia anche l’omicidio di Giannino Losardo, membro del Pci e segretario giudiziario della Procura di Paola.
    Losardo viene ucciso circa un anno e mezzo prima di Ferrami. Sindaco di Cetraro tra il 1975 e il 1976, Losardo cercò di contrastare lo strapotere della cosca Muto, che già in quel periodo imperversava.
    Poi, nel 1979, ricopre il delicato ruolo di assessore comunale ai Lavori pubblici. Proprio negli anni in cui la speculazione edilizia arricchisce le cosche un po’ dappertutto in Calabria.
    Nella zona di Cetraro, la cosca Muto vuole fare man bassa di concessioni edilizie, per sviluppare i propri affari sulla ricettività e sul mercato ittico.
    Losardo denuncia più volte in consiglio il malaffare e le connivenze di cui possono godere Franco Muto e i suoi.

    Proprio al rientro da un consiglio comunale due killer in motocicletta affiancano la sua 126 azzurra e lo colpiscono gravemente. È il 21 giugno 1980.
    Losardo muore poche ore dopo in ospedale, non prima di aver pronunciato l’ormai celebre, ma inquietante, frase: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Forse per sottolineare che, però, nessuno avrebbe parlato. E, di conseguenza, nessuno avrebbe pagato.
    Anche per questo omicidio, Franco Muto sarà imputato come mandante. Mentre come esecutori finiranno alla sbarra Francesco Roveto, Franco Ruggiero, Antonio Pignataro e Leopoldo Pagano. Ma anche in questo processo Muto e i suoi saranno assolti.
    Il delitto Losardo è tuttora impunito.

    Franco Muto e la Cunski

    È lunga l’epopea criminale di Franco Muto. Il suo nome spunta anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
    Uomo della ’ndrangheta di San Luca, Fonti si autoaccusa di traffici di rifiuti radioattivi e dell’affondamento di alcune carrette del mare al largo delle coste calabresi.
    Tra queste, parla anche della Cunski, la nave che sarebbe stata colata a picco al largo di Cetraro. Ovviamente con il placet e la complicità di Muto.
    Il caso scoppia tra il 2009 e il 2010. E la ricerca della verità va avanti, in quel periodo, grazie alla pervicacia dell’allora assessore regionale all’Ambiente Silvio Greco.

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    Il relitto della Cunski

    Fonti racconta di aver chiesto un aiuto logistico alla famiglia Muto nel 1993 al fine di affondare imbarcazioni cariche di rifiuti tossici o radioattivi affidati alla famiglia Romeo di San Luca da alcune società estere.
    Inoltre, Fonti racconta di aver fatto saltare in aria le navi, azionando un telecomando da un motoscafo a 300 metri dall’imbarcazione abbandonata in mezzo al mare. Il tutto sfruttando l’oscurità, già incombente dal pomeriggio, del mese di gennaio. In cambio dell’appoggio e dell’aiuto, la famiglia di Cetraro avrebbe ricevuto circa duecento milioni di lire.

    Molto rumore per nulla?

    L’affaire Cunski si sgonfia: l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, insieme ad altri soggetti istituzionali, chiude la vicenda. Quella al largo di Cetraro – sostiene la tesi del governo – non sarebbe la Cunski, ma un piroscafo, residuo della prima guerra mondiale. Un dato inoppugnabile è dato dal fatto che, in quelle settimane di caos, le vendite di pesce a Cetraro diminuiscono dell’80%, con diversi commercianti costretti a chiudere le proprie attività. Certo non una bella situazione per il “re del pesce” Franco Muto.

    Franco Muto torna libero

    Ma Franco Muto ha superato questo e altro. Dal febbraio scorso è anche uscito dal carcere, forse quando nemmeno se l’aspettava.
    Muto aveva subito una condanna definitiva a vent’anni di reclusione nel processo “Frontiera”, che aveva ricostruito diversi anni di affari criminali della ‘ndrina. Tra questi, lo sfruttamento delle attività economiche del luogo e il traffico di droga (cocaina, hashish e marijuana) sia nel Cosentino che nel Cilento.
    Ma, in ragione dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza ha autorizzato l’uscita di Muto dal carcere di Tempio Pausania, dove era detenuto.

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    Il porto di Cetraro

    E così, dopo la sentenza definitiva sancita dalla Cassazione, ha potuto far ritorno nella sua Cetraro. Sua, senza le classiche virgolette.

  • MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?

    MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?

    La ‘ndrangheta più radicata nel mondo dopo l’Italia, lo abbiamo già detto, è probabilmente in Australia. Ma questo porta ovviamente a chiedersi cosa ne sia dell’antimafia – o meglio dell’anti-ndrangheta – down under. Sicuramente rispetto a un fenomeno radicato da praticamente un secolo, e integrato nella società australiana, è arrivata una risposta non sempre adeguata. Andiamo con ordine, perché i problemi dell’antimafia australiana sono tutti strutturali e vengono da molto lontano.

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    Una mappa di qualche anno fa sulla distribuzione delle cosche italiane in Australia

    L’Australia è quel bellissimo paese che nell’innocenza dei suoi primi anni di vita (nel 1901 nasce la federazione australiana come la conosciamo oggi) riesce a riconoscere la ‘ndrangheta – l’onorata società – come organizzazione criminale diversa da cosa nostra siciliana, e con un numero di affiliati superiore a 200 nella sola città di Melbourne.

    Gli omicidi al mercato e la banda di Carlton

    Era il 1965 e nella capitale dello stato di Victoria, una serie di omicidi nel mercato di frutta e verdura della città, il Queen Victoria Market, avevano fatto presagire una guerra di mafia, Italian-style.  In quelli che vengono ricordati come gli anni della “Gangland Melbourne”, varie organizzazioni criminali si contendevano il “territorio” del mercato – sostanzialmente per gestirne cartelli di prezzi ed estorsioni – e tra questi una acerba onorata società, di origine calabrese, reggina, e la cosiddetta Carlton Crew (la banda di Carlton – storico quartiere italiano di Melbourne), composta da italiani in senso generale, non affiliati di ‘ndrangheta. Sin da allora, dal cosiddetto Rapporto Brown sulla criminalità italiana nello stato di Victoria del 1965, si operava una distinzione tra onorata società calabrese e crimine organizzato italiano. Questa distinzione non solo perdura ma crea non pochi problemi ancora oggi.

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    L’ingresso del Queen Victoria Market

    Antimafia Australia cercasi

    A Spencer Street a Melbourne, nella nuova sede della Victoria Police – VicPol – polizia di stato, partecipo a un meeting con la nuova squadra anti-crimine organizzato e la squadra omicidi, con i rispettivi analisti, cioè quelli che lavorano l’intelligence – i mezzi di ricerca della prova.

