È una storia che comincia 30 anni fa e che coinvolge i Servizi segreti, le loro fonti confidenziali e alcuni boss della ‘ndrangheta. E che testimonia come vadano certe cose in Italia. La prima parte si intreccia tra la Calabria e Roma e comincia negli anni ’90, quando le notizie e i riscontri raccolti dagli 007 cominciano a rivelare cose che farebbero impallidire il più spregiudicato degli allarmisti. Sono messe nero su bianco nelle carte custodite negli archivi del Parlamento.
La seconda parte si svolge al Nord ed è invece tutta concentrata tra il 2018 e il 2021. Riguarda un boss passato attraverso diverse inchieste che ha conservato, o forse consolidato, il suo carisma, ma che nonostante la sua esperienza criminale si fa beccare a dirigere un traffico losco e condannato a 20 anni nel giro di pochi mesi. Ogni storia di ‘ndrangheta è storia di “tragedie” e faide. In questo caso i “malandrini” non si tradiscono solo tra di loro, con le scorie tradiscono e avvelenano la terra che sta sotto i loro piedi e quelli che la abitano.
Affari di famiglie
Reggio Calabria, agosto 1994. Informatori definiti «di settore» e «non in contatto tra di loro» riferiscono «notizie confidenziali» che, alla luce delle «prime verifiche», risultano «sufficientemente attendibili» e «foriere» di «interessanti sviluppi». Un uomo dei Servizi segreti descrive in questi termini, alla Direzione del Sisde di Roma, quanto ha appreso dai suoi informatori circa un presunto traffico internazionale di scorie radioattive in mano alla ‘ndrangheta.
Si parla di un summit ad Africo tra il “Tiradritto” Giuseppe Morabito e «altri boss mafiosi del luogo»: in cambio di una partita di armi sarebbe giunta «l’autorizzazione» a scaricare in quella zona «un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente anche radioattive che dovrebbero arrivare dalla Germania, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni». Si parla anche di un presunto traffico di «uranio rosso».
Reggio Calabria, ottobre 1994. I primi riscontri «info-operativi» sono «incoraggianti». Gli informatori «habent riferito» dell’esistenza di «parecchie» discariche di rifiuti tossici. Oltre che in zone aspromontane, si troverebbero «nella cosiddetta zona delle Serre (Serra S. Bruno, Mongiana ecc.) nonché nel Vibonese». I Servizi scrivono che «in quella zona la “famiglia” Mammoliti, la competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossico-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto.
Via mare e via terra
Le scorie «proverrebbero dall’est europeo per mare e per terra con le seguenti modalità: canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni; il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi». In altre informative si parla dei fratelli Cesare e Marcello Cordì che, già nel 1992, avrebbero gestito un traffico di rifiuti tossici finiti nei canali dei metanodotti nel territorio di Serrata.
Si conclude, dopo aver sentito anche alcuni magistrati, che «tra la Calabria e il Nord d’Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate» in cui ci sarebbero «circa settemila fusti di sostanze tossiche». Si cita il comune di Borghetto, nel Savonese, e poi i luoghi della Calabria, «per la maggior parte grotte», in cui ci sarebbero le discariche di veleni: «Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (CZ), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (CZ)». Vengono menzionate le famiglie De Stefano, Piromalli e Tegano. Tutte le segnalazioni vengono girate al Ros. Risultano coinvolte ben sei Procure della Repubblica.
I dossier desecretati
Roma, maggio 2014. Il governo Renzi desecreta molti atti contenuti nei dossier della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Al loro interno compaiono riferimenti ai casi delle «navi dei veleni» e agli uomini chiave dei presunti traffici di scorie radioattive tra l’Africa e mezza Europa. È in queste carte che sono contenuti i riferimenti alle discariche radioattive che secondo gli 007 in riva allo Stretto esisterebbero in Calabria.
I dossier vengono fuori dopo vent’anni, migliaia di cittadini si allarmano e si mobilitano pure gli amministratori locali. Partono gli incontri in Prefettura con comitati civici e sindaci che arrivano a coinvolgere i vertici dell’Arpacal, l’Azienda regionale per la protezione dell’ambiente. Che, in autunno, assieme al Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri avvia il progetto “Miapi”.
Si tratta di un monitoraggio delle aree potenzialmente inquinate e per l’individuazione di siti contaminati con l’ausilio di dati telerilevati grazie ad un sensore “Airbone” ancorato ad un elicottero geo-radar. Le attività di ricerca vengono completate e viene trasmesso un hard disk contenente il data base, in formato shapefile, aggiornato al 28 febbraio 2015. Quei dati però ancora oggi sono un mistero, non sono mai stati resi di dominio pubblico.
Lombardia, Italia, A. D. 2021
Lecco, febbraio 2021. È l’altra parte della storia: più recente, distante geograficamente ma sempre e comunque collegata alla Calabria. Finisce in modo molto diverso. Scatta l’operazione “Cardine – Metal money”: diciotto cittadini italiani (dieci in carcere ed otto agli arresti domiciliari) sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, autoriciclaggio, usura ed estorsione.
Al centro di tutto c’è un uomo che per gli inquirenti è il boss indiscusso della ‘ndrangheta nel Lecchese. Si chiama Cosimo Damiano Vallelonga e il prossimo 30 settembre compirà 73 anni. Li “festeggerà” in carcere, non è certo la prima volta che gli capita. È già stato coinvolto in diverse inchieste, da “La notte dei fiori di San Vito” di metà degli anni ’90 alla maxioperazione “Infinito” del 2010. È considerato il successore di Franco Coco Trovato, suo coetaneo che già dagli anni ’90 sconta diversi ergastoli al 41 bis.
Vallelonga è originario di Mongiana, uno dei paesi delle Serre vibonesi indicato nelle carte del Sisde come luogo di presunto deposito di scorie radioattive. Quando i capibastone della sua zona d’origine entrano in conflitto nella sanguinosa “faida dei boschi” viene chiamato in causa per tentare di fare da paciere tra le famiglie in guerra. Nella ‘ndrangheta lombarda chi ha la dote del Vangelo lo chiama «compare Cosimo» e spesso gli chiede di intervenire per dirimere questioni e affari spinosi.
Vent’anni di carcere
Milano, settembre 2021. I giudici del Tribunale meneghino, nell’aula bunker di San Vittore, condannano Vallelonga a vent’anni di carcere, più di quanto avessero chiesto nei suoi confronti i pm della Procura antimafia milanese. È l’esito con rito abbreviato dell’inchiesta “Cardine-Metal money” sull’impero del boss originario di Mongiana. Nell’inchiesta gli investigatori della Guardia di finanza di Lecco non ricostruiscono solo estorsioni, società cartiere, truffe e frodi, ma scoprono anche un traffico da 10mila tonnellate di rottami e rifiuti radioattivi.
L’aula bunker di San Vittore a Milano
L’indagine non riguarda solo la Lombardia ma si estende anche a Liguria ed Emilia Romagna. Vallelonga, una volta scontate le condanne precedenti, avrebbe «ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio mafioso, non solo attraverso autonome condotte criminali ma anche ricevendo presso il suo ufficio all’interno di un negozio sito nella Brianza lecchese altri esponenti della ‘ndrangheta ed imprenditori locali, sia per l’erogazione di prestiti a tassi usurari sia per organizzare il reinvestimento dei proventi delle attività illecite nell’economia legale».
Vallelonga avrebbe diretto «un’imponente attività di traffico illecito di rifiuti posta in essere attraverso imprese operanti nel settore del commercio di metalli ferrosi e non ferrosi». Ci sarebbe dietro anche un giro di fatture false per circa 7 milioni di euro. E un carico di rifiuti radioattivi: 16 tonnellate di rame trinciato proveniente dalla provincia di Bergamo e sequestrato dalla Polizia Stradale di Brescia nel maggio 2018.
Uno degli ultimi rapporti del progetto dell’InterpolI-Can, International Cooperation against ndrangheta documenta come la criminalità organizzata calabrese sia l’unica a essere presente nei cinque continenti del pianeta. E per presenza, non si intende certo una presenza sporadica o silente. Nei territori di tutto il globo, la ‘ndrangheta riesce a fare affari prettamente illeciti, quali il traffico di droga e di armi. Ma anche a inquinare l’economia apparentemente legale, con il riciclaggio in settori quali l’edilizia, la ristorazione, le strutture ricettive o il gioco d’azzardo. In alcuni luoghi riescono a eleggere anche i sindaci.
Alla conquista dell’Europa
Fu, soprattutto, la strage di Duisburg del Ferragosto 2007 a dimostrare la presenza pervasiva e pericolosa delle ‘ndrine nel cuore dell’Europa. Ma nel Vecchio Continente, la ‘ndrangheta faceva affari da diversi anni. Sfruttando anche una legislazione in larga parte inadeguata a contrastarla. Numerosi Paesi europei continuano infatti a fare ostruzionismo rispetto alle richieste di Strasburgo, che da oltre un decennio chiede di estendere ai Paesi membri il reato di associazione mafiosa, per poter contrastare le mafie in maniera globale. E non sono bastate nemmeno le pressanti richieste di Europol ed Eurojust.
La ‘ndrangheta è presente sostanzialmente nei principali Paesi dell’Unione Europea. A partire dalla Germania della strage di Duisburg. A Singen, la polizia tedesca è riuscita anche a intercettare la riunione di un locale, che si svolgeva con le medesime modalità della casa madre calabrese. Il Baden-Württemberg come se fosse Platì o Isola Capo Rizzuto. E poi la Francia, dove, da sempre, sono di casa alcuni dei clan più importanti. Si pensi ai De Stefano e alla loro colonizzazione di Antibes, in Costa Azzurra. Ma anche la Spagna, dove, negli anni, hanno trovato rifugio numerosi importanti latitanti. Da ultimo, l’arresto del boss Domenico Paviglianiti, catturato ad agosto a Madrid.
Il porto di Rotterdam
Giacomo Ubaldo Lauro negli anni ’70 e ’80 era un boss di primissimo livello della ‘ndrangheta. Poi, divenuto collaboratore di giustizia, ha raccontato di come, già oltre quarant’anni fa, smerciasse chili di droga nei Paesi Bassi. Proprio lì, dove le cosche sono riuscite a infiltrare anche il mercato dei fiori, vero vanto dello Stato frugale. Rotterdam e Anversa, del resto, sono da sempre porti aperti per le ‘ndrine. Esattamente come se ci trovassimo a Gioia Tauro. «L’uso sempre maggiore di spedizioni tramite container che fanno affidamento ai porti ad alto traffico di Anversa, Rotterdam e Amburgo hanno consolidato il ruolo dell’Olanda come punto di transito», si legge nel recente rapporto stilato sui traffici di droga dall’Europol.
