Tag: ‘ndrangheta

  • MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    Come per tutti i fenomeni sociali di lunga durata, nella storia della ‘ndrangheta troviamo degli eventi spartiacque che più di tutti hanno segnato un prima e un dopo. C’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta. E, soprattutto, c’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta aspromontana originaria del paese di San Luca.
    Non è più una notizia per nessuno che a Duisburg, in Germania, a Ferragosto del 2007, 6 uomini caddero vittime dell’ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta che consumava due clan di San Luca, Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, dal 1991. Ci sono stati processi, condanne dalla Corte d’Assise di Locri, indagini in Italia e in Germania.
    Chi doveva pagare, più o meno, ha pagato o sta pagando.

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    La strage di Duisburg, ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta partita da San Luca

    Prima di Duisburg non c’era ancora stata operazione Crimine, che solo un paio di anni dopo avrebbe scoperchiato e finalmente portato a processo le strutture, anche quelle apicali, della ‘ndrangheta reggina e ne avrebbe evidenziato dinamiche interne e proiezioni estere. Prima di Duisburg molte delle faide in Calabria erano terminate per lasciare spazio a un nuovo assetto delle ‘ndrine che – grazie a una pur precaria pace sui propri territori – potevano concentrarsi su affari e denaro. E, sempre prima di Duisburg, San Luca, il paese di nascita di Corrado Alvaro, già ovviamente conosceva la crudeltà della ‘ndrangheta, tra i sequestri di persona e altre vicende di sangue legate anche alla faida.

    San Luca: un “modello” di ‘ndrangheta già prima di Duisburg

    Il 14 settembre 2000 era arrivato lo scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa in quanto «la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, amicizie e frequentazioni, che vincola tanto la maggior parte degli amministratori, quanto numerosi dipendenti comunali a soggetti organicamente inseriti nelle locali famiglie della ‘ndrangheta, costituisce il principale strumento attraverso cui la criminalità organizzata si è ingerita nell’ente condizionando l’attività dell’apparato gestionale e compromettendo la libera determinazione degli organi elettivi».

    Quella stretta e intricata rete che ovviamente non scompare negli anni ha fatto girare la testa a investigatori italiani ed europei. Quel modello di ‘ndrangheta è diventata la ‘ndrangheta conosciuta altrove, nonostante le enormi differenze tra i vari clan qui da noi. Negli anni persone con lo stesso nome e cognome di quelli coinvolti in Duisburg e con parentele intrecciate allo stesso modo sono diventate soggetti di indagine anche in Germania, e altrove in Europa, esponendo la capacità di alcuni clan della ‘ndrangheta di adattarsi plasticamente al narcotraffico transfrontaliero.

    Guerra e pace

    Dopo Duisburg, però, arriva la pace tra le due famiglie. Un vero e proprio accordo di pacificazione maturò in seguito all’esecuzione dei fermi dell’operazione Fehida, che coinvolse esponenti di entrambe le famiglie, il 31 agosto 2007.
    Si legge nella sentenza di Fehida che nella tarda serata del 4 settembre 2007 (due giorni dopo la festa della Madonna della Montagna al Santuario di Polsi), un soggetto di San Luca coinvolto con i Nirta-Strangio avrebbe inviato in rapida successione due SMS di contenuto analogo con i quali comunicava che «le cose si sono aggiustate». Lo spedirà qualche giorno dopo anche in Germania ad Antonio Rechichi a Oberhausen: «Ora qua le cose le hanno aggiustate».

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Nel pomeriggio del giorno successivo una madre comunica al figlio, appartenente ai Pelle-Vottari che «è tornato il sereno». E ancora, la sera del 6 settembre 2007 Antonia Nirta parla con il fratello Giuseppe e gli dice che «sembra che siano migliorate le condizioni» e che è stata fatta la pace: «Qua sembra che è migliorata la condizione di … il fatto della pace… hanno fatto la pace meglio così». Da ultimo, nel corso della stessa serata, una donna informa Elisa Pelle, a Milano: «Hai visto che bel regalo che mi ha fatto la Madonna a me della montagna?». E la Pelle risponde: «Mi hai fatto la donna più felice del mondo».

    La ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg

    A pace fatta a Polsi, dunque, gli schieramenti iniziali – Nirta-Strangio e Pelle-Vottari – non scompaiono ma diventano i due schieramenti egemoni del paese. Un duopolio in precario equilibrio, ma comunque in equilibrio. Sempre più a vocazione internazionale – Duisburg in fondo è successo perché in Germania i clan si sentivano abbastanza “a casa”, abbastanza protetti – la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg ha sconquassato il paese ed è comunque riuscita ad arricchirsi.

    Il 17 maggio 2013 il comune di San Luca viene sciolto di nuovo; si scioglie una giunta che si era insediata nell’aprile del 2008. In questo caso, si legge nel decreto di scioglimento, che persistono parentele e affinità, e che la pervicacia dell’organizzazione criminale è palpabile nell’amministrazione del paese: «Elementi concreti che denotano il condizionamento della criminalità sull’attività dell’ente locale sono altresì attestati dalla circostanza che circa il 60% dei lavori sono stati affidati dall’amministrazione a soggetti o società contigue alla criminalità organizzata».

    Ma come spesso accade, soprattutto in Calabria, lo scioglimento dei comuni porta solo più abbandono. Nonostante il decreto di scioglimento prevedesse solo 18 mesi di commissariamento, per le elezioni San Luca ha atteso il maggio del 2019.
    Nel 2015 la lista che si era presentata non raggiunse il quorum, negli anni successivi non si presentò nessuno.

    Tre novità

    E la ‘ndrangheta? La ‘ndrangheta di San Luca, dopo Duisburg – seppur mostrandosi al mondo – non si è invece inabissata come il paese. Alcune tendenze più generali della ‘ndrangheta del territorio, soprattutto della Jonica, si sono manifestate tra le famiglie sanluchesi. Ad esempio, l’inflazione delle cariche e l’apparizione di nuove cariche. E poi, l’abbandono o il camuffamento dei riti di affiliazione, sia per evitare occhi “curiosi” delle forze dell’ordine sia perché l’appartenenza alla ‘ndrangheta da queste parti è diventata fatto consolidato su altre basi, meno esoteriche.massondrangheta

    Da ultimo – proprio mentre tanti nuovi clan, di più giovane origine – cercano di “salire alla Montagna”, di essere riconosciuti dai clan della “mamma”, a Polsi, i clan sanluchesi hanno effettivamente sdoppiato la propria anima.
    Da una parte la “casa” rimane in Calabria, con un controllo del territorio spesso solo per presenza e reputazione, senza nemmeno bisogno di estorcere o “arraffare” proprietà come un tempo. Dall’altra, gli affari – soprattutto il narcotraffico e il grosso degli investimenti – sono stati spostati fuori dalla Calabria, anche in Europa e fuori dall’Europa, con ogni clan che tende a sviluppare un suo canale preferenziale verso uno o più luoghi prescelti. Quelli dove si può manipolare la diaspora calabrese dei compaesani e da dove investire sia legalmente che illegalmente sia più semplice e redditizio.

    Pollino ed Eureka

    Non sorprende, quindi, se dopo Duisburg (nonostante Duisburg) abbiamo due mega operazioni che esaltano le capacità di indagine comune tra Italia e Europa, come ad esempio operazione Pollino nel 2018 e operazione Eureka nel 2023. In entrambe a far da protagonisti sono le ‘ndrine di San Luca – dai Pelle, ai Vottari, dagli Strangio ai Giorgi – tutte ovviamente in cartello tra loro e con altri sodali per muovere tonnellate di cocaina.

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    Uno scorcio di San Luca

    In queste operazioni si inizia a vedere un perverso effetto di Duisburg: la notorietà della ‘ndrangheta e la sua narrazione come organizzazione criminale più potente in Italia, e – per il traffico di stupefacenti – tra le più potenti al mondo, che hanno amplificato la fortuna dei Sanluchesi all’estero.
    Sempre più slegati da San Luca per gli affari, ormai centrati nei porti del nord Europa, ma mai fuori da San Luca perché è al paese che si cristallizza il potere acquisito e mantenuto da decenni. Ecco cos’è la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg.

    Davide e Golia

    Drammaticamente, mentre in tanti, ormai anche in Europa, rincorrono i clan e i loro milioni per mezzo mondo, ci si dimentica che giù al paese le cose vanno forse un po’ meglio, ma non troppo. Tutt’oggi San Luca è il paese con la più bassa percentuale di votanti d’Italia. Nel settembre 2022, alle elezioni politiche, solo il 21,49% dei cittadini di San Luca aventi diritto al voto ha votato.

    Lo Stato c’è, ma è chiaramente traballante. San Luca è un comune di 3.500 abitanti che nel pubblicare, nel 2021, il piano triennale per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, in ottemperanza delle aspettative di legge, si trova a dover fare un copia-incolla dai documenti ufficiali di polizia sulla ‘ndrangheta più evoluta e transnazionale, per delineare il contesto esterno del comune.
    Se è una situazione da Davide contro Golia, stiamo certo facendo il tifo contro Golia. Ma siamo sicuri che stiamo aiutando Davide a vincere?

  • MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    L’Operazione Malea, della Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, il 25 luglio ha portato all’arresto di 12 persone. Si ritiene abbiano tutte legami con la ‘ndrangheta nel locale di Mammola, sulla Jonica reggina. Tra le attività spiccano classici intramontabili: traffico di stupefacenti, acquisto e detenzione abusiva di armi, estorsione nel settore boschivo e nell’edilizia. Ma ci sono anche alcune attività più creative del solito.
    Un esempio? Il reato di estorsione per aver imposto ai titolari delle giostre installate a Mammola, in occasione della festa patronale di San Nicodemo, di emettere un numero elevato di titoli (gettoni e/o biglietti) per poter usufruire gratuitamente delle attrazioni ludiche.
    Alle giostre ancora non ci eravamo arrivati. E non è segno da poco: simboleggia l’esistenza di una struttura di ‘ndrangheta arrogante, radicata e presente in paese.

    La ‘ndrangheta in Lussemburgo e i rapporti con Mammola

    Destinatario della misura cautelare in carcere è stato, tra gli altri, Nicodemo Fiorenzi. Per le autorità sarebbe stato il referente del gruppo di Mammola in Lussemburgo. Avrebbe dovuto riferire e concordare con i vertici del locale di Mammola le varie scelte e decisioni sul territorio estero. L’articolazione territoriale in Lussemburgo ha interessi e attività proprie, ma a livello di vertice, ancora ci si parla col paese.
    Queste le dichiarazioni di Antonio Ciccia ai magistrati: «Come ho già scritto vi sono molti miei paesani affiliati che si trovano o sono andati in passato in Lussemburgo. Non so la ragione di tale scelta e cioè non so dire se lì sia stato costituito e autorizzato un locale di ‘ndrangheta. Ma ciò che posso dire è che nel tempo in Lussemburgo sono andati Fiorenzi Nicodemo, Deciso Nicodemo, che fanno la spola tra il Lussemburgo e Mammola».