    Non è la prima volta che li incontro ma – ed è questo un altro problema – le squadre cambiano spesso, la rotazione interna è brutale, pochi stanno sullo stesso progetto oltre 2 o 3 anni. Creare conoscenza storica del fenomeno – soprattutto quello mafioso – richiede ovviamente molto di più. In molti dentro VicPol hanno conoscenza del fenomeno dell’onorata società, anche da un punto di vista “storico” di criminalità urbana, ma non sono sempre questi a guidare le indagini. Ad ogni modo, anche oggi, un sottogruppo della squadra contro il crimine organizzato, prevede indagini su Italian Organised Crime (IOC) dentro cui ci sono vari detective, ispettori, sergenti e analisti che si occupano di seguire uno specifico target o più target, spesso – ma non sempre – legati al traffico di stupefacenti.

    Un fotogramma del video dell’operazione Ironside condotta dalla AFP

    Dopo l’operazione Ironside del 2021 e 2022 infatti – che ha portato all’arresto di oltre 700 persone coinvolte nel traffico di droga in tutta Australia – si è chiarito che “gli italiani” sono fondamentali per le importazioni e stanno una spanna sopra gli altri nella catena logistica del narcotraffico. Le indagini di droga sono sicuramente più semplici e dirette, e ovviamente frequenti.

    La struttura dell’onorata società

    Ma il focus del nostro meeting non sono i traffici cocaina o metanfetamine – entrambe droghe prescelte dai clan locali in quanto sorprendentemente ancora più redditizie che altrove in Australia – bensì la struttura dell’onorata società oggi in Australia e come questa struttura si lega alla criminalità locale a Melbourne e dintorni. Sì, perché struttura di ‘ndrangheta e criminalità organizzata locale non sono necessariamente legate. Che vuol dire? Essenzialmente due cose: primo, esiste una fetta di onorata società, nello stato di Victoria, tra le città di Melbourne e Mildura, che non “fa crimine” o almeno non direttamente, non nel senso di contravvenzione di norma penale per le leggi australiane (ricordiamo che l’appartenenza alla mafia non è qui reato). Secondo, e in perfetta continuità con gli anni ‘60, non tutta la criminalità “italiana” è riconosciuta o riconoscibile come onorata società, quindi, bisogna chiedersi in che rapporto siano i clan di ‘ndrangheta con gli altri “italiani” generici.

    Antimafia Australia? Reati associativi anticostituzionali

    Infatti, quanto è diverso quello che accade nella onorata società rispetto a quello che accade in altri gruppi cosiddetti etnici, inclusi altri italiani, o anche libanesi, cinesi, albanesi, per esempio? La ‘ndrangheta è organizzazione criminale transnazionale, dunque poter “attivare” i contatti da fuori rimane un vantaggio anche in Australia. Ci sono poi profili comportamentali degli ‘ndranghetisti che vanno a influenzare le loro scelte, più che i loro affari criminali: chi succede a chi, come ci si incontra, chi conta di più e perché e via discorrendo. Appunto, esiste una fetta di ‘ndrangheta australiana che non è direttamente coinvolta nella criminalità organizzata per gli inquirenti, ma che è ragione costituente e costitutiva dell’attività criminale di altri, anche a causa di una reputazione appunto creata sul territorio da decenni. Il reato associativo però è anticostituzionale in Australia: si può rispondere di concorso -intenzionale, sostanziale – ma non di reato per associazione. E questo non cambierà facilmente in quanto contrario ai principi del diritto – sacrosanti – locali.

    La polizia australiana e Frank Barbaro davanti a casa di suo figlio Pat

    Migranti di “successo”?

    Come si fa, dunque, a indentificare il rapporto che intercorre tra un businessman di successo, a capo di una squadra di calcio locale o di un impero del mercato ortofrutticolo, e il traffico di stupefacenti portato avanti ora o qualche anno fa da membri della sua famiglia? Abbondano le mappe familiari, si conoscono le dinastie storiche, i cognomi sono sulla bocca di tutti i presenti. Il legame tra reputazione e criminalità è spesso solo superficialmente esplorato e compreso. Mi viene chiesto se conosco un certo Pasquale C. o Diego L., oppure come penso sia organizzata la famiglia di Tony M. Tutti cognomi calabresi, migranti di una, due o tre generazioni fa, tutti italo-australiani e spesso persone che appaiano tra i “migranti di successo”, le storie che si raccontano qui da noi su chi ce l’ha fatta all’estero, esempio e invidia per molti. I loro soldi? Le loro fortune? Spesso avvolte in un mistero non tanto misterioso quando si allarga l’orizzonte di veduta e si nota da una parte la capacità di certi soggetti di impegnarsi sul serio nel mondo del lavoro, e dall’altro i cosiddetti “aiuti da casa”, somme di denaro che circolano in donazioni o trasferimenti interni alle famiglie di dubbia provenienza.

    ‘Ndranghetisti alle cene di beneficienza

    E ancora, se ad una cena di beneficienza del valore di oltre 2 milioni di dollari australiani (1 milione e duecento euro circa) partecipano magnati dell’industria, costruttori, ma anche ‘ndranghetisti o presunti tali, o le loro famiglie non direttamente coinvolte in criminalità organizzata, come “leggere” questo mischiarsi di ruoli intenti e amicizie strumentali che porteranno quasi certamente a più affari in comune? Per esempio, quando crollò parzialmente un palazzo a Melbourne l’anno scorso, tra gli investitori vennero notate varie persone del sottobosco criminale, al fianco dei costruttori. Galeotta fu la cena di beneficienza, appunto. Provare i rapporti tra crimine, denaro e potere non è cosa da poco e richiede prima di tutto una comprensione delle strutture criminali.

    Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

    Uno dei mezzi che notoriamente aiuta gli inquirenti in tutto il mondo – eredità sicuramente anche dell’ingegno del giudice Giovanni Falcone – è il cosiddetto “follow the money” – il metodo per cui se si seguono i flussi finanziari si arriva a capire la struttura criminale. Il “follow the money” è un’aspirazione frustrata in Australia. AUSTRAC, l’unità di indagini finanziarie che si dovrebbe occupare di seguire appunto i flussi di denaro e delineare che struttura ci raccontano, non ha sempre la capacità effettiva per farlo a causa di normative che funzionano sulla carta, ma non in pratica eseguite, e a causa di una struttura procedurale per cui le indagini si fermano spesso allo stato e alla giurisdizione di riferimento.

