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  • Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Da quattordici anni a questa parte, la Germania e l’Europa sembrano aver imparato molto poco nel contrasto al crimine organizzato. Eppure, la strage di Duisburg fece “scoprire” a tutto il Vecchio Continente la presenza oppressiva, pericolosa, sanguinaria della ‘ndrangheta.

    Scorre il sangue a Duisburg

    È la notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007 quando sul suolo tedesco, a Duisburg, restano sull’asfalto in sei. Davanti al ristorante italiano ”Da Bruno” nell’inferno di piombo rimasero uccisi Tommaso Venturi che aveva appena compiuto 18 anni, i fratelli Francesco e Marco Pergola di 22 e 20 anni, Francesco Giorgi appena 17enne, Marco Marmo di 25 anni, e Sebastiano Strangio di 39 anni.

    Secondo quanto accertato dagli investigatori, quella sera nel ristorante non era stato soltanto festeggiato il compleanno di Venturi. Ma anche la sua ammissione nella ‘ndrangheta, avvenuta con la maggiore età. La cerimonia della “copiata”, conclusa, come da tradizione, con il giuramento proferito dal nuovo accolito mentre si lascia bruciare tra le mani un’immaginetta sacra. Il santino di San Michele Arcangelo, ritrovato proprio addosso a al 18enne Venturi. Vengono falciati da oltre 70 colpi. Tra cui, quello finale, alla testa.

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    Giovanni Strangio, considerato la mente del commando che agì a Duisburg

    Un eccidio che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    Una scia di sangue iniziata nel 1991

    Una mattanza che la vulgata fa iniziare con un banale scherzo di trent’anni fa, protraendosi però, con una lunghissima scia di sangue, per decenni tra le famiglie contrapposte Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Quel massacro fece conoscere a tutti la pericolosità della ‘ndrangheta, che, da decenni, ha allungato i propri tentacoli in Germania, nei Paesi Bassi, in Francia, nel Regno Unito, in Svizzera, in Spagna e in Austria. In questi luoghi le ‘ndrine agiscono quasi del tutto indisturbate, con il traffico di droga e di autovetture. Ma anche con il riciclaggio di denaro attraverso aziende e locali. Forte la presenza di San Luca, con le famiglie Romeo-Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Ma anche i Farao-Marincola di Cirò (Crotone) e i Pesce-Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria).

    Una lunga scia di sangue nata con il lancio di uova tra famiglie “rivali” nel Carnevale del 1991. La violenza, nei mesi antecedenti a Duisburg, coinvolse il boss Francesco Pelle, in quel periodo 32enne, detto ‘Ciccio Pakistan’, che perse l’uso delle gambe in un agguato il 31 luglio 2006. Un tentato omicidio di cui si vendicò ordinando la strage di Natale del 2006 in cui morì una donna, Maria Strangio. Per errore. Il vero obiettivo, fallito dai sicari, era il marito Gianluca Nirta.

    Gli uomini “cerniera”

    Quella mattanza sul suolo tedesco sembra non aver insegnato nulla alla Germania e all’Europa. Le normative con cui i singoli Paesi contrastano il crimine organizzato continuano a essere inadeguate. E carenti anche i collegamenti investigativi tra Stati. Ma per le mafie non esistono confini. Soprattutto per la ‘ndrangheta. Nei mesi successivi alla strage di Duisburg si attiverà soprattutto l’Autorità Giudiziaria italiana: la Dda di Reggio Calabria chiuderà il cerchio con diversi tronconi dell’inchiesta “Fehida”.

    Negli anni, il processo “Gotha” ha anche ricostruito (seppur con una sentenza di primo grado) le trame che seguirono quei mesi di sangue. Un contesto torbido in cui membri dell’Arma dei Carabinieri, del Ros, in particolare, sarebbero stati in contatto con uomini di ‘ndrangheta e soggetti “cerniera”. Patteggiando per arrestare alcuni latitanti.

    I protagonisti sono l’avvocato Antonio Marra, considerato trait d’union tra lo Stato e le cosche, e l’ex parroco di San Luca e rettore del Santuario di Polsi, don Pino Strangio. Ambedue condannati in primo grado nel maxiprocesso “Gotha”. I due avrebbero svolto un ruolo di intermediazione, con l’accordo di alcuni ‘ndranghetisti di rango, per interloquire con canali ritenuti “non istituzionali”. Tutto al fine di acquisire notizie utili per la cattura di alcuni latitanti “sanlucoti”. In particolare Giovanni Strangio, poi arrestato dalla Polizia in Olanda.

    Rapporto intenso quello tra Marra e don Strangio. I due avrebbero interloquito, talvolta in maniera equivoca e torbida, con alcuni membri del Ros dei Carabinieri. In quegli anni, almeno fino all’arrivo di Giuseppe Pignatone a capo della Procura di Reggio Calabria, funzionava in quel modo in riva allo Stretto. Marra e don Strangio sarebbero stati elementi di collegamento. Pedine di un sistema fatto di accordi, confidenze e soffiate e in cui si trovavano magistrati, ‘ndranghetisti, forze dell’ordine e membri dei servizi segreti.

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    Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria

    La Trattativa Stato – ‘Ndrangheta

    In una conversazione intercettata, don Pino Strangio fornisce a un appartenente del Ros i nominativi dei “sanlucoti” per i quali erano stati intrapresi determinati accordi per suo tramite. ‘Ndranghetisti che la Squadra Mobile identifica in Antonio Romeo, classe 1947, detto “Centocapelli” e considerato affiliato alla ‘ndrangheta di San Luca, in quel periodo detenuto a Parma; Antonio Romeo, classe 1957, detto “Il Gordo”, latitante a seguito dell’operazione denominata “Super Gordo” dai primi mesi del 2005, veniva tratto in arresto da personale del Commissariato di P.S. di Bovalino (RC) coadiuvato da personale del Commissariato di P.S. di Siderno (RC) in data 28.5.2008); Fortunato Giorgi, cognato di Romeo “Centocapelli” e inserito a pieno titolo nella consorteria dei Romeo alias “Stacchi”, legati a quella dei Pelle alias “Gambazza”.

    I carabinieri che interloquirono con Marra e don Strangio negli anni finiranno pure sotto inchiesta. Ma alla fine otterranno un’archiviazione. Quello che il processo “Gotha” avrebbe dimostrato è il fatto che lo Stato avrebbe trattato per arrivare ad alcuni risultati investigativi che placassero la mattanza. Mettendo sul piatto della bilancia il trasferimento di carcere di alcuni detenuti.

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    In quegli anni, il Ros dei carabinieri aveva due anime. Una di queste credeva alla strategia secondo cui si dovesse attingere alle fonti confidenziali per arrivare ad alcuni risultati investigativi. Fonti che, quasi sempre, chiedono qualcosa in cambio. Stando a quanto ricostruito dalle indagini, sarebbero stati proprio i membri del Ros a contattare Marra per penetrare il territorio di San Luca. E per stringere il cerchio su alcuni latitanti. E poi il legale si sarebbe rivolto a don Pino Strangio. Il prete è, in quel periodo, rettore del Santuario della Madonna di Polsi. È, quindi, molto ben inserito sul territorio della Locride.

    L’accordo salta

    Marra e don Strangio avrebbero anche interloquito con alcuni magistrati. Anche se non si scoprirà mai il contenuto di tali interlocuzioni. Secondo le intercettazioni a carico dell’avvocato Antonio Marra si sarebbero anche tenuti degli incontri a San Luca. In quella sede sarebbero stati presi accordi con alcuni ‘ndranghetisti. Proponendo a essi vantaggi e favori in cambio di un aiuto per la cattura di alcuni latitanti. Tra cui, appunto, quella di Strangio.

    Funzionava così. Del resto, lo testimoniano anche le indagini sul conto della famiglia Lo Giudice. Negli stessi anni, la cosca aveva rapporti privilegiati con forze dell’ordine e magistrati. Lo stesso avvocato Marra viene definito dai carabinieri che interloquivano con lui una fonte preziosa sul territorio. Nel doppiogioco tra Stato e ‘ndrangheta, evidentemente: «Aveva delle conoscenze…».

    Nel post strage di Duisburg si tentò di fare lo stesso. Ma nel frattempo, in riva allo Stretto è arrivato il procuratore Giuseppe Pignatone. L’accordo salta, anche perché i carabinieri che avevano imbastito la trattativa subiscono il trasferimento. Marra non la prende benissimo, parlando al telefono con un altro membro dell’Arma, distaccato ai Servizi Segreti: «Ora sono in un mare di guai perché… per due cose, primo perché là ora, ora non so che cazzo dirgli di tutte le cose che siamo andati a dirgli, e a fare…eee… sembra poi che li abbiamo presi per il culo».

    Così si conclude una trattativa, su cui, ancora, restano alcuni punti interrogativi: «A me non me ne fotte niente… cioè a dire io posso pure andare a san Luca a dirgli “guardate! sono una massa di buffoni, i soliti sbirri, dicono le cose e non le mantengono!».

  • Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Sul suo sangue sarebbe stata edificata la pax mafiosa delle cosche di Reggio Calabria e della sua provincia. A distanza di trent’anni, non c’è ancora una verità univoca. Né sotto il profilo storico, né sotto il profilo giudiziario, sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Una delle massime autorità uccise in Calabria a colpi d’arma da fuoco. Esattamente 30 anni fa. Oggi.

    Il delitto

    Difficile, forse impossibile, non innamorarsi del mare della Costa Viola, litorale tirrenico della provincia di Reggio Calabria. E di quel mare cristallino, che di notte si riempie di lampare, era profondamente innamorato il giudice Antonino Scopelliti. Originario di Campo Calabro, ma da anni operante a Roma, presso la Suprema Corte di Cassazione. Tornava proprio dal mare. Da quel mare. È il pomeriggio del 9 agosto 1991. I sicari lo raggiungono sulla strada che collega la Costa Viola a Campo Calabro. Le pallottole investono l’autovettura. E colpiscono alla testa il magistrato. L’auto non si ferma, sbanda e termina la propria corsa in una scarpata.

    Un “omicidio eccellente”. Due estati dopo quello dell’ex presidente delle Ferrovie, Lodovico Ligato. Un omicidio che fa tanto rumore. Sebbene Reggio Calabria e la sua provincia siano interessate da una sanguinosissima guerra tra cosche. E quindi abituate ai morti per le strade. Una guerra che, dopo l’omicidio di Nino Scopelliti, si fermerà. Come per incanto. Una pace immersa nel sangue di un alto magistrato. Sarebbe stato proprio l’omicidio Scopelliti il prezzo con cui le cosche reggine si sarebbero sdebitate rispetto all’interessamento di Cosa Nostra affinché si bloccasse la mattanza per le strade di Reggio Calabria.

    Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa nel Maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra, giunto al cospetto della Suprema Corte di Cassazione. Proprio quello istruito da Giovanni Falcone. E, quindi, a un passo dalla sentenza definitiva che avrebbe avvalorato il “teorema Buscetta”. Nino Scopelliti era in vacanza nella “sua” Campo Calabro. Ma anche nella canicola d’agosto aveva con sé le carte del Maxiprocesso. Le studiava.

    Gli interessi di Cosa Nostra

    La ‘ndrangheta avrebbe eseguito l’omicidio, sul proprio territorio, in segno di “ringraziamento” nei confronti della mafia siciliana. Cosa Nostra avrebbe avuto un ruolo determinante per la stipula della pace tra gli schieramenti De Stefano-Tegano-Libri e Condello-Imerti, che a partire dal 1985 si erano dati battaglia, lasciando sull’asfalto centinaia di morti ammazzati.

    È questa la tesi più accreditata. Una sentenza che tuttavia nessun Tribunale ha mai scritto in maniera definitiva. L’omicidio del giudice Scopelliti è senza responsabili. Ancora oggi. Dopo 30 anni. Tante sono state, nel tempo, le ipotesi riguardanti i motivi che portarono all’omicidio del magistrato. Alcuni dissero che i Corleonesi avevano tentato di avvicinare il sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Volevano chiedesse la nullità del processo, come invocato dalle difese nei motivi d’appello, ma ricevettero un secco “no”. Per altri, invece, l’eliminazione di Scopelliti era utile affinché i tempi di decisione si allungassero eccessivamente. In quel modo sarebbero scaduti i termini di custodia cautelare. Una circostanza che avrebbe riportato in libertà centinaia di boss e affiliati alla mafia siciliana. E verosimilmente in latitanza.

    Le indagini e i processi

    In primo grado, l’impianto accusatorio regge con la condanna all’ergastolo di personaggi come Totò Riina, Bernardo Brusca, Pippo Calò e Pietro Aglieri. L’accusa però si dissolve in appello. Arrivando poi alla definitiva sentenza assolutoria in Cassazione. Poco o nulla, invece, si è fatto nei confronti degli esponenti della ‘ndrangheta. Sebbene gli inquirenti, negli anni, abbiano potuto contare sulle dichiarazioni di alcuni importanti collaboratori. Come Filippo Barreca e Giacomo Lauro. Lauro parla di un confronto tra due boss di rango, Nino Mammoliti e Pasquale Condello. Mentre Barreca cita esponenti di spicco del clan De Stefano. Le cosche avrebbero tentato di avvicinare il magistrato in vista dell’ultimo grado di giudizio.

    Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso, Totò Riina su tutti. Il quale, peraltro, in Calabria era già stato. Ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito. Riina avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato. Rimasti impuniti i presunti mandanti. Invisibili, ectoplasmi, gli esecutori materiali.

    Un omicidio così eclatante, di una persona così in vista, non poteva essere deciso senza l’accordo degli esponenti principali della ‘ndrangheta reggina. Tanto le schiere dei Condello, quanto quelle dei De Stefano. Anche in virtù della nuova pace, dovevano essere informate del progetto. E non sarebbe nemmeno da escludere che su quella moto che seguiva l’auto di Scopelliti, vi fossero due killer scelti da entrambi gli schieramenti. Uno in rappresentanza dei condelliani, l’altro inviato dai destefaniani. Sicuramente personaggi spietati. Di comprovata e certa fiducia. E di rara abilità e precisione. I “migliori”.

    Nell’aprile del 1993, scattano le manette a carico dei componenti della Cupola palermitana. Arrestati anche i calabresi Antonino, Antonio e Giuseppe Garonfolo, come soggetti inseriti a livello verticistico nell’omonima organizzazione operante a Campo Calabro e collegata ai De Stefano. Arrestato anche Gino Molinetti, uno dei killer più spietati della ‘ndrangheta. Le dichiarazioni dei pentiti mettono in luce il ruolo determinante di Cosa Nostra nella definizione della seconda guerra tra cosche del reggino. E, quindi, il conseguente credito acquisito presso i due schieramenti contrapposti.

    Per l’uccisione del giudice furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi. Uno contro Salvatore Riina e sette boss della “Commissione” di Cosa Nostra. E un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri sei boss, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998. E successivamente assolti in Corte d’Appello nel 1998 e nel 2000. Le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero quelle del boss Giovanni Brusca) non bastarono. Vennero giudicate discordanti.

    Speranza in fumo

    Un primo, vero, atto di pace tra i cartelli che fino al giorno prima si erano rincorsi, individuati e trucidati. Per le strade cittadine. In una vera e propria guerra. Combattuta con pistole, fucili di precisione, autobombe e bazooka. Un omicidio di livello altissimo, di cui solo poche persone avrebbero dovuto sapere. L’uccisione del giudice Scopelliti rappresenta, di fatto, uno spartiacque fondamentale nella storia della società reggina. E della ‘ndrangheta, diventata negli anni una delle più potenti e ricche organizzazioni criminali del mondo. Da quell’omicidio passano le nuove dinamiche criminali che hanno portato Reggio a vivere sotto una cappa. Quella della pax mafiosa.

    Lo scenario inquietante, da sempre paventato, e quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Una pianificazione che sarebbe avvenuta in un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani. Lì avrebbe partecipato lo stesso Matteo Messina Denaro.

    Un paio di anni fa, il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola farà ritrovare nelle campagne siciliane un fucile. A suo dire, sarebbe stata l’arma utilizzata per il delitto. Da qui la nuova indagine della Dda di Reggio Calabria, che coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche il boss latitante Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano. Il gotha della ‘ndrangheta. Cui si aggiungono Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Ancora lui.

    Ma mesi dopo, anche quest’ultima speranza di arrivare a una verità storica e giudiziaria, sembrerà tramontare quasi definitivamente. Gli accertamenti eseguiti sul fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola fatto ritrovare da Avola non danno alcun esito. Arma troppo vecchia. Ossidata e incrostata. Le sue pessime condizioni strutturali non consentirebbero, quindi, di poter effettuare tutti gli esami previsti. Verrebbe meno, così, una prova regina utile alla ricostruzione del delitto.

  • Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Ci sono storie di uomini che si sono fatti la guerra sul mare e navi che sono affondate con i loro segreti che continuano a tornare come fantasmi inquieti.
    Il 3 Luglio del 1941 un convoglio composto da tre navi mercantili – la Mameli, la Pugliola e la Laura C – scortate da due cacciatorpediniere aveva appena superato lo Stretto di Messina con destinazione il Nord Africa. Di lì in poi veniva la parte più insidiosa della navigazione, dove maggiormente era probabile un attacco inglese. E infatti alle 10 e 30 del mattino il sottomarino britannico Upholder (che solo qualche giorno prima aveva affondato la motonave Lillois al largo di Scalea) nascosto in agguato tra i flutti del mare di Saline Joniche, lanciava due siluri.