Il rapporto “Cocaine Insights” dell’Europol specifica inoltre come lo scorso anno, i sequestri complessivi di cocaina ad Anversa siano stati pari a 65,6 tonnellate. Le cosche egemoni sono proprio quelle che, da anni, controllano il territorio calabrese. Dai Bellocco di Rosarno, ai Nirta-Strangio di San Luca.
Il Regno Unito
Discorso a parte merita il Regno Unito. Lì, in maniera per adesso molto sottovalutata, le mafie riciclano miliardi e miliardi di sterline. Nella City di Londra, cuore pulsante della Borsa, broker della ‘ndrangheta si muovono già da anni. In maniera piuttosto incontrollata. «Il Regno Unito rappresenta da sempre, per la criminalità mafiosa, un’area di interesse per riciclare denaro, utilizzando società finanziarie e attività imprenditoriali» scrive la DIA in una recente relazione semestrale.
La City di Londra
«Dalla Brexit un assist per le mafie» diceva qualche anno fa il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Un rapporto del 2019 della National Crime Agency britannica sosteneva che ben 100 miliardi di euro di capitali illeciti venissero “lavati” nella City di Londra.
Le inchieste “Vello d’oro” e “Martingala”, condotte congiuntamente dalle Dda di Firenze e Reggio Calabria avrebbero aperto degli squarci di luce. Attraverso società cartiere nel Regno Unito e in altri Paesi, le cosche realizzavano attività di riciclaggio e di reimpiego di capitali illeciti.
Le “zone franche”
Spostandoci verso Est, il barbaro omicidio del giornalista Jan Kuciak ha dimostrato come i gruppi calabresi fossero molto forti e radicati in Slovacchia. Il giornalista stava proprio indagando sugli affari di alcuni imprenditori della provincia di Reggio Calabria, i Vadalà, e su alcuni incroci pericolosi con la politica nazionale. In luoghi del genere, la ‘ndrangheta continua ancora a muoversi con grande disinvoltura.
In questi luoghi, prevalentemente le cosche riciclano denaro. Proprio grazie a queste relazioni oscure con il potere. Le attività predominanti sono quelle dell’edilizia e della ristorazione. Ma anche quelle dei vizi: e, quindi, le strutture ricettive di fascia alta, le rivendite di auto di lusso, il giro di prostituzione. Una nuova frontiera, recentemente documentata, è quella della formazione, con gli interessi nella gestione di corsi per il conseguimento di attestati professionali e di studio.
All’interno del Vecchio Continente vi sono, notoriamente, alcune nazioni che sono dei veri e propri “porti franchi” per gli affari delle cosche. È il caso di Malta. Nella piccola isola britannica, le cosche riciclano denaro e sono assai attive, soprattutto con riferimento al gioco d’azzardo. Sono le indagini “Gambling” e “Galassia” a fotografare la situazione di un Paese che spesso si gira dall’altra parte. E che permette ancora eclatanti omicidi, come quello della giornalista Daphne Caruana Galizia. Nel Lussemburgo, poi, le cosche della Locride avrebbero messo in piedi già da tempo una fitta rete per gestire il riciclaggio di denaro sporco.
Il Medio Oriente
E poi ci sono i corridoi e i canali tradizionali. Traffico di hashish ed eroina che riguarda anche la Grecia, rotta di passaggio verso le coltivazioni di papavero del Medio Oriente. Ma anche i rapporti con i gruppi criminali dei Balcani per quanto concerne il traffico di droga e armi. Recentemente, l’ha dimostrato l’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria. All’inizio dell’anno è stato anche estradato in Italia Ardjan Cekini, considerato il referente dei Bellocco nei Balcani.
Ruolo sempre crescente, poi, quello degli albanesi nel mercato della droga. Come testimonia, peraltro, il rapporto stilato dall’Europol. Ma, assicurano gli inquirenti, non si può parlare di una perdita del monopolio da parte delle ‘ndrine, ma di una maggiore forza degli albanesi (rispetto ad altri gruppi) di dialogare con la ‘ndrangheta per questo tipo di business.
Già da metà degli anni ’90, inoltre, è noto il ruolo del consulente finanziario Sebastiano Saia. Costui sarebbe, da sempre, uomo di riferimento di uno dei più grandi narcotrafficanti della storia, Pasqualino Marando. Conosciuto in tutto il mondo, Marando sarebbe riuscito a entrare in contatto con il broker turco della droga, Paul Waridel, proprio grazie a Saia. Così, dunque, Marando avrebbe allargato i propri orizzonti. Già in quel periodo smerciava droga non solo in Sud America, ma anche in Medio Oriente, grazie ai rapporti con la famiglia pakistana Hafeez.
Saia, catanese, capace di relazionarsi con mondi diversi anche grazie al suo basso profilo. Una vita da romanzo, sparsa in giro per il globo. Nel corso degli anni, verrà catturato anche a Londra. Tra il 2015 e il 2016 si sposta prima in Turchia e poi in Grecia dove viene arrestato ancora una volta per truffe internazionali. Scagionato totalmente nel 2018, fa perdere le sue tracce.
L’America
Scomparso nel 2001 nell’ambito della faida di Platì, Pasqualino Marando avrebbe per anni fatto affari di droga con tutto il Sud America. Insieme a Bruno Pizzata, ma, soprattutto, a Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, sono considerati i più grandi broker del narcotraffico di tutti i tempi. Ma l’elenco potrebbe essere pressoché infinito. È recentemente venuta a galla, con catture e fughe rocambolesche, la caratura criminale del boss Rocco Morabito, detto “Tamunga”, divenuto signore incontrastato in Uruguay dalla nativa Locride.
L’arresto di Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, in Colombia
In generale, le cosche di ‘ndrangheta, da sempre, dialogano da pari a pari con i cartelli della droga del Sud America. Dalla Colombia al Messico, passando per il Brasile. Ma non c’è Stato latinoamericano in cui le ‘ndrine non abbiano messo radici. Gli uomini di ‘ndrangheta sono considerati infatti i più affidabili. Anche per l’esiguo numero di collaboratori di giustizia al proprio interno. Grazie a questo ermetismo e alla enorme liquidità economica, le ‘ndrine hanno scalzato nei rapporti di forza Cosa Nostra. Che, invece, fino agli ’80 faceva la parte del leone.
Situazione simile anche negli Stati Uniti. Dove ormai Cosa Nostra recita un ruolo più marginale rispetto al passato. Scrive la DIA in un suo rapporto: «Non ultimo, avrebbe concorso a questo ridimensionamento anche la pressione esercitata da altre organizzazioni per il controllo del territorio, in particolare della ‘ndrangheta, che si starebbe sostituendo ai rivali siciliani nel controllo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. Allo stesso tempo, la ’ndrangheta sarebbe altrettanto attiva nel riciclaggio e nel reimpiego di capitali illeciti».
Il Nuovo Mondo, del resto, è quello che, forse, nasconde meno segreti sull’infiltrazione delle cosche sul territorio. Vecchi ormai quasi di un secolo i rapporti tra la ‘ndrangheta e le famiglie mafiose emigrate oltreoceano. Secondo quanto messo nero su bianco dalla DIA, negli ultimi anni le cosche della Locride sarebbero in grande espansione soprattutto nello stato di New York e in Florida.
Negli ultimi anni sono state in particolare le operazioni “New Bridge” e “Columbus” a dimostrare la pervasività delle ‘ndrine sul territorio a stelle e strisce. A essere colpite, tra le altre, le cosche Ursino, Morabito in contatto la storica famiglia mafiosa dei Gambino e sempre alla ricerca di nuove alleanze per il traffico di droga. Era un ristorante del Queens, a New York, la base operativa delle cosche. Il ristorante era gestito da un calabrese incensurato, Gregorio Gigliotti, originario di Serrastretta, nel Catanzarese. Un business, quello di cocaina (soprattutto) in cui erano coinvolti anche gli Alvaro, che avevano allargato gli orizzonti fino al Costa Rica.
E poi c’è il Canada. In principio fu il “Siderno Group of Crime”. Decenni fa, ormai, i Commisso, storica cosca sidernese, spostarono molti dei propri interessi nel Paese dell’acero. Il meccanismo è sempre quello della riproduzione delle dinamiche locali su territori lontani. Le locali di ‘ndrangheta canadesi fornivano appoggi funzionali alla “casa madre”, per trafficare droga e riciclare denaro. In particolare, i carichi di cocaina prodotta in Colombia viaggiano attraverso il Venezuela. Per arrivare poi negli USA e in Canada. Tutte dinamiche cristallizzate nell’inchiesta “Crimine 2”, ma anche “Acero Connection-Krupy” e “Typograph–Acero bis”.
La ‘Ndrangheta in Africa
Terzo Mondo a chi? Anche l’Africa è un territorio in grande crescita per quanto concerne gli interessi di tipo ‘ndranghetista. Già nell’inchiesta “Igres” emerse il ruolo del narcos Vito Bigione, uomo potentissimo in Namibia, capace di svolgere il ruolo di anello di congiunzione tra narcos sudamericani, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Parliamo di fatti avvenuti tra il 2001 e il 2002. Quindi, sostanzialmente, vent’anni fa.
Ancor prima, il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, “santista” della Locride, aveva reso importanti dichiarazioni sui traffici di armi, ma, soprattutto, di rifiuti tossici e radioattivi tra Italia e Somalia. Siamo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 quando la ‘ndrangheta avrebbe avuto un ruolo importante. Tutto si incastra nel periodo della missione umanitaria “Restore Hope”. Vicende inquietanti, di intrighi internazionali, che si intrecciano anche con l’uccisione dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. E con la morte sospetta del capitano di corvetta, Natale De Grazia, ufficiale della Marina Militare di Reggio Calabria, morto in circostanze sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
Negli anni gli affari si sono evoluti e anche i territori diversificati. Vi sono per esempio tracce importanti degli affari della ‘ndrangheta in Costa d’Avorio. Un’inchiesta di IRPI (Investigative Reporting Project Italy) dimostrò come il potente imprenditore dei rifiuti nel Lazio, Manlio Cerroni, si muovesse molto bene tra Senegal e Costa d’Avorio. Luoghi dove, ulteriormente crescente era ed è il ruolo dei calabresi. Appena pochi mesi fa, a maggio, tre persone sono state arrestate su mandato della Procura della Repubblica di Locri. L’accusa è quella di corruzione internazionale nei confronti di funzionari della Costa d’Avorio e trasferimento fraudolento di valori. L’ipotesi investigativa è quella che tutto potesse celare un interesse delle cosche nell’estrazione dell’oro. Dietro le compagini societarie ricostruite dagli inquirenti, infatti, troverebbe posto anche un soggetto considerato contiguo ai Marando di Platì.