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    Un fotogramma dalle riprese della Polizia nell’Operazione Malea

    Non a caso, è proprio a Nicodemo Fiorenzi che un giovane della famiglia Cordì, Attilio, di Locri si sarebbe dovuto rivolgere per trasferirsi in Lussemburgo e trovare lavoro, destando sospetti a Mammola sull’opportunità (non avallata) di supportare l’ingresso dei Cordì in Lussemburgo.
    Dirà infatti un presunto capo locale di Mammola che in Lussemburgo Fiorenzi è autonomo, ma non del tutto: «Con tutto il rispetto vostro, …dopodiché, se voi mandate un ragazzo di San Luca, così, va bene… Nico [Fiorenzi], non mi deve dare spiegazioni». E su Attilio Cordì: «Questo poi si tira gli altri, e vedi che poi non avrete voce in capitolo».

    Il buco nero dell’Europa

    In Lussemburgo, infatti, risiedono anche alcuni “giovani”, trentenni o poco meno, di Mammola. E da qui inizia un déjà vu. Perché questa storia dei mammolesi, alcuni anche giovani, in Lussemburgo noi già la sapevamo.
    Facciamo un passo indietro. Qualche anno fa, nel febbraio del 2021, grazie a dei dati ricavati da OpenLux IrpiMedia ci aveva raccontato della ‘ndrangheta in Lussemburgo. OpenLux era un’inchiesta collaborativa che partiva da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese.conto-lussemburgo-mammola-ndrangheta

    L’inchiesta ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.
    In quell’occasione il Lussemburgo era apparso in tutta la sua “debolezza”: un paese con forte protezione del capitale privato, dove fare affari sporchi, o semi-puliti, non costa tanto, grazie anche a una diaspora italiana ormai ben radicata sul territorio. Complici la segretezza bancaria e fiscale e una difficile transizione alla trasparenza tra banche e organi preposti al controllo su attività commerciali e di capitali, il Lussemburgo è spesso considerato un buco nero (per le indagini finanziarie) nel cuore dell’Europa.

    Mammola, Lussemburgo e ‘ndrangheta: un déjà vu

    Ed ecco che si arriva al déjà vu. Infatti, OpenLux aveva identificato una rete di 17 famiglie di Mammola – per lo più tutti ristoratori nel Minett, ex distretto minerario del Lussemburgo che aveva attratto molti migranti proprio grazie all’industria mineraria – grazie all’analisi del registro dei beneficiari effettivi. Ristoranti vicini, residenze vicine, e amicizie intrecciate sui social. Un paese a doppia anima, Mammola, come ce ne sono tanti qui in Calabria: una locale e una migrante.
    IrpiMedia aveva chiarito come tanti di questi ristoranti avessero avuto in realtà vita breve, ma fossero stati aperti con investimenti significativi portati da “casa”. Se, come confermano le indagini, è dagli anni Novanta che soggetti legati a famiglie di Mammola registrano imprese in Lussemburgo, nella geografia di ‘ndrangheta questo significa di solito due cose: il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nel Granducato, e la presenza di strutture mobili di coordinamento tra le frontiere che nascono spontaneamente quanto più da “casa” si utilizzano certi canali.

    Il marchio di fabbrica

    Per quanto riguarda il narcotraffico, è noto da anni che sull’alta Jonica reggina a far da padroni sono i Sidernesi (oltre ovviamente ai gruppi di San Luca e aspromontani). Infatti, tra Mammola e Siderno si è sempre mantenuto un collegamento stretto. In particolare per mano degli Scali, famiglia reggente a Mammola.
    Non a caso, tra le varie operazioni che avevano coinvolto il Granducato e a cui le indagini di OpenLux si erano intrecciate si distingue l’arresto di Santo Rumbo nel 2019, a Differdange, nel sud-ovest del Lussemburgo, dove gestiva un ristorante.

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    Riccardo Rumbo

    Rumbo, figlio di uno ‘ndranghetista sidernese, Riccardo, già condannato al 41-bis, è considerato una “promessa” della ‘ndrangheta della Jonica. In particolare, secondo l’Operazione Canadian Connection 2, del Siderno Group of Crime, quella propaggine ‘ndranghetista attiva nell’Ontario. Un asse America-Europa-Calabria che è il marchio di fabbrica dei Sidernesi, soprattutto dei Rumbo-Figliomeni (e dunque legati alla più potente super-‘ndrina Commisso).

    Da Mammola al Lussemburgo, non tutti per ‘ndrangheta

    Per quanto riguarda il secondo aspetto, cioè la nascita di strutture di coordinamento, bisogna partire anche qui dall’analisi sociale. In un paese a vocazione migratoria è normale legarsi alle catene di migranti, cioè andare dove altri dal paese sono già andati. Nel caso di Mammola, pertanto, di giovani partiti per raggiungere “i parenti” in Lussemburgo ce ne sono sicuramente stati e ancora ce ne sono. Alcuni con intenti criminali, ma molti sicuramente con intenti commerciali e la voglia di “fare fortuna” all’estero.

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    Un panorama di Mammola, il cui locale di ‘ndrangheta per gli inquirenti avrebbe ramificazioni fino in Lussemburgo

    Ecco che tra chi crea un business di import-export dall’Italia al Lussemburgo (portando generi alimentari e a volte riportando armi verso sud…), chi si apre un negozio di servizi per la stampa, e chi invece investe “denaro di famiglia”, qualche migliaio di euro, per licenze di ristorazione e rilevamento di attività, passa molto poco.
    Dichiara per esempio Damiano Abbate a Rodolfo Scali (entrambi raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare e considerati elementi di vertice del locale di Mammola): «E se facciamo qualche cosa [in Lussemburgo]? Io e mio cognato vogliamo investire 50mila euro, 100mila euro, là che stai tu, che stanno i figli tuoi, a gestirseli loro, devo vedere che ce li devono prendere che, che quelli vengono là».

    Piccoli don e percezioni da ribaltare

    Nel momento in cui ventenni o trentenni dalla Locride e dalla Jonica, “figli di”, si stabiliscono poi all’estero, in Lussemburgo, diventa poi molto facile, e necessario, coordinare attività, legali ma soprattutto illegali. E, dunque, creare “posizioni” di coordinamento in capo a individui capaci di fare la spola, di parlare le lingue. Insomma, di cavarsela nella doppia anima del paese.
    Bisogna ribaltare la percezione della mobilità europea della ‘ndrangheta. La questione in un paese come il Lussemburgo, e non solo il Lussemburgo, non è “com’è possibile che la ‘ndrangheta arrivi fin là?”. È, piuttosto, il contrario: «Com’è possibile che non ci arrivi?» e «perché mai non dovrebbe arrivarci?». La banalità della mobilità mafiosa, soprattutto europea, si palesa qui chiaramente.

    Vittoria fuori, punti in casa

    Ma c’è un lato spesso dimenticato in questa banalità del male: è la ragione per cui in un paese come Mammola l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta, sebbene spesso percepito o “tentato”, apparirebbe soltanto in questa inchiesta Malea e non prima.
    È sempre più ovvio, infatti, che l’estero “amplifica” la Calabria. Abbiamo infatti tanti esempi di come far fortuna all’estero, vantarla, o comunque coltivarla – al di là dell’occasionale traffico di stupefacenti – con attività stazionarie o presenza costante in un luogo, aumenti il prestigio mafioso “a casa”. E, dunque, anche le opportunità di investimento mafioso “da casa”.
    Essere “attivi” come ‘ndranghetisti all’estero, insomma, ti rende più organizzato e amplifica il successo, a casa. Questo aspetto è un altro effetto della banalità della migrazione mafiosa: nel mondo globalizzato, anche quello della mafia, tutto ciò che si muove lontano da noi torna indietro in altra forma.

  • Occhio alla penna: se il giornalista lavorava per la ‘ndrangheta

    Occhio alla penna: se il giornalista lavorava per la ‘ndrangheta

    «Sono Giuseppe Talotta e mi voglio costituire». Così esordiva il broker della cocaina presentandosi al carcere di Massa Carrara nel 2015 e interrompendo una breve latitanza di alcune settimane. Il 47enne all’epoca era ricercato dalla Dda di Genova e da quella di Reggio Calabria. Diversi i mandati di cattura a suo carico per una serie di procedimenti giudiziari che lo vedevano coinvolto in un maxi giro di cocaina che dal Sud America arrivava al porto ligure e in Calabria.
    Basterebbe quella frase del narcotrafficante della ‘ndrangheta – agiva per conto del potente clan degli Alvaro di Sinopoli – per evidenziare la particolarità della sua singolare storia, ma c’è altro. Nei giorni scorsi la Cassazione, accogliendo parzialmente il suo ricorso, gli ha concesso il riconoscimento della continuazione dei reati e stabilito. La pena definitiva da scontare sarà di 16 anni e 8 mesi di reclusione.

    La condanna nei giorni scorsi

    Il medesimo disegno criminoso tra i processi di Genova e Reggio Calabria che i giudici di Piazza Cavour hanno sancito definitivamente ha consentito a Talotta di non avere in sede di esecuzione la somma aritmetica delle due condanne (12 e 16 anni). Gliene tocca una sola, calcolata partendo da quella maggiore e aumentata per alcune aggravanti. Questo prevede l’istituto giuridico della continuazione del reato, articolo 81 del codice penale, che può essere applicato a “chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge”.

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    La Corte di Cassazione

    L’uomo, forse anche stanco di quella vita criminale, si era costituito spontaneamente alle autorità. E non furono in pochi a stupirsi per le modalità scelte. Giuseppe Talotta decide di bussare letteralmente alle porte del carcere. E lo fa da solo, senza nemmeno il suo avvocato, come se non ne potesse più di certe situazioni. Non si è mai pentito, quindi non si conoscono le motivazioni della sua scelta. Ma nel carcere di Genova, dove poi lo trasferiscono, uno dei principali broker della cocaina dei feroci Alvaro fa una scoperta che gli cambierà la vita. Quella in carcere, ovviamente.

    Dalla coca all’editoria: Ristretti orizzonti

    Al Marassi – il penitenziario a due passi dallo stadio Ferraris – di Genova c’è un gruppo di detenuti che si occupa di qualcosa di speciale e che si può trovare solo in altri due istituti penitenziari italiani: una rivista. Il periodico, Ristretti orizzonti, lo affascina ed entusiasma a tal punto che in pochi anni diventa uno degli articolisti più prolifici e uno dei coordinatori più importanti.

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    Il carcere di Marassi a due passi dallo stadio di Genoa e Sampdoria

    C’è una ‘ndrangheta che scrive, dunque, e lo fa su un giornale vero e proprio. La più enigmatica organizzazione criminale d’Italia aggiunge un’altra sfaccettatura alle mille che già ha. Ristretti orizzonti, bimestrale, ha la sua redazione centrale nel carcere di Padova e due decentrate nei penitenziari di Parma e Genova.
    L’unica differenza con un periodico convenzionale è rappresentata dalla gerenza, dai nomi di chi coordina e scrive. Sì, perché invece di Enzo Biagi o Indro Montanelli alcuni articolisti e coordinatori si chiamano Giuseppe Talotta, Carmelo Sgrò o Domenico Papalia: nomi “pesanti” di narcotrafficanti e boss di ‘ndrangheta.