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    Il sommergibile Upholder, che affondò la Laura C, in una foto d’epoca
    Un carico esplosivo

    Possiamo solo immaginare le strisce parallele lasciate dalla corsa degli ordigni, la concitazione a bordo delle navi, gli ordini gridati ed eseguiti per evitare l’impatto e poi le esplosioni a bordo della Laura C quando venne colpita. Il resto è il tentativo di salvarsi manovrando verso la costa, dove a meno di cento metri dalla riva la nave è affondata portando con sé sei membri dell’equipaggio (uno dei quali proveniente da Paola) e il carico.
    Il libro di bordo racconta di stive con beni di conforto come fiaschi di Chianti, birra, bottiglie di Campari, farina, stoffe e macchine da cucire, biciclette per i bersaglieri, anche profumi e boccette di inchiostro di china. Ma, soprattutto, armi, munizioni e tritolo.

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    Il telegramma con cui il prefetto annunciava al Ministero dell’Interno l’affondamento della nave
    Il tritolo stragista

    Oggi la Laura C dorme tra i trenta e i sessanta metri di profondità ed è diventata una ricchissima oasi di vita sottomarina, ma il suo è un sonno inquieto.
    Nel corso degli anni in cui si è registrata una certa corsa al pentitismo, diversi collaboratori di giustizia hanno sostenuto che il tritolo conservato nelle stive della nave affondata poco al largo di Saline era una specie di polveriera a disposizione dei clan. Da quelle stive sommerse sarebbe stato prelevato l’esplosivo per diversi attentati, tra cui quello mancato e poi rivelatosi finto, a Giuseppe Scopelliti.
    Ma nella mitologia ‘ndranghetistica perfino le stragi di Capaci e quella di Via D’Amelio vennero realizzate con il tritolo dei tempi della seconda guerra mondiale.

    In realtà le indagini condotte dalle Forze dell’ordine, dalla magistratura antimafia e perfino dal Sisde, riuscirono a trovare conferme parziali a tali dichiarazioni. Furono condotte delle analisi sulle tracce di esplosivo usato in alcuni degli attentati e in parte fu trovata compatibilità con l’esplosivo conservato nel ventre della nave. Era sufficiente perché le autorità decidessero di chiudere le stive del relitto, per impedire qualunque possibilità di trafugamento.

    La prima bonifica

    Il primo intervento di bonifica fu realizzato dalla ditta di lavori subacquei Cormorano Srl di Napoli e costò quasi quattro miliardi di vecchie lire. Ma i lavori non furono efficaci, a causa del cemento pompato nelle stive, la nave si piegò su un lato, vanificando almeno in parte l’opera. Per un tempo infinito quella nave è stata l’oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per tutti quanti operano nel settore del turismo subacqueo. La Laura C non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, ma è anche spunto per riprese video mozzafiato ed è facilmente raggiungibile dalla costa.

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    La natura si è fusa con quel che resta della Laura C sul fondo del mar Jonio

    Una grande occasione perduta per un settore del turismo calabrese, magari di nicchia, ma molto esigente e ricco. Scendere sulla Laura C resta una esperienza potente. Dopo avere nuotato poche decine di metri in superficie ci si immerge trovando subito l’albero di prua che esce dalla sabbia che copre per intero la parte anteriore del relitto. Si prosegue dunque verso poppa, conquistando quote piuttosto impegnative e scorrendo lungo la fiancata della nave si possono vedere le mille forme di vita che ne hanno colonizzato le lamiere.

    Divieto di turismo

    Ma è una esperienza che resta nei ricordi di chi l’ha potuta vivere, visto che malgrado le operazioni di bonifica siano state dichiarate concluse con successo, il relitto resta un sogno proibito. Già nel 2002 due senatori dell’Ulivo, Boco e Turrroni, rivolgevano al Ministero dell’Ambiente e a quello dell’Interno un’interrogazione per domandare quando la nave potesse tornare fruibile turisticamente, considerata la sua valenza naturalistica, caratterizzata anche da rarità biologiche.

    Nel 2015 le autorità militari e la magistratura annunciarono che «dopo un duro lavoro svolto dai sommozzatori della Marina e dalla Guardia Costiera», la Laura C non era più una polveriera. Sembrava poter venire meno l’interdizione alle immersioni e invece dopo anni di lavori, moltissimo denaro speso, immergersi lì non è ancora possibile. Perché come diceva Conrad, le navi hanno sempre un carico «di desideri e rimpianti».

  • ‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

    ‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

    «In qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario della Madonna della Montagna in Polsi, grazie all’autorevolezza derivante dai suddetti ruoli, mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti di rango della ‘ndrangheta. In funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazione gradite ai secondi, in maniera che l’azione di contrasto dello Stato si nutrisse di apparenti successi, dietro ai quali nulla mutasse nelle reali dinamiche di potere interne alla ‘ndrangheta ed in quelle correnti tra quest’ultima e le altre strutture di potere, riconosciute e non riconosciute».

    Un ruolo di raccordo. Di collante tra mondi diversi quello che avrebbe rivestito don Pino Strangio. È questa una parte del capo d’imputazione per il quale il sacerdote, pochi giorni fa, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato contro ‘ndrangheta, massoneria e politica.

    ‘Ndrangheta e religione

    La condanna di don Pino Strangio, per anni rettore del Santuario di Polsi, è l’ennesima tappa di un pericoloso percorso che ha visto, negli anni, le strade di ‘ndrangheta e religione incrociarsi pericolosamente. «La condanna penale in primo grado di un sacerdote della diocesi suscita dentro di me sentimenti diversi. Pur non conoscendo ancora le motivazioni della sentenza, da una parte sono profondamente addolorato per la gravità delle accuse che hanno portato alla determinazione del Collegio penale e dall’altra ho molta fiducia nell’operato della Magistratura. Mi propongo d’incontrare il sacerdote appena possibile, per un’approfondita valutazione della sua vicenda giudiziale nel contesto pastorale ed ecclesiale». Così, il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha commentato la condanna di don Pino Strangio.

    Da sempre, la ‘Ndrangheta ruba simboli, ruba credenze, ruba riti. Tutto è funzionale a creare una identità culturale. Qualcosa che possa creare proselitismo e senso di appartenenza. Soprattutto presso i più giovani. Ma tutto è funzionale anche a mantenere quel controllo del territorio, senza il quale le cosche non riuscirebbero a condizionare la vita politica, economica e sociale dei luoghi e delle comunità.

    Solo per fare un esempio, l’importanza delle feste religiose nei paesi calabresi. Lì, molto spesso, un ruolo fondamentale nell’organizzazione degli eventi, così come nelle processioni, è rivestito dalla ‘ndrangheta. Da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, alla “Affruntata” di Sant’Onofrio, nel Vibonese. Noti, molto noti, gli esempi degli “inchini” delle immagini della Madonna davanti alle case dei boss ai domiciliari. E altrettanto documentati i sequestri di materiale sacro, dai vangeli alle bibbie, passando per le immaginette sacre, che spesso vengono rinvenute nei bunker dei grandi latitanti.

    In tal senso, riveste un ruolo fondamentale in seno alla ‘ndrangheta il culto per la Madonna della Montagna. Proprio lì, a Polsi, dove don Pino Strangio era rettore del Santuario. Don Pino Strangio, sempre secondo il campo d’imputazione per cui è stato condannato in primo grado, avrebbe rafforzato «la capacità dell’organizzazione criminale di controllare il territorio, l’economia e la politica ed amplificando la percezione sociale della sua capacità d’intimidazione, generatrice di assoggettamento e omertà diffusi».

    Da diversi collaboratori di giustizia e nell’ottica della magistratura, don Pino Strangio è considerato l’erede di un altro prete assai controverso. Per qualcuno un mafioso, per altri un martire. Prete ad Africo, roccaforte della ‘ndrangheta dell’area jonica. Da sempre la figura di don Giovanni Stilo divide. Il suo nome è legato anche alla figura di Antonino Salomone, uomo di rango di Cosa Nostra. Il prete avrebbe favorito la sua latitanza.

    Colluso o martire? Don Giovanni Stilo

    Una circostanza raccontata per primo dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Salomone proveniva dal Brasile e doveva incontrarsi a Parigi con un suo nipote, Alfredo Bono, da me conosciuto nel 1978-79. Il nipote avrebbe dovuto accompagnarlo a Palermo per discutere su di un impegno che Salomone aveva assunto ma che non aveva mantenuto. Salomone pero non passò da Parigi, ma entrò in Italia attraverso la Germania. E quindi comparve ad Africo, dove rimase per oltre un mese, ospite di don Giovanni Stilo, in una casa adiacente all’istituto Serena Juventus. So che qualche tempo prima, precisamente dopo il 1981, anche Salvatore Riina fu presente in Africo, cosi come lo fu a San Luca. Nel periodo in cui si trovava ad Africo indossava abito da prete».

    Proprio grazie all’istituto Serena Juventus e ai suoi rapporti con la politica e, in generale, il potere, don Stilo avrebbe accresciuto il proprio potere. Anche di natura clientelare. Il fratello sarà anche sindaco. Ovviamente nelle file della Democrazia Cristiana.