Recentemente, inoltre, alcuni collaboratori di giustizia hanno anche parlato dell’interesse della ‘ndrangheta per il coltan, che viene estratto in ingenti quantità nella Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di un minerale preziosissimo, fondamentale, come è noto, per la fabbricazione dei cellulari.
L’Asia e l’Oceania
Ovviamente, tali, enormi, disponibilità finanziarie trovano spessissimo sponda importante in territori incontrollati o paradisi fiscali, quali Cipro, Singapore, Panama, Nuova Zelanda, Bahamas, Svizzera, Spagna, Austria. O, ancora, a Dubai, Isola di Man, Cayman e Seychelles. Non è un caso, infatti, che l’ex deputato di Forza Italia, Amedeo Matacena, considerato vicinissimo alle cosche, stia trascorrendo la propria latitanza dorata proprio a Dubai.
E questi affari portano direttamente anche alla collaborazione tra cosche calabresi e triadi cinesi. Difficile, quasi impossibile, ricostruire i rapporti dei clan in Paesi così chiusi. Governati da dittature o simil dittature. È il caso della Russia, per esempio. Ma anche, evidentemente della Cina. Gran parte del coltan, infatti, finisce sul territorio dello stato della Grande Muraglia. E lì le organizzazioni criminali si spartiscono gli ingenti profitti. Gruppi criminali agguerriti, in cui sarebbe riuscita a insinuarsi anche la ‘ndrangheta, per quanto concerne il mercato delle armi.
Ma la vera avanguardia sotto il profilo degli affari è Hong Kong. Lì, già dal 2014, vennero documentati gli affari del boss Giuseppe Pensabene, detto “Il Papa” del broker italo-svizzero Emanuele Sangiovanni. Secondo quanto emerso dalle indagini, in conti segreti di istituti finanziari della città-Stato asiatica sarebbero arrivati diversi milioni di euro appartenenti ai clan calabresi. C’è poi una recentissima indagine sul conto delle cosche crotonesi, in particolare sui clan Mannolo e Grande Aracri. Stando alle ricostruzioni della Guardia di Finanza, vi sarebbe anche un’operazione da circa 400mila euro effettuata tramite la filiale di Hong Kong della banca HSBC.
Oltre alle disponibilità economiche, la vera forza della ‘ndrangheta è rappresentata dalle relazioni. In tutti gli stati del mondo dove è presente e dove incide, può contare su una fitta rete di professionisti, di broker, insospettabili “colletti bianchi”. Una delle nazioni più emblematiche, da questo punto di vista, è l’Australia. Lì, attraverso l’immigrazione avvenuta negli scorsi decenni, la ‘ndrangheta è riuscita a ricreare quasi una seconda Calabria. Numerosi gli episodi criminali, anche fatti di sangue che celano la mano delle ‘ndrine. Nel 2016, per esempio, venne ucciso il boss Pasquale Barbaro. Non a San Luca. Né a Cetraro. Ma a Sidney.
Il boss Pasquale barbaro, ucciso a Sidney
In Australia, la ‘ndrangheta ha una forza così grande da riuscire anche a eleggere i politici. Un caso su tutti, quello di Domenico Antonio Vallelonga, per tutti Tony Vallelonga. Sindaco dal 1997 al 2005 della cittadina di Stirling, popoloso sobborgo di Perth, la capitale del Western Australia. Avrebbe rivestito un ruolo di vertice nel locale di appartenenza. È stato esponente di vari consigli regionali e presidente di importanti associazioni locali, di comitati comunitari e di alcune associazioni di cittadini italiani. Un recordman, eletto per ben quattro mandati. Anche con percentuali plebiscitarie. Originario di Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia, Vallelonga viene intercettato dai Carabinieri, all’interno della lavanderia “Ape Green”, centro nevralgico della cosca Commisso di Siderno.
Perché è proprio questo uno dei segreti che consente alla ‘ndrangheta di essere presente (e incidere) sui cinque continenti. Mai perdere il contatto con la “casa madre” calabrese.
Dalla vendetta a colpi di pistola a bordo di un vespino 50, alla strage di Natale; dall’attentato che lo costringe alla sedia a rotelle, fino alla follia sanguinaria di Duisburg. E in mezzo, evasioni, fughe all’estero e ricoveri sotto falso nome: la storia di Francesco Pelle, alias Ciccio Pakistan, riportato giovedì in Italia dopo il suo arresto in Portogallo, si lega a doppio filo con quella della faida di San Luca e chiude il cerchio, a 16 anni dall’eccidio tedesco, con una delle pagine più violente della storia criminale italiana.
Trenta anni di omicidi, agguati e lupare bianche sullo sfondo di un paese, San Luca, in ginocchio. Trenta anni in cui l’uomo che fu la causa scatenante della strage davanti al ristorante “da Bruno”, ha avuto il tempo di ritagliarsi un posto alla tavola di quelli che contano. Un posto guadagnato sul sangue di una faida senza fine, iniziata con quella che sembrava un’innocua bravata nel giorno di Carnevale del 1991, e terminata a Ferragosto del 2006 con i sei cadaveri di Duisburg.
Sangue caldo
Francesco Pelle è ancora un ragazzino quando entra in diretto contatto con le guerre di ‘ndrangheta. È il primo maggio del 1993 – il crimine organizzato calabrese lega da sempre le proprie azioni omicide con le giornate di festa – e San Luca è diventato un posto pericoloso già da due anni, con i primi morti della guerra sulla montagna. Durante la mattina del giorno dei lavoratori, in una stalla arroccata in una frazione montana, cadono sotto i colpi dei killer, Giuseppe Vottari e Vincenzo Puglisi, organici della potente cosca dei “Frunzu”, giustiziati da un commando degli storici rivali dei Nirta – Strangio.
Un agguato a cui sarebbe dovuto seguire una nuova azione degli alleati dei killer, con il “pattugliamento” del paese per frenare sul nascere ogni tentativo di reazione. Ma nei primi anni ’90 le comunicazioni possono essere un problema serio anche per gente organizzata e disposta a tutto, e la seconda parte del piano salta, favorendo l’immediata reazione delle famiglie dei Pelle – Vottari.
È una fonte confidenziale raccolta dai carabinieri di San Luca a indicare proprio l’allora giovanissimo Ciccio Pakistan come uno degli autori del commando che al doppio omicidio della mattina risponderà, nel primo pomeriggio, con gli omicidi di Giuseppe Pilia e Antonio Strangio, ammazzato nella propria auto il primo, freddato davanti alla sua macelleria in paese il secondo.
Secondo quell’anonimo informatore, Ciccio Pakistan avrebbe guidato l’assalto guidando una Vespa truccata. Mai formalmente accusato di quel doppio omicidio, Ciccio Pakistan, che a quei tempi è ancora un pesce piccolo ma dalle parentele (i Gambazza e i Vanchelli) pesantissime, sparisce dai radar, rifugiandosi in Germania. Un esilio volontario, alla maniera dei boss, che gli servirà per acquisire nuovi contatti.
Ammazzateli tutti
Le faide di ‘ndrangheta non sono guerre “normali”, a volte vanno in sonno, per poi riesplodere violentissime alla prima occasione. Nel caso della faida di San Luca l’elemento che riapre le ostilità è segnato dalla cattura di uno degli storici boss del crimine organizzato calabrese, Giuseppe Morabito “il tiradritto”, scovato dalle forze dell’ordine dopo una latitanza da guinness dei primati.
In seguito alla cattura del mammasantissima africoto, restano sul terreno Antonio Giorgi e Salvatore Favasulli. I due pezzi grossi delle ‘ndrine della montagna vengono uccisi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e segnano il passo per l’agguato che lascerà per tutta la vita su una carrozzina il nuovo boss dei Pelle.
In questo vortice impazzito di violenza folle, dove al sangue si risponde solo col sangue, Ciccio Pakistan viene colpito alla schiena da un commando di fuoco che ha sparato da lontano: «Mi hanno voluto fare il regalo per il bambino» dirà Pelle intercettato dai carabinieri nella sua stanza d’ospedale durante la degenza per i colpi subiti. Proprio quel giorno, il 31 luglio del 2006, il figlio neonato di Pelle era stato portato a casa, ad Africo, per la prima volta.
La strage di Natale e quella in Germania
Il clima a San Luca è pesante come non mai in quei giorni, persino il ramo dei Pelle “Gambazza” tenta di mediare con il boss ferito per evitare nuovo sangue, ma senza risultato. Nel pomeriggio del giorno di Natale del 2006 infatti, un gruppo armato fino ai denti si presenta davanti al n. 150 di via Corrado Alvaro, a San Luca, la casa del boss Giuseppe Nirta, capocosca dei “Versu”. Sono decine i colpi esplosi che uccidono Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, vero obiettivo del commando di fuoco che intendeva vendicare il ferimento di Pakistan, e feriscono in modo grave altre tre persone, tra un cui un bambino di 4 anni.
Sarà proprio la strage di Natale a costare la condanna a fine pena mai per il boss di San Luca, che di quell’azione è stato considerato il mandante. Passano pochi mesi, a San Luca si continua a morire (ma in quel periodo erano attive anche le faide tra i Cataldo e i Cordì a Locri e quella tra i Commisso e i Costa a Siderno) ma è in Germania che la vendetta assumerà i termini più tremendi. A Duisburg, duemila e passa chilometri dal paesino arroccato in Aspromonte, vengono trucidati in sei. A guidare il commando, Giovanni Strangio, giovane fratello della donna morta ammazzata pochi mesi prima. Sarà l’atto finale della faida della Montagna, una follia di violenza senza senso che oggi, con l’arrivo in manette a Ciampino di Ciccio Pakistan, può, forse, ritenersi definitivamente chiusa.
«Quello della pace è un discorso soggettivo, personale e sindacabile. E io, nonostante la pace, continuavo a covare rancore. Brusaferri aveva tentato di ammazzare mio zio Domenico, sono cose che non si dimenticano. Ma la guerra aveva portato tanti omicidi, tanti carcerati e nessun risultato, per questo mio zio Giuseppe Cataldo e il cognato dei Cordì, Vincenzo Cavaleri, siglarono la pace».
Camicia a righe, spalle alla telecamera e toni bassi, nelle prime dichiarazioni di Antonio Cataldo (il primo a portare quel nome così pesante a collaborare con la giustizia) emergono, tra montagne di omissis, spiragli di quella che fu una delle guerre di mafia più lunghe e feroci del crimine organizzato sul mandamento jonico.