    Indagini spesso in tilt

    In parole semplici, è difficile seguire i soldi nell’attuale legislazione australiana perché gli ordini preventivi sulla ricchezza non giustificata (Unexplained Wealth Order) in teoria mezzo potentissimo di contrasto, non vengono effettivamente seguiti una volta emanati: sono complessi e costosi da gestire. E ancora, se Tony, residente a Melbourne, è considerato da VicPol responsabile di un’importazione di metanfetamine a Sydney, l’indagine va spesso in tilt a causa del confine giuridico tra gli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud (NSW). Interverrà l’Australian Federal Police (AFP), e le indagini subiranno un corso diverso, federale appunto, di difficile coordinamento con le indagini statali che per esempio cercano di capire se Tony è coinvolto o meno nell’omicidio di un avvocato qualche anno fa. Rimarranno due indagini pressoché separate – ergo rendendo impossibile comprendere la reale natura della criminalità in corso. Condividere dati, e indagini, è spesso solo fattibile con l’istituzione di squadre comuni di indagine, che – attualmente in fase di costruzione tra AFP e VicPol e AFP e polizia del NSW – magari porteranno a risultati più importanti sulla criminalità organizzata calabrese.

    I problemi dell’antimafia Australia

    Dunque, i problemi dell’antimafia in Australia hanno a che fare con una concettualizzazione etnica complessa del fenomeno mafioso di matrice calabrese, con la difficoltà di tracciare la ricchezza legata al crimine organizzato quando migra nel “mondo legale” o meglio nel mondo dei poteri – finanziari e politici, e soprattutto con la difficoltà di comprendere come la triade reputazione-criminalità-potere – presente in molti gruppi di criminalità organizzata – si manifesta all’interno di un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta in Australia, che può inoltre contare su rapporti e contatti in mezzo mondo.

    Tu chiamale se vuoi… frustrazioni

    Insomma, la strada è lunga, e l’interesse è chiaramente sempre presente. Dopo il meeting in VicPol si va per una birra con qualcuno dei presenti: frustrazione, curiosità, sorpresa, sono comuni. «Tu chiamale se vuoi emozioni»– scherza con me un poliziotto italo-australiano che conosce Battisti. Frustrazione per non riuscire spesso a risolvere le difficoltà amministrative procedurali; curiosità per il mondo della ‘ndrangheta e le sue evoluzioni; sorpresa nello scoprire che la loro ‘ndrangheta è spesso tutta australiana e fa anche attività semi-legali o del tutto legali, e non solo calabrese-transnazionale e dedita al traffico di stupefacenti. Provo le stesse emozioni anche io, nel fare ricerca in Australia su questi temi, come sempre grande palestra di umiltà e di conoscenza.

  • ‘Ndrangheta über alles: per la Dia è la signora del crimine

    ‘Ndrangheta über alles: per la Dia è la signora del crimine

    Arcaica da un lato, con «la fedeltà alle origini e la strutturazione su base familiare». Modernissima dall’altro, grazie a «massima flessibilità ed intuito affaristico-finanziario che la proietta all’esterno». Un mostro dai due volti, la ‘ndrangheta secondo l’ultima relazione semestrale della Dia, che «si conferma l’assoluta dominatrice della scena criminale anche al di fuori dei tradizionali territori d’influenza».

    La Dia e la ‘Ndrangheta nel Nord Italia e in Calabria

    Se esistesse un campionato del crimine, la ‘ndrangheta sarebbe saldamente in testa alla classifica e con parecchi punti di vantaggio sui rivali. Innanzitutto perché – restando alla metafora sportiva – anche nelle trasferte più lontane gioca in casa. «Le inchieste sinora concluse hanno infatti consentito di individuare nel Nord Italia 46 locali, di cui 25 in Lombardia, 16 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige», riporta la Dia. E poi perché quando trova concorrenza sul territorio, tende ad «instaurare forme di collaborazione utilitaristiche con consorterie di diversa matrice mafiosa giustificate per lo più da specifiche contingenze».

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    Le ramificazioni della ‘ndrangheta nel Nord italia nella mappa della Dia

    L’analisi della presenza criminale di regione in regione si trasforma così in un lungo elenco di cognomi tristemente noti a queste latitudini. Si va dagli Alvaro e i Carzo ai Piromalli, passando per i Mancuso e i Morabito, i Grande Aracri e i Gallace, i Farao-Marincola e i Pelle, i Bellocco e molti altri ancora. Ci sono la capitale e il litorale romano, i grandi porti della Liguria ma anche la piccola Valle d’Aosta e il Sud Tirolo. Non importa si tratti di zone a vocazione industriale come la Lombardia, il Veneto e il Piemonte oppure di territori dove sono le piccole imprese a reggere l’economia, come l’Umbria. La ‘ndrangheta arriva e trova il modo di fare affari. Si tratti di appalti in Emilia, smaltimento di rifiuti in Toscana, trasporti in Friuli, ricostruzione post terremoto in Abruzzo.

    Dia: la ‘Ndrangheta fuori dall’Italia

    Impossibile non parlare di cocaina, il business che ha fatto la fortuna dei clan calabresi. La ‘ndrangheta ha ancora un porto come quello di Gioia Tauro in cui ha piantato le sue radici. Ma si dà da fare anche in quelli di Genova, La Spezia, Vado Ligure e Livorno per l’alto Tirreno. Perché «i sodalizi calabresi continuano a rappresentare gli interlocutori privilegiati per i cartelli sudamericani in ragione degli elevati livelli di affidabilità criminale e finanziaria, garantiti ormai da tempo». Quest’affidabilità ha permesso loro di espandere il giro d’affari finanche in Africa occidentale, «in particolare la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau e il Ghana».

     

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    Il porto di Rotterdam

    Ma l’elenco della ramificazione capillare della ‘ndrangheta nel mondo è lunghissimo. L’egemonia criminale calabrese si registra nel campo delle scommesse online a Malta come nei grandi porti francesi, belgi, tedeschi e olandesi, sulla rotta dei Balcani (Romania in particolare) come nei paesi ex sovietici. Qui, scrive la Dia, «in particolare la ’ndrangheta – la più diffusa a livello globale e la più “liquida” fra le mafie – potrebbe trarre i maggiori vantaggi sia dai traffici illeciti indicati in premessa (droga, armi, sigarette e altre merci illegali, ndr), sia dalla ricostruzione postbellica». La ‘ndrangheta canadese ha acquistato maggiore autonomia, nonostante l’indissolubile legame con la provincia di Reggio. Quella statunitense coopera con Cosa Nostra grazie anche ai solidi rapporti che ha con i cartelli della droga dal Messico fino all’Argentina. In Australia è radicata da 100 anni.