    Di don Stilo parla anche il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che definisce «notoria» l’appartenenza del prete di Africo alla massoneria: «Don Stilo si riforniva ogni volta che passava dal distributore di carburante da me gestito a Pellaro e l’avevo conosciuto negli anni Settanta quando dovevo raccomandare una ragazza […] che doveva sostenere esami presso la sua scuola di Africo. Per cui andai da don Stilo assieme a “Peppe Tiradritto” e cioè Giuseppe Morabito. Devo però aggiungere che anche l’ex onorevole Piero Battaglia, allora consigliere comunale, l’aveva raccomandata al medesimo don Stilo. L’intero paese di Africo fu costruito grazie ai rapporti di don Stilo con l’onorevole Fanfani».

    Secondo Barreca, don Stilo avrebbe avuto importanti relazioni sia all’interno dell’ospedale di Locri, sia soprattutto all’interno dell’Università di Messina. Lì dove riusciranno a laurearsi decine di rampolli di ‘ndrangheta, diventando di fatto classe dirigente.  Legami che, comunque, passerebbero sempre dalla comune appartenenza massonica: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti».

    Don Stilo viene anche arrestato e processato con l’accusa di connivenza con la ‘ndrangheta e, in particolare, con le cosche Ruga, Musitano e Aquino. A pesare sul prete erano intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, cosi come disse il pentito Franco Brunero. Ma, soprattutto, di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti. Ma la Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (il giudice passato alla storia come “ammazzasentenze”), rimise tutto in discussione. Nuovo processo di secondo grado a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa.

    Oggi collaboratore, ma prima medico, uomo in contatto con le cosche della Piana di Gioia Tauro e anche massone. Il dottor Marcello Fondacaro riversa le proprie conoscenze sul mondo della masso-‘ndrangheta ai pm della Dda di Reggio Calabria. Fondacaro parla dei rapporti tra le logge di Reggio Calabria e quelle di Trapani. Due aree, il Reggino e il Trapanese, tra le più povere d’Italia, ma anche le più gravide di massoni: «Don Stilo lasciò la sua eredità a Don Strangio di San Luca. La sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici».

    Il bubbone ‘ndrangheta nella Chiesa

    Dal passato a oggi, la funzione dei sacerdoti, quindi, ha rivestito sempre un’importanza vitale negli equilibri. Soprattutto nei piccoli centri. E, purtroppo, talvolta parliamo di equilibri di ‘ndrangheta. Don Pino Strangio, infatti, avrebbe avuto anche un ruolo nei rapporti tra Stato e ‘ndrangheta nel periodo successivo alla strage di Duisburg, avvenuta il 15 agosto del 2007.

    Le ingerenze delle cosche a Polsi, a Sant’Onofrio o in altri luoghi sparsi su tutto il territorio calabrese sono solo punte più visibili e affilate di un iceberg. Che è molto più grande. Che comprende un controllo capillare, sistematico, da parte delle ‘ndrine sulle celebrazioni sacre. Un controllo messo in atto con la stessa cura e precisione con cui si controllano gli appalti. Con essi si accumulano ricchezze. Con il controllo sociale delle masse, invece, si conquista e si mantiene il potere.

    Non è un caso. Non può essere un caso che alcune tra le cariche e le strutture più importanti della ‘ndrangheta abbiano richiami di natura massonica e religiosa. Dal Vangelo alla Santa. Passando per San Michele Arcangelo. Che, curiosamente, è sia patrono della Polizia, sia della ‘ndrangheta. E, ovviamente, il ruolo rivestito dal Santuario della Madonna della Montagna a Polsi, che per anni ha visto insozzata le propria funzione religiosa e spirituale da riunioni e summit di ‘ndrangheta.

    È il 21 giugno del 2014 quando Papa Francesco, nella Piana di Sibari a Cassano allo Ionio, lancia la scomunica ad ogni forma di criminalità organizzata. Volutamente il Pontefice ha scelto la Calabria.  La regione, forse, dove la Chiesa ha fatto meno contro la ‘ndrangheta. Soprattutto se si pensa ai preti martire, come don Pino Puglisi, in Sicilia. O don Peppe Diana, in Campania.

    «I mafiosi non sono in comunione con Dio» disse Papa Francesco. Da quel giorno, nulla o quasi è cambiato. Una parte della Chiesa continua a essere timida sulla lotta alla ‘ndrangheta. E non sono inusuali i collegamenti, talvolta solo relazionali, ma altre volte anche di natura criminale, tra le tonache e il mondo delle ‘ndrine. All’inizio del 2021, due preti del Vibonese sono stati anche rinviati a giudizio per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose.

  • Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    La sua è una storia da romanzo. Sotto il profilo criminale, inizia ormai decenni fa, con i primi crimini di ‘ndrangheta e l’avvio del traffico internazionale di stupefacenti. Dal punto di vista giudiziario, invece, raggiunge l’apice proprio due anni fa. Era l’agosto del 2019. Ora Domenico Paviglianiti è stato nuovamente arrestato. Lo scorso 3 agosto, i carabinieri di Bologna e la polizia spagnola lo hanno scovato a Madrid, dove l’uomo, 60enne, era latitante.

    Uno dei principi del narcotraffico internazionale

    La sua carriera criminale si dipana tra gli anni ’80 e gli anni ’90.È in quel periodo che Paviglianiti si guadagna l’appellativo di “boss dei boss”. Dall’area grecanica della provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti è diventato uno dei broker del narcotraffico internazionale più potenti e longevi della storia.

    Da sempre considerato un elemento apicale della sua cosca, tuttora attiva e potente nei comuni di San Lorenzo, Bagaladi e Condofuri nel Reggino. Ma con ramificazioni importanti in Lombardia e, ovviamente, in Sud America per la gestione dei traffici di droga.

    La sua cosca si è sempre inquadrata nell’alveo dello schieramento “destefaniano”. Fin dai tempi della seconda guerra di ‘ndrangheta, che tra il 1985 e il 1991 insanguinò con oltre 700 morti la provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti ha sposato la causa dei De Stefano. La cosca che, più di tutte, ha modernizzato la ‘ndrangheta.

    La complessa vicenda giudiziaria

    Su di lui pende un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti per 11 anni, 8 e 15 giorni, emesso il 21 gennaio dalla Procura di Bologna per i reati di associazione di tipo mafioso, omicidio e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Dall’ottobre 2019 aveva lasciato l’Italia, rifugiandosi in Spagna.

    Proprio da quel 2019, in cui, nell’arco di due mesi, verrà arrestato e scarcerato diverse volte. Fino a diventare uccel di bosco.

    Paviglianiti, condannato all’ergastolo, era stato catturato in Spagna nel 1996. L’estradizione era stata concessa a condizione che l’Italia non applicasse il carcere a vita. In quel periodo, infatti, l’ordinamento spagnolo non prevedeva il “fine pena mai”.

    Per questo motivo venne condannato a 30 anni, che, nell’agosto 2019 (anche per via di alcune riduzioni) risultavano già scontati. I suoi legali, infatti, avevano rilevato come a febbraio 2019, dopo 23 anni, tra indulto, liberazione anticipata, era già scontata tutta la pena. Da qui la scarcerazione.

    Ma, dopo due giorni, un successivo ricalcolo portò a un nuovo ordine di carcerazione. Paviglianiti venne così nuovamente arrestato, quando ancora non aveva lasciato il Nord Italia, dove era detenuto. Poi, la scarcerazione nell’ottobre dello stesso anno. Liberato, nel giro di due mesi, due volte per fine pena.

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    Di nuovo in pista?

    Adesso il nuovo arresto. In Spagna i carabinieri sono arrivati seguendo le tracce di alcuni familiari. Il concreto sospetto degli investigatori è che Paviglianiti avesse ripreso in mano il business del traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

    Quando è stato preso era da solo ma ci sono accertamenti in particolare su una donna sudamericana. I contatti con il Sud America spingono infatti gli inquirenti a ritenere che Paviglianiti fosse ritornato a essere il potente broker del narcotraffico che era prima della lunga detenzione.

    Piuttosto sospetto, in tal senso, il fatto che quando il boss è stato bloccato in strada, nei pressi della propria abitazione di Madrid, avesse con sé sei cellulari in un borsello, seimila euro in contanti e documenti falsi con un’identità portoghese.

  • Lina, una Rosa con le spine che pungono le mafie

    Lina, una Rosa con le spine che pungono le mafie

    Da ospite di una casa famiglia ad attrice protagonista del film Una femmina, che già suscita interesse ancor prima di uscire nelle sale cinematografiche. Poco più che ventenne, nata a Cariati, cresciuta a Cosenza nella struttura d’accoglienza “Madre Elena Aiello”, le suore ricordano Lina Siciliano con sincero affetto. E ne rimarcano la grande maturità nell’accompagnare la crescita dei suoi sei fratelli minori, anch’essi “figli” di una casa che da ormai quasi un secolo è divenuta famiglia per tantissimi minori in difficoltà.