Una guerra iniziata nel 1967 con la strage di piazza Mercato e poi congelata fino al 1993, quando una bomba a mano lanciata sull’auto in corsa di Giuseppe Cataldo – uscito praticamente incolume assieme alla moglie dalla carcasse fumante dell’utilitaria Fiat ormai distrutta – riaccese gli animi, in una Babele di violenza che insanguinerà le strade di Locri per quasi un ventennio.
Il fuoco sotto la cenere
Nel racconto di Cataldo, poco più di un underdog del narcotraffico ma dal nome pesantissimo, una vita passata tra il carcere e lalatitanza e un presente da “appestato” rincorso «dagli amici e dai nemici», viene fuori uno spaccato inedito sulla pace tra i due clan santificata sull’altare degli affari: una pace che frena la violenza ma conserva il rancore. «Seppi della pace da mia zia Teresa che mi portava in carcere una ambasciata di mio zio. Quel giorno mi disse: da ora, saluta tutti». Forma e sostanza, come da tradizione ‘ndranghetistica, si fondono assieme e quel saluto, prima negato, agli esponenti della cosca rivale dei Cordì rinchiusi nello stesso carcere, sugella l’accordo che pone fine alla mattanza.
«Da quel giorno ho iniziato a salutare i Cordì e a parlare con loro. Ho parlato anche con Guido Brusaferri – nipote dei mammasantissima Cosimo e Antonio Cordì – eravamo in carcere a Reggio Calabria ma gli ho parlato un paio di volte, nonostante la pace ed i buoni rapporti, io li consideravo comunque nemici: sono loro che hanno fatto uccidere mio fratello e mio zio. Brusaferri mi aveva invitato al pranzo di Natale in cui c’erano i locresi e io non sono andato. Dopo l’attentato a mio zio, mio fratello era uscito di casa con la pistola per vendicarsi proprio su Guido Brusaferri che nell’agguato aveva avuto sicuramente un ruolo, ma poi non fece niente perché qualcuno lo avvisò e non riuscì a trovarlo».
L’attentato
Ma se sotto la cenere il fuoco continua a bruciare, la pace ritrovata consente lo scambio di informazioni. Ed è durante una passeggiata «all’aria» nel carcere di Reggio che Cataldo raccoglie dall’antico nemico Brusaferri, la confidenza sull’idea maturata nella locale locrese, di un attentato al figlio del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.
«Eravamo all’aria con Brusaferri che mi disse che tutta quella storia della guerra era stata uno sbaglio e poi mi ha raccontato il fatto di Gratteri. Era il periodo che si diceva che Gratteri sarebbe potuto diventare ministro della Giustizia e tutti ne parlavano in carcere. I detenuti erano terrorizzati dall’idea che Gratteri diventasse ministro della giustizia. Lui è uno che la ‘ndrangheta la conosce ed è un uomo severo: tutti temevano leggi ancora più severe. Brusaferri mi disse: “deve sembrare una disgrazia, se lo fanno ministro simuleremo un incidente con il motorino”». Vittima designata, il figlio del magistrato di Gerace, da 30 anni ormai sotto scorta. Una circostanza che Cataldo aveva già raccontato agli investigatori e che poi aveva ritrattato ma che per fortuna di Gratteri e suo figlio non è mai stata portata a compimento.
Mi cercano tutti
La nuova collaborazione di Cataldo – che con i magistrati aveva iniziato a parlare già nel 2013, ritrattando poi in aula le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti durante gli interrogatori «perché avevo deciso di farmi i fatti miei» – riprende solo all’inizio di questa estate. Abbandonato dalla moglie e dalla famiglia «quando sono uscito dal carcere sono andato a casa di mia madre ma la mia famiglia non mi voleva e le mie sorelle chiamarono i carabinieri per farmi andare via», rimasto senza un soldo e guardato come un paria dai vecchi compari, è lo stesso Cataldo a raccontare i motivi della sua decisione di collaborare con la giustizia.
«Nelle carte di un’operazione erano uscite delle intercettazioni in cui io facevo commenti su mio cugino e su Vincenzo Cordì. Temevo per la mia vita, in quei giorni mi cercavano con insistenza in tanti sia tra i miei parenti Cataldo sia tra gli uomini delle cosche avverse dei Cordì e dei Floccari». Ed è la paura per quello che potrebbe succedergli che spinge Cataldo a precipitarsi dai carabinieri della compagnia di Locri nella notte del sette giugno e a vuotare il sacco. Con gli investigatori dell’Arma, Cataldo parla per ore e ore, per poi ripetersi, nel pomeriggio, anche con i magistrati dell’Antimafia. Un racconto per ora coperto da numerosi omissis, ma che potrebbe fare luce su una delle pagine più oscure della storia criminale di Locri.
Mafie 2.0. Anzi, forse già 4.0. Presenti in tutto il mondo. Capaci di evolversi, di sfruttare le nuove emergenze e le nuove tecnologie. Ma, allo stesso tempo, anche colpite dall’azione repressiva delle forze dell’ordine. Emerge questo dalla Relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. Il report si riferisce al secondo semestre del 2020 e analizza le emergenze giudiziarie, ma anche sociali sui fenomeni mafiosi.
Le tante facce delle mafie
Il tratto caratteristico sottolineato dalla DIA è la capacità delle mafie di cambiare il proprio volto all’occorrenza. Senza perdere la propria forza intimidatrice di banda armata, la criminalità organizzata mostra però sempre di più il proprio volto “gentile”. Aspetto e comportamenti presentabili, per dialogare con mondi con cui non dovrebbe esserci alcun tipo di collegamento. Vale per tutte le mafie: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra. E la crescente Sacra Corona Unita, che, tra tutte, è quella che mantiene di più il proprio volto selvaggio e spietato. Ma il dato sottolineato dalla DIA è la tendenza a sostituire «l’uso della violenza, sempre più residuale, con linee d’azione di silente infiltrazione».
Il report della DIA riprende le indagini effettuate, lungo la Penisola, dalle Dda. E sempre con maggior forza le indagini rimarcano «l’attitudine delle ‘ndrine a relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti».
Particolare spazio è dedicato alla realtà criminale della Capitale. “Roma città aperta”, davvero. Ma nel senso che lì riescono a penetrare sostanzialmente tutte le mafie. Che poi dialogano, proficuamente, con la criminalità locale e con le organizzazioni criminali straniere. «A un livello più strategico – si legge nel documento – condotte violente quali omicidi, tentati omicidi o gambizzazioni possono risultare funzionali a orientare o persino deviare significativamente il corso delle relazioni delinquenziali (anche datate) delle alleanze ovvero degli equilibri spesso labili e comunque sempre soggetti al business contingente».
A Roma, mafia, camorra e ‘ndrangheta fanno affari e riciclano denaro. Forti della maggiore capacità di occultamento e mimetizzazione. «La mancanza di un’organizzazione egemone con cui fare i conti e di contro l’elevato potenzialità del capitale sociale del territorio (in termini di presenze criminali, rete di professionisti, esponenti istituzionali, amministratori pubblici, politici locali e nazionali) sono fattori che uniti alle emergenze originate dall’emergenza sanitaria da Covid-19 sicuramente possono favorire il reinvestimento dei capitali illeciti», segnala il documento di oltre 500 pagine.
Le mafie e il Covid
Più e meglio di chiunque, le mafie riescono a interpretare in anticipo i cambiamenti della società. E a sfruttare le emergenze. Di qualsiasi tipo. Si pensi alle infiltrazioni negli appalti dopo una catastrofe (su tutte, il terremoto de L’Aquila). Non fa eccezione, evidentemente, anche la pandemia da Coronavirus, che ha investito l’Italia e il mondo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ancora dalla relazione della DIA: «Il rischio di inquinamento dell’economia che è stato ulteriormente accentuato dallacrisi pandemica, nella capitale potrà comportare un ulteriore espansione delle condotte usurarie che potrebbero andare a intaccare non solo le piccole e medie imprese ma anche i singoli».
Ancora una volta, viene presa Roma come esempio di quanto possa avvenire, però su tutto il territorio nazionale. «Non sono tuttavia da sottacere quelle condotte violente opera di soggetti criminali emergenti che si presentano alla lente degli analisti e degli investigatori come funzionali alla conquista di porzioni di territorio per la gestione delle piazze di spaccio degli stupefacenti il cui approvvigionamento resta tendenzialmente appannaggio di camorra, ‘ndrangheta e in misura minore di cosa nostra con gruppi di criminalità straniera, in particolare albanese, che si stanno sempre più affermando nel settore».
I Calabresi aveva già effettuato un’inchiesta sulla capacità della ‘ndrangheta di sfruttare il welfare. Dai bonus spesa Covid, al Reddito di Cittadinanza. Una tendenza che adesso viene sottolineata anche dalla DIA. «La spregiudicata avidità della ‘Ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l’organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate». L’affermazione della DIA richiama diverse indagini che hanno visto personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: dalle famiglie Accorinti del Vibonese, a quelle crotonesi, come i Mannolo oppure i Pesce e i Bellocco di Rosarno. O alle famiglie di San Luca.
‘Ndrangheta regina del narcotraffico
Le analisi focalizzano la visione «globalista» della ‘ndrangheta. La relazione della DIA utilizza proprio questo termine per documentare come le ‘ndrine si siano stabilite in numerosi Paesi del mondo e siano capaci di dialogare da pari a pari con i produttori di droga dell’America Latina. La relazione censisce i gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonché in Australia, Stati Uniti e Canada.
San Giusto Canavese (Torino) e Lonate Palazzolo (Varese), Lona Lases (Trento) e Desio (Monza e Brianza), Lavagna (Genova) e Pioltello (Milano). Sono solo alcuni dei “locali” di ‘ndrangheta al nord. Luoghi lontani dalla “casa madre” calabrese, dove, comunque, le ‘ndrine avrebbero messo radici. La Direzione investigativa antimafia nella sua Relazione semestrale al Parlamento conta ben 46 “locali” nelle regioni settentrionali. Sono25 in Lombardia, 14 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige.
Ritorna quindi il concetto di holding, capace di ripulire gli enormi capitali illeciti, frutto dei traffici di droga. Proprio nel mercato della droga, la ‘ndrangheta continua a essere leader a livello internazionale. Una visione, quella della DIA, che va a cozzare con quanto messo nero su bianco pochi giorni fa dall’Europol. Che, invece, dava un ruolo in grande crescita alle organizzazioni criminali albanesi.