    Colpevoli anche di scrivere?

    L’iniziativa, più che meritoria, è partita nel 1998, e negli ultimi anni ha fatto parlare parecchio di sé. Alcune testate nazionali di recente hanno battagliato non poco dopo la denuncia di un’associazione alla Dia. Oggetto dello scontro era il fatto che tra gli articolisti della rivista da un po’ di tempo si erano aggiunti anche detenuti in regime di 41 bis.
    Ma al di là del dibattito, delle denunce e dei controlli, la rivista prosegue le sue pubblicazioni. Parla del pianeta carcere, racconta le mille problematiche degli istituti penitenziari italiani e l’intero ordinamento come emerge anche da relazioni ufficiali di organi governativi e da articoli di giornale. Solo che Ristretti orizzonti fa parlare di carcere direttamente i detenuti e questo non va giù a tutti.

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    Riunione in una delle redazioni di Ristretti Orizzonti (dalla pagina Fb della rivista)

    In realtà, il punto di vista di chi vive determinate condizioni può essere molto utile. Tanto più quando si parla di riforme carcerarie che nulla hanno a che fare con i reati commessi e le pene da scontare. Un carcere più in linea col dettato costituzionale (la pena deve tendere alla rieducazione del detenuto) aiuterebbe il sistema giustizia italiano e quindi anche la sicurezza delle città. Il dibattito resta aperto.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    Il 13 luglio, in Paraguay, hanno arrestato due uomini, entrambi Giuseppe Giorgi, di 26 e 22 anni. Gli inquirenti li ritengono affiliati di ‘ndrangheta in trasferta per faccende di droga. Il sette luglio scorso la medesima sorte è toccata a Bartolo Bruzzaniti in Libano. Era latitante dall’ottobre 2022, lo inseguivano ben quattro procure a causa del suo ruolo di spicco nel traffico di stupefacenti transfrontaliero.
    Cos’hanno in comune questi arresti ravvicinati ma in due poli opposti del mondo?

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    Foto da ABC TV

    Bruzzaniti è protagonista di varie indagini degli ultimi anni, grazie anche alla capacità delle forze dell’ordine europee di decriptare la messaggistica su una app di comunicazione chiamata SkyECC in uso a molti trafficanti e frequentatori del sottobosco criminale di mezzo mondo. Bruzzaniti, su SkyECC, parlava con broker della droga del carico di Raffaele Imperiale. Il suo cognome e la sua affiliazione mafiosa, però, lo legavano a doppio laccio con i Palamara-Bruzzaniti-Morabito di Africo. In particolare al re della cocaina Rocco Morabito, almeno fino al suo (secondo) arresto in Brasile nel 2021.

    Un trafficante, due matrici

    Bruzzaniti investiva sull’importazione di cocaina, dunque. Sia a matrice ‘ndranghetista, tramite Morabito e i suoi legami con i brasiliani del Primero Comando da Capital (PCC), sia a matrice “europea”, tramite il cartello di Imperiale con base a Dubai, in collaborazione con i gruppi del nord, nei Paesi Bassi, in Irlanda.
    Ma oltre agli investimenti in denaro, cosa offriva Bruzzaniti? Ce lo dice lui stesso nei documenti confluiti in Operazione Eureka, nel maggio del 2023, tra Milano e Reggio Calabria.

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    Bartolo Bruzzaniti

    In una chat del 2020 Bruzzaniti dichiara: «Io sono forte in Africa e li posso dirvi che se fate come vi dico e senza via vai non vi prendono…ma io in Africa so quali tasti toccare». E ripeterà nel 2021, come rivela l’Operazione Zio nel 2022 della DDA di Napoli con protagonista il neo-collaboratore Raffaele Imperiale: «Compà, io sti giorni vado a Africa pure così vediamo di aprire fronte serio pure lì. Compà lì le mie attività valgono soldi e le ho fatte io pezzo per pezzo. Abbiamo catena ristoranti compà, e pizzerie».

    Bartolo Bruzzaniti, infatti, offre la rotta africana per il narcotraffico anche perché risulta essere residente in Costa d’Avorio, iscritto all’AIRE ad Abidjan, la capitale, dall’agosto 2017. Ma non era certo l’unico a offrire o bazzicare questa rotta. Ad esempio, già dall’Operazione Apegreen Drug nel 2015 erano emersi interessi dei Commisso in Costa d’Avorio, in quel caso legati al traffico di stupefacenti, grazie alla presenza in loco di membri della famiglia.

    Le ‘ndrine e il ponte tra Sud America ed Africa

    Ed ecco quindi che torniamo ai due Giorgi. Dal 2018 sono noti gli interessi delle ‘ndrine di San Luca per l’Africa e Abidjan, attraverso il gruppo Romeo-Staccu e in particolare Giuseppe Romeo, alias Maluferru. Nell’Operazione Spaghetti Connection, secondo le indagini di Irpimedia si rivelava la rotta della cocaina di Maluferru. Partiva da San Paolo in Brasile, poi passava da Abidjan come tappa intermedia prima di arrivare ad Anversa, in Belgio.
    Maluferru si adopererà moltissimo per creare alle ‘ndrine un ponte tra l’America Latina e l’Africa. Utilizzerà i servizi di un imprenditore che in Costa D’Avorio ha affari e anche una compagna ivoriana, Angelo Ardolino. Romeo, in Africa, si porta l’ultimo dei Nirta rimasto libero, Antonio, e anche due cugini omonimi, i due Giuseppe Giorgi. Insieme a loro e con l’aiuto di alcuni napoletani parte l’affare cocaina dal Brasile.

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    Abidjan, capitale della Costa d’Avorio

    L’Africa occidentale per le ‘ndrine, dunque, è da anni una delle rotte emergenti, alternative e sicure, sia per il traffico che per riciclarne i proventi. Scrive la Direzione Investigativa Antimafia nel suo ultimo rapporto per il 2022 che «si va consolidando la preminenza della ‘Rotta Africana’ in cui lo stupefacente è trasportato via mare verso i Paesi dell’Africa occidentale e del Golfo di Guinea (ad esempio il Senegal, il Mali e la Costa d’Avorio) attraverso il “corridoio del Sahel” caratterizzato da grande instabilità, per essere poi immesso in Europa transitando dal Nord Africa e ovviamente dalla Spagna».

    Da Limbadi a Capo Verde

    La presenza di affiliati, denaro e attività della ‘ndrine in Africa non è pertanto una novità. Quando sono le famiglie apicali che investono nella rotta e nel continente africano, tendono a spostarsi a lungo termine e a ‘restare’, non solo per fare traffici. Di solito inviano qualcuno vicino al clan per stabilire contatti in loco utilizzando aziende e legittimi imprenditori italiani già presenti. I giornali hanno riportato sempre in questi giorni degli affari tra il clan Mancuso, del territorio di Limbadi e Nicotera, e un imprenditore ritenuto vicino al clan, Assunto Megna, in quella che la DDA di Catanzaro ha chiamato Operazione Imperium.

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    Roberto Pannunzi

    Il figlio di Assunto Megna, Pasquale Alessandro, ha parlato alle autorità delle attività di suo padre nella Repubblica di Capo Verde, in particolare un capannone legato alla lavorazione del tonno e imbarcazioni per la pesca. I riscontri delle autorità hanno permesso di localizzare le attività in questione ed identificare un soggetto al cui business, sempre relativo alla pesca, i Megna intestavano bonifici a Capo Verde. Vito Cappello, siciliano, era già stato coinvolto tra il 2012 e il 2013 in tentativi di importazione di cocaina dall’America Latina grazie a una partnership con altri soggetti, tra cui Roberto Pannunzi, noto broker di ‘ndrangheta in Colombia.

    I diamanti per riciclare

    Ma non tutte le famiglie di ‘ndrangheta sono uguali in termini di portata e di interessi. Ad esempio, tra le carte dell’Operazione Gentlemen 2 che a giugno scorso ha coinvolti alcuni clan della Sibaritide si legge del gruppo Forastefano-Abbruzzese e della potenziale relazione tra Claudio Cardamone (broker in Germania/Calabria per il clan) e Malam Bacai Sahna Jr, figlio dell’ex presidente della Guinea-Bissau.

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    Malam Bacai Sanha, ex presidente della Guinea Bissau

    Bacai Sahna sembrerebbe essere già stato coinvolto in traffici di stupefacenti in passato ma gli viene chiesto se può “aprire” anche una via per il traffico di diamanti. Dice Cardamone al telefono con Bacai Sahna: «Sai Bac cosa mi piacerebbe fare? Adesso che sei qui… se inizieremo [a lavorare] mi dovrai dare una mano con… vorrei comprare diamanti».
    Bacai gli chiede se per investimento personale o per affari. Ricevendo risposta affermativa sull’investimento personale («tu sai che sono migliori dei soldi»), Bacai replica «nel mio paese no… per delle pietre buone bisogna vedere in Ghana o Sierra Leone… Botswana, Tanzania… in Tanzania sono i migliori». E aggiunge «Sì per lavare il denaro [riciclaggio] il diamante è buono». E Claudio Cardamone, soddisfatto, risponde: «Che buono averti conosciuto Bac!».
    La relazione tra i due è agli inizi, ma promettente. Importante notare che però in questo caso il legame in Africa è gestito da remoto, non in loco, perché si tratta probabilmente soltanto di una partnership legata agli stupefacenti che necessita di intermediari ma non di “presenza” sul territorio.

    La rotta della cocaina e il problema con i dati

    Fatto sta che quando si tratta di Africa le ‘ndrine – quelle globali e avvezze al traffico internazionale, ma anche altri clan calabresi emergenti nel mondo degli stupefacenti – riescono a trovare investimenti in persone o beni, terreni, case e attività commerciali grazie alla promettente e parzialmente ancora sicura (come investimento) rotta africana della cocaina, che dal Brasile e dalla Colombia passa per l’Africa occidentale fino ad arrivare in Europa via Spagna o Belgio.

    Il continente africano è spesso “dimenticato” quando si tratta di attività antidroga o in generale politiche contro la criminalità organizzata in Europa, complice una distanza culturale tra Nord e Sud del mondo mista ad alcune difficoltà di interazione. Non aiuta il fatto che c’è spesso un problema con la specificità dei dati nelle fonti ufficiali italiane. Spesso i vari soggetti sotto sorveglianza menzionano solo l’Africa in modo generico, senza luogo, senza specificità: «Ho affari in Africa». Questo rende abbastanza complesso trovare riscontri investigativi, che spesso rimangono vaghi come le informazioni che li hanno iniziati: «Tizio si reca in Africa nel mese XY».media_post_7t4q79r_africa-cruise-safari-ndrine

    L’Africa non è uno stato, ma un continente. L’ignoranza geografica e l’assenza di dati direttamente dal territorio sono probabilmente tra i fattori che hanno contribuito alla mancata sistematizzazione dei dati sulla presenza della ‘ndrangheta nei vari territori.
    La presenza delle ‘ndrine in Africa (non solo occidentale) per ora appare largamente aneddotica e disgiunta. Ma alcuni segnali che così non è già ci sono da anni.