    Dove finiscono i soldi della coca

    I clan trasformano così fiumi di droga in un mare di denaro che alimenta tutto il resto degli affari. La ‘ndrangheta con quei soldi, ad esempio, si propone «a imprenditori in crisi di liquidità dapprima come sostegno finanziario, subentrando poi negli asset e nelle governance societarie per capitalizzare illecitamente i propri investimenti». Come prendere due piccioni con una fava: riciclando i guadagni illeciti, le cosche riescono al contempo a impadronirsi di ampie fette di mercato inquinando l’economia legale.

    corruzione-per-il-viminale-solo-il-molise-peggio-della-calabriaE poi c’è l’area grigia in cui si muovono professionisti compiacenti e pubblici dipendenti infedeli che gestiscono la cosa pubblica. Lì, grazie alla loro comprovata abilità, le ‘ndrine sguazzano. Infiltrano «compagini amministrative ed elettorali degli enti locali al fine di acquisire il controllo delle risorse pubbliche e dei flussi finanziari, statali e comunitari, prodromici anche ad accrescere il proprio consenso sociale». Gli affari ora si fanno senza fare troppo rumore, indossando giacca e cravatta. Gli ‘ndranghetisti sono «straordinariamente abili nell’adattarsi ai diversi contesti territoriali e sociali prediligendo, specialmente al di fuori dai confini nazionali, strategie di sommersione in linea con il progresso e la globalizzazione».

    Dia, I-CAN, ‘ndrangheta ed economia

    Ma come si combatte un nemico del genere? In Italia si sta provando un po’ di tutto ma, per dirla con Guccini, quel tutto è ancora poco. Buoni risultati stanno arrivando dal progetto di cooperazione internazionale I-CAN, di cui abbiamo parlato spesso su I Calabresi nella rubrica Mafiosfera. Dal giugno 2020, riporta la Dia, l’attività operativa di I-CAN ha consentito di localizzare e trarre in arresto 26 latitanti appartenenti alla ‘ndrangheta:

    • 2 in Albania,
    • 3 in Argentina,
    • 3 in Brasile,
    • 1 in Canada,
    • 1 in Costa Rica,
    • 1 nella Repubblica Dominicana,
    • 7 in Spagna,
    • 3 in Svizzera,
    • 1 in Portogallo,
    • 1 in Turchia,
    • 1 in Polonia
    • 2 in Italia

     

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    La Dia stessa ha sottratto negli anni alle mafie beni per circa 7,5 miliardi di euro. Una cifra enorme, eppure infinitesimale rispetto al volume d’affari della criminalità organizzata nel medesimo periodo. Secondo uno studio della Banca d’Italia, infatti, «i volumi di affari legati alle attività illegali – attraverso le quali la criminalità organizzata si finanzia e si arricchisce – sono ingenti e si può stimare che rappresentino oltre il 2 per cento del PIL italiano». Nel medesimo documento di Palazzo Koch si spiega anche che «si può calcolare che un azzeramento dell’indice di presenza mafiosa nel Mezzogiorno si assocerebbe ad un aumento del tasso di crescita annuo del PIL dell’area di 5 decimi di punti percentuali (circa il doppio rispetto all’analogo esercizio per il Centro Nord)».

  • RITRATTI DI SANGUE | Mancuso: affari, massoneria, bombe e sangue

    RITRATTI DI SANGUE | Mancuso: affari, massoneria, bombe e sangue

    Una cosca che appartiene, a tutti gli effetti, al gotha della ‘ndrangheta. Hanno agganci ovunque i Mancuso, capaci di sfruttare quel volto “dolce” della ‘ndrangheta per blandire e colludere utilizzando la massoneria deviata come camera di compensazione. Ma, all’occorrenza, in grado di mostrare il volto più cruento. Sul loro territorio di appartenenza, la provincia di Vibo Valentia, non è inusuale anche l’utilizzo di esplosivi per gesti eclatanti. La prova è data, tra gli altri eventi, l’autobomba che uccide Matteo Vinci.

    Come tutte le importanti cosche della ‘ndrangheta, anche i Mancuso hanno costruito molta della propria forza economica grazie al business del traffico di droga. Dialogano da pari a pari con i narcos colombiani e, in generale, con tutto il mondo criminale del Sud America. Già quindici anni fa, nel 2008, una relazione della DIA afferma: «I Mancuso operano nel florido settore del traffico di cocaina, dove sono riusciti ad acquisire un notevole peso, assicurandosi un canale privilegiato con i cartelli colombiani, con i narcotrafficanti spagnoli, spingendosi sino in territorio australiano».

    I Mancuso e le altre cosche

    Un’inchiesta della Procura di Catanzaro, denominata Black Money, mostra la forza della cosca Mancuso di Limbadi, nel Vibonese, , a pieno titolo tra le più potenti famiglie della ‘ndrangheta di tutte le province calabresi. Nel Vibonese, non si muoverebbe foglia senza il placet dei Mancuso. Esplicativa, in tal senso, la sentenza che sancisce l’esistenza della cosca Fiarè di San Gregorio d’Ippona: «Tutte le cosche insediate sul territorio della provincia vibonese fanno capo all’associazione per così dire maggiore dei Mancuso la quale, nel riconoscere alle varie ‘ndrine minori la dignità di organizzazioni autonome e indipendenti, conferisce loro la legittimazione ad operare».

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    La Procura di Catanzaro

    La potenza economica e militare della cosca Mancuso emerge, inoltre, in alcuni procedimenti penali degli anni ’70 e ’80 che attestano i forti e diretti collegamenti con molte tra le altre cosche di ‘ndrangheta di maggior tradizione mafiosa dell’intera regione. In primo luogo, quelle storiche del reggino, specie della Piana di Gioia Tauro. Ma anche le cosche di più antico potere storicamente radicate nelle altre province. Fortissimi e stabili gli intrecci con le cosche della provincia di Reggio Calabria. In particolare, quelli con i Piromalli, i Mammoliti, i Pesce, i Mazzaferro e i Rugolo.
    La cosca Mancuso, in una regione all’ultimo posto in Italia nella graduatoria di reddito ed al primo in quella per tasso di disoccupazione, controlla i cantieri, muove gli autocarri, costruisce alberghi, apre negozi ed assume manodopera.