«Non più impermeabile»
Un aspetto molto importante sotto il profilo investigativo ma, forse, anche sociale è quello che la DIA rileva sul fenomeno delle collaborazioni con la giustizia. Il “pentitismo” da cui, per tantissimo tempo, la ‘ndrangheta è rimasta pressoché immune. Si legge nella Relazione Semestrale: «Non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all’omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell’organizzazione mafiosa».
Le indagini, evidenzia la Relazione, danno conto «dell’ampio e pressoché inedito squarcio determinato dall’avvento sulla scena giudiziaria di un numero sempre più elevato di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia». E anche «esponenti di primo piano hanno scelto di rompere il silenzio».
‘Ndrangheta e “colletti bianchi”
Il timore è quello di sempre. La conquista di ampie fette di mercato da parte delle cosche. «Le ‘ndrine – si legge nel documento – potrebbero intercettare i vantaggi e approfittare delle opportunità offerte proprio dalle ripercussioni originate dall’emergenza sanitaria, diversificando gli investimenti secondo la logica della massimizzazione dei profitti e orientandoli verso contesti in forte sofferenza finanziaria”.
In particolare, «secondo un modello collaudato, la criminalità organizzata calabrese persisterebbe nel tentativo di accreditarsi presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale, nel verosimile intento di subentrare negli asset proprietari e nelle governance aziendali al duplice scopo di riciclare le proprie disponibilità di illecita provenienza e inquinare l’economia legale impadronendosi di campi produttivi sempre più ampi».
La relazione semestrale della Dia
Anche i settori commerciali di interesse sono quelli di sempre: dalle costruzioni agli autotrasporti, passando per la raccolta di materiali inerti. E poi, ancora, ristorazione, gestione di impianti sportivi e strutture alberghiere, commercio al dettaglio. E, ovviamente, il settore sanitario. «Si registrano nel settore del contrabbando di prodotti energetici (oli lubrificanti ed oli base) in virtù dei notevoli vantaggi economici derivanti dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti a prezzi sensibilmente più bassi di quelli praticati dalle compagnie petrolifere», scrive ancora la DIA. Eccola la sinergia tra mafie e colletti bianchi: «Incaricati di curare le importazioni di carbo-lubrificanti dai Paesi dell’Est Europa, gestire la distribuzione dei prodotti sull’intero territorio nazionale attraverso società-filtro create ad hoc per attestare attraverso falsa documentazione il fittizio assolvimento degli adempimenti tributari e in tal modo riciclare i capitali di provenienza illecita messi a disposizione dai sodalizi mafiosi».
«La ‘Ndrangheta esprime un sempre più elevato livello di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale, ricavandone indebiti vantaggi nella concessione di appalti e commesse pubbliche». Perché, oltre alla smisurata capacità economica, la vera forza della ‘ndrangheta, sono le relazioni. Quelle che le permettono di entrare nei palazzi del potere, di dialogare con mondi (anche occulti) con cui sarebbe dovuta entrare in contatto: «Grazie alla diffusa corruttela vengono condizionate le dinamiche relazionali con gli enti locali sino a controllarne le scelte, pertanto inquinando la gestione della cosa pubblica e talvolta alterando le competizioni elettorali».
Le criptovalute
Proprio grazie ai professionisti al proprio servizio, le cosche riescono anche a cogliere e interpretare le varie opportunità offerte della globalizzazione. «Avvalendosi sempre più delle possibilità offerte dalla tecnologia si orientano verso i settori del gioco d’azzardo (gaming) e delle scommesse (betting) nei quali imprenditori riconducili alla criminalità organizzata, e grazie alla costituzione di società sedenti nei paradisi fiscali, creano un circuito parallelo a quello legale che consente di ottenere notevoli guadagni e in particolare di riciclare in maniera anonima cospicue quantità di denaro».
Denari che poi si muovono in giro per l’Europa e per il mondo. Sia nel Vecchio Continente, con Svizzera, Lussemburgo e Malta. Sia in altre zone del pianeta, come Dubai, Seychelles, Hong Kong, sono disseminati paradisi fiscali o, comunque “zone franche”. Dove la ‘ndrangheta opera finanziariamente in maniera pressoché incontrollata. E nella gestione dei suoi business ricorre sempre più spesso «a pagamenti con criptovalute quali i Bitcoin e più recentemente il Monero, che non consentono tracciamento e sfuggono al monitoraggio bancario».
Ecco la ‘ndrangheta 2.0. Che corre veloce, però. Quindi, forse, è già ‘ndrangheta 4.0.
Comunicavano solo in forma scritta e con un sofisticato codice numerico. E così riuscivano a scambiarsi le informazioni necessarie per inondare poi l’Europa di droga. Cocaina, soprattutto. Ma non solo. Per questo l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria si chiama “Crypto”. Perché non è stato affatto semplice per i militari della Guardia di Finanza decifrare le stringhe numeriche che, di volta in volta, i membri dell’organizzazione transnazionale si scambiavano per concordare carichi e cifre del business illecito.
Come nasce l’inchiesta
Sono 57 gli arrestati tra persone finite in carcere e altre agli arresti domiciliari. Accusati di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. L’operazione è stata eseguita tra Calabria, Sicilia, Piemonte, Puglia, Campania, Lombardia e Valle d’Aosta. Contestualmente, i finanzieri hanno dato esecuzione al sequestro preventivo d’urgenza di beni, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Per un valore complessivo stimato in 3.767.400,00 euro.
Uno degli immobili sequestrati nell’operazione Crypto
Un’inchiesta che prende le mosse da un altro blitz di qualche anno fa: l’operazione “Gerry” consentì nel 2017 di sgominare una complessa consorteria criminale, composta da soggetti di vertice delle ‘ndrine Molé-Piromalli e Pesce-Bellocco. Operanti, rispettivamente, a Gioia Tauro e Rosarno.
Il lussuoso bagno di una delle case finite tra i beni sotto sequestro
In particolare, nell’ambito della operazione “Jerry” si identificavano gli usuari di utenze ritenute di fondamentale importanza per l’accertamento di un nuovo e diverso fenomeno criminale di rilevante spessore in tema di traffico organizzato di sostanze stupefacenti. Dall’analisi di queste utenze “coperte”, è nata l’inchiesta “Crypto”.
L’organizzazione transnazionale
Sono in tutto 93 i soggetti indagati appartenenti alle famiglie Pesce e Bellocco. Riconducibili alle famiglie Cacciola-Certo-Pronestì, che avevano messo in atto una ramificata organizzazione criminale transazionale volta al traffico di stupefacenti. Caratterizzata da marcati profili operativi internazionali, capace di pianificare ingenti importazioni di cocaina dal Nord Europa (Olanda, Germania, Belgio) nonché dalla Spagna e di “piazzarla” in buona parte delle regioni italiane: Lombardia, Piemonte, Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia ed Emilia Romagna. Ma anche all’estero, come Malta.
Il modus operandi dell’associazione consisteva nel reperire lo stupefacente dai paesi fornitori. Da lì veniva trasportato a Rosarno, via terra, occultato in autovetture appositamente predisposte e con improbabili “doppifondi”. E successivamente, grazie alla vasta ramificazione dell’organizzazione criminale, venivano rifornite molteplici “piazze di spaccio” italiane.
L’uomo della Dominica
Il gruppo criminale operava a stretto contatto con un cittadino della Repubblica Dominicana, Humberto Alexander Alcantara. Questi tramite la sua attività d’intermediazione, assicurava contatti diretti con fornitori sudamericani stabilitisi in varie parti d’Europa. In Germania, poi, operava anche Domenico Tedesco, residente ad Hattersheim (Germania). Costui forniva appoggio logistico quando i referenti dell’organizzazione si recavano in territorio tedesco. Altro aspetto fondamentale dell’indagine è nei rapporti instauratisi con altre consorterie criminali, in special modo in Calabria e in Sicilia. Tra i gruppi criminali importante era quello del Torinese, che faceva capo a Vincenzo Raso, originario di Rosarno, ma stabilitosi lì. Particolarmente intensi, poi, i rapporti con la città di Catania, grazie a Francesco Cambria, esponente di spicco del “Clan Cappello”. Ma la rete comprendeva anche le città di Siracusa, Benevento e Milano.
È indicativa (e inedita), la creazione di una rotta per far giungere la cocaina anche in territorio maltese. Più nello specifico, nel febbraio 2018, Ivan Meo (soggetto vicino al clan Cappello) e due soggetti non identificati, che facevano da “staffetta”, si recavano, via mare, da Pozzallo a Malta. Lì consegnavano sostanze stupefacenti e, come provento della cessione, Meo riportava in Italia circa 50mila euro, che venivano sequestrati. Le indagini hanno dimostrato, poi, che tra i rosarnesi e le altre associazioni criminali si era creata una vera e propria sinergia. Sebbene nella quasi totalità dei casi le ingenti partite di narcotico partissero dalla Calabria per approvvigionare i vari acquirenti. Quest’ultimi, in alcuni casi, “ricambiavano il favore” provvedendo a rifornire di stupefacente gli stessi rosarnesi. O rifornendo un altro gruppo mediante l’intermediazione degli stessi.
Le comunicazioni criptate
I soggetti, deputati alla pianificazione delle importazioni e al successivo smistamento della droga sul territorio nazionale, operavano in un’ottica prettamente aziendale, che poteva contare sull’utilizzo di SIM tedesche. Ma anche sulla possibilità di recuperare e modificare ad hoc numerose autovetture. Dotate di complicatissimi doppifondi, così da renderle praticamente “impermeabili” ai normali controlli su strada da parte delle Forze di Polizia.
Le indagini hanno cristallizzato l’uso della consorteria di numerose SIM tedesche che, da Rosarno, comunicavano in maniera “citofonica” con altri cellulari con numerazione tedesca sparsi sul territorio nazionale. Per “citofonica” si intende una comunicazione unicamente bidirezionale. Molto difficile, quindi, da essere individuata. Con la decriptazione di tale messaggistica, è stato possibile trarre significative indicazioni sul modus operandi.
Queste SIM senza intestatari rendevano ancor più difficile l’identificazione degli usuari delle diverse utenze. Inoltre, gli indagati comunicavano esclusivamente tramite SMS, evitando che potesse palesarsi la loro voce.Tutto per evitare un eventuale riconoscimento. E spesso utilizzando un molteplice livello di “protezione” costituito da messaggi contenenti codici numerici predefiniti. A ogni lettera dell’alfabeto corrispondeva un numero, assegnato apparentemente senza logica alcuna. Molto complicato, quindi, individuare la “parola 0”, da cui poi tentare di decifrare tutto il resto.
