La reale consistenza dell’élite culturale e politica di Vibo è nitidamente rappresentata da una recentissima polemica, ma anche da due distinti episodi del passato. La vicenda non riguarda una delle solite storie di sciatteria istituzionale a cui è abituato chi vive nella provincia più marginale della periferia d’Italia. Di mezzo c’è, invece, una realtà che è considerata un’eccellenza: il Sistema bibliotecario vibonese. Un’istituzione che rende un servizio essenziale ed è protagonista, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival Leggere&Scrivere, rassegna che ogni anno attira quaggiù i nomi più importanti del panorama culturale italiano.
Di padre in figlio
La polemica l’ha sollevata il Pd locale, che al Comune è all’opposizione e ha chiesto pubblicamente chiarezza sulla nomina a direttore del Sistema bibliotecario di Emilio Floriani, figlio del direttore storico, Gilberto. Il capogruppo del Pd, Stefano Luciano, ha sostanzialmente domandato delucidazioni sul passaggio del timone da padre in figlio, sull’eventuale pagamento del canone per i locali comunali occupati dal Sistema (un palazzo monumentale nel centro storico) e su quale tipo di rapporti ci siano con il Comune, anche in relazione alle iniziative di Vibo Capitale italiana del libro 2021.
Gilberto Floriani, direttore del Sistema bibliotecario vibonese, ha nominato come suo successore il figlio Emilio – I Calabresi
All’interrogazione, presentata due mesi e mezzo fa, non ha ancora risposto né il sindaco né l’assessore competente. Lo ha fatto invece Floriani (padre) su Facebook lanciando un «appello in favore del Sistema bibliotecario vibonese». Floriani senior ha parlato del «tentativo» di «danneggiare una grande realtà culturale che solo bene ha portato alla città nel corso degli anni». E annunciato che per «reagire democraticamente a queste strumentalizzazioni gli operatori e i volontari del Sistema intendono essere presenti ai lavori del Consiglio comunale».
Oggi gli attacchi, domani gli accordi
Per approfondire la controversia basta consultare pagine e profili social dei protagonisti e chi abbia torto o ragione, forse, non è poi così interessante. È significativa invece la dinamica e l’atteggiamento di chi l’ha innescata. Luciano, oltre che un affermato avvocato, è un giovane ma esperto politico che studia da sindaco da un pezzo. Ed è già passato da una parte all’altra dell’arco costituzionale con la stessa destrezza con cui Floriani da anni domina la scena culturale locale, dimostrandosi abile a coltivare rapporti con le amministrazioni pubbliche che spesso ne sovvenzionano, legittimamente, le attività.
La polemica non è direttamente collegata con i due episodi del passato – uno sull’élite politica e l’altro su quella culturale – che riportiamo di seguito. I protagonisti sono però in qualche modo il sottoprodotto di due mondi, o forse di un’unica aristocrazia, che da anni fa il bello e il cattivo tempo a Vibo. E tutto, la diatriba recente come le ombre del passato, c’entra molto con l’assuefazione alle pratiche del familismo, del consociativismo e con la consuetudine per cui tutto, a queste latitudini, debba muoversi attraverso guerre per bande e oscure alleanze. Oggi magari ci si attacca, ma domani probabilmente ci si accorderà. Il risultato è sempre lo stesso, fermentato in un unico brodo di coltura in cui germogliano solo corrispondenze inconfessabili mirate alla conservazione del potere.
«L’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia»
Il primo episodio riguarda un articolo, seguito da un processo per diffamazione a mezzo stampa. Uscì a dicembre del 1966 sui Quaderni calabresi, mensile politico-culturale del circolo Salvemini. Il pezzo denunciava ciò che gli autori definirono «l’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia».
Il fatto era questo: un uomo aveva avuto la concessione per installare un distributore di benzina in un luogo in cui il Piano regolatore prevedeva altro, cioè una strada pubblica. Il sindaco, solitamente rigido sulle concessioni, in quel caso non si era dimostrato tale. La maggioranza dei consiglieri comunali aveva poi ratificato la concessione. E quell’uomo aveva impiantato le sue colonnine «dove nessuno avrebbe osato neppure immaginare».