  • MAFIOSFERA| La Mano Nera:  nel Queensland paura fa rima con Calabria

    MAFIOSFERA| La Mano Nera: nel Queensland paura fa rima con Calabria

    In Australia andare ai tropici significa andare in mezzo a distese enormi di piantagioni di canna da zucchero. Quando tira vento, tra le piantagioni si sentono suoni antichi e primitivi, che riportano alla mente il complicato passato di queste terre. Siamo nel Nord del Queensland, a due passi dalla Barriera Corallina, accanto al Territorio del Nord e a due passi (si fa per dire) da dove è stato girato la serie di film Crocodile Dundee, per capirci. Proprio quelle zone al Nord-Est del Queensland – Ingham, Innisfail, Ayr, Cairns, Townsville – oggi attraggono turisti da tutto il mondo, mentre i residenti ancora faticano a conciliare le varie eredità indigene con quelle anglosassoni. Qui hanno girato un documentario in tre episodi chiamato The Black Hand, la Mano Nera, in onda in queste settimane in Australia e che, nei prossimi mesi, arriverà anche in Europa.

    Si tratta di una produzione che ci ha messo circa 20 anni dall’ideazione alla finalizzazione. È il frutto della volontà del produttore Adam Grossetti di ripercorrere certi luoghi nello Stato del Sole – il Sunshine State del Queensland – e raccontare certe storie – ormai lontane, degli anni Trenta – che spesso finiscono per essere fraintese. Come posso attestare personalmente per il mio breve coinvolgimento nel progetto, l’entusiasmo, la curiosità e l’ingegno di Grossetti si è travasato direttamente nella morbidità della narrazione e nell’accuratezza delle fonti utilizzate.

    La Mano nera, (quasi) cent’anni dopo

    Per la realizzazione ci si è avvalsi di un italo-australiano, di origini calabresi, d’eccellenza per l’Australia. Si tratta dell’attore Anthony LaPaglia, conosciuto a Hollywood per i ruoli in film come Nemesi, Autumn in New York, Rogue Agent, o serie TV come Senza Traccia. LaPaglia è molto orgoglioso delle sue origini e mostra molta curiosità per i fenomeni mafiosi e para-mafiosi che – già da bambino – ad Adelaide, nell’Australia meridionale, poteva vedere, anche senza capirli, nella comunità d’immigrati calabresi, attorno alla sua famiglia. LaPaglia, nel documentario, viaggia tra Palmi e Bovalino, il luogo di origine di suo padre. A volte commosso, a volte sorridente, spesso con toni drammaticamente inquisitori, aiuta a raccontare una storia di quasi 100 anni fa, ma non per questo poco attuale.

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    Armi sequestrate dalla polizia americana in un’operazione contro la Mano Nera

    Il documentario racconta degli eventi degli anni Trenta, circa 1928-1939, che sono ricordati come Black Hand Terror, il terrore della Mano Nera. Si trattava di un’organizzazione, di un gruppo di uomini, italiani, quasi tutti calabresi, che per un decennio ha commesso omicidi, rapimenti, intimidito la popolazione di migranti e non solo, estorto denaro ai commerciati. Tutto in nome dell’avidità che contraddistingue la criminalità organizzata, ma con mezzi, quelli del controllo del territorio e del potere che deriva dalla paura, tipici della mafia. Ma quel termine, Mano Nera, Black Hand, assume un significato importante in Australia, perché sancisce l’inizio del fenomeno dell’Onorata Società – della ‘ndrangheta – australiana.

    La Mano Nera negli USA

    Ma andiamo con ordine. La Mano Nera è uno di quei fenomeni che rasenta la mitologia, ma che ovviamente ha un fondo di verità storica e anche particolarmente documentata.
    Alla Mano Nera molti associano diversi racket delle estorsioni gestiti da gangster italiani, spesso siciliani o comunque del sud, immigrati a New York, Chicago, New Orleans, Kansas City e altre città degli Stati Uniti dal 1890 al 1920 circa.
    La Black Hand inviava biglietti minacciosi ai commercianti locali e ad altre persone benestanti – quasi sempre solo altri italiani. A firma della richiesta estorsiva c’erano una stampa di mani nere, pugnali o altri simboli, e la minaccia che il mancato pagamento avrebbe avuto conseguenze nefaste, come la distruzione della casa, o la morte di qualche caro.

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    Joe Petrosino

    Con l’avvento del proibizionismo in America e la proliferazione di altri giri di criminalità organizzata votati al contrabbando e alla gestione di altre attività locali in forme para-mafiose, il fenomeno venne neutralizzato. Ci furono risposte severe, negli Stati Uniti, contro la Mano Nera. Il più noto oppositore fu il tenente Joseph Petrosino (1860-1909) del Dipartimento di Polizia di New York, che fu responsabile per le indagini contro molti membri del gruppo, prima di essere ucciso a Palermo, in Sicilia, durante una visita nel 1909.

    Black Hand, Calabria e Queensland

    Ma il fenomeno della Black Hand è un fenomeno affascinante proprio perché, nello stesso periodo o quasi, si presenta con forme simili anche in Canada e anche in Australia, rendendolo una prima formula di mobilità del fenomeno mafioso a matrice italiana, a scopo protettivo-estorsivo. Attenzione però, perché la Mano Nera non era affatto un fenomeno “primitivo” o acerbo, anzi. Si trattava, come ci ricorda lo storico Salvatore Lupo, di una «fenomenologia criminale impersonale» e come tale a vocazione imprenditoriale. In questo, dunque, molto avanzata e sicuramente antesignana della mafia, se non essa stessa già mafia.

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    Femio, ultimo a destra, con la mano sulla spalla del suo capo D’Agostino in una rara foto d’epoca

    Ma torniamo all’Australia, nel Queensland, dove la Mano Nera ha assunto dei volti e dei nomi molto precisi. Si tratta sicuramente di due boss come Nicola Mam(m)one e Vincenzo D’Agostino, avidi e spietati. Al loro fianco, Francesco Femio (Femia), Giovanni Iacona e Mario Strano ma anche molti altri. Tutti calabresi. D’Agostino era arrivato da Genova nel 1924 a Brisbane, la capitale del Queensland. Si era poi spostato a Nord, come in tanti facevano a quei tempi, per lavorare nei campi e poi aprire un forno.

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    Giovanni Iacona

    Vittime e carnefici calabresi

    Le richieste estorsive a firma della Mano Nera arrivavano via lettera che richiedeva “supporto per la Società” con somme variabili, tra i 50 e i 1.000 dollari. La lettera minacciava anche conseguenze molto gravi qualora non si ottemperasse alla richiesta. Non era inusuale bruciare le piantagioni di canna da zucchero, della vittima oppure sparare colpi di fucile verso la sua abitazione, per invogliarlo a pagare. Anche le vittime sono italiane e calabresi, come Alfio Patane (Patané) e Venerando Di Salvo. I familiari di Di Salvo ancora vivi raccontano nel documentario di come si è provato a resistere alla richiesta estorsiva, e di quanto difficile fosse “fare la cosa giusta” in quel periodo.
    La morte di Vincenzo D’Agostino, provocata dalle ferite in seguito a un’esplosione proprio nel suo forno nel 1938, chiuderà la faccenda della Black Hand. L’omicidio di D’Agostino rimarrà però insoluto.

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    Il forno di D’Agostino prima dell’esplosione fatale

    Dalla Mano Nera all’Onorata Società

    La Black Hand del Queensland già aveva tante somiglianze con quella che poi sarà l’Onorata Società o ‘ndrangheta australiana. Ma come ogni fenomeno criminale migratorio che si rispetti, c’erano anche delle differenze: il coinvolgimento nello sfruttamento della prostituzione ad esempio.
    In Queensland come altrove la Black Hand rappresenta quel momento paradigmatico in cui gruppi di mafiosi in erba utilizzano il loro controllo sul territorio – grazie a intimidazione e paura – per lucrare e guadagnare indebitamente. Ma c’è di più. A livello analitico, gli anni della Black Hand rappresentano la nascita del mito mafioso: una società segreta, chiaramente riconoscibile (grazie al simbolo dell’evocativa mano nera) eppure elusiva. E soprattutto una società criminale italiana, o meglio ancora, calabrese.

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    Mario Strano

    Quando Italia si traduce mafia

    Nasce con la Black Hand in Australia – ma anche negli Stati Uniti, con debite differenze – quel corto circuito mentale che porterà ad equiparare il fenomeno criminale con l’etnia dei suoi attori: la mafia italiana. Non si sarebbe più tornati indietro su questo punto.
    Sebbene la Mano Nera in Queensland sia effettivamente sparita dalla fine degli anni Trenta, il fenomeno viaggiò nel resto dell’Australia e diventò sinonimo prima di criminalità organizzata etnica italiana, poi di mafia, genericamente intesa, e infine di ‘ndrangheta o Onorata Società. C’era, certamente, anche un sentimento anti-italiano, anti-migrante, nel modo di raccontare e tracciare la Mano Nera, ma il fenomeno dell’epoca ha aiutato a costruire “l’etichetta” della mafia di oggi.

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    Nicola Mam(m)one

    Negli anni Cinquanta, sono vari i rapporti di polizia tra l’Australia meridionale, il Queensland, il Nuovo Galles del Sud. L’Australia Occidentale e lo stato di Victoria tracciano attività della Black Hand o mafia. Si tratta quasi sempre di notizie date da informatori spaventati che raccontano di racket dell’immigrazione, cioè di immigrazioni pilotate dall’Italia all’Australia gestite da questa organizzazione criminale, ma anche di intimidazioni, violenze, omicidi e, in breve, paura.

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    Un documento sulla Mano Nera in Australia del 1953

    “Solidarietà” tra emigrati

    Nel 1958, nello Stato di Victoria, a Melbourne, un report molto importante delle forze dell’ordine locali cercherà per la prima volta di tracciare la continuità dell’organizzazione criminale dal Queensland oltre venti anni prima a Victoria in quegli ultimi mesi. Il report dirà che l’organizzazione della Mano Nera sul territorio era diretta discendenza della Mafia siciliana, che avrebbe poi esteso il suo potere in Calabria, e in seguito sarebbe diventata The Black Hand all’estero.
    Nello stato di Victoria gli affiliati sono tutti calabresi. Si scrive in questo report che «le informazioni aggiuntive che possiamo offrire allarmerebbero il cittadino ordinario di questa comunità [italiana]». Fondamentale notare che fino a quegli anni, anche a Melbourne, la caratteristica primaria della Mano Nera era chiedere somme di denaro, richieste estorsive, per servizi di protezione in nome di una inappellabile solidarietà etnica.