Un fiume di droga
L’inchiesta della Guardia di Finanza ha permesso di arrestare 10 corrieri della droga e di sequestrare circa 80 kg di cocaina, che una volta immessa in commercio avrebbe fruttato all’organizzazione più di 4 milioni di euro. Sequestrati poi svariati chili tra marijuana ed hashish. Inoltre, dall’attività d’indagine è emerso che, tra l’aprile e il novembre del 2018, l’organizzazione criminale ha movimentato, oltre a quelli sequestrati, altri 140 kg di cocaina. Insomma, quella individuata è solo una minima parte dei flussi controllati dalla ‘ndrangheta.
Il pizzino
Nel corso della conferenza stampa di stamattina il procuratore capo Giovanni Bombardieri ha spiegato i problemi incontrati nel corso dell’indagine. «L’interpretazione di questo codice e’ stata davvero molto difficoltosa. Si trattava di messaggi che recavano solamente dei numeri senza nessuna indicazione o punteggiatura. Grazie all’abilità degli investigatori è stato possibile dare un significato a questi numeri, che peraltro oggi hanno trovato riscontro in un pizzino, sequestrato, riportante il codice attraverso cui i numeri vengono abbinati alle lettere».
I procuratori Paci, Bombardieri e Lombardo insieme agli ufficiali della Guardia di Finanza in conferenza stampa
A fornire ulteriori dettagli i due aggiunti Giuseppe Lombardo e Gaetano Paci. «L’operazione “Jerry” aveva già ricostruito un quadro del narcotraffico internazionale. In quella prima esecuzione erano emerse due utenze criptate che erano state lasciate da parte per poi tornare nell’odierna indagine», le parole di Lombardo. «Il fatto che sia un’indagine per narcotraffico non deve sminuire il senso perché si tratta di indagini che richiedono un approccio e un contrasto di livello molto elevato anche a fronte dei mezzi di natura tecnologica utilizzati», il commento di Paci.
I soggetti per cui è stata disposta la custodia cautelare sono:
Dai pizzini da distruggere appena letti ai moderni criptofonini in grado di blindare messaggi e telefonate da occhi indiscreti: archiviato inevitabilmente come obsoleto il “metodo Provenzano”, boss e narcos hanno cavalcato le nuove tecnologie nel tentativo di schermare le proprie conversazioni, in una corsa a perdifiato lungo le nuove strade della crittografia tecnologica che alza continuamente l’asticella della privacy a tutti i costi.
E in questa gara, giocata sempre sul labile confine tra ciò che è (ancora) legale e ciò che non lo è più, le organizzazioni criminali di mezzo pianeta hanno svolto un ruolo di primo piano, risultandone da sempre tra i massimi fruitori. Nella corsa all’ultimo ritrovato della tecnologia, il crimine organizzato calabrese si è ritagliato un posto in prima fila, ennesima dimostrazione che “coppole storte” e “fiori” da elargire sull’altare di antichi rituali, vanno tranquillamente di pari passo con server occulti e cloud inviolabili.
Le origini
In principio fu la Pretty Good Privacy, una tecnologia ideata da un matematico statunitense che, in un mondo ormai sempre più aperto, proponeva un nuovo modo di nascondere le proprie conversazioni. Una rivoluzione vera e propria, rimasta alla base delle attuali tecnologie di messaggistica, che finì col costare a Phil Zimmermann anche un’indagine delle autorità federali statunitensi durata tre anni prima di essere archiviata. Quello fu il punto di partenza. Da quel giorno nel 1991 molto è cambiato, meno la lotta tra chi vuole tenere segrete le proprie conversazioni e chi invece – Dea, Dda, Interpol in testa – lavora per scardinarle.
Phil Zimmermann
All’alba del nuovo millennio, quando ancora gli smartphone erano privilegio per pochi, furono i Blackberry a venire utilizzati per nascondere i messaggi agli investigatori. Nelle operazioni delle distrettuali antimafia dei primi anni 2000 infatti, sempre più spesso, i narcos – piccoli e grandi – venivano trovati muniti dei telefonini della multinazionale canadese, oggetti allora decisamente costosi.
Da Apple a Ecc
Nelle chat che si credeva inviolabili gli inquirenti, una volta trovata la “chiave”, scovavano conversazioni scottanti e numeri e contatti poi utilizzati per ricostruire l’organizzazione criminale che se ne serviva. Poi, dal 2014, sul mercato sbarcò il sistema crittografico utilizzato dagli iPhone che portò l’asticella ancora più in alto. E così come successo pochi anni prima, nelle retate delle forze dell’ordine sempre più spesso grossi calibri e piccoli underdog dello spaccio venivano pizzicati con decine di telefonini marcati Cupertino.
Ma anche questa rivoluzione durò poco. E le “armi” messe in campo dagli inquirenti – spyware in testa – portarono ad un nuovo salto verso livelli crittografici ancora più complessi e difficili da decifrare. Un salto che porta direttamente alla Ecc, acronimo che sta per elliptical curve cryptography, un particolare tipo di sistema crittografico che rende ancora più complesso il lavoro delle forze dell’ordine. Un sistema che, ovviamente, è stato immediatamente adottato anche dalle consorterie di ‘ndrangheta, da tempo ormai al vertice dei traffici mondiali di stupefacenti. Come nel caso dei due giovani narcos di Natile di Careri fermati a Locri nella primavera scorsa per un normale controllo e sorpresi con un carico di 17 chili di cocaina pronta per essere immessa sul mercato.
La Locride come il New Mexico
Le successive perquisizioni dei carabinieri in uno dei paesi più poveri d’Europa consentirono il ritrovamento di una montagna di denaro. Dentro alcuni bidoni a tenuta stagna interrati nel giardino di casa, in una rivisitazione casereccia di una delle scene più iconiche di Breaking Bad, i militari trovarono infatti quasi sei milioni di euro divisi ordinatamente per taglio. Nascosti vicino ai bidoni poi, i militari trovarono una ventina di telefonini modificati dalla Skyecc, una multinazionale canadese, con la tecnologia Ecc, impossibili da decriptare. Erano stati acquistati online e inviati nella Locride direttamente dal Sud Africa e da Algeria e Tunisia. Lo stesso tipo di telefonini “truccati” che i carabinieri di Roma trovarono durante un blitz alla Rustica, quadrante est della Capitale, qualche settimana più tardi.
https://www.youtube.com/watch?v=OjGj_pW4Cvg
Anche in quell’occasione i narcos erano giovani, incensurati e tutti originari della Locride. E anche in quell’occasione, oltre al sequestro di quasi sei chili di cocaina arrivata in Italia direttamente dal Perù, gli inquirenti si trovarono di fronte a numerosi criptofonini. La gang li utilizzava per trattare i movimenti della droga su un asse che riusciva ad estendersi dal centro e sud America fino alla Turchia e all’Albania. All’interno dei device sequestrati dalle forze dell’ordine, la chiave per ricostruire i movimenti delle nuove leve del clan – tutti giovanissimi, tutti incensurati – sono rimasti a lungo lettera morta.
Il mercato si evolve
Poi storia di poche settimane dopo, un’indagine dell’Europol su un monumentale giro di droga tra il Belgio e l’Olanda ha consentito di scardinare il forziere segreto dentro cui le mafie nascondevano parte dei loro movimenti informatici. Un’operazione di decriptazione imponente – resa possibile probabilmente dall’utilizzo di una talpa – che di fatto escluse dal mercato il colosso canadese.
Chiusa però la porta di Skyecc – che vendeva a prezzi esorbitanti i propri prodotti alla luce del sole, magnificandoli su internet come ultima frontiera della riservatezza – ecco che (quasi) immediatamente si è aperta una nuova finestra. Sono arrivate nuove compagnie – una di queste si chiama Ghost e i suoi banner si possono trovare online tra quelli che pubblicizzano jammer e bonifiche ambientali – che utilizzano una tecnologia simile. Promettono una crittografia «di livello militare», in una gara senza fine che vede ai nastri di partenza anche i tradizionalissimi mafiosi nostrani.
Cambi di casacca, contesti relazionali equivoci, parentele imbarazzanti con la ‘ndrangheta o con altri politici non graditi per la candidatura. Chi si aspettava un cambiamento di logiche nella scelta dei candidati al prossimo Consiglio Regionale della Calabria nella Circoscrizione Sud, sarà rimasto molto deluso. A essere maggiormente interessati dal fenomeno sono i due principali schieramenti in contesa. Il centrodestra, alla fine confluito interamente su Roberto Occhiuto. E una parte del centrosinistra, Pd e Movimento 5 Stelle, che appoggiano Amalia Bruni. In mezzo, nel tentativo di non essere stritolati, il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. E l’ex governatore, Mario Oliverio.
Il centrodestra
Tra i cavalli di battaglia del candidato governatore Occhiuto ci sono quelli delle “liste pulite”. Addirittura – dice – andando oltre gli stringenti criteri della Commissione Parlamentare Antimafia. Ma anche il concetto di “liste rigenerate”. Ma è davvero così?
In Forza Italia, nella Circoscrizione Sud troviamo tra i candidati il presidente uscente del Consiglio Regionale, Giovanni Arruzzolo. Non indagato, viene menzionato spesso nelle carte d’indagine dell’inchiesta “Faust”. Indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro la famiglia Pisano di Rosarno. Costola del potente casato dei Pesce che, insieme ai Bellocco si divide da sempre Rosarno.
A proposito di Bellocco e Rosarno, imbarazza non poco la candidatura di Enzo Cusato nei ranghi della Lega. È il consuocero del presunto boss Rocco Bellocco, la figlia ha sposato Domenico, figlio del presunto capoclan. La scelta stride coi proclami del commissario regionale del Carroccio, Giacomo Francesco Saccomanno. Che da settimane inonda le redazioni di comunicati stampa sulla lotta della Lega allo strapotere dei clan.
Ma torniamo a Forza Italia. Tra i candidati spicca il nome del giovane imprenditore Giuseppe Mattiani. Già alle scorse Regionali aveva ottenuto un buon risultato, pur non risultando eletto. La famiglia Mattiani negli scorsi anni fu anche interessata da un cospicuo sequestro di beni per presunte connivenze con i clan. Ma riuscirà a dimostrare la propria estraneità, ottenendo la restituzione degli averi.