La decisione aveva destato scalpore. Il beneficiario aveva diverse grane giudiziarie e c’entrava con «una lunga e cruenta guerra mafiosa ingaggiata attorno ad alcune società petrolifere in Calabria e nel Lazio». Vibo era l’«epicentro» di quegli affari. E nelle paventate collusioni con l’alta borghesia politica della città gli autori dell’articolo individuavano il debutto palese del vero potere mafioso, il prodotto della presunta intesa segreta tra il crimine e l’élite.
Il sindaco e lo ‘ndranghetista
Il sindaco dell’epoca era Antonino Murmura, divenuto poi senatore Dc e rimasto per decenni assessore ai Lavori pubblici o all’Urbanistica. Artefice istituzionale della Provincia e politico vibonese più influente dai tempi del ministro fascista Luigi Razza, aveva portato in Tribunale i redattori della rivista. Che furono assolti 4 anni dopo con sentenza poi confermata in Appello.
L’ex sindaco e senatore Antonino Murmura – I Calabresi
L’uomo che, 60 anni prima dell’inchiesta “Petrolmafie”, aveva piazzato quelle colonnine era un Pardea. Detti “Ranisi”, fin dal Dopoguerra sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo. Poi altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale e ad avere il sopravvento sono stati i Lo Bianco-Barba, federati ai Mancuso. Dal gruppo Lo Bianco a un certo punto si è distaccato Andrea Mantella, killer ragazzino divenuto boss emergente che non sottostava allo strapotere dei Mancuso. Oggi è uno dei principali pentiti del maxiprocesso “Rinascita-Scott”. E in uno dei suoi verbali ha raccontato una vicenda vissuta al fianco di Franco Barba, un imprenditore edile che «ha costruito mezza Vibo».
Il killer e l’intellettuale
È il secondo episodio, quello sull’élite culturale. Nei primi anni 2000 Barba e Mantella sarebbero andati da «una persona importantissima» (non indagata in Rinascita-Scott, ndr), in una «grandissima casa antica, vecchio stile tipo castello, con mobili antichissimi e piena di libri», per parlare della compravendita di un terreno da un milione di euro. La persona che li aveva ricevuti subito, pur senza preavviso, secondo Mantella «sapeva benissimo che aveva a che fare con mafiosi e che i soldi venivano dai Mancuso».
Il pentito Andrea Mantella – I Calabresi
Lo stesso costruttore avrebbe raccontato di avergli portato uno «zainetto pieno di soldi con il quale lo ha “stordito” per cui l’affare è stato concluso». Mantella lo identifica in Luigi Lombardi Satriani, antropologo entrato a buon diritto nel gotha della cultura calabrese, eletto al Senato alla fine degli anni ’90 con il centrosinistra e all’epoca componente della Commissione Antimafia. Negli anni non ha fatto mancare il suo autorevole contributo di studioso ai Quaderni calabresi.
Epilogo. Il 28 ottobre 2021 il procuratore di Vibo Camillo Falvo, già pm nel pool antimafia dell’agguerrito Nicola Gratteri, è stato premiato, nel corso della seconda giornata del Festival Leggere&Scrivere, dall’associazione “Antonino Murmura”. Le motivazioni enunciate alla consegna della targa fanno riferimento al «suo fondamentale contributo alla giustizia», al «corretto e puntuale esercizio dell’azione penale», alla capacità di dimostrare che «non può essere veramente onesto ciò che non è anche giusto».
«In Italia il mondo criminale non si è mosso mai lontano dal mondo delle élite. Il suo successo sta soprattutto in questo aspetto: mai essere lontani e contrapposti alle élite. E, il mondo criminale, non ha mai avuto il monopolio dell’illegalità. In Italia l’illegalità è una cosa frequentata assiduamente dalle classi dirigenti, che hanno sempre pensato di poter ottenere dei risultati più al di fuori della legge che dentro la legge. Hanno ritenuto, cioè, che l’illegalità fosse un loro campo di appartenenza. E quando lo hanno dovuto, in qualche modo, dividere con altri hanno accettato questa condizione. Non hanno fatto neanche una battaglia per averne il monopolio».
Isaia Sales continua ad essere tra i più attenti analisti dei fenomeni criminali nelle regioni meridionali. Dopo la laurea in Filosofia, ha iniziato la sua vita pubblica come collaboratore de l’Unità. È stato poi dirigente del PCI e, in seguito, dei DS, segnalandosi come uno dei politici più impegnati nella lotta alla camorra. A questo tema era dedicato il suo primo libro – La camorra, le camorre – nel 1988.