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    In questo report del 1958 si attesta l’elevato numero di calabresi tra i membri della Mano Nera australiana

    Una festa senza il festeggiato

    C’è un riferimento interessante, in questo rapporto, a un meeting del 21 Settembre 1957 nel quartiere di Brunswick, oggi quartiere molto hipster di Melbourne, a nord della Little Italy nel quartiere di Carlton, e storicamente quartiere di residenza di molti migranti italiani. Il meeting era a casa di un tal Domenico Versace e vi avevano partecipato almeno 30 uomini. Tutti calabresi. Ventotto di loro vennero arrestati per possesso di armi da taglio, e negarono di conoscere o far parte della Mano Nera.
    Versace dichiarò che si trattava soltanto di una riunione tra amici per brindare al battesimo di suo figlio, avvenuto quel giorno, contestualmente al primo compleanno del bambino. Né il bambino né sua madre, però, si trovavano in casa. Un informatore della polizia, però, dirà che si trattava di un “processo” contro un certo Rocco Tripodi che aveva violato le regole della Società, e dunque bisognava concordare la sua punizione e la risoluzione di un problema che Tripodi aveva creato.

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    Melbourne, una via di Brunswick ai giorni nostri

    Questo documento e questa riunione rappresenterà uno degli ultimi momenti storici disponibili in cui il termine Black Hand veniva usato per definire fenomeni criminali legati alla comunità calabrese. Dagli anni Sessanta in poi, per varie ragioni, emergerà il nome dell’Onorata Società, anche perché le attività legate a questi uomini iniziarono ad andare oltre al racket estorsivo, tipicamente identificato nella Mano Nera. È fuor di dubbio, dunque, che esista continuità tra i due fenomeni, se non spesso sovrapposizione.

    L’eredità della Mano Nera

    Quel che appare certo, a un’analisi criminologica dei dati storici, è che la Black Hand ha dato il via alle due posizioni che, anche oggi, caratterizzano l’approccio alla ‘ndrangheta in Australia: da una parte il sensazionalismo legato alla presenza della “mafia” nel paese, che porta a una sorta di panico istituzionale; dall’altra, la difficoltà di separare il fenomeno ‘ndrangheta e più generalmente il concetto di mafia dai migranti italiani e calabresi. Quell’etnicizzazione del fenomeno che si osserva già negli anni della Black Hand nel Queensland, che portò all’epoca a parlare di “mafia italiana” senza identificare le specificità locali del fenomeno – come raccontato magistralmente dal documentario dell’ABC – è costituente e costitutiva del modo di vedere, capire e spesso anche fraintendere la ‘ndrangheta australiana fino ad oggi.

  • Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è ko: ora rischia anche la grande Cosenza

    Rende è commissariata. Ed è il caso di dire, senza troppi “forse”: finalmente.
    E non perché si ritiene lo scioglimento per mafia una salvezza. Al contrario, la città del Campagnano subirà quel che di solito subiscono i Comuni in situazioni simili: la paralisi.
    Tuttavia, lo scioglimento ha un pregio politico non proprio trascurabile: cala il sipario su un’esperienza amministrativa finita almeno da un anno, travolta dai problemi giudiziari personali dell’ex sindaco Marcello Manna e dalle inchieste, antimafia e non.
    Le quali hanno colpito non solo i vertici politici, ma hanno danneggiato in profondità anche l’amministrazione.
    I problemi non finiscono qui: Rende non è una città piccola né secondaria. E il suo scioglimento rischia di avere conseguenze oltre i confini municipali.
    Ma andiamo con ordine.

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    La Prefettura di Cosenza (foto C. Giuliani) – I Calabresi

    Scioglimento di Rende: come vola la notizia

    Il tam tam è iniziato dopo le 22 del 27 giugno: prima sono volati gli screenshot del sito del Ministero dell’Interno (o della Presidenza del Consiglio), via What’s App o social. A bomba, è arrivato qualche articolo, arronzato alla meno peggio o preimpostato come i “coccodrilli” più classici: segno che varie redazioni attendevano lo scioglimento.
    In realtà, l’annuncio è stato meno spettacolare è più mesto: un comunicato del governo affogato tra varie note, dedicate agli argomenti più disparati, tra cui le nuove regole del Codice stradale, l’abolizione di normative ottocentesche e un altro commissariamento, stavolta a Castellamare di Stabia. Anche questo è un segno: fuori dalla Calabria, Rende è una cittadina che pesa solo i suoi 35mila abitanti. In Calabria, le cose vanno altrimenti: silenzi imbarazzati dai vertici regionali, dichiarazioni più o meno di circostanza. Più qualche posa giustizialista e l’annuncio, fatto da quel che resta dell’attuale ex amministrazione, di un ricorso al Tar.
    Fin qui siamo negli atti dovuti e nelle ipotesi. Torniamo al presente.

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    L’ex sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Il collasso della città unica

    C’è poco da essere garantisti sullo scioglimento per mafia. Questa procedura segue criteri di pubblica sicurezza, anche sganciati dagli esiti dei procedimenti giudiziari.
    Un esempio lampante è il recente scioglimento per mafia di Amantea, operato in assenza di inchieste della magistratura. Rende, oggetto di inchieste tuttora in corso ma non concluse, non fa eccezione, anzi.
    Finora hanno fatto tutti più o meno a gara a ricordare quell’autentico mostro, a metà tra il vespaio e il labirinto, che è Reset, l’operazione della Dda da cui è partito tutto.
    E qualcun altro, anche correttamente, ha raccontato che questa non è la prima volta che Rende è finita nel mirino di una commissione d’accesso. Oltre dodici anni fa era toccato alla vecchia guardia riformista. Ma Rende aveva evitato il commissariamento e il vecchio nucleo dirigente, che pure aveva passato qualche guaio, è uscito finora intero dalle attenzioni della Dda.
    Con Manna le cose cambiano: la città è sotto torchio e rischia di travolgere il processo politico-amministrativo predisposto dalla Regione, da cui dovrebbe nascere la Grande Cosenza. Vediamo come.

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    L’aula bunker di Lamezia, dove si svolge Reset

    Ordinaria amministrazione

    Sappiamo alcune cose. Innanzitutto, i nomi dei commissari che gestiranno Rende per i prossimi diciotto mesi: il prefetto a riposo Santi Gioffrè, la viceprefetta di Cosenza Rosa Correale e Michele Albertini, dirigente di seconda fascia della prefettura di Brindisi.
    Questa terna avrà due compiti: certificare la presenza mafiosa nel Comune di Rende e quindi metterla in condizioni di non nuocere; gestire l’ordinaria amministrazione.
    E qui casca l’asino.
    Riavvolgiamo il nastro: il disegno di legge regionale da cui dovrebbe derivare la fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero in un Comune unico, prevede due passaggi e un termine finale.
    I passaggi, ricordiamo, sono: referendum consultivo tra i residenti delle tre città e gestione guidata da un commissario che dovrebbe portare la nuova città alle sue prime elezioni.
    La deadline è prevista a febbraio 2025. In pratica alla scadenza più o meno secca dei diciotto mesi di commissariamento di Rende.
    Andiamo di nuovo con ordine. Per il referendum consultivo, che dovrebbe tenersi a breve, non ci sarebbero troppi problemi: il voto sarebbe legato all’area urbana e non ai singoli municipi. Quindi la terna di commissari rendesi dovrebbe preoccuparsi, al massimo, dei seggi e della loro sicurezza.
    Il problema è lo step successivo.

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    La sede del Comune di Rende

    Scioglimento di Rende: mostri in arrivo

    Si è già detto: nel secondo passaggio, un commissario dovrebbe guidare i sindaci di Cosenza, Rende e Castrolibero alle elezioni della nuova città, dopo aver fuso gli uffici dei tre Comuni ed elaborato le linee guida urbanistiche, finanziarie e politiche.
    Per Cosenza e Castrolibero non ci sarebbero problemi perché, si scusi il bisticcio, ci sono i sindaci. Recalcitranti ma ci sono.
    Per Rende c’è il problemone: i commissari antimafia potrebbero gestire l’autoscioglimento di un Comune in un ente più grande?
    Quasi di sicuro no. Anzi, in tutto questo c’è una cosa certa: lo scioglimento totale di un Comune non è un atto di ordinaria amministrazione. Altrettanto sicuri sarebbero i mostri giuridici che uscirebbero da questa situazione.
    Primo mostro: la coesistenza tra due commissari, quello della città unica e quello antimafia, che dovrebbe sciogliere del tutto un Comune “inquinato”.
    Secondo mostro: la fusione tra un Comune sciolto per mafia, ancora in predissesto, e uno in dissesto spinto.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Sandro Principe, ex sindaco di Rende e leader dell’opposizione (foto Alfonso Bombini)

    La tempesta perfetta

    Si può far finta di non capire i problemi che nasceranno dall’attuale situazione di Rende e, quindi, si può andare avanti verso la città unica. Lo hanno fatto, ad esempio, alcune associazioni nel corso di un dibattito all’Unical.
    Le opposizioni di Rende, nel frattempo, vanno alla carica e accusano Manna: lo scioglimento è colpa sua, recitano varie note stampa, perché non si è dimesso.
    Su tutto, resta un rebus difficile da interpretare: lo scioglimento toglie dall’imbarazzo il Pd, che pure aveva sostenuto l’ex sindaco e forse riporta numeri nell’area riformista, che ha finora fatto opposizione in Consiglio comunale e si prepara a opporsi, praticamente da sola, al progetto di città unica.
    Rende non è l’unica città importante di Cosenza ad aver subito il commissariamento per mafia: prima di lei è toccato (come già detto) ad Amantea. Ma anche a Cassano e, prima ancora a Corigliano Calabro.
    Ma nessuno di questi centri ha il peso economico e culturale della città del Campagnano. Soprattutto, nessuno ha il suo ruolo geografico di tassello importante per la città unica. Che ora traballa vistosamente.
    La tempesta è alle porte. E i primi lampi fanno capire che non sarà un acquazzone estivo: si annuncia perfetta.

  • Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Rende sciolta per mafia: tornerà la fiducia dopo l’arroganza?

    Lo scioglimento del Consiglio comunale di Rende per mafia è una pagina nera per uno dei municipi più importanti della Calabria.
    Rende, infatti, è sede universitaria e ha una popolazione composita e aperta anche per l’afflusso e lo stabilirsi di tanti studenti e docenti. In più, vanta un reddito medio tra i migliori della regione. Viste le dimensioni e la centralità culturale, economica e politica della città, lo scioglimento turba tutta la provincia di Cosenza e la Calabria.

    Rende e mafia: un’inutile caccia al colpevole

    Facile persino indicare le responsabilità dirette e indirette di questa situazione amara.
    Ciò che però ha colpito negli anni, soprattutto nei mesi scorsi, è stata la completa mancanza del senso del limite e del ridicolo negli attori politici coinvolti in questa faccenda.
    Davvero nessuno può dirsi esente da uno spregio continuo del comune senso del pudore. Di quel senso comune rappresentato dall’opinione pubblica, già nel Settecento definita come “tribunale” dei potenti.

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    La sede del Comune di Rende

    Mafia a Rende: un potere spregiudicato

    A Rende il potere ha agito senza la minima considerazione della grammatica istituzionale e politica democratica. La quale prevede un confronto costante con la società civile, con le sue rimostranze, le sue titubanze, le sue critiche.
    Paradossale che si siano sottratti a questo confronto, in primo luogo, una giunta e un sindaco che hanno oltrepassato gli steccati ideologici in nome di un civismo trasversale che ha messo insieme Forza Italia, Partito Democratico e altre forze di tutto l’arco costituzionale.
    Per rimanere all’ultimo anno (e mentre le inchieste e i provvedimenti giudiziari si susseguivano) si sono alternati, in nome di un malinteso garantismo, ben quattro sindaci. Negli ultimi mesi, il sindaco, più volte oggetto di provvedimenti, si è persino riproposto alla guida dell’Anci Calabria, a cui inopinatamente era stato indicato quale elemento non divisivo.