Risulta invece indagata, con richiesta di rinvio a giudizio,Patrizia Crea, già assessore comunale a Melito Porto Salvo. La Giunta di cui era anche vicesindaco, infatti, avrebbe assegnato un immobile di proprietà comunale a una università privata, provocando quindi un ingiusto vantaggio alla stessa. Ma non solo. La Procura di Reggio Calabria in un’altra inchiesta la sospetta (insieme ad altri membri dell’allora Giunta Comunale) di falso in bilancio. In ultimo, risulta indagata perché non si sarebbe astenuta in Giunta nel voto di una delibera che, sostanzialmente, promuoveva la sorella ad un incarico superiore. Ovviamente in seno all’Amministrazione Comunale melitese.
Giuseppe Neri tenta il bis alla Regione ricandidandosi con Fratelli d’italia
Situazione pesante, pur senza alcuna indagine formale a suo carico, per Giuseppe Neri. Consigliere regionale uscente e ricandidato nei ranghi di Fratelli d’Italia. L’inchiesta “Eyphemos” portò all’arresto di Domenico Creazzo. Consigliere regionale in manette ancor prima di insediarsi a Palazzo Campanella. Erano numerosi i riferimenti a Neri. E a contesti di ‘ndrangheta. Stando alle conversazioni intercettate di alcuni indagati, Neri avrebbe pescato sotto il profilo elettorale in ambienti malavitosi. Addirittura, si criticava l’ipocrisia politica di Neri che ostentava, ma solo a parole, il suo “amore” per la legalità. Mentre proprio la ‘ndrangheta sarebbe stata il suo interlocutore privilegiato durante la campagna elettorale. Tutto per il tramite di un intermediario. Che conosceva, a differenza del parente sostenuto, quei territori e le famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro.
Il centrosinistra
Nella lista del Pd, da segnalare la candidatura del poliziotto Giovanni Muraca. Assessore a Reggio Calabria, viene sponsorizzato dal sindaco Giuseppe Falcomatà. Il problema è che entrambi risultano a processo per il cosiddetto “Caso Miramare”. Dibattimento agli sgoccioli sul presunto affidamento diretto di un immobile di pregio a una semisconosciuta associazione culturale riferibile a un amico di vecchia data del sindaco.
Incredibile, invece, come l’ex assessore regionale Nino De Gaetano sia riuscito a infiltrare nuovamente il Pd. Ci riesce dopo essere stato, di fatto, messo alla porta per le sue vicissitudini relazionali e giudiziarie. L’accostamento (senza un’indagine formale a suo carico) ad ambienti di ‘ndrangheta del potente casato dei Tegano in primis. E poi il coinvolgimento (anche con gli arresti domiciliari) nell’inchiesta “Erga Omnes”, sullo scandalo dei rimborsi del Consiglio Regionale. De Gaetano penetra nuovamente il Pd. Lo fa attraverso il suo figlioccio politico, quell’Antonio Billari già subentrato a Palazzo Campanella dopo le dimissioni di Pippo Callipo. Un soggetto di rientro. Nella precedente esperienza era nei ranghi di Articolo 1.
Antonio Billari, uomo di fiducia di Nino De Gaetano
Ma c’è qualcuno che cambia: il Movimento 5 Stelle. Che nella sua lista della Circoscrizione Sud (a sostegno di Amalia Bruni) candida Annunziato Nastasi. Non nuovo alle competizioni elettorali in provincia di Reggio Calabria. In un’indagine della Dda di Reggio Calabria di qualche anno fa era possibile leggere le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Ambrogio. Un tempo organico alla ‘ndrangheta di Melito Porto Salvo, Ambrogio parlò agli inquirenti dei rapporti tra ‘ndrangheta e politica nell’Area Grecanica. «I Paviglianiti appoggiavano Nastasi», raccontò. Si riferiva all’allora vicesindaco di Melito Porto Salvo. E alla potente famiglia di San Lorenzo. Nastasi, comunque, non venne mai indagato. Ma il “vecchio” Movimento 5 Stelle, forse, non lo avrebbe comunque mai candidato.
Gli uscenti
Ovviamente c’è una sfilza di uscenti che intendono mantenere il proprio posto a Palazzo Campanella. A cominciare dal Pd, dove a tutto si pensa tranne che al rinnovamento. Con l’eterno Mimmetto Battaglia, buono per ogni stagione e alla ricerca dell’ennesima candidatura. Si gioca comunque per il terzo posto. Con la speranza di ottenere due scranni in Consiglio Regionale. E subentrare quando il primo degli eletti (quasi certamente il candidato in pectore Nicola Irto) dovesse eventualmente spiccare il volo verso il Parlamento. Ancora, nella lista “Amalia Bruni Presidente”, il consigliere uscente Marcello Anastasi. E l’ex consigliere comunale di Reggio Calabria, Nino Liotta.
Anche nelle liste a sostegno di de Magistris sono tanti i nomi noti che provano a pescare il jolly. In primis, ovviamente, l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Ma anche il consigliere comunale Saverio Pazzano, già candidato a sindaco di Reggio Calabria. E poi la consigliera comunale di Gioia Tauro, Adriana Vasta. Entrambi candidati in DeMa. O il sindaco di Campo Calabro, Sandro Repaci, la consigliera comunale di Taurianova, Stella Morabito. E, ancora, l’ex amministratore unico di Atam, Francesco Perrelli, e la già candidata a sindaco di Reggio Calabria, Maria Laura Tortorella. Tutti nella lista “De Magistris Presidente”.
L’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano
Nel ritorno per eccellenza, quello di Mario Oliverio, non possono mancare i nomi noti. Come l’imprenditore Francesco D’Agostino, patron di “Stocco & Stocco”. Uscito bene da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria e ora nuovamente pronto a rientrare a Palazzo Campanella. Nella lista ulteriori nomi già presenti (peraltro non con risultati particolarmente lusinghieri) in altre competizioni elettorali. L’avvocatessa Giuliana Barberi, con un passato in Fincalabra proprio negli anni di Oliverio presidente. E poi quel Rosario Vladimir Condarcuri, animatore del giornale La Riviera. E assai vicino all’ex sindaco di Siderno, Pietro Fuda, sciolto per infiltrazioni della ‘ndrangheta.
Logiche assai simili nel centrodestra. Dove nelle liste c’è un sovraffollamento di Piana di Gioia Tauro e Locride, a discapito di Reggio Calabria città. I nomi forti nella Locride sembrano essere quelli del sindaco di Locri, Giovanni Calabrese (candidato in Fratelli d’Italia) e Raffaele Sainato, uscente candidato in Forza Azzurri e reduce dall’archiviazione ottenuta nell’inchiesta “Inter Nos”.
Resta da capire, per esempio, chi sarà il candidato sostenuto dal plenipotenziario Francesco Cannizzaro. Il deputato forzista potrebbe, abilmente, aver lasciato i piedi in numerose paia di scarpe. Nella Lega, spiccano i nomi del sindaco facente funzioni di Villa San Giovanni, Maria Grazia Richichi. Ma è in Forza Italia la vera bagarre. Oltre ai già citati Arruzzolo e Mattiani, c’è l’uscente Domenico Giannetta a rimpolpare la lotta interna alla Piana di Gioia Tauro.
Parenti ed eterni ritorni
Nel sovraffollamento della Piana di Gioia Tauro, da segnalare in Forza Italia la candidatura di Carmela Pedà. Sorella proprio dell’ex sindaco di Gioia Tauro, Peppe Pedà. Anch’egli ex consigliere regionale. Pasquale Imbalzano (già consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Calabria) è figlio di Candeloro Imbalzano. Per anni uomo forte della politica reggina, con incarichi amministrativi al Comune e poi consigliere regionale.
Curiosa la posizione di Serena Anghelone. Figlia di Paolo Anghelone, già assessore comunale nel centrodestra. Sorella di Saverio Anghelone, che invece è stato assessore comunale col centrosinistra. Ora si candida in prima persona, nuovamente col centrodestra. Sempre nel centrodestra, troviamo la candidatura di Riccardo Ritorto. Già sindaco di Siderno, arrestato e condannato in primo grado per vicinanza alla ‘ndrangheta. Lo ha assolto la Corte d’Appello. E adesso prova a ritornare in pista.
La leghista Tilde Minasi
Disseminati, poi, nelle varie liste del centrodestra, una lunga serie di “Scopellitiani” di ferro. Nostalgici della stagione politica del “Modello Reggio”, finita male con l’arresto dell’ex sindaco reggino ed ex governatore. Nella Lega, la consigliera regionale uscente Tilde Minasi, che con Giuseppe Scopelliti è stata per anni assessore comunale a Reggio Calabria. E poi l’ex consigliera comunale Monica Falcomatà, anche lei per anni nella cerchia di Scopelliti. E poi vicina al consigliere regionale Alessandro Nicolò. Oggi imputato per ‘ndrangheta. Infine, l’ex consigliere comunale di Reggio Calabria, Peppe Sergi. Tra le persone più vicine a Scopelliti. Oggi, però, si candida con Noi con l’Italia, la formazione di Maurizio Lupi, che punta a essere la sorpresa delle Regionali 2021 in Calabria.
Che, però, assomigliano maledettamente a tutte le altre.
Negli ultimi 25 anni ha registrato oltre 9.500 incidenti, circa 25mila feriti e oltre 700 vittime. Così la Statale 106 Jonica si è guadagnata il tragico appellativo di “strada della morte”. Le ultime due vittime, a Riace, nell’ennesimo drammatico incidente: il brigadiere dei carabinieri, Silvestro Romeo, e sua moglie, Giusy Bruzzese.
Una strage infinita
Una lingua d’asfalto che si estende per 491 chilometri, da Reggio Calabria a Taranto. Di questi, ben 415 si trovano nel territorio calabrese. Percorre infatti tutta la costa jonica della Calabria, Basilicata e una parte della Puglia. La istituì il Fascismo nel 1928 con questo percorso: Reggio Calabria – Gerace – Punta di Stilo – Catanzaro Marina – Crotone – Innesto con la n. 108 presso Cariati – Innesto con la n. 19 presso Spezzano Albanese. Parliamo di una strada fondamentale, non solo per lo spostamento privato, ma anche per il trasporto merci. In aree importanti della Calabria, quali la Locride, lo Ionio Catanzarese, la Sibaritide e il Crotonese.
Il bilancio degli incidenti e, di conseguenza, di vittime e feriti, potrebbe essere ancor più drammatico. Ma, in Italia, solo dal 1996 esiste un sistema di rilevamento che censisce i sinistri e la mortalità sulle strade del nostro Paese. Già da anni, secondo gli studi congiunti di ACI e Istat, è considerata la strada più pericolosa d’Italia.