    Una nuova vita

    Diretto dal regista Francesco Costabile, prodotto da Attilio De Razza, Pierpaolo Verga e Giampaolo Letta di Medusa, Una femmina è ispirato al libro Fimmine ribelli (Rizzoli) di Lirio Abbate, che insieme ad Edoardo De Angelis ne è anche sceneggiatore. Lina Siciliano interpreta Rosa, la ragazza che concentra nella propria vicenda le storie di donne calabresi ribelli alla ‘ndrangheta. In particolare, la tragedia di Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia, uccisa nel 2011 dai suoi parenti che la costrinsero ad ingerire acido muriatico.

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    Lina Siciliano

    Lina oggi si è trasferita a Napoli, dove vive una storia d’amore con Fabio, uno stupendo ragazzo, e insieme hanno messo al mondo un bellissimo figlio. Non si è montata la testa. «Certo che mi piacerebbe continuare a fare l’attrice – spiega Lina – ma per il momento la mia è una vita fatta anche di sacrifici che sono orgogliosa e felice di compiere. Sono mamma quasi a tempo pieno. Ogni mattina lavoro come cassiera in un supermercato e il pomeriggio dedico tutta me stessa al bambino. Con un’entrata sola, non si riesce a farcela, così siamo in due a lavorare».

    Dalla casa famiglia al set

    L’esperienza in casa famiglia fortifica il carattere, ma rende laceranti sia i vuoti di affetto che le assenze materiali di beni e mezzi per condurre un’esistenza dignitosa. «Quando qualcosa manca – prosegue – lo si sente ancor di più. Io sono molto grata al regista Francesco Costabile che venne in casa famiglia per il casting. Dopo un primo provino, ce ne furono un secondo e un terzo. Alla fine arrivò una telefonata e seppi che ero stata scelta per interpretare Rosa, la protagonista di Una femmina. Un’altra persona fondamentale durante la realizzazione del film, che mi è stata molto vicina nel training, è la mia coach Assunta Nugnes».

    Per Lina non è stato difficile immedesimarsi nel personaggio: «Rosa ha avuto il coraggio di riscattarsi ed uscire dalla bolla, dalla prigione familiare, in cui si trovava. Dopo aver scoperto, grazie al suo intuito, la terribile verità che le era stata nascosta sin da bambina, ha trovato la forza di emergere dal marciume, con ogni mezzo necessario».

    Genitori degeneri e figli migliori di loro

    Il familismo ‘ndranghetista spesso contribuisce ad arruolare quei giovani che non hanno avuto solidi riferimenti familiari in fase di crescita. «Non bisogna però pensare che tutti abbiano lo stesso destino. Sono diverse – precisa Lina – le storie dei ragazzi allevati in casa famiglia. Non sempre si tratta di situazioni difficili provocate da condizioni di indigenza economica. A volte ci sono persone incapaci di dare affetto ai propri figli. Alcuni genitori non avrebbero voluto neanche generarli. Così, nella loro mentalità degenerata, le strutture d’accoglienza diventano discariche. Vi gettano queste giovanissime vite, tanto poi ci sarà qualcuno che provvederà a crescerle. Io ancora oggi non riesco a spiegarmi come si possa lasciare un figlio, una parte di sé. Però non è detto che i bambini abbandonati in casa famiglia debbano poi somigliare, nello stile di vita e nelle scelte, ai propri genitori».

    Non ha cattivi ricordi degli anni trascorsi con le suore del “Madre Elena Aiello”. «Al contrario, nella memoria conservo momenti bellissimi. È chiaro – chiarisce Lina – che ogni ospite sente la mancanza dell’amore che solo un papà e una mamma possono trasmettere. Manca il bacio della buonanotte, mancano i sentimenti più vivi, quelli primordiali. Eppure noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare educatrici che ci hanno trattato come se fossimo davvero figli loro. A me hanno dato la possibilità, oltre che di andare a scuola, anche di iscrivermi ai corsi di danza e all’università».

    Una spina che punge la ‘ndrangheta

    La parola passa ora alle sale cinematografiche ed ai festival. Il primo grande appuntamento è a Berlino, dove a febbraio 2022 alla presentazione ha riscosso il successo della critica e dei presenti. Dal 17 febbraio farà il debutto nelle sale italiane. Se anche il grande pubblico gradirà Una femmina, il volto di Lina Siciliano potrebbe assurgere a simbolo delle Calabrie come terre capaci di ribellarsi, non proprio identificabili con la regione che ha finanziato un costosissimo cortometraggio del regista Gabriele Muccino. A riflettersi nello sguardo austero e deciso di Rosa, piuttosto, sarebbe la terra di Marcello Fonte, cresciuto nel quartiere Archi di Reggio Calabria, premiato nel 2018 a Cannes per la sua magistrale interpretazione del “Canaro” in Dogman. E, forse, le spine di questa Rosa potrebbero anche contribuire a graffiare la millenaria egemonia culturale delle ‘ndrine.

     

     

  • Strage di Bologna, 41 anni dopo: quel filo nero che porta alla Calabria

    Strage di Bologna, 41 anni dopo: quel filo nero che porta alla Calabria

    Sono passati 41 anni. Senza verità. Senza giustizia. Sono le 10.25 del 2 agosto 1980 quando l’orologio della stazione di Bologna si ferma. La deflagrazione, il boato, le fiamme, i brandelli umani. Il bilancio: 85 vittime e oltre 200 feriti. Il più grave atto terroristico (per proporzioni) del secondo dopoguerra, uno degli ultimi degli anni di piombo. Proprio quegli anni di piombo ancora da riscrivere – giudiziariamente e non solo – per i collegamenti tra entità oscure e occulte. Dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, alla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974, fino alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974.

    Massoneria, servizi deviati e ‘ndrangheta

    Un intreccio inquietante tra terrorismo, soprattutto di matrice neofascista, servizi segreti deviati, logge coperte (su tutte la P2), comitati d’affari di altissimo e raffinatissimo livello, criminalità organizzata. In particolare, la ‘ndrangheta, per decenni sottovalutata, avrebbe avuto un ruolo centrale in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia. La strage della stazione di Bologna non fa eccezione.

    Proprio recentemente è iniziato il processo a carico di Paolo Bellini, ex membro di Avanguardia Nazionale, ma anche soggetto con collegamenti importanti all’interno della ‘ndrangheta. Per la criminalità organizzata calabrese compirà almeno una decina di omicidi. Oggi è alla sbarra insieme all’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel per depistaggio. Con loro anche Domenico Catracchia, amministratore di alcuni immobili di via Gradoli a Roma usati come rifugio dai Nar. Risponde di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Tra gli imputati ci sarebbe dovuto essere anche l’ex capo del Sisde di Padova, Quintino Spella, nel frattempo deceduto.

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    L’ex capo della Loggia P2, Licio Gelli

    È proprio questo l’intreccio perverso e indicibile. Per la bomba alla stazione di Bologna sono stati già condannati definitivamente gli ex Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Tutti puniti in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, individuati quali mandanti, finanziatori o organizzatori. Di Licio Gelli sappiamo molto (ma non tutto) circa le trame della sua Loggia Propaganda 2. I nomi di Ortolani (banchiere intrallazzato con lo IOR), D’Amato (direttore dell’Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni) e Tedeschi (giornalista e politico) formano (ma non completano) il quadro a tinte fosche.

    La colonna di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria

    Non lo completano. Perché è quasi tutto da delineare il coinvolgimento delle mafie e, in particolare, della ‘ndrangheta. Il processo a carico di Bellini ci sta provando. In una delle ultime udienze prima della pausa estiva, l’ex esponente di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, Vincenzo Vinciguerra, ha parlato di «accordo organico» tra destra eversiva e ‘ndrangheta. «La ‘Ndrangheta vedeva Avanguardia come una forza che poteva mettersi contro lo Stato», ha aggiunto Vinciguerra.

    E Bellini è accusato di essere il “quinto uomo” della bomba alla stazione. Oltre alle tre condanne definitive, infatti, ce n’è un’altra, finora di primo grado, a carico di Gilberto Cavallini. Bellini è stato proprio un uomo forte di Avanguardia Nazionale. La stessa Avanguardia Nazionale che aveva rapporti soprattutto con la ‘ndrangheta di Reggio Calabria.

    In riva allo Stretto, Avanguardia Nazionale aveva, a partire dalla fine degli anni ’60, una colonna formidabile. Ineguagliabile in qualsiasi altra parte del Paese. Proprio la ‘ndrangheta doveva essere di fatto l’esercito armato attraverso cui si sarebbe dovuto attuare il Golpe Borghese. Siamo alla fine del 1969. Pochi mesi dopo, nel luglio del 1970, scoppierà la rivolta di Reggio, quella del “Boia chi molla”, fagocitata dagli ambienti di destra.

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    Un’immagine dei Moti di Reggio del 1970

    Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie: tutti nomi che nulla avrebbero dovuto avere a che fare con il territorio. A Reggio Calabria, invece, erano di casa. Soggetti che legano il proprio nome alla notte della Repubblica.
    Il nome di Delle Chiaie è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, come piazza Fontana o Bologna, e a omicidi eccellenti, come quello del giudice romano Vittorio Occorsio. I processi, però, lo hanno sempre visto assolto per non aver commesso il fatto o per insufficienza di prove.