Isaia Sales, storico delle mafie
Con lui analizziamo quali siano stati i rapporti delle mafie con le classi dirigenti, le massonerie, la società meridionale. E quali siano i mutamenti in corso e le ragioni che hanno reso ‘ndrangheta e camorra più pericolose di Cosa Nostra. Ne viene fuori un quadro dell’inquinamento civile e politico che sta alla base del potere criminale, ormai non più radicato solo nel Sud Italia ed avviato ad una crescente globalizzazione.
Quali sono le origini della criminalità organizzata nel Mezzogiorno?
«Penso che le mafie, così come le conosciamo, abbiano inizio nella prima parte dell’Ottocento, quando le sette segrete arrivano nel regno borbonico e negli altri stati pre-unitari dietro le truppe napoleoniche. È nelle carceri che si incontrano i delinquenti disorganizzati e gli aristocratici borghesi, organizzati, oppositori del sistema politico. Dalla disorganizzazione della criminalità e dall’organizzazione dell’opposizione politica nascono le mafie. La massoneria e la carboneria forniscono il modello organizzativo alle mafie».
Come si inserisce la violenza in questo scenario?
«Le mafie nobilitano la violenza allo stesso modo delle sette segrete. La violenza è necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici. Le mafie ne fanno un modello, prendendosi tutto l’armamentario della massoneria, compreso l’uso dellaviolenza come strategia di potere o di contrapposizione al poterecostituito.
Questa operazione è impressionante per come avviene e per le similitudini che hanno le sette segrete con i primi statuti che noi conosciamo delle mafie, in maniera particolare della Camorra napoletana. È in questa ritualizzazione delle violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie. Si può dire che tramite la massoneria l’onorabilità della violenza compie il suo tragitto: la violenza non è una cosa di cui vergognarsi, che ti isola o allontana, ma può avere tutti i presupposti dell’onore. Tra questi, l’obbedienza».
Esistono radici sociali della criminalità meridionale?
«Nell’Ottocento le “classi pericolose” avevano la stessa pervasività e pericolosità a Parigi, Londra, Napoli e Palermo. La differenza è che a Londra e Parigi la criminalità si organizzò attorno ai mendicanti, che non ritualizzarono la violenza. Lì ci fu una distanza netta tra le due classi. La storia delle mafie italiane e quella del Paese, invece, sono costellate da casi di intreccio tra classi dirigenti e classi pericolose».
Perché l’omertà ha svolto da sempre una funzione centrale?
«C’è stato anche un grande dibattito storico attorno al concetto di omertà, con una grandissima confusione operata in Sicilia. L’etnologo Pitrè la usò in un processo nei confronti di un personaggio importante dell’epoca, il parlamentare Palizzolo, accusato di essere il mandante del delitto Notarbartolo. Invitato a deporre in tribunale, alla domanda “cos’è la mafia?” rispose che era un comportamento e non un’organizzazione. “Mafioso è, in alcuni quartieri palermitani, essere di bell’aspetto”. E poi disse “vedete, la stessa parola omertà viene da “ominità”, viene dal considerarsi “uomo”. Uomo è colui che risolve le questioni di giustizia da solo, senza ricorrere alle autorità”.
Ma Pitrè commise un errore gravissimo, perché omertà deriva da umiltà, che in napoletano diventa “umirtà”. E infatti la camorra si chiama bella società riformata o società dell’umirtà. Una delle regole delle società segrete è la totale obbedienza, ed è normale nelle società segrete richiedere l’obbedienza.
Teniamo conto che nel concetto di onore che i mafiosi prendono dalle classi dirigenti c’è sia onore come guadagno senza fatica (che era tipico degli spagnoli), ovvero è onorato colui che può disporre di ricchezza senza averla prodotta con le sue mani, sia un’altra idea di onore: è onorato colui a cui si dà obbedienza, perché l’obbedienza è una forma, uno strumento dell’onore».
I riti del giuramento della ‘ndrangheta assumono un’identità autonoma?
«I riti di giuramento – e quelli della ‘ndrangheta meriterebbero libri e libri di approfondimenti – andrebbero studiati permanentemente dall’antropologia italiana. Attraverso essi si manifesta pienamente l’idea che l’obbedienza alla setta segreta è una delle massime espressioni dell’onorabilità. La camorra ha gli stessi riti di quella ottocentesca: nella camorra esiste la società maggiore e la società minore, cosa tipica della massoneria.
Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta
Nella ‘ndrangheta, invece, nel giuramento esiste il dialogo, chi vuole aderire deve rispondere ad alcune domande interlocutorie: lo stesso meccanismo di domanda e risposta che si fa nella massoneria. Aggiungiamoci i caratteri mutualistici e solidaristici che hanno le mafie, anche essi copiati dalla massoneria. All’inizio, per esempio, la mafia siciliana si articolava in “fratellanze”. Si pagava una quota per entrare che serviva nei momenti di necessità: un welfare criminale per soccorrersi nelle difficoltà. Le relazioni sono fondamenti per aiutarsi, sia nella visione massonica che in quella mafiosa.
Come si articola la struttura del potere criminale nel Mezzogiorno?
«Le mafie, all’inizio, sono “scimmie” delle classi dirigenti, copiandone il modello di successo. Il percorso di questi due poteri non è lineare, perché inizialmente copiano il modello, ma le relazioni non sono permanenti perché le mafie incontrano le classi dirigenti anche al di fuori della massoneria. Non hanno bisogno di questo rapporto particolare, ma ne copiano il metodo: stare insieme, ritualizzare la violenza, stabilire relazioni privilegiate. È proprio questo aspetto che cambia radicalmente le mafie italiane rispetto al tradizionale crimine organizzato urbano, che pure esisteva in altre città europee.
Man mano che le mafie hanno contezza di un potere, e con l’inizio di una prima repressione dello Stato italiano, gli incontri di classi dirigenti e classi pericolose hanno avuto necessità della segretezza. Nella storia della ‘ndrangheta tutto ciò è importantissimo, perché siamo di fronte ad un caso unico: una delle criminalità più trascurate e fuori dall’obiettivo della pubblica opinione che, in pochi decenni, diventa una delle più potenti al mondo».
Attraverso quali meccanismi si è determinato il successo della ‘ndrangheta?
«A proposito della lunga presenza della ‘ndrangheta, non dimentichiamoci che nel 1869 il primo scioglimento di consiglio comunale in Italia per infiltrazione della criminalità avviene a Reggio Calabria. Nei primi lavori della ferrovia tirrenica la ‘ndrangheta c’entra. Qual è la confusione? La ‘ndrangheta aveva un altro nome: Camorra reggina o Camorra calabrese. Essa aveva preso più delle altre mafie le modalità di giuramento della camorra napoletana. Ma il termine specifico di criminalità autoctona si scopre, forse, nel secondo dopoguerra, perché prima il nome con cui sarà conosciuta la ‘ndrangheta è camorra».
Qual è il primo punto di svolta nella storia recente della ‘ndrangheta?
«La ‘ndrangheta si troverà negli anni ‘60al di fuori della storia italiana sia per ragioni geografiche che geoeconomiche, per problemi di scarsa accumulazione e scarse relazioni. La classe dirigente calabrese conta meno di quella napoletana o di quella siciliana nelle dinamiche dello Stato italiano. Quindi gli affari che si possono fare in Calabria non sono equiparabili a quelli che si possono fare nelle altre regioni.
La ‘ndrangheta inventa una forma di accumulazione del denaro che non è consona alle altre mafie. Si tratta dei sequestri di persona, dettati dalla necessità di una rapidissima accumulazione di denaro che possa permettere di partecipare agli affari. Poi ci sono due opportunità che riportano la Calabria nel circuito nazionale: la costruzione della Salerno-Reggio Calabria (e poi il suo ammodernamento) e quella del quinto centro siderurgico, che non si utilizzerà mai dopo la sua costruzione».
Come è stato costruito il sistema delle relazioni della ‘ndrangheta?
«Vengono cambiate le vecchie tradizioni. Per uno ‘ndranghetista una doppia affiliazione è fuori dal proprio orizzonte: la doppia fedeltà è inconcepibile per i vecchi capi della ‘ndrangheta. De Stefano fa fuori contemporaneamente tre capi: Macrì, Nirta e Tripodo. Con questo gesto ha possibilità di rompere con il vecchio mondo e di aprire strade nuove. E per farlo deve mantenere il massimo della segretezza possibile.