    Ciccio Mancuso vince le elezioni

    La storia criminale dei Mancuso ha inizio proprio con il loro coinvolgimento nella faida di San Gregorio d’Ippona, con il supporto ai Fiarè contro i Pardea. Siamo nel 1977.
    Ma sono gli anni ’80 a consacrare la forza del casato di Limbadi all’interno dello scacchiere ‘ndranghetista. È, infatti, il 1983 quando viene sciolto il comune di Limbadi, primo centro a subire questo provvedimento, sebbene ancora non vi sia una legge specifica per contrastare le infiltrazioni delle consorterie criminali nelle istituzioni locali.
    Lì, a Limbadi, l’allora capobastone Ciccio Mancuso risultò (da latitante) il primo degli eletti, spingendo il presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini, a intervenire.

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    Ciccio “Tabacco” Mancuso

    Nel nuovo millennio, numerose le inchieste giudiziarie che mettono sotto la lente d’ingrandimento la cosca di Limbadi. Dall’indagine Dinasty, che tratteggiò le divisioni all’interno del clan, all’inchiesta Decollo, che invece ricostruì l’asse con i Pesce di Rosarno per il traffico internazionale di droga.
    Da ultima, ovviamente, l’inchiesta “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro sta ricostruendo i legami della cosca con il mondo istituzionale e con quello della massoneria deviata. Da qui, tra gli altri, il coinvolgimento dell’avvocato ed ex parlamentare, Giancarlo Pittelli.

    Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

    A tratteggiare il ruolo rivestito all’interno della ‘ndrangheta unitaria dalla cosca Mancuso sono numerosi collaboratori di giustizia. I pentiti parlano del ruolo rivestito dalla famiglia originaria di Limbadi fin dagli anni ’70 e ’80. Gli anni, cioè, della prima e della seconda guerra di ‘ndrangheta, che cambiano il volto della associazione criminale calabrese.

    Tra gli altri, Francesco Onorato: «Dopo la morte di Paolo De Stefano, furono i Piromalli, in particolare Peppe Piromalli e anche Luigi Mancuso, i referenti di Cosa Nostra in Calabria. Quando dico referenti intendo dire che facevano parte di Cosa Nostra, come Nuvoletta, Zaza e Bardellino in Campania. Ciò mi fu spiegato da Salvatore Biondino. “Fare parte” significava che ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Per quanto riguarda gli omicidi Cosa Nostra, quando chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti».

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    Andrea Mantella

    Il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, uno dei più importanti di quelli di ultima generazione nel Vibonese, afferma che diversi membri della famiglia Mancuso avrebbero il grado di “Medaglione”, uno dei più alti all’interno della struttura ‘ndranghetista. E diversi pentiti parlano del ruolo apicale che avrebbe rivestito Luigi Mancuso nel mandamento tirrenico, fungendo da anello di congiunzione tra le cosche del Reggino e quelle della provincia di Catanzaro.

    La riunione di Nicotera

    Non è un caso e, anzi, è indicativo del ruolo fondamentale rivestito dai Mancuso, il fatto che, nel progettare la strategia della tensione di metà anni ’90, la ‘ndrangheta, nel muoversi come si stava già muovendo Cosa Nostra, abbia scelto, per una delle riunioni più importanti (come sancito dal processo ‘Ndrangheta stragista) proprio il territorio dei Mancuso. È la riunione tra cosche di Nicotera Marina, svolta all’interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi, legatissima a quella dei Piromalli, come provano diverse sentenze definitive quali Piano verde, Porto e Tirreno. Sulla riconducibilità del villaggio turistico ai clan vibonesi riferiscono diversi collaboratori di giustizia. Notoria l’infiltrazione delle cosche vibonesi nelle strutture ricettive di quell’area. Allora, come oggi.

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    La spiaggia di Nicotera

    Ragionevole, quindi, che si sia scelto il loro regno per  avere garanzie sul ruolo dell’importante riunione. L’assise criminale in questione ha avuto un altissimo valore strategico essendo, il suo oggetto, proprio la questione stragista. E non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della ‘ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria. Il che, peraltro, rappresenta una ulteriore prova storica della unitarietà della ‘Ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l’esterno si presentava unita e compatta.

    I Mancuso e la massoneria

    Le intercettazioni svolte hanno evidenziato l’interesse della famiglia Mancuso ad “avvicinare” politici, giudici, esponenti delle Forze dell’Ordine, al fine di ottenere vantaggi, soprattutto di carattere giudiziario o economico. Protagonista è Pantaleone Mancuso, uno degli esponenti più rilevanti della cosca, per la sua peculiare capacità di infiltrarsi, tramite terze persone, in qualificati ambiti sociali, professionali ed istituzionali. Grazie a tali capacità, la cosca ha accresciuto il proprio potere di controllo del territorio e la propria forza di intimidazione nei confronti della popolazione, conscia di essere soggiogata da un’organizzazione mafiosa non solo temibile militarmente, ma anche sorretta da trasversali appoggi esterni.

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    Pantaleone “Vetrinetta” Mancuso

    “Vetrinetta”, così viene appellato il boss, mostra di conoscere bene le dinamiche della ‘ndrangheta e, soprattutto, cosa sia diventata. Forse anche in virtù della sua stessa appartenenza alla massoneria: «La ‘ndrangheta non esiste più! Una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, c’era la ‘ndrangheta! La ‘ndrangheta fa parte della massoneria! […] diciamo… è sotto della massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose […] ora cosa c’è di più? Ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta! Una volta era dei benestanti la ‘ndrangheta, dopo gliel’hanno lasciata ai poveracci, agli zappatori… e hanno fatto la massoneria! Le regole quelle sono… come ce l’ha la massoneria, ce l’ha quella! Perché la vera ‘ndrangheta non è quella che dicono loro… perché lo ‘ndranghetista non è che va a fare quello che dicono loro […] adesso sono tutti giovanotti che vanno a ruota libera, sono drogati!».

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    Si tratta di affermazioni intercettate di grande valenza, non solo per il contenuto ma, soprattutto, per la caratura del personaggio che le pronuncia, Pantaleone Mancuso: «Ancora con la ‘ndrangheta sono rimasti! È finita! Bisogna fare come… per dire… c’era la “Democrazia”… è caduta la “Democrazia” e hanno fatto un altro partito… Forza Italia, “Forza Cose”… bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole! Il mondo cambia e e bisogna cambiare tutte le cose. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo P4, P6, P9».

    Limbadi esplode

    Come detto, non è inusuale che, sul territorio della cosca, possano avvenire attentati eclatanti. Il 9 aprile 2018 viene ucciso in contrada Cervolaro a Limbadi Matteo Vinci con una bomba esplosa nella sua Ford Fiesta. Da sempre, sulla morte aleggia l’ombra della ‘ndrangheta e, in particolare, della cosca Mancuso che, secondo l’accusa, sarebbe stata interessata al terreno dei Vinci. Una nebbia mai diradata fino in fondo.