    Dall’Italia al Sud America

    Un dato molto significativo, emerge dalla sentenza della Corte d’Assise di Bologna sulla strage della Stazione, per cui vengono condannati i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro: «Stefano Delle Chiaie, invece, si muove con grande disinvoltura nell’Argentina dominata dal regime militare. Da latitante qual è, frequenta liberamente vari ambienti e compare a cena a fianco del console italiano.

    Reduce dall’esperienza cilena, dopo un primo momento di difficoltà, comincia a prosperare, raggiungendo l’apice della sua fortuna nel periodo in cui le forze governative argentine – il che, tenuto conto di quella realtà, equivale a dire gli apparati militari– appoggiano, assieme a quelle cilene, il colpo di Stato militare boliviano. Proprio nel periodo prodromico del golpe intensifica la frequentazione della Bolivia. E, dopo la realizzazione del golpe, ottiene addirittura una collocazione stabile e ufficiale presso lo Stato Maggiore dell’Esercito boliviano, quale assessore del VII Dipartimento: carica di tale importanza, che gli dava l’opportunita di incontri diretti con il Capo dello Stato […]

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    Saluti romani attorno alla bara di Stefano Delle Chiaie

    […] Delle Chiaie comincia a prender quota in quello Stato, dove la polizia militare imperversa. Capo di Stato Maggiore della Marina è l’ammiraglio Massera, piduista e addirittura visitatore dello stabilimento industriale di Gelli in Castiglion Fibocchi. Licio Gelli ha stretti rapporti con i servizi argentini. […]

    La penetrazione del potere gelliano in Argentina, tende dunque ad assumere le medesime caratteristiche e ad attingere livelli non inferiori a quelli dell’analoga penetrazione nella realtà italiana». Per questo, scrivono infine i giudici di Bologna «il collegamento Gelli-Delle Chiaie non si presenta come una possibilità, più o meno plausibile, ma costituisce una necessità logica».

    P2 e ‘Ndrangheta

    Lo stesso Vinciguerra, nel corso degli anni, dichiarerà che timer dello stesso lotto di quelli impiegati per l’eccidio di Piazza Fontana erano stati utilizzati anche per «far saltare i treni che portavano gli operai a Reggio Calabria per una manifestazione sindacale». Siamo proprio nel periodo del “Boia chi molla”. E uno dei soggetti più influenti sarebbe appunto Delle Chiaie.

    Sono gli anni in cui la P2 governa un sistema caratterizzato dalla presenza di metastasi in molti dei gangli fondamentali della vita istituzionale, sociale ed economica, dalla magistratura alle grandi case editrici, dai giornali all’alta burocrazia, fino ai partiti politici. Tuttavia, l’aspetto più inquietante e profondo della penetrazione piduista era rappresentato dalla presenza sistematica e monopolistica di uomini iscritti alla P2 ai vertici delle Forze Armate e soprattutto dei Servizi di Sicurezza.

    I Servizi con grembiule e cappuccio

    Interessante, sul punto, un atto giudiziario che infine è stato confermato e divenuto definitivo. Nella sentenza della Corte di Assise di Bologna del 11 luglio 1988, sulla strage della Stazione, viene affermato che: «Nello stesso volger di tempo, nell’ambito di altro procedimento pendente, avanti all’autorità giudiziaria milanese per l’affare Sindona, il 17 marzo 1981 i giudici istruttori Turone e Colombo disponevano un sequestro nell’abitazione e negli uffici di pertinenza del capo della loggia massonica P2, Licio Gelli.

    In Castiglion Fibocchi, la Guardia di Finanza sequestrava, tra l’altro, oltre a una lista degli iscritti alla Loggia P2, tutta una serie di documenti che denunciavano in quali attività e di quale rilievo la Loggia era implicata […] Occorre rilevare sin da ora che risultarono iscritti nelle liste sequestrate fra gli altri, i seguenti nominativi: prefetto Walter Pelosi, capo del Cesis; generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi; generale Giulio Grassini, direttore del Sisde; generale Pietro Musumeci, capo dell’Ufficio Controllo e Sicurezza del Sismi».

    E c’è anche chi sostiene che, anche dopo lo scioglimento, in seguito alla approvazione della“Legge Anselmi”, la P2 non si sia mai effettivamente dissolta. E che abbia continuato, con altro nome, con altre vesti, a perseguire i propri scopi eversivi. Non è un caso che l’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ipotizzasse questi oscuri accordi.

    Si è conclusa però in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie, mafiosi come Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste. Ma non arriverà nemmeno in aula, con l’archiviazione del fascicolo.

  • ‘Ndrangheta, massoneria e politica: per “Gotha” 25 anni a Romeo, 13 a Sarra

    ‘Ndrangheta, massoneria e politica: per “Gotha” 25 anni a Romeo, 13 a Sarra

    La componente riservata della ‘ndrangheta esiste e ha deciso (e decide) le sorti della vita politica, economica e sociale della popolazione. Lo ha stabilito con la sentenza di primo grado del maxiprocesso “Gotha” il Tribunale di Reggio Calabria, presieduto da Silvia Capone.

    Condanne e assoluzioni per i politici

    In particolare, in riva allo Stretto sono stati inflitti 25 anni di reclusione per Paolo Romeo, 13 anni per Alberto Sarra. Ma è clamorosa l’assoluzione di Antonio Caridi. Il Tribunale ha quindi accolto l’impianto accusatorio portato avanti dalla Dda di Reggio Calabria, seppur con alcune assoluzioni inaspettate. Un teorema accusatorio ambizioso quello portato avanti dalla Procura in quel periodo retta da Federico Cafiero De Raho, oggi procuratore nazionale antimafia.

    Sarebbe stato l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo, con un passato nell’estrema destra, al vertice della masso-‘ndrangheta. Romeo avrebbe infiltrato le Istituzioni a ogni livello. Da quelle più strettamente locali, fino ai livelli più alti. Si inquadra in tal senso la condanna inflitta in primo grado all’ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra. Mentre è assolutamente una sorpresa quella per l’ex senatore Totò Caridi.

    Nell’impostazione accusatoria, peraltro, non solo Sarra e Caridi, ma anche l’ex sindaco reggino ed ex governatore, Giuseppe Scopelliti sarebbe stato diretto dalla volontà di Paolo Romeo. Scopelliti, pur evocato numerose volte, non risultava comunque tra gli imputati del maxiprocesso alla componente riservata della ‘ndrangheta.

    Il prete e gli avvocati

    Pur trattandosi, per il momento, di una sentenza soltanto di primo grado, quella del processo “Gotha” potrebbe segnare una svolta nella lotta giudiziaria ai livelli più alti e alle connivenze più oscure della criminalità organizzata calabrese. Nello stralcio celebrato con il rito abbreviato (e, quindi, già arrivato alla sentenza d’appello) è infatti già stato condannato l’altro soggetto ritenuto come l’eminenza grigia della ‘ndrangheta: l’avvocato Giorgio De Stefano, legato da vincoli parentali con lo storico casato reggino, ma considerato (al pari di Romeo) una mente raffinatissima capace di fare da collante tra l’ala militare dei clan e i livelli riservati.

    Tra le altre persone condannate, l’avvocato Antonio Marra (17 anni), considerato il braccio destro di Romeo, ma anche l’ex, onnipotente, dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Reggio Calabria, Marcello Camera, anche se punito solo con 2 anni di reclusione a fronte della richiesta di 13 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto l’ex presidente della Provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Raffa. Condannato invece l’ex rettore del Santuario della Madonna di Polsi, a San Luca, don Pino Strangio. Il prete avrebbe fatto parte della rete relazionale occulta di Romeo.

    In particolare, l’avvocato Marra avrebbe svolto il “lavoro sporco” di confidente con le forze dell’ordine. In tal senso, si inquadrerebbe il ruolo di Marra nella presunta “trattativa Stato-‘ndrangheta” per arrivare ad alcuni arresti dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, che si inquadrava nella sanguinosa faida di San Luca. Trame non completamente chiarite, in cui emergerà il ruolo di alcuni appartenenti del Ros dei Carabinieri, ma anche dello stesso prete don Strangio. Rapporti con i Servizi Segreti di cui era esperto il commercialista-spione, Giovanni Zumbo, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione.

    Il procedimento è durato diversi anni, con centinaia di udienze all’interno dell’aula bunker di Reggio Calabria. La Dda di Reggio Calabria si è avvalsa anche delle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, che hanno tratteggiato il legame oscuro e indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti deviati.