Paolo De Stefano, boss dell’omonima famiglia, ucciso nel 1985
Nasce una struttura inusuale dentro la storia della mafia: una terza organizzazione, in bilico tra mafia e massoneria, che si chiamerà la Santa. Ha relazioni così delicate che neanche tutti gli aderenti alla ‘ndrangheta vi possono partecipare ed esserne perfino a conoscenza. Inizialmente saranno solo 33 coloro che ne potranno far parte, poi inizierà un’inflazione di queste presenze».
Quali funzioni svolge la Santa?
«Nella storia d’Italia, dove si intrecciano reti illegali, criminali, politiche, affaristiche, sono fondamentali gli “incroci”. Ecco, la Santa è uno di questi crocevia. Èun’organizzazione di relazioni, perché il circuito delle influenze e delle conoscenze, in Italia, è più efficace del talento individuale. Le conoscenze e le relazioni stabiliscono un capitale che nessun merito personale può sostituire».
C’è qualche legame con il concetto di clientela?
«In qualche modo potremmo spiegare così anche il fenomeno della clientela. Ma saremmo fuori strada se la riducessimo soltanto a qualcosa di spregiativo e non a qualcosa di utile. Dobbiamo invece parlare di traffico di relazioni, di commercio di relazioni, di capitale di relazioni: una persona non potrà mai essere influente se non è in possesso di un circuito di relazioni. Oggi chiameremmo la clientela “traffico di influenze”.
Questo consente alla massoneria come alla ‘ndrangheta di avere tre tipi di relazioni: con il mondo politico, con quello imprenditoriale, con la magistratura e gli avvocati. Quest’ultimo tipo è fondamentale per l’onore mafioso, che consiste nel fatto di non essere sottoposto all’ingiuria della legge. Tutti sanno che sono un criminale, ma nessuno mi può mettere in galera; e se mi mettono in galera, sono in grado di uscirne».
L’impunità è una chiave di rafforzamento del potere criminale?
«È proprio l’impunità il massimo dell’onore mafioso, perché tutti devono sapere chi sono, la violenza che posso esercitare, ma nessuno mi può prendere e mettere dentro. Ed è l’impunità il grande capitale che i mafiosi contrattano nelle relazioni, allo stesso livello dei rapporti politici o imprenditoriali che servono per fare affari.
Questo è un perno fondamentale: la massoneria è in grado di offrire tutte e tre queste relazioni.
Non dimentichiamo mai che nella storia del successo delle mafie in Italia c’è il fatto che la magistratura è stata fino in fondo parte degli interessi delle classi dirigenti. Solo con la scuola di massa si è rotta questa continuità e contiguità storica, permettendo l’ingresso in magistratura di altri ceti. Questo ha consentito un ricambio fondamentale ai fini della repressione del fenomeno. Tutto questo si verifica tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento. È l’impunità la chiave del successo dei mafiosi a garantirla era, in gran parte, la magistratura.
Può fare un esempio a riguardo?
Ricordo il discorso funebre del capo dei magistrati italiani, primo presidente della Corte D’Appello, Giuseppe Lo Schiavo, in onore di Calogero Vizzini. Già che il capo dei magistrati italiani tributi onori al capo della mafia è incredibile. Ma se lo si fa poi sulla rivista giuridica Processi, nel 1955, risulta tutto ancora più incredibile. Lo Schiavo era colui che aveva scritto Un giorno in Pretura, da cui Pietro Germi aveva tratto poi In nome della legge, uno dei film più ambigui sulla mafia, in cui si vede che il capomafia consegna l’assassino nelle mani del giovane pretore.
Donne di VIllalba al funerale di Calogero Vizzini
In quell’occasione dice: “È morto il capo della mafia Calogero Vizzini, si è sempre detto che la mafia è contro lo stato, contro le istituzioni e contro i rappresentanti della legge; io posso affermare che mai la mafia è stata contro lo stato, contro le istituzioni e men che mai contro i rappresentanti della legge, anzi in diversi momenti storici ha aiutato la legge a venire a capo di delitti che altrimenti non avremmo scoperto”. Aggiunge inoltre: “Già si conosce il nome del suo successore, mi auguro che possa continuare sulla strada del suo predecessore“».
La violenza, l’omertà e le relazioni sono le chiavi interpretative del modello criminale?