    Per l’attentato, infatti, sono stati fin qui condannati in primo grado, come mandanti, Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara. Dieci anni sono stati comminati nei confronti di Domenico Di Grillo, 73 anni, marito di Rosaria Mancuso, accusato di tentato omicidio per il pestaggio di Francesco Vinci avvenuto pochi mesi prima rispetto all’esplosione. Ma, in un altro procedimento, è arrivata l’assoluzione per i presunti esecutori materiali dell’omicidio.

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    L’auto di Matteo Vinci devastata dall’esplosione

    Una cosca monolitica, o quasi

    Oggi, quindi, i Mancuso sono una delle cosche più importanti della ‘ndrangheta, con un ruolo crescente su mercati lontani dalla Calabria, come la Lombardia o, come documentato dall’inchiesta su Mafia Capitale, su Roma. Potente perché quasi indistruttibile, con il fenomeno del pentitismo che non la scalfisce. O quasi.

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    Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)

    Come Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”, che aveva deciso di cambiare vita, di sganciarsi dalla cosca, da quell’uomo di cui si era invaghita, ma che adesso era diventato un cappio. Non sottoscrisse mai i verbali della sua prima e unica notte da donna libera. Tornò a casa, dal marito che, nel frattempo, aveva appreso di questa crepa nella vita di Tita. Morì un mese dopo, per ingestione di acido muriatico. Suicidio, secondo lo stesso Pantaleone Mancuso, che informò i carabinieri del fatto. Fu anche indagato per istigazione al suicidio. Punito per vari reati, si trova oggi al 41bis. Non per quello, però.
    Chi, invece, i verbali li ha sottoscritti è Emanuele Mancuso, il primo pentito con il cognome Mancuso della storia. Ha raccontato e sta raccontando le cose del clan che, come nelle tradizioni della ‘ndrangheta più alta, sono cose di soldi e di sangue.

  • MAFIOSFERA | Donne e ‘ndrine: le good mothers dei Barbaro

    MAFIOSFERA | Donne e ‘ndrine: le good mothers dei Barbaro

    Dal 5 aprile, sulla piattaforma Disney+, è disponibile The Good Mothers. La serie tv racconta le storie di Lea Garofalo, di sua figlia Denise, di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola. Donne che hanno messo in difficoltà l’organizzazione maschile della ‘ndrangheta. E che con le loro rivelazioni – e le loro scelte – hanno contribuito alle indagini della magistratura, rischiando, e a volte pagando con la propria vita. A febbraio The Good Mothers ha vinto il premio come miglior serie nella sezione Berlinale Series al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
    Non sono storie nuove, quelle raccontate dalla serie. Ma, proprio perché non sono nuove, forse permettono una riflessione più incisiva sul rapporto tra mafia e mondo femminile, in una terra, come la Calabria, o in comunità calabresi fuori regione, dove il femminile costantemente deve negoziare i propri spazi.

    Un podcast sulle donne e la ‘ndrangheta

    In occasione dell’uscita di The Good Mothers, dunque, si è voluta fare questa ulteriore riflessione. L’occasione è stata un podcast, sponsorizzato da Disney+ e prodotto da Il Post che ha affiancato una serie di spunti analitici da parte della sottoscritta, su ‘ndrangheta, femminile e donne, alla voce del giornalista Stefano Nazzi, notoriamente conosciuto agli amanti dei podcast per Indagini, da mesi primo in classifica in Italia.

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    Il podcast, che si chiama Le Onorate, è una conversazione sull’onore nel mondo mafioso e sull’importanza dell’altro lato dell’onore – la sua luna come la chiamiamo – cioè il mondo femminile che di quell’onore si deve fare, volente o nolente, garante. Raccontiamo alcune delle storie di The Good Mothers anche nel podcast, ma cerchiamo anche di andare oltre, con altre storie, per superare la dicotomia donne-vittime o donne-carnefici e essenzialmente riconoscere la “normalità” di molte delle donne che stanno attorno e dentro ai sistemi mafiosi. E infine, ovviamente, parliamo anche delle donne contro, includendo una riflessione sul rapporto che si istaura tra magistrati/e e mafiosi/e e come questo possa rivelarci molto di come alcune indagini si evolvono.

    Ruoli e capacità d’azione

    Tre puntate di podcast, sei di serie tv, libri e studi accademici, certamente non completano l’universo del femminile nel sistema ‘ndrangheta. Come ricorda Ombretta Ingrascì, esperta proprio negli studi di donne e mafia, guardare a queste donne pone infatti un problema di agency – capacità di azione – di queste donne: alcune saranno conformiste, altre adempienti, altre trasformative.
    Ma c’è un elemento della mafia calabrese che conta molto per comprendere il fenomeno di oggi, e dove proprio il ruolo delle donne e l’evoluzione di un discorso di genere meriterebbe più attenzione. Si tratta della dimensione globale della ‘ndrangheta, della presenza di strutture e di attività dei clan in altri paesi del mondo che sicuramente è fatta anche di ruoli cangianti, ambigui, complessi, di madri, figlie, sorelle, nonne e in generale, delle donne.

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    Una mappa di qualche anno fa sulla distribuzione delle cosche italiane in Australia

    Storie di donne e ‘ndrangheta fuori dalla Calabria e dall’Italia sono difficili da rinvenire, per un motivo abbastanza ovvio: è molto difficile spesso individuare – e chiamare come tale – lo ‘ndranghetista fuori dai confini nazionali, ergo è molto difficile raccontare le storie di chi gli sta intorno. Ma guardando a casi che riguardano gli uomini vicini al mondo ‘ndranghetista, si trovano tante tipologie di comportamenti delle donne che gravitano attorno a questi uomini. E come spesso accade, è nell’Australian ‘ndranghetauna delle più evolute manifestazioni globali della mafia calabrese fuori dall’Italia – che si trovano esempi di una varietà di comportamenti più o meno ortodossi nell’universo femminile mafioso.

    Donne e ‘ndrangheta in Australia: la famiglia Barbaro

    Una delle famiglie più esposte della ‘ndrangheta in Australia è sicuramente la famiglia Barbaro. È una dinastia criminale di stampo ‘ndranghetista originaria di Platì, da decenni attiva tra il Nuovo Galles del Sud, lo stato di Victoria, il Queensland, ma anche nella capitale Canberra. Ed è pure una famiglia notoriamente legata alla criminalità organizzata locale, soprattutto nella città di Melbourne. Ergo, è spesso protagonista di atti violenti, effettuati e subiti.