    Rende non è come Gomorra: assolto Principe, ora sono lacrime e paradossi
    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Niente remore: governiamo e basta

    Nelle ultime settimane si sono dimessi consiglieri di maggioranza e sono cambiati assessori per arrivare all’approvazione di Psc e Bilancio. Insomma, nessuna remora nell’azione di potere, anche di fronte a una società civile esterrefatta per le continue notizie di abusi e delusa per il livello dei servizi amministrativi peggiorato negli anni.
    Insomma, il potere ha mostrato quell’arroganza che Alberto Sordi ha reso nel personaggio del Marchese del Grillo.
    Lo stesso dicasi per le forze politiche maggiori. Forza Italia, il cui capogruppo in Provincia è elemento di punta dell’amministrazione rendese, pare essersi dissolta rispetto alle dinamiche locali.
    Non una manifestazione per la città. Non una dichiarazione del pur assai loquace presidente regionale Occhiuto. Guardare dall’altra parte è stato evidentemente il mantra suggerito da qualche rubicondo spin doctor.

    Mafia a Rende: anche il Pd ha le sue colpe

    Il Pd regionale non è riuscito a nominare un commissario di un circolo il cui segretario è stato prima incompatibile e poi è finito ai domiciliari. Anche da questa parte, piuttosto, silenzio.
    Anzi, il segretario provinciale e il suo factotum, responsabile degli enti locali, hanno sfondato qualche limite quando hanno deciso di incontrare le stesse aree politiche di cui i loro ispiratori sono stati i principali carnefici: hanno cucito la coalizione civica ora sciolta per mafia e l’hanno fatta votare e sostenuta sino all’ultimo.
    Del resto, lo stesso segretario provinciale, in quanto reggente del circolo, è atteso dagli iscritti da mesi per un confronto che sveli come e perché i due candidati alla segreteria locale, assessori della giunta appena sciolta, sono stati sui decisi sostenitori.

    Ricucire la fiducia

    Insomma, anche le forze politiche nazionali hanno pensato che governare Rende fosse tutto e qualsiasi tentativo di lettura della società rendese uno sforzo inutile, persino dannoso. Il governismo si rivela ancora una volta malattia mortale per la credibilità della Politica.
    Della triste vicenda rendese si parlerà a lungo e diciotto mesi di commissariamento non basteranno a ricucire la fiducia tra Politica e Società.
    Tuttavia è necessario provarci, senza nostalgie ma con una presenza costante nei quartieri della città. Soprattutto, con una capacità di studiare e proporre soluzioni ai diversi problemi dei cittadini e una accanita volontà di dispiegare orizzonti di sviluppo. Dopo le pagine buie, la storia continua e, con impegno, si possono ancora scrivere capitoli interi di buon governo.

    Antonio Tursi

  • MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    Il 16 settembre 2020, tra imminenti nuovi lockdown per contenimento del Covid e la fine della prima estate pandemica, un tale Claudio Franco Cardamone, di Corigliano-Rossano, è a bordo di un’Audi A4 e sta per valicare i confini tedeschi. È in compagnia di un altro soggetto e insieme sono apparentemente diretti in Belgio. Le autorità del Polizeipraesidium di Francoforte sul Meno stanno seguendo l’autovettura e l’uomo della Sibaritide. Lo vedono entrare in un’abitazione di Hanau, in Germania. A quel civico sono ufficialmente residenti Carmelo Bellocco e Federica Viola, lui di Rosarno, lei di Palmi.

    Dalla Sibaritide alla Germania per il clan

    Claudio Franco Cardamone – conosciuto come Il Bello o anche Marine o Taccagno – è un astro emergente del narcotraffico sul territorio dell’alto Jonio cosentino. Lo arresteranno in seguito a ordinanza di custodia cautelare a firma della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro i primi di giugno 2023, in un’indagine, Gentleman 2, contro il clan Abbruzzese-Forastefano di Cassano Jonio e i loro gruppi satelliti di Corigliano-Rossano, sempre nella Sibaritide. Secondo gli inquirenti, tra 26 persone coinvolte nell’ordinanza, ci sono individui che gestiscono la distribuzione di stupefacenti nell’alto Jonio cosentino; arriva dal Sudamerica ma passa per l’Europa per poi finire sul mercato a Cosenza, Vibo Valentia e anche Reggio Calabria.

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    Claudio Cardamone

    Cardamone è considerato il punto di riferimento del gruppo Abbruzzese-Forastefano in quanto riesce, si legge nell’ordinanza, a «intavolare trattative per l’importazione di partite di cocaina dal Sudamerica da destinare al mercato europeo e in particolare al territorio calabrese». Cardamone è dunque un broker locale. Lavora insieme a un altro soggetto Rosario Fuoco – detto Schmitt – anch’egli dell’entroterra cosentino, di Campana, che a Francoforte sul Meno gestisce la pizzeria Da Dino, appoggio logistico dei coriglianesi in visita d’affari in Germania. Entrambi sono «pienamente inseriti nel panorama del narcotraffico internazionale».

    Il narcotraffico al contrario

    In Operazione Gentleman 2, che segue appunto l’indagine Gentleman del 2015, sempre contro le cosche del territorio, ci sono una serie di spunti interessanti. Soprattutto, per capire il narcotraffico, per così dire, al contrario. Infatti, per soddisfare gli appetiti dei gruppi criminali della Sibaritide, lo stupefacente arriva non in Calabria – come spesso pure accade per mano di clan di ‘ndrangheta – ma in Germania, Belgio o Spagna. Dunque si muove al contrario, verso la Calabria e non dalla Calabria.

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    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Sembra infatti peculiare notare come questo sia in parziale controtendenza alle stime della DCSA (Direzione Centrale per i Servizi Antidroga) nell’ultima relazione del giugno 2023, per cui «a Gioia Tauro si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale», nel 2022.
    Si tratta dunque di reti del narcotraffico che necessitano organizzazione diversa. La distribuzione e lo spaccio sono sì in Calabria, ma l’importazione avviene invece altrove.

    Germania d’appoggio e Sibaritide piazza per i clan

    Dunque, le quantità dello smercio e delle forniture sono diverse (10-20-50 kg si distribuiscono, ma molti di più se ne importano), le alleanze pure. Serve infatti collaborare con altri attori che importano, siano essi albanesi, italiani o spagnoli.
    Sono sicuramente chiari anche gli obiettivi del gruppo – il profitto, ovviamente – e la capacità di movimento. La Germania è luogo prediletto come “appoggio”, ma la Sibaritide è la piazza.

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    Angelo Caravetta

    Ci sono soggetti coinvolti in questa operazione che fanno emergere un po’ di domande in più a chi la analizza. Un esempio? Angelo Caravetta, che hanno arrestato in questa operazione e vanta esperienza decennale nel traffico di stupefacenti grazie anche a viaggi e collegamenti in Spagna. Tra il 2013 e il 2018 Carevetta è stato politico locale a Corigliano, eletto in consiglio comunale. Ci sono molte domande relative allo stato della democrazia in Calabria che arrivano sempre molto puntuali quando succedono queste cose.

    L’unione fa la forza

    Ma torniamo al viaggio del settembre 2020 perché ci aiuta a ragionare su un altro elemento di questa indagine e cioè l’esistenza di una squadra investigativa comune tra Italia, Germania, Spagna, Belgio, proprio per operare in modo più svelto e condividere le indagini in Europa, grazie al supporto di Eurojust ed Europol. Le squadre investigative comuni (Joint Investigative Teams, JITs) sono di gran lunga lo strumento che gli operatori del settore – analisti, poliziotti, magistrati – prediligono perché aiutano ad evitare i ritardi della burocrazia che naturalmente esiste quando bisogna condividere dati e materiali di indagine da paese a paese.

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    La sede di Eurojust

    Se indaga la polizia tedesca e condividerà poi gli elementi di indagine con la DDA di Catanzaro, è sicuramente molto meglio per tutti da un punto di vista di capacità di indagine e di gestione delle autorità del territorio. Lo si dice sempre, ma sta diventato sempre più ovvio anche nella pratica: l’unico modo per contrastare il narcotraffico europeo è la collaborazione. Non solo negli arresti, ma già dalle indagini. Perché qui di narcotraffico si tratta, anche se al contrario, verso la Calabria.

    Una ‘ndrangheta “non mafiosa”

    Quel viaggio di Cardamone in Germania nel settembre 2020 e la presenza di Carmelo Bellocco ci permettono di riflettere su un’altra cosa ancora. Bellocco ha vari precedenti penali ed è membro di uno dei casati principali della piana di Gioia Tauro. Eppure non ha rapporti costanti o diretti con i vari membri dell’organizzazione criminale sotto indagine in Gentleman 2. Anzi, si legge nell’ordinanza che «sebbene non si nutrano dubbi in ordine all’inserimento dell’indagato nel traffico internazionale di stupefacenti, non si reputano sussistenti sufficienti elementi per affermare che in detto contesto egli operi legato da vincoli con i ritenuti sodali».

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    Nicola Gratteri durante la conferenza stampa sull’operazione Gentleman 2

    Insomma, Bellocco, che è uno ‘ndranghetista in un circuito del narcotraffico di primo piano, non è coinvolto a tutto tondo nell’operazione. E che ci sia la ‘ndrangheta ma non le condotte tipiche di mafia, ex articolo 416-bis del Codice penale, risulta chiaro nel resto dell’ordinanza. Essa esclude la mafiosità dell’associazione e che i proventi illeciti siano confluiti in tutto o in parte nelle casse dell’associazione mafiosa.
    Si opera dunque – e non è affatto raro nelle operazioni del narcotraffico, soprattutto della distribuzione di stupefacenti – una differenziazione tra gli obiettivi di profitto, che sono comuni nel crimine organizzato, e quelli di potere, che sono comuni al crimine organizzato di natura mafiosa.

    Sibaritide: clan sì, ‘ndrina pure?

    Si pone qui sempre lo stesso problema interpretativo-analitico quando si parla di ‘ndrangheta fuori dai territori canonici (Reggio Calabria e dintorni, fino al confine con le province di Vibo e di Crotone per capirci). Che il clan Abbruzzese-Forastefano sia un’organizzazione di stampo mafioso della Sibaritide, ai sensi del codice penale, sembra abbastanza pacifico quanto meno nella giurisprudenza. Ma che venga chiamato ‘ndrina e dunque clan di ‘ndrangheta non è necessariamente accurato. A maggior ragione quando – come nel caso di Gentleman 2 – il clan non opera secondo modalità mafiose ma solo per logiche di profitto criminale.