A tenere una tragica conta delle vittime e a chiedere giustizia e interventi strutturali è, da anni, l’associazione Basta vittime sulla SS 106. Almeno un morto al mese tra il 2014 e il 2018. E ben 200 vittime in sette anni. Con la morte del brigadiere Romeo e della moglie, è salito a 15 il numero delle vittime nel 2021. Quindi, siamo già oltre l’inquietante media. Si è rivelato un dato fuorviante il calo degli incidenti (circa del 20%) nel 2020. Con le vittime scese a 11, mai così poche dal 1996. Ma era tutto dovuto, evidentemente, alle restrizioni emesse per contenere la pandemia da Coronavirus. E, quindi, alla ridotta mobilità. Con il ritorno alla “normalità”, la SS 106 ha ricominciato a uccidere come e più rispetto agli altri anni.
Le carenze strutturali della SS 106
«La Statale 106 è una strada inadatta a gestire gli attuali volumi di traffico. Su una strada progettata – ad esempio – per gestire mille automezzi l’anno su cui però, nella realtà, ne abbiamo 10.000 è molto probabile che accada un incidente stradale e, quindi, ci siano più vittime e feriti» spiega l’ingegnere Fabio Pugliese, che è presidente di Basta vittime sulla SS 106 e autore del libro “Chi è Stato?” sul tema .
Le inadeguatezze strutturali dell’arteria sono sotto gli occhi di tutti coloro che l’abbiano percorsa almeno una volta. Una sola carreggiata per senso di marcia per lunghi tratti. Ma anche l’assenza di spartitraffico che dividano le due direzioni e che “invoglia”, quindi, a sorpassi spericolati e spesso fatali. Taglia paesi, frazioni, in cui l’imprevisto, l’attraversamento pedonale e veicolare è sempre possibile e inaspettato. Un percorso a ostacoli in cui è facile trovare sulla propria strada un trattore, un cavallo, un ciclista. Persino persone a piedi.
A ridosso dei comuni, infatti, si è sviluppata una urbanizzazione abitativa e commerciale selvaggia. Edilizia sciatta e confusa. Spesso incompleta. A nascondere il mare. Dato che in mezzo corre anche quell’unico binario con treni del vecchio millennio. Zero regole che, purtroppo, poi portano a tanti, troppi morti. Per non parlare, poi, delle condizioni idrogeologiche della carreggiata, che spesso si sbriciola al primo temporale un po’ più aggressivo.
Gli eterni lavori
La politica, però, continua a ignorare la drammatica situazione della SS106. Non c’è governo, indipendentemente dal colore politico, che non si sia impegnato per interventi strutturali. Che, tuttavia, sono rimasti solo annunci. Solo per fare due esempi: sotto la gestione del Governo Draghi, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) non ha rilasciato nemmeno una delibera in cui vengano destinati fondi per la Statale Jonica. E degli oltre 200 miliardi del Recovery Fund, con il conseguente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, non è stato destinato alla “strada della morte” in Calabria neanche un centesimo di euro. Eppure si continua a parlare di ponte sullo Stretto di Messina.
Intanto, la SS 106 continua a essere un cantiere continuo. Ma di interventi per piccoli tratti e a macchia di leopardo. Nessun progetto di ammodernamento strutturale. Stando a quanto comunicato dall’Anas, che è competente sull’arteria, l’intervento più cospicuo (sia sotto il profilo economico, che chilometrico) riguarda il tratto di strada tra Sibari e Roseto Capo Spulico. Oltre 1,3 miliardi di euro per lavori che dovrebbero terminare nel 2026. Dovrebbero. Il condizionale è d’obbligo perché per molti altri punti si è in ritardo siderale. Tra studi di fattibilità e appalti che non partono, tratti fondamentali da riammodernare restano fermi nelle inaccettabili condizioni attuali. Dal collegamento Catanzaro-Crotone alla variante di Palizzi, nella Locride, completata solo in parte.
L’immancabile ombra delle ‘ndrine
E su quegli eterni lavori, la ‘ndrangheta ha sempre dimostrato grande appetito. Del resto, più restano aperti i cantieri su una grande opera, più è possibile “mangiare”. Lo dimostrano i lavori che hanno interessato, per decenni, la Salerno-Reggio Calabria. Dove le cosche imponevano la tangente del 3%, sceglievano le maestranze e controllavano le ditte che operavano in subappalto.
Il meccanismo è simile anche sul versante jonico. Lo dimostrano le numerose indagini che hanno provato, negli anni, ad arginare le fameliche voglie dei clan. Che non solo lucrano sugli appalti, ma, spesso, costruiscono a basso costo. Aumentando i rischi strutturali. L’inchiesta “Bellu lavuru”, della Dda di Reggio Calabria, nacque proprio dal crollo della galleria Sant’Antonino nella variante di Palizzi. Due tronconi con decine di arrestati e processi infiniti per accertare non solo le infiltrazioni della ‘ndrangheta e, nello specifico delle famiglie Morabito-Bruzzaniti-Palamara, e Maisano, Rodà, Vadalà e Talia. Ma anche la complicità di funzionari pubblici e dipendenti di Condotte S.p.a..
Anni dopo – siamo nel 2012 – l’inchiesta “Affari di famiglia”, che sosteneva come le cosche Latella, Ficara e Iamonte si dividessero (con precisione scientifica al chilometro) la competenza sul tratto da Reggio Calabria a Melito Porto Salvo. Nel marzo del 2021, interviene anche la Procura di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Con l’operazione “Coccodrillo” gli inquirenti sostengono l’esistenza di una joint venture tra le famiglie Mazzagatti di Gioia Tauro e Arena di Isola Capo Rizzuto per aggiudicarsi gli appalti delle grandi opere pubbliche. Tra questi, la costruzione di alcuni macrolotti della SS 106 Jonica, nei territori delle province di Catanzaro e Crotone.
Nel 2018, la deputata di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro, presentò anche una interrogazione parlamentare per accendere l’attenzione sui tanti danneggiamenti e le tante intimidazioni legate ai lavori pubblici per la realizzazione della nuova Statale 106 tra Roseto Capo Spulico e Sibari. Nell’interrogazione indirizzata al Ministro della Giustizia, Ferro sottolineava che «episodi criminali recentemente consumatisi nella Sibaritide sono collegati all’imminente canterizzazione dei lavori di rifacimento del tratto della Statale 106: un progetto da 1.300 milioni di euro, sette anni di lavoro, oltre 1.500 posti per carpentieri, minatori, muratori, ruspisti e manovali».
Proprio quel megalotto che, ancora oggi, rappresenta il principale tra i cantieri sulla 106. Ancora lontano dalla chiusura. Come molti altri. E altri ancora che devono essere ancora aperti. E ai lati di quella carreggiata sbilenca e incompleta, tanti mazzi di fiori e piccole lapidi che ricordano i tanti incidenti sulla “strada della morte”.
La malavita ha tolto la vita a Luigi Gravina trentanove anni fa, ora il Comune di Paola potrebbe ucciderne il ricordo rimuovendo la scultura in sua memoria dal luogo dell’omicidio per spostarla chissà dove. A denunciarlo sono Luigina Violetta, la vedova di Gravina, e i suoi figli con una lettera indirizzata al sindaco Roberto Perrotta e al segretario generale della cittadina tirrenica.
Dal luogo del delitto a chissà dove
La signora racconta che a contattarla in questi giorni sarebbe stato un dirigente comunale, Fabio Iaccino, informandola della volontà dell’amministrazione di spostare la statua da via Nazionale – lì dove uccisero Gravina – e sollecitandola a collaborare «al fine di individuare con urgenza altra zona della città idonea ove spostare la scultura». Una proposta, questa, che non poteva che cogliere di sorpresa i familiari della vittima, che vorrebbero comprenderne le ragioni.
Stesso sindaco, idee diverse
L’aspetto più singolare della vicenda è che a volere quella scultura, la cui inaugurazione risale al 2004, in quel punto era stato proprio lo stesso Perrotta, all’epoca come oggi sindaco di Paola. A quei tempi l’amministrazione comunale scrisse di avvertire «in maniera molto forte, l’esigenza di onorare il ricordo del compianto Luigi Gravina, figlio di questa terra, deceduto tragicamente a Paola il 25.3.1982, per mano mafiosa, essendosi rifiutato, reiteratamente e con forte determinazione, di cedere alle insistenti e minacciose richieste estorsive della criminalità organizzata locale».
La cerimonia inaugurale
Il movente del delitto, infatti, era stato il coraggio di Gravina, allora 33enne, di denunciare i malavitosi che si erano presentati per estorcergli denaro in cambio di protezione. L’artigiano pagò quel rifiuto col sangue. E la sua città, seppur con grande ritardo, decise di omaggiarlo preservando la memoria di quella scelta letale. Era il 25 aprile del 2004 e all’inaugurazione, oltre ai familiari parteciparono in tanti oltre ai familiari. C’era Perrotta ovviamente e con lui Jole Santelli, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, l’ex presidente della Camera Luciano Violante, l’allora procuratore capo Luciano d’Emmanuele, l’Avvocato generale dello Stato f.f. Francesco Italo Acri, gli ex sindaci Antonella Bruno Ganeri e Giovanni Gravina. Ma anche un’altra donna del Tirreno cosentino che aveva perso il marito per mano della ‘ndrangheta, la vedova di Giannino Losardo.
Le ultime parole famose
In quell’occasione Perrotta pronunciò parole che la signora Violetta ancora ricorda: «Con tutto il dolore che può esistere – disse il sindaco quel pomeriggio – io vorrei essere sempre il figlio di chi è stato ucciso e non di chi ha ucciso. A Luigi va il nostro ricordo, il nostro pensiero e la nostra gratitudine per aver trovato il coraggio della denuncia. Era una persona affettuosa e un artigiano onesto; la sua morte violenta e crudele ci fa sentire ancor più vicini alla sua famiglia, a cui va tutto il nostro calore. Quanto accaduto non deve succedere più soprattutto nella città di san Francesco, dove un fatto di questi è mille volte più scandaloso. Paola vuole essere una città civile che vive così come il suo grande primo cittadino ci ha insegnato».
Un passo indietro delle istituzioni
Non è dato sapere cosa penserebbe il santo paolano del trasferimento della scultura a distanza di 17 anni fa. Né si può conoscere il suo giudizio sulla profanazione, era il 2012, di due targhe dedicate allo stesso Gravina in ricordo della sua morte. In quel caso i colpevoli erano dei vandali, stavolta è il Comune e alla famiglia della vittima la scelta del municipio è andata di traverso: «Spostare quel simbolo antimafia in altro luogo, significherebbe, a nostro avviso, svilire la figura di Luigi Gravina e indebolire la lotta alla mafia. È come se la Istituzione si fosse in un certo senso tirata indietro, togliendo lustro all’iniziativa di allora».
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