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    La bara di Ellie Price al suo funerale

    Ellie Price, di 26 anni, fu uccisa nel maggio del 2020 a Melbourne: Ricardo ‘Rick’ Barbaro è ad oggi sotto processo per il suo omicidio. Si dichiara non colpevole. Anzi, il suo avvocato fa notare come la Price fosse «una donna che aveva problemi mentali, abusava di sostanze, era una persona solitaria e aveva un comportamento erratico». Barbaro però si era dato alla fuga per oltre dieci giorni in seguito al rinvenimento del corpo di Ellie Price.

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    Ricardo Rick Barbaro

    Proprio in quei giorni, Anita Barbaro, formalmente Anita Ciancio, ultima moglie del padre di Ricardo fece appello affinché Rick si facesse trovare. Una rara apparizione nella famiglia, e da parte di una donna che si appella alla cura e alla responsabilità. Una donna la cui immagine viene spesso associata all’ordine e alla maternità nella famiglia in questione. Diceva infatti Anita Barbaro: «Ricky ti prego di farti avanti e di fare la cosa giusta per il bene di questa povera giovane donna e della sua famiglia e per il dolore incomprensibile che devono provare, devi metterti in contatto con qualcuno». E ancora «Hai una figlia e delle sorelle minori, se questo fosse accaduto a loro avresti bisogno di sapere cosa è successo».

    Una lunga scia di violenza

    Il padre di Ricardo Barbaro è Giuseppe Dom “Joe” Barbaro, condannato per reati legati agli stupefacenti. Una scia di violenza è associata agli uomini di questo ceppo della famiglia una volta platiota. Questi Barbaro furono per esempio sospettati di aver giocato un ruolo nell’omicidio di Colin Winchester, vicecapo della polizia federale ucciso nel 1989. Cugino di Joe era Pasquale Barbaro, ucciso insieme al gangster Jason Moran mentre assisteva a un allenamento di calcio per bambini a Essendon nel 2003. Il padre di Joe era Pasquale Barbaro ‘il Principale’, forse il primo ‘collaboratore di giustizia’ di ‘ndrangheta in Australia, ucciso a Brisbane nel 1990. Il Principale era parte di quel gruppo mafioso che negli anni ’70 e ’80 coltivava i “castelli d’erba” a Griffith, nel nuovo Galles del Sud.

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    Rossario Barbaro

    Il fratello di Rick, Pasquale Tim Barbaro, ucciso a 35 anni a Sydney, nel 2016, da un gruppo di associati del suo gruppo criminale (non italiani o italo-australiani). Circa sei mesi dopo l’uccisione di Pasquale, il fratello Rossario (sic!) si tolse la vita, caduto in una profonda depressione. La ex moglie di Pasquale Tim, Melinda Barbaro – i giornali riportano che fa l’imprenditrice, non meglio specificato in che settore – dirà che suo marito «era un tipico italiano e amava tutto ciò che aveva a che fare con la religione e il cibo», ma che il carcere lo aveva cambiato.

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    Pasquale Tim Barbaro e la sua ex moglie Melinda

    I due si erano separati nel 2013. Pasquale Tim Barbaro si era legato a Chantel Baptista, una ragazza di origine portoghese definita dagli amici “bellissima”, “glamour” e “social butterfly”, esibendo grandi abilità di socializzazione. Insomma, una famiglia alla ribalta nel mondo criminale, che con i codici di ‘ndrangheta sembra entrarci molto poco – a parte forse il tatuaggio ‘Malavita’ al collo di Pasquale Tim e di Rossario Barbaro.

    In fuga dai Barbaro

    Otto figli, nati da tre donne diverse e non tutte italiane, dal patriarca Joe. Da Joe e Anita Ciancio, ad esempio, è nata nel 2004, Montana. Montana aveva solo tre settimane quando la rapirono dal passeggino in centro commerciale di Brimbank, un sobborgo di Melbourne. La ritrovarono due giorni dopo con la testa rasata in una casa abbandonata a nord della città, un passante aveva sentito le sue urla. Era stata rapita non per motivi di criminalità organizzata, si disse.

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    Anita Ciancio tiene in mano la piccola Montana Barbaro poco dopo il ritrovamento della bimba

    Nel 2020, ormai teenager, Montana scomparve di nuovo. La ritrovarono quasi subito in quanto – venne rivelato – stava tentando di scappare. Voleva raggiungere sua sorella maggiore Sienna, figlia di un’altra moglie di Joe Barbaro, in tipico atteggiamento adolescenziale, si disse. Anche Sienna però, nel 2018, a soli 15 anni, sparì dalla circolazione e la famiglia dichiarò di non sapere dove fosse o dove vivesse. Un’altra figlia di Joe, Letesha, a quanto pare, scoprì dell’esistenza delle sorelle soltanto in occasione del rapimento di baby Montana. La prese malissimo, in quanto cresciuta come la preferita di papà mentre viveva con sua madre, una donna di origine non italiana, a Canberra.

    Barbaro, donne e ‘ndrangheta 3.0 in Australia

    Si tratta di ragazze e donne con capacità di azione, sicuramente. Prodotto del sistema, influenzate dagli uomini intorno a loro, ed eredi del cognome, spesso non vittime né tantomento carnefici. Donne che, come ricordiamo nel podcast Le Onorate, normalizzano la famiglia mafiosa-gangsteristica, quando ovviamente questa famiglia non le distrugge apertamente (a volte nel vero senso della parola). I loro profili social rivelano un attaccamento tra di loro e in generale alla famiglia – Sienna e Montana si dichiarano calabresi – e rivelano anche un’assunzione di modi di fare gangsteristici, inclusi gli stereotipi di donna-gangster dall’aspetto appariscente – capelli biondi tinti oppure trucco pesante. Se questa dei Barbaro in Australia è ‘ndrangheta, è ‘ndrangheta 2.0 o anche 3.0.

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    Chantel Baptista

    Insomma, nella famiglia Barbaro essere donna significa tante cose. Ellie Price viene uccisa, Melinda si allontana dalla famiglia, Chantel si godeva la ribalta, Montana rapita da bimba prova poi a fuggire di casa da teenager, Sienna fuggita via poco meno che maggiorenne, e Anita cerca l’ordine. È una famiglia su cui sicuramente da un punto di vista analitico bisognerebbe fare un lavoro di ricerca più approfondito, per capire quanto l’essere nate in una dinastia mafiosa condizioni, determini, influenzi, le paure e le scelte, come le maschere e le azioni, di tutte queste donne. Chiaramente australiane eppure legate, in qualche strano modo, ancora a noi, qui in Calabria.