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    Un panorama di Cassano

    La giustapposizione che si fa, sempre troppo facilmente e superficialmente, è tra organizzazione mafiosa in Calabria e ‘ndrangheta. Come se tutte le organizzazioni mafiose in Calabria fossero “attratte” dal marchio e dall’organizzazione della ‘ndrangheta di default solo perché stanno in Calabria.
    È certamente vero che esistono delle somiglianze tra gruppi del nord e del sud della regione,. Ma esistono anche importanti differenze – tra cui proprio le reti del narcotraffico, come evidenziato in questa sede – di cui sappiamo comunque troppo poco perché continuiamo ad applicare le “lenti” della ‘ndrangheta (e dunque certe aspettative che ne derivano). E così ci perdiamo i dettagli e le specificità dei gruppi nel contesto di riferimento.

    La legge del mercato

    Volendo togliere l’etichetta e le lenti di ‘ndrangheta agli Abbruzzese-Forastefano per un momento (senza per questo togliere loro quella di mafia, se e quando utile a comprenderne l’operato) e guardando poi ai loro traffici di stupefacenti, ci accorgiamo che il loro comportamento non è in linea con i comportamenti di ‘ndrangheta quanto più lo è con i comportamenti di altre organizzazioni criminali operanti nel mercato degli stupefacenti e che incidono sul territorio di riferimento in modo molto dannoso. I clan di ‘ndrangheta sono spesso importatori di cocaina, ma anche fornitori per altri gruppi (cioè la comprano e la rivendono all’ingrosso).

    Ma non tutti i clan (mafiosi e non) calabresi si comportano così o addirittura utilizzano la fornitura della ‘ndrangheta. Le scelte, nel mondo del narcotraffico sono dettate da logiche di mercato quanto da opportunismo. Le tendenze europee, confermate anche nella relazione 2023 della DCSA, mostrano infatti come per l’importazione e la distribuzione di stupefacenti, soprattutto cocaina ma anche altri narcotici, ci siano moltissimi attori criminali attivi a specializzazione crescente, di origine mista e soprattutto dalla natura nucleare operante tramite rete.

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    Nikolaos Liarakos, latitante greco in contatto con i Forastefano

    Non è un caso che tra i principali fornitori del gruppo Abbruzzese-Forastefano, e di Cardamone come suo broker, siano albanesi e greci, dominanti sia per le importazioni sia per la logistica. Grazie a questi fornitori e a individui in Messico e in Colombia che possono garantire i contatti con i cartelli della produzione e del narcotraffico dall’America Latina, il gruppo riesce a partecipare all’importazione (si badi bene, non a gestirla né a pilotarla) ad Anversa, in Belgio, o a Rotterdam, in Olanda, per poi spostare lo stupefacente a Francoforte, tramite ‘amici’ calabresi, alcuni anche di “ndrangheta classica” (Bellocco ad esempio), e infine in Calabria per la vendita.

    Sibaritide e clan: si guarda il dito e non la luna

    Operazioni come quella qui in esame ci ricordano che spesso, nel guardare alle notizie, si rischia la proverbiale confusione tra il dito e la luna. Sappiamo tutti della internazionalizzazione della ‘ndrangheta e della capacità dei clan di ‘ndrangheta di operare a diverse latitudini spostando stupefacente per mezzo mondo, spesso (non sempre) passando dal porto di Gioia Tauro, porta del Mediterraneo e dell’Europa. Sappiamo molto meno della situazione in cui versano parti della Calabria dove i gruppi criminali coinvolti nel narcotraffico possono rispondere a diverse logiche e diverse reti e di conseguenza avere almeno la possibilità, se non la capacità, di operare in modo controintuitivo rispetto al resto della regione a matrice ‘ndranghetista.spacciatore-spaccio-droga-2-2

    Questo è il dito. La luna, invece, sta come sempre in quello che si vede meno, e cioè il mercato dei consumi in Calabria. Tutta questa cocaina, tutta l’eroina, destinata alla Sibaritide, chi la consuma? Ci si indigna molto quando gli ‘ndranghetisti spostano tonnellate di cocaina da Gioia Tauro al resto d’Italia e del mondo. Ma quando gruppi locali la cocaina o l’eroina la portano a casa propria, che impatto può avere questo consumo sul tessuto sociale di riferimento, quello stesso tessuto di cui le organizzazioni criminali poi si nutrono? Ma sulla luna dovremo interrogarci in un altro momento.

  • Coca a fiumi a Gioia Tauro: ‘ndrangheta sul podio del narcotraffico

    Coca a fiumi a Gioia Tauro: ‘ndrangheta sul podio del narcotraffico

    ’Ndrangheta spa torna sul podio. E riconquista lo scettro di organizzazione criminale top nel traffico di stupefacenti, cocaina e marijuana in particolare.
    Infatti, la maggior parte dei sequestri di “neve” ed “erba” del 2022 è avvenuta nel porto di Gioia Tauro, tornato anch’esso ai vecchi “allori”.
    Questo dopo un paio di anni di delocalizzazione nei porti di Livorno, La Spezia, Genova, e del litorale laziale.
    Sono i primi risultati del corposo dossier annuale della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga) del Viminale. Il dossier attesta la ripresa del narcotraffico ai livelli pre pandemia, con particolare incremento della cocaina.

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    Un cane antidroga della Guardia di finanza

    Il narcotraffico dopo il Covid

    Il progressivo rientro alla normalità e il sostanziale superamento dei limiti alla mobilità di persone e merci ha riattivato i business mafiosi. Cala il numero delle tonnellate totali sequestrate dalle forze dell’ordine tranne per la cocaina.
    Si legge infatti nel report: «Il volume totale dei sequestri di droga è passato dalle 92,79 tonnellate, rinvenute nel 2021, alle 75,01 tonnellate del 2022, con un decremento percentuale del 19,17%; si può osservare, però, nei risultati, suddivisi per tipo di sostanza, una sensibile crescita dei sequestri di cocaina. Il risultato complessivo, comunque, è il sesto più alto nella serie decennale; se si esclude il quinquennio 2014-2018 e lo scorso 2021, periodi segnati da particolari e contingenti elementi di caratterizzazione, non era mai stato raggiunto un livello di sequestri così consistente, negli ultimi 40 anni».

    ’Ndrangheta Über Alles

    Sulla leadership delle ’ndrine non ci sono dubbi. Infatti, prosegue il dossier: «In questo complesso scenario, si rafforza il ruolo egemone della ‘ndrangheta calabrese, che continua a rappresentare l’organizzazione mafiosa italiana più insidiosa e pervasiva, caratterizzata da una pronunciata tendenza all’espansione sia su scala nazionale che internazionale ed una delle più potenti e pericolose organizzazioni criminali al mondo».
    Grazie alla presenza di propri esponenti e broker operativi nei luoghi di produzione e di stoccaggio temporaneo delle droghe, la mafia calabrese è l’organizzazione più influente nel traffico della cocaina sudamericana.
    La disponibilità di ingenti capitali illeciti e una spiccata capacità di gestione dei diversi segmenti del traffico le hanno permesso, nel tempo, di consolidare un ruolo rilevante nel narcotraffico internazionale.

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    I sequestri di droga regione per regione secondo la Dcsa

    Calabria e droga: un primato in cifre

    Consideriamo le quantità sequestrate e rapportiamole sulle macroaree. Nel 2022, Sud e Isole sono in testa con il 56,87% del totale. Seguono il Nord con il 25,88% e il Centro con il 17,25%.
    La Calabria, con 19.459,72 kg di droga, emerge in assoluto nel Paese. Ciò grazie ai sequestri di cocaina a Gioia Tauro per 16.110,38 kg. Subito dopo, in classifica, Sardegna, Lazio, Lombardia, Campania, Emilia Romagna, Liguria e Toscana.
    Per quel che riguarda le macroaree, i sequestri di cocaina risultano distribuiti per il 69,99% al Sud e Isole, per il 16,20% al Centro e per il 13,81% al Nord. Le regioni in cui si è sequestrata più coca sono Calabria, Lazio, Campania, Liguria, Friuli, Toscana, Veneto, e Lombardia.
    La frontiera marittima, con 20.050,38 kg, si conferma lo scenario operativo caratterizzato dai maggiori sequestri. In questo caso, il decremento dell’incidenza rispetto al totale degli ambiti frontalieri è minimo: dal 98,88% del 2021 al 98,15% del 2022. Vince Gioia Tauro, che incide per l’80,35% (16.110,38 kg). Lo seguono a distanza Civitavecchia (1.187,19 kg) e Trieste (730 kg).

    Goia Tauro: il porto della droga in Calabria

    Il porto di Gioia Tauro appare ben 260 volte nel dossier annuale della Dcsa del Viminale. Nella parte finale del rapporto c’è un capitolo a parte tra i grandi approdi marittimi internazionali che ne parla diffusamente.
    A Gioia Tauro, nel 2022 è stata sequestrata la più alta quantità di cocaina, 16.110,38 kg, pari all’80,35% dei quantitativi rinvenuti presso la frontiera marittima (20.050,38), al 78,86% del totale della cocaina rinvenuta presso tutte le frontiere (20.429,31 kg) e al 61,73% della coca sequestrata a livello nazionale (26.099,36 kg). Seguono i porti di Civitavecchia (1.187,19 kg) e di Trieste (730 kg). Lo stesso andamento si osserva anche negli anni precedenti.
    nel porto di Gioia Tauro. Nel 2020, su 10.479 kg di cocaina sequestrati alla frontiera marittima, 6.186 kg sono stati rinvenuti a Gioia Tauro (pari al 59%).

    Le banchine del porto di Gioia Tauro

    Sniffare in Calabria

    Se si analizzano i dati in possesso della Direzione, a partire dal 2017, il porto di Gioia Tauro è quello in cui sono stati sequestrati i maggiori quantitativi di cocaina, fatta eccezione per il 2018 e 2019 (anni in cui viene superato, rispettivamente, dal Porto di Livorno e Genova nel 2018 e dal solo Porto di Genova nel 2019). Nel 2022, è confermato il trend che, negli ultimi 5 anni, evidenzia una crescita costante dei quantitativi di cocaina sequestrati nel porto di Gioia Tauro (si passa dai 217,78 kg del 2018 ai 16.110,38 kg del 2022). La coca arriva in Calabria soprattutto da Ecuador e Brasile. Sono dati chiari, da analizzare a fondo, insieme a tutta l’altra enorme mole del dettagliato report governativo. La cocaina torna in Calabria.

  • MAFIOSFERA | Grosso affare a Chinandrangheta

    MAFIOSFERA | Grosso affare a Chinandrangheta

    Servono all’incirca 240mila euro per finanziare dall’Italia – dalla Calabria – un acquisto di cocaina pura di poco più di 30 kg. Un chilo costa all’incirca 7.200 euro ma la cifra raccolta deve coprire anche le spese di conversione, cioè un 17-18% che un’organizzazione al servizio degli importatori si prende per trasformare quei 240mila euro in 240mila dollari, e “spostarli” in Brasile.