    Le decisioni del Tribunale di Reggio Calabria:

    Vincenzo Amodeo assolto

    Domenico Aricò assolto

    Vincenzo Carmine Barbieri 3 anni e 4 mesi

    Marcello Cammera 2

    Amedeo Canale assolto

    Demetrio Cara assolto

    Antonio Caridi assolto

    Carmelo Cartisano 20 anni

    Francesco Chirico 16 anni

    Giuseppe Chirico 20 anni

    Saverio Genoese Zerbi – deceduto

    Salvatore Primo Gioè 16 anni e 6 mesi

    Paolo Giustra 2 anni

    Giuseppe Iero assolto

    Antonio Marra 17 anni

    Maria Angela Marra Cutrupi assolta

    Angela Minniti 2 anni e 8 mesi

    Teresa Munari assolta

    Domenico Nucera assolto

    Domenico Pietropaolo assolto

    Giovanni Pontari assolto

    Giuseppe Raffa assolto

    Rosario Giuseppe Rechichi 3 anni e 6 mesi

    Giovanni Carlo Remo assolto

    Paolo Romeo 25 anni

    Alberto Sarra 13 anni

    Andrea Scordo assolto

    Giuseppe Strangio 9 anni e 4 mesi

    Rocco Antonio Zoccali assolto

    Giovanni Zumbo 3 anni e 6 mesi

    Alessandro Delfino 5 anni

  • Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, nella recente pubblicazione di Danilo Chirico “Storia dell’anti-‘ndrangheta” parla così dell’occasione che la pandemia da Coronavirus e la crisi economica potranno rappresentare per le mafie e, nello specifico, la ‘ndrangheta. La crisi offre nuove opportunità ai gruppi criminali, sia nei settori tradizionali «come le multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, rifiuti, imprese di costruzioni» sia in quelli che «appaiono particolarmente lucrosi come il commercio di mascherine o il turismo». Non è solo un’ipotesi fondata sull’esperienza: sono già almeno «trenta le situazioni sospette intercettate, con società che sono state costituite all’estero che commerciano in dispositivi di protezione, riconducibili a organizzazioni mafiose o ’ndranghetiste».

    Ma se il “contagio” dell’economia è storia vecchia di almeno 50 anni, quello delle somme più precisamente riguardanti il welfare in tempo di Covid, è stato, fin da subito un obiettivo perseguito dalla ‘ndrangheta. Due misure, su tutte, hanno rappresentato in questi mesi di pandemia una boccata d’ossigeno per numerose famiglie in difficoltà economica: il Reddito di Cittadinanza e i Buoni Spesa Covid. E su entrambe la ‘ndrangheta ha messo le mani.

    Le mani sul reddito di cittadinanza

    La relazione della Direzione Investigativa Antimafia nel 2020 contiene testualmente: «Nel semestre è emerso un ulteriore aspetto comprovante l’ingordigia ‘ndranghetista in spregio alla situazione emergenziale vissuta dal contesto sociale calabrese appena descritto, in totale distonia con le ingenti risorse economiche a disposizione delle consorterie, anche attraverso le richieste del reddito di cittadinanza».

    La appropriazione indebita dei membri dei clan del reddito di cittadinanza è al centro anche della polemica politica tra i sostenitori della misura, il Movimento 5 Stelle in primis, che ne ha fatto un simbolo, e gli “abolizionisti”. Sono numerosi gli episodi censiti negli ultimi mesi.  Il 15 marzo del 2021 la Guardia di Finanza scopre 86 “furbetti” del Reddito di Cittadinanza. Truffa da oltre 700mila di euro. Una quindicina di costoro ha anche condanne per reati di ‘ndrangheta. L’hanno ottenuto semplicemente omettendo il proprio trascorso giudiziario. E i sussidi sono arrivati.

    Si tratta, evidentemente, di appetiti (soddisfatti) che non riguardano solo la ‘ndrangheta. Anche le altre mafie, Cosa Nostra su tutte, si sono accaparrate somme ingenti. In un unico caso, siamo nello scorso aprile, la cifra ammonta a oltre 600mila euro. Questo perché, unitamente alla ‘ndrangheta, Cosa Nostra è l’organizzazione mafiosa che maggiormente fa del controllo del territorio un marchio di fabbrica. Depredare il welfare, infatti, non è solo una questione di introito economico. In questo modo si (ri)afferma la superiorità sullo Stato. Storicamente, i grandi boss della ‘ndrangheta puntano e ottengono (indebitamente) l’indennità di accompagnamento dall’INPS o accedono (altrettanto indebitamente) ai sussidi previsti dalla Legge 104.

    Un affare per la ‘ndrangheta che conta

    Il Reddito di Cittadinanza viene approvato all’inizio del 2019. La ‘ndrangheta si organizza ben presto. In circa un anno viene documentato come esponenti di grande rilievo delle cosche Piromalli e Molè di Gioia Tauro siano riusciti ad ottenere il sussidio. Si tratta di persone condannate per reati di ‘ndrangheta, talvolta all’ergastolo e detenuti in regime di 41 bis. Ma anche sorvegliati speciali, con le rispettive consorti. Danno erariale da 280 mila euro.  A infiltrarsi nelle maglie del welfare in tempo di pandemia non sono ladruncoli da quattro soldi, ma  bdella ‘ndrangheta. Non solo i Piromalli e i Molè, ma anche i Pesce e i Bellocco, come mostrato da altre inchieste.

    Le indagini documentano le ruberie di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta, come i Tegano e i Serraino di Reggio Calabria. Ma anche i figli di Roberto Pannunzi, considerato il “Pablo Escobar italiano”, uno dei più importanti narcotrafficanti della storia, capace di dialogare da pari a pari con i cartelli sudamericani. Non è un caso che anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, sta portando alla sbarra i rapporti tra cosche e massoneria, risultino tra gli imputati soggetti percettori del reddito di cittadinanza.

    A dicembre 2020 invece la Guardia di Finanza di Crotone scopre che fra i “furbetti” c’era un esercito di picciotti, luogotenenti e boss di Alfonso Mannolo, arrestato nel 2019 come elemento di vertice del clan di San Leonardo di Cutro e accusato di associazione mafiosa, traffico di droga, riciclaggio, estorsione e usura. Febbraio 2021: tra le persone individuate dalla Guardia di Finanza, c’è anche un soggetto condannato in via definitiva nell’ambito del processo “Kyterion”, come affiliato alla potente cosca dei Grande Aracri.  In un altro caso, siamo a maggio 2021, scoperto dall’Autorità Giudiziaria vibonese, l’importo delle somme indebitamente ottenute, ammonta a 225mila euro. Si parla, complessivamente, di diversi milioni di euro.

    La ricchezza in tempo di Covid

    L’altra grande forma di accaparramento di denaro pubblico nel periodo della pandemia è rappresentata dai Buoni Spesa Covid. Una forma di sussidio istituita nel corso della prima ondata della pandemia e su cui la ‘ndrangheta, già nel luglio 2020, aveva messo le mani. Sono 45mila gli euro intascati indebitamente dagli uomini del clan grazie al Decreto Rilancio. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Milano, si è concentrata sugli appetiti di tre aziende riferibili alla ‘ndrangheta del Crotonese. Ancora una volta ai Grande Aracri.

    Alla fine del 2020, 186 denunce in provincia di Reggio Calabria per indebite percezioni sui Buoni Spesa Covid. Un terzo degli indagati risulta avere legami di parentela con soggetti appartenenti a ‘ndrine o a famiglie di interesse investigativo. Il totale delle irregolarità riscontrate comprende un danno erariale complessivo di circa 357mila euro. E si è scongiurata, per il tratto a venire, un’ulteriore perdita di circa 127.000 euro. Somme che gli uomini e le donne di ‘ndrangheta avrebbero altrimenti incassato.

    Si tratta, se possibile, di cifre e proporzioni ancor più grandi rispetto a quelle del Reddito di Cittadinanza. Recentemente, in provincia di Vibo Valentia sono scattate circa 300 denunce per buoni spesa direttamente dai Comuni a persone che autocertificavano il proprio stato di difficoltà economica sulla base di bandi stilati dagli stessi enti locali. Tra questi, diversi affiliati alle cosche. Sono così emerse una serie di irregolarità per un danno erariale complessivo di oltre 100mila euro. Uno degli ultimi casi è di metà maggio 2021. Coinvolge 478 denunciati e tra essi molti affiliati alla ‘ndrangheta vibonese. Per loro sono arrivati 70mila euro, senza che ne avessero diritto.

    Il lockdown per fare affari

    Le mafie e la ‘ndrangheta in particolare sanno sfruttare ogni occasione. Anche i lunghi periodi di lockdown e la pandemia sono diventati occasione per lucrare. Ancora dalla relazione della DIA: «Il lockdown ha rappresentato la ennesima occasione per le consorterie criminali di sfruttare la situazione per espandersi nei circuiti della economia legale e negli apparati della pubblica amministrazione».

    Sempre in “Storia dell’anti-‘ndrangheta” di Danilo Chirico si dà conto di quanto messo nero su bianco dall’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, istituito dal Ministero dell’Interno. Gravi le affermazioni che sostengono come le mafie (e, in primis, la ‘ndrangheta) stiano tentando di «accedere illecitamente alle misure di sostegno all’economia», di ottenere il pagamento di prestazioni sanitarie in favore di aziende “mafiose” o collaterali ai clan e di svolgere servizi utili ad affrontare la pandemia (per esempio la sanificazione delle strutture).

  • Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Da delfini a pentiti. Quando si parla di casato si evoca qualcosa di aristocratico e di antico. Di nobiltà ce n’è in verità molto poca nei racconti che delle dinastie mafiose del Vibonese fanno i loro stessi rampolli. Sono cresciuti a pane e ‘ndrangheta ma, adesso, hanno cominciato a ribellarsi al loro stesso sangue e a quello che hanno visto scorrere fin da bambini tra la costa degli Dei e le montagne delle Serre. Sono storie diverse ma emblematiche quelle di Emanuele Mancuso e Walter Loielo. Viaggiano su binari distinti e paralleli ma, in determinati momenti, si avvicinano pericolosamente.

    Un tipo alternativo

    Nato il giorno di San Valentino di 33 anni fa, Emanuele secondo sua padre era come un surici. «Dove passavo io facevo danni» – dice. E il padre, che ha un nome diffuso in famiglia, Pantaleone, è conosciuto come “l’ingegnere” e per essere stato protagonista di un arresto da film. Alla fine di agosto del 2014 lo catturò la gendarmeria argentina in una città alla frontiera con il Brasile, Puerto Iguazù. Cercava di passare il confine a bordo di un bus turistico con un documento argentino falso intestato a tale Luca de Bortolo e con 100mila euro addosso.

    All’epoca, per dire che aria tirasse in famiglia, era accusato del duplice tentato omicidio di sua zia Romana e del figlio, che era avvenuto 6 anni prima al culmine di dissidi sfociati nel sangue tra i vari rami della famiglia. Il danno più grosso, osserva sornione lo stesso Emanuele in collegamento con l’aula bunker di Rinascita-Scott, lo ha fatto collaborando con la giustizia.

    I parenti e la ex compagna vogliono indurlo a ritrattare

    Secondo la stessa Dda di Catanzaro i suoi parenti, e anche l’ex compagna da cui ha avuto una bimba, volevano indurlo a ritrattare in ogni modo: la promessa di un ristorante tutto suo in Spagna, pressioni di ogni tipo facendo leva anche sulla figlia neonata, le minacce urlate dai vicini di cella al carcere di Siano. Volevano farlo passare per pazzo. In effetti lo conoscevano bene, perché Emanuele tanto “normale” non lo è mai stato. Un «tipo alternativo», si è definito lui stesso, perché non seguiva il protocollo di famiglia. Faceva furti e rapine mentre i suoi gli dicevano che «fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto».

    Molto ferrato nelle nuove tecnologie, tanto da essere spesso addetto alle bonifiche per gli uomini del clan, lo era altrettanto nella coltivazione di marijuana su scala industriale. Ne piantava tanta ma sostiene di non fumarla perché gli fa abbassare la pressione. La cocaina invece sì, ammette di averla usata spesso. Ma a uno degli avvocati difensori che lo controesaminava ha risposto irritato di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica».

    Un cadavere nel bosco

    Walter lo chiamano “batteru” ed è ancora più giovane. Classe 1995, ha anche lui un padre ingombrante. Anzi, aveva: si chiamava Antonino ed è sparito nel nulla un giorno di aprile del 2017. Né suo figlio, che al contrario di Emanuele non è il primo pentito della sua famiglia, né gli altri familiari all’epoca ne denunciarono la scomparsa. Oggi invece Walter è indagato per avere occultato il cadavere del genitore. Sarebbe stato lui stesso ad indicare la carcassa di una Cinquecento rossa seminascosta nei boschi di Gerocarne vicino a cui avevano seppellito il padre. Avevano, sì, lui e suo fratello Ivan, che è quello accusato di averlo ucciso.

    Il movente è ancora un mistero: non è di ‘ndrangheta, hanno detto gli inquirenti quando hanno scoperto il corpo a novembre del 2020, il contesto evidentemente sì. Perché è quello della famiglia Loielo, una storia criminale lunga decenni che da banda di rapinatori alla fine degli anni ’70 li vede poi diventare l’ala armata della “società” di Ariola, frazione-epicentro nelle Preserre vibonesi di una faida ventennale con il clan Emanuele, che li ha scalzati dal dominio militare decapitando la loro cosca con un efferato duplice omicidio nel 2002. All’epoca caddero, per mano del boss emergente Bruno Emanuele, Pino e Vincenzo Loielo, di cui il padre di Walter era primo cugino.

    Anni dopo i rampolli dei Loielo avrebbero tentato di rialzare la testa per vendicare i loro morti. A soffiare sul loro rancore sarebbe stato un altro Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”, tentando da dietro le quinte di ridimensionare gli odiati Emanuele. È finita con una scia di morti e altrettanti tentati omicidi. In uno di questi, ad ottobre del 2015, rimase ferito proprio Antonino mentre era a bordo della sua vecchia Panda. Con lui c’era la compagna incinta di sei mesi e un altro figlio, Alex. Pochi giorni dopo tentarono di ammazzare anche lo stesso Walter, che era assieme a due cugini e che era stato già in precedenza bersaglio di un ulteriore attentato. Sangue, vendette, famiglie non esattamente da Mulino Bianco, ma a un certo punto arriva qualcuno che la catena dell’odio la spezza.

    Il coraggio di sfidare il “supremo”

    Emanuele è iperattivo, spregiudicato, ha mostrato un’indole violenta ma anche un’intelligenza vivace. Una cosa che pochi sanno di lui, per esempio, è che era in grado di scriversi da solo le istanze da presentare ai giudici in relazione a misure di sorveglianza a cui era sottoposto. Raccontano che in alcuni casi le firmasse lui stesso, a nome dei suoi avvocati, e che qualche volta il Tribunale le abbia anche accolte. Non sorprende, dunque, il piglio con cui parla durante i processi. Il coraggio non gli difetta: è stato capace di stringere un’amicizia fraterna con Peppe Soriano – nipote del boss Leone, «uno psicopatico criminale» – a cui offriva soldi e assistenza legale proprio tramite lo zio, incurante che questi fosse parecchio inviso al “supremo” Luigi Mancuso, prozio di Emanuele che «con una parola riesce ad entrare nel tuo cervello, non usa metodi brutali ma ha un carisma inaudito».

    Cinquemila euro per ammazzare un vecchietto

    Walter è più introverso, quasi impacciato. Terza media, condizioni familiari «difficili» e qualche saltuario lavoro agricolo alle spalle. Al suo esordio in un processo, lo scorso 23 giugno, si è un po’ impappinato parlando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro. È stato chiamato a rendere in aula le sue prime dichiarazioni da pentito nel procedimento sull’autobomba di Limbadi che il 9 aprile 2018 ha ucciso il biologo 42enne Matteo Vinci e ferito il padre Francesco. Un crimine che ha fatto rumore e che forse qualcuno della galassia Mancuso ha ordito senza farlo sapere ai boss che contano.

    Il 26enne ha raccontato che due indagati accusati di essere gli esecutori materiali – per cui però il Riesame ha annullato i relativi capi d’imputazione – tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli avrebbero portato una “’mbasciata” da parte di «quelli di là sotto», locuzione con cui nel Vibonese sono inequivocabilmente identificati i Mancuso. Gli avrebbero proposto di «uccidere un vecchietto in campagna per 5mila euro». Lui, però, si sarebbe rifiutato senza nemmeno chiedere quale fosse l’identità della potenziale vittima.

    Walter ne avrebbe poi parlato con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele che avrebbe aiutato in un periodo di latitanza. E quello gli avrebbe risposto che era stato un cognato degli imputati a dare l’ordine dell’omicidio senza farlo sapere ai parenti. Walter è però inciampato nel controesame. Ha detto rispondendo a un avvocato di non aver capito a quale cognato Mancuso si riferisse, ammettendo di essersi «un po’ confuso».

    Gli incroci pericolosi e la storia che cambia

    Così si sono in qualche modo incrociate le storie di questi due rampolli che pur essendo giovani ne hanno viste tante. Uno viene da un contesto rurale e, oltre ad aver seppellito il suo stesso padre, si sarebbe trovato in prima persona nel mezzo di una faida che ha visto morire ammazzati anche ragazzi che non c’entravano nulla. Come Filippo Ceravolo, che aveva appena due anni più di lui ed è stato raggiunto dai pallettoni del suo clan, appena 19enne, solo perché aveva chiesto un passaggio al vero obiettivo dei killer, un ragazzo legato agli Emanuele che è rimasto illeso.

    L’altro è un predestinato, un principino della ‘ndrangheta «di serie A». Non ha paura a bollare addirittura come «carabinieri senza divisa» alcuni dei suoi «zii grandi» accusandoli di aver coltivato per anni amicizie e collusioni tra insospettabili colletti bianchi.
    In attesa di capire se e quanto le loro dichiarazioni possano superare il vaglio della credibilità in sede giudiziaria è un fatto, inedito, che i rampolli di due casati di ‘ndrangheta rompano in questo modo il legame di omertà con i loro consanguinei e provino a riscrivere la storia. La loro e quella della loro terra.