  • James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un esploratore britannico a tu per tu con la ‘ndrangheta

    James Maurice Scott: un suddito di Sua Maestà Britannica in Aspromonte. Oggi non farebbe quasi notizia, come tutte le presenze anglosassoni nell’era del turismo di massa.
    A fine anni ’60 le cose erano diverse.
    La Calabria affrontava una transizione importante e sofferta verso la modernità. E uno come Scott, che ne attraversò a piedi le parti interne, poteva fare strani incontri e vivere qualche avventura ancora più strana.
    Per lui tutto questo non era un problema: infatti, era un esploratore di lunga esperienza.
    Che volete che fosse la ’ndrangheta per uno come Scott?

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    James Maurice Scott

    James Maurice Scott in Calabria prima di Montalto

    «C’erano jeep piene di carabinieri armati dappertutto», racconta l’esploratore nel suo diario.
    E prosegue, con tono divertito: «Era stato allestito quello che appariva a tutti gli effetti un quartier generale con le antenne radio e tutto il resto, mentre un elicottero ci girava letteralmente intorno». Di più: «Ero l’unico uomo disarmato e non in uniforme nel raggio di diverse miglia».
    Qualche tempo dopo, Scott apprende il motivo dello spiegamento di forze: «I carabinieri avevano ricevuto una soffiata sul fatto che la Mafia siciliana e quella locale avrebbero tenuto una specie di meeting sull’Aspromonte».
    Non può mancare, a corredo, un tocco di ironia british: «Non posso fare a meno di confessare che io stesso avrei tanto desiderato d’essere arrestato. Avrei potuto tenere banco per anni con quella storia». Già: «Ero rimasto deluso anche perché ero stato già arrestato un’altra volta sui Pirenei». Evidentemente, le Forze dell’ordine italiane erano di tutt’altra pasta rispetto a quelle della Spagna franchista.

    L’appostamento

    Scott non è un mostro di precisione sulle date e nella descrizione dei luoghi. Ma due elementi di questo racconto sono certi.
    Il primo: James Maurice Scott arrivò sull’Aspromonte nell’estate del ’69. Il secondo: in quell’estate le Forze dell’ordine tentavano in effetti di stringere il cerchio.
    Tutto lascia pensare che l’esploratore britannico si sia imbattuto in uno di quei tentativi di retata, coordinati dal questore Emilio Santillo, che avrebbe fatto il colpo grosso qualche mese dopo, con la retata del summit di Montalto, condotta con meno uomini (solo ventiquattro poliziotti) e mezzi.

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    Il questore Emilio Santillo

    Il summit di Montalto

    Il summit di Montalto è in parte una leggenda metropolitana, perché il processo che seguì al blitz si ridusse a poca cosa.
    E si sgonfiò in appello con assoluzioni importanti.
    Eppure le premesse erano golose, almeno per gli inquirenti e per i cronisti.
    Infatti, al megaraduno avrebbero partecipato i capibastone della ’ndrangheta di tutta la Calabria, ad esempio Antonio Macrì, Mico Tripodo, Giovanni De Stefano e Antonio Arena di Isola Capo Rizzuto.
    Più due big della destra, allora extraparlamentare, ma prossima a importanti conati eversivi: Junio Valerio Borghese e Stefano delle Chiaie.
    Non a caso, nell’ordine del giorno del summit c’era l’ipotesi di allearsi con l’estrema destra, che all’epoca era in prima fila nei moti di Reggio.

    Dal summit alla guerra di ‘ndrangheta

    Giusto due suggestioni per gli amanti dei “Misteri d’Italia” e delle relative dietrologie.
    L’ipotesi di alleanza con l’estrema destra, che in parte si realizzò, fu uno dei punti di rottura degli equilibri mafiosi e portò alla prima, terribile guerra di ’ndrangheta.
    Inoltre, il fremito eversivo destrorso prese corpo per davvero: ci si riferisce all’operazione Tora Tora. Ovvero al tentativo di golpe ideato da Borghese. E sul ruolo di Delle Chiaie e della sua Avanguardia nazionale c’è una letteratura corposissima.
    In tutto questo, resta una domanda: cosa ci faceva Scott in Aspromonte in quello scorcio di fine anni ’60?

    Al centro nella foto, Junio Valerio Borghese

    James Maurice Scott l’esploratore di Sua Maestà

    Tornato in Inghilterra, Scott affidò il suo diario di viaggio all’editore Geoffrey Bles, il quale ne ricavò un volume simpaticissimo, stando agli addetti ai lavori, intitolato A Walk Along the Appennines e uscito nel ’73.
    Il libro non è mai uscito in Italia. Solo di recente, Rubbettino ha tradotto e pubblicato la parte calabrese del viaggio di Scott, col titolo Sull’appennino calabrese.
    Ma chi era James Maurice Scott? Le sue biografie danno l’idea di un folle geniale.
    Figlio di un magistrato coloniale, Scott nasce in Egitto nel 1906, si laurea a Cambridge e poi si dà alla sua vera passione: la vita spericolata.
    Le sue bravate sono epocali: nel’36 si propone di scalare l’Everest, ma è escluso per un soffio dal corpo di esploratori britannici. Ma si rifà in guerra, durante la quale è istruttore dei corpi speciali. E gli resta un primato: l’esplorazione del circolo polare artico, per cercare un collegamento rapido tra Gran Bretagna e Canada.
    Poi, nel ’69, praticamente a fine carriera (sarebbe morto nell’86) decide di attraversare l’Italia a piedi. Ma, dopo questo popò di esperienza, il Belpaese per lui è la classica passeggiata…

    Un’immagine di Reggio Calabria durante i moti

    L’ultimo viaggiatore romantico

    James Maurice Scott, una volta varcato il Pollino diventa l’ultimo dei viaggiatori britannici che hanno girato la Calabria in epoche improbabili, con mezzi di fortuna o addirittura a piedi. È il caso di citarne due assieme a lui: Craufurd Tait Ramage (che ci visitò nel 1828) e Norman Douglas.
    Zaino in spalla, bastone in mano e pipa in bocca, Scott ha attraversato l’Italia dalle Alpi a Reggio.
    E si è divertito non poco, soprattutto nel nostro entroterra, dove allora iniziava lo spopolamento. Infatti, nella parte finale del suo viaggio, l’esploratore di Sua Maestà Britannica, racconta aneddoti gustosi e spara sentenze originali e, a modo loro, “affettuose”. Ne basta una sulla Sila.
    Dopo aver paragonato i paesaggi montani calabresi a quelli norvegesi o britannici, Scott spara un giudizio fulminante sulle montagne che sono diventate sinonimo di Calabria: «La Sila non è intrinsecamente italiana, e se imita altre terre tende a farlo meno bene». Una boutade in linea col personaggio.