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    Droga sequestrata nel corso dell’operazione Aspromonte emiliano

    Chinandrangheta

    L’operazione Aspromonte-Emiliano della distrettuale antimafia di Bologna di fine maggio 2023 ha confermato e sviluppato il filone di indagini già presentato durante operazione Eureka all’inizio del mese, sulle relazioni tra criminalità organizzata come la ‘ndrangheta e organizzazioni di soggetti di nazionalità cinese in Italia specializzati proprio in questo servizio di riciclaggio e spostamento internazionale del denaro legato al traffico di stupefacenti.

    Nell’indagine bolognese le Guardia di Finanza conferma come una rete di persone di nazionalità cinese si sarebbero servite del sistema di fei ch’ien o “denaro volante” (un sistema informale di trasferimento di denaro) prelevando il denaro dall’organizzazione criminale ‘ndranghetistica per poi inviarlo attraverso una lunga catena di bonifici, ad aziende commerciali ubicate in Cina e Hong Kong. Da queste aziende poi, i soldi ripuliti verrebbero nuovamente inviati ai narcotrafficanti e anche ai broker in Sudamerica tramite una serie di “agenti” all’estero. Il sistema è molto bene oliato e – possiamo immaginare – non sia nuovo neanche per le nostre organizzazioni criminali.

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    Hong Kong è una delle città di approdo dei soldi riciclati dai cinesi

    “Lavanderie” asiatiche

    Uno dei segreti non segreti legati al narcotraffico, e soprattutto al narcotraffico di alto livello come quello della ‘ndrangheta, è sempre il riciclaggio di denaro. Se non si ripuliscono i soldi, il narcotraffico non funziona, è monco. Ma se riciclare denaro non è sempre una questione di avere sofisticati mezzi o di fare il giro del mondo, grazie al contrasto effettivo – soprattutto in alcuni paesi come l’Italia – il riciclaggio è sempre più questione per specialisti. E in questo caso, gli specialisti non possono che venire dal Sud-Est Asiatico, dal momento che sono decenni che gruppi criminali cinesi si stanno specializzando nel riciclaggio di denaro.

    Il sistema bancario clandestino

    Ci ricorda la ricerca che già nel 1983 alcuni documenti della DEA americana (Drug Enforcement Administration) ipotizzavano l’esistenza di un “sistema bancario clandestino” dominato da gruppi criminali cinesi nel Sud-Est asiatico. Negli Stati Uniti, in quegli anni – ma la situazione è cambiata poco – emerse che la maggior parte del denaro dell’eroina fosse gestito in Asia dal sistema bancario clandestino cinese. Persino le famiglie italo-americane della mafia newyorkese si affidarono in alcuni casi a gruppi di cinesi. Anche oggi, i traffici di cocaina negli USA, secondo la DEA, passano tramite gruppi di riciclatori tra Cina e Hong Kong.

    Già nel 1983 documenti della Dea ipotizzavano l’esistenza di un sistema bancario clandestino

    Tra cambiavalute, negozi di oro e società commerciali, il sistema bancario clandestino era legato da vincoli di parentela a un’intricata rete di altri interessi commerciali cinesi a cui il mercato dell’eroina si legava. All’epoca la DEA avvertiva che le procedure di registrazione di questo sistema bancario clandestino erano quasi inesistenti. Per trasferire denaro da un Paese all’altro si usavano messaggi in codice, chat e telefonate. Il sistema era in grado di trasferire fondi, spesso in valute diverse, da un Paese all’altro in poche ore, di garantire l’anonimato del cliente, di offrire una transazione praticamente in quasi totale sicurezza. Era complesso allora ed è tuttora complesso nonostante molti passi avanti siano stati fatti per capire e contrastare questo sistema.

    La Cina è vicina… alla Calabria

    Ma se è almeno dagli Ottanta che si conosce questo meccanismo e i suoi attori significa che sono oltre 40 anni che si è consolidata la reputazione, e affermato il riconoscimento, del “sistema cinese” di riciclaggio. Dunque, quasi pari ai tempi della mafia calabrese sullo scacchiere internazionale laddove, come si sa, sono 30-40 anni che alcune ‘ndrine sono diventate punto di riferimento per il traffico degli stupefacenti.
    Insomma, calabresi e cinesi – quando si tratta dell’area criminale di propria competenza – si parlano da pari perché hanno pari reputazione, storia e riconoscimento criminale nelle proprie ‘specializzazioni’.

    Il servizio di pick-up money da parte dei cinesi è dunque parte di una relazione stabile con gli ‘ndranghetisti. Non solo in Calabria, ma anche in Europa. Già in operazione Pollino-European ‘ndrangheta connection, nel 2018, si era visto come il canale cinese avesse aiutato il movimento di denaro. E come il sistema fosse rodato anche da ‘ndranghetisti in altri paesi europei, per esempio in Germania.

    Diceva Luciano Camporesi a Domenico Pelle che non c’erano problemi a muovere denaro coi cinesi: «Se mi dici Hong Kong ce l’ho… ti arriva il cinese, ti porta… ti porta i soldi. Gli dai l’appuntamento in albergo e ti porta i soldi e non è un problema…».
    Pelle allora prospettava sempre a Camporesi di effettuare il pagamento della sostanza stupefacente proprio attraverso la Cina, canale questo già sperimento da lui, in quanto, in passato aveva pagato tramite bonifico e chi lo aveva ricevuto era rimasto soddisfatto: «Ma in Cina non ti conviene di più? L’altra glielo abbiamo mandato noi con il bonifico, ci hanno fatto festa». Un terzo uomo, Giorgio, aggiungeva che in Cina era semplice mandare i bonifici in quanto vi sono molte aziende, «perché là ci sono le aziende e gli… gli conviene di più…».

    L’applicazione di messaggistica SkyEcc

    I messaggi criptati

    La stabilità del rapporto continua oggi, come si vede grazie alle indagini su SkyEcc – un’applicazione di messaggistica criptata basata su abbonamento – che è stata smantellata, i cui messaggi – un’enormità – sono stati decriptati e sono ora in uso da varie polizie europee grazie anche al supporto di Europol. I messaggi decriptati di SkyEcc sono confluiti tra le prove a sostegno sia di Eureka che di Aspromonte-Emiliano. Lo smantellamento dei sistemi criminali e delle reti di cui si compongono è oggi arrivato a livelli ancora più sofisticati, riuscendo a entrare nelle comunicazioni tra gli attori e a capirne specializzazioni e contatti. Si parla, su SkyEcc, molto liberamente, e questo favorisce anche lo scambio di informazioni e l’accrescimento delle reputazioni.

    Ad esempio, si legge in operazione Eureka, il 18 novembre del 2020 l’utente 9W8SEC di SkyEcc chiedeva a Sebastiano Mammoliti, classe 2003, se conoscesse persone in grado di far giungere il denaro in Sudamerica anche con il metodo dei change money: «Ma te micca hai change” … “for i soldi?” … “per mandare i soldi di la fra cioè Brazil Ecuador”…”e loro tengono la loro %”…”si usano i change money”… “di più fanno i cinesi questi lavori” … “che ci serviranno fra” … “per il nostro lavoro”».

    «Più di un milione alla volta non si prendono»

    Il 20 agosto del 2020 Francesco Giorgi, classe 97, in quel momento a San Luca (RC), e Paolo Pellicano, soprannominato Rambo, in quel momento dimorante a Montepaone, pianificavano su SkyEcc gli impellenti trasferimenti su ruota di proventi del narcotraffico per compensi pari a 1% dell’intera somma di volta in volta movimentata. Giorgi ricorda che i «cinesi» a Roma «più di un milione alla volta non si prendono». Insomma, molte delle regole continuano a farle loro, i riciclatori. Ma ovviamente il rapporto è transazionale, di servizi comprati e resi, e serve tutto a distribuire meglio i rischi.

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    La banconota usata come token a Roma

    A Roma il sistema è semplice. Pellicano deve recarsi ad un indirizzo concordato, dove un soggetto, asiatico, si mostrerà con una banconota contrassegnata da un numero di riconoscimento. Quel numero di riconoscimento è il token comunicato a Pellicano per la consegna. Lucio Aquino, da Maasmechelen, che in quel momento agisce da broker sia con i cinesi che con i colombiani – destinatari delle somme riciclate – dà indicazioni sulla chat di gruppo su SkyEcc a cui partecipano Giorgi, Pellicano e anche Francesco Strangio, a Genk, in Belgio.

    Aquino conferma: «Dovete consegnare dopo che vi fanno vedere il token»… «Devi dare 1 token 1 milione». Si inviano foto col numero del token, dunque della banconota, e anche quando ci sono dei problemi – Pellicano a un certo punto non riconosce il numero del token e scriverà in chat «il cinese si è avvicinato con banconota da 5 euro ma non combacia» – tramite chat si risolvono tutti. «Arrivano cinesi da tutte le parti…» scriverà Pellicano, in quanto a quell’indirizzo aspetta due gruppi di riciclatori, uno da Napoli, che fa ritardo anche per via del traffico.

    Riciclaggio ‘ndrangheta

    Che si tratti di un’operazione sofisticata e di un gruppo specializzato di riciclatori viene confermato da alcune richieste che il gruppo dei cinesi fa ai calabresi – legati alle ‘ndrine di San Luca – che stanno raccogliendo la somma necessaria. Perché si raggiunga l’accordo sono infatti necessari almeno 500mila euro altrimenti l’emissario del gruppo dei riciclatori non andrà proprio a San Luca a recuperare la somma, insomma il lavoro non verrà accettato. Inoltre, la somma comprende anche la garanzia del rimborso per intero nel caso di sequestro del denaro durante il trasporto – quindi i calabresi possono stare tranquilli.

    Se non si riesce a convincere «i cinesi» a scendere in Calabria ed effettuare il ritiro di una somma inferiore, si può ricorrere al «cugino di un albanese», che sta a Roma, che uno dei Giampaolo ha conosciuto in Brasile e che può accollarsi il rischio della transazione anche per somme più basse. Ma ovviamente il rischio per gli ‘ndranghetisti aumenterebbe, dal momento che il servizio non è completo di garanzia. Ma anche raccogliendo 2 milioni – cosa che in un momento il gruppo riesce a fare – da consegnare ai cinesi, il rischio di consegna a Roma viene comunque giudicato inferiore rispetto alla discesa in Calabria degli emissari del gruppo cinese.

    Rapporti di fiducia

    Insomma, il mondo del crimine organizzato è altamente incerto e l’incertezza si gestisce trovando metodi alternativi di fiducia. Laddove nel mondo legale la fiducia arriva da metodi sanzionatori e dalla protezione dei sistemi giuridici, nel mondo illegale la fiducia arriva dalla longevità del rapporto, dalla reputazione, dal riconoscimento reciproco – “gente nostra”, “nostri amici”. Tra clan di ‘ndrangheta e gruppi di origine cinese il rapporto è duraturo perché fiduciario e perché basato sugli stessi criteri di riconoscibilità nei “mercati” di riferimento (droga per i calabresi, denaro per i cinesi). E guardare ai rapporti tra i gruppi specializzati ci ricorda anche che nel mondo della criminalità organizzata nessun gruppo è davvero mai autonomo, e che un’efficiente attività di contrasto non può mai solo focalizzarsi su un aspetto del problema e sottovalutare gli altri.