«Il potere dei mafiosi in Italia non è dovuto in modo esclusivo alla loro violenza, ma al fatto che questa violenza è stata riconosciuta e legittimata da altri poteri ed esercitata senza concreta repressione. La storia delle mafie, quindi, è una storia di integrazione della violenza popolare dentro le strategie delle classi dirigenti. E in questa storia di integrazione bisogna andare a leggere e analizzare tutti i crocevia di queste relazioni.
La massoneria, non tutta, ha rappresentato uno di questi. Se non analizziamo questi crocevia non potremo mai comprendere la storia dell’Italia. Se esistono dei luoghi in cui si organizzano le influenze, o si riescono ad aumentarle attraverso un potere occulto, prima o poi questo meccanismo non potrà che portare sulla scena del potere anche le mafie, che hanno uno straordinario bisogno di relazioni.
La storia del rapporto massoneria-mafia è la sintesi dell’opacità del potere in Italia. L’opacità del potere ha permesso tante forme illegali e la mafia è una di queste, ma le classi dirigenti non hanno mai consentito ai criminali di essere gli unici monopolisti dell’illegalità. Anzi, l’hanno condivisa, l’hanno accettata, hanno stabilito delle modalità per servirsene, non l’hanno mai combattuta né al tempo stesso hanno accettato che i mafiosi fossero gli unici a utilizzarla. In questo atteggiamento c’è continuità nella storia italiana».
Conta più sfuggire alla legge?
«È stato affermato dalle classi dirigenti, fino ad una diffusione di massa, questo assunto: la legge dà potere quando la eserciti, ma dà più potere quando la raggiri. Ecco, da questo punto di vista penso che i mafiosi abbiano imparato dalle classi dirigenti. E le classi dirigenti hanno accettato la mafia come parte di quel mondo oscuro, opaco, con cui hanno costruito grandi architetture».
Quali crocevia abbiamo conosciuto nei recenti decenni?
«Nel mondo delle mafie si sono manifestate alcune novità dirompenti nel corso degli ultimi decenni. La prima ha che fare con il cambio di gerarchie nel mondo mafioso. Dalla seconda metà degli anni Novanta le ‘ndrine calabresi e le camorre napoletane (e casertane) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo di leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla cattura di Totò Riina.
Il boss dei Corleonesi, Totò Riina
E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Tutte le previsioni in materia si sono rivelate, dunque, sbagliate. La camorra la si dava per finita alla fine degli anni sessanta quando tutta l’attenzione era catturata dalla mafia siciliana, la ‘ndrangheta non era neanche conosciuta con il nome attuale e la si riteneva una criminalità assolutamente secondaria».
Perché la mafia siciliana è stata maggiormente oggetto di studio e di analisi?
«Fino a qualche decennio fa gli esperti non concedevano “dignità” di studio né alla ‘ndrangheta e né alla camorra. Non corrispondevano ai canoni della “mafiosità” modellati sulle caratteristiche di Cosa nostra. Le Commissioni parlamentari antimafia cominciarono ad occuparsi delle altre “consorelle” mafiose solo a partire dagli anni ’90 con una organica relazione sulla camorra del presidente Luciano Violante nel 1993. Mentre bisognerà aspettare il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione.
La prima Commissione parlamentare antimafia non si occupò affatto di camorra, né tantomeno di ‘ndrangheta. Riteneva che i fenomeni criminali di tipo mafioso coincidessero quasi esclusivamente con la mafia siciliana. Con difficoltà fu inserito il termine camorra nel testo che nel settembre 1982 introdusse il reato mafioso in base all’art. 416 bis del codice penale (dopo il delitto del generale dalla Chiesa, prefetto di Palermo);, Solo nel marzo 2010 la parola ‘ndrangheta viene espressamente introdotta nell’articolo 416 bis (Associazione di stampo mafioso). E solo nel 2016 la Cassazione ne ha riconosciuto l’unitarietà in una sentenza del 17 giugno. “La ’ndrangheta è una mafia cresciuta nel silenzio”, ha sintetizzato Nicola Gratteri».
Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
Possibile che solo pochi si siano occupati di ‘ndrangheta? Perché?
«Il primo ampio studio sull’argomento è del 1992, scritto da Enzo Ciconte: ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi. Conteneva già tutti gli elementi di previsione della sua rapida ascesa tra le prime criminalità del mondo. Perché questa sottovalutazione della ‘ndrangheta sia durata fino ai giorni nostri è questione storica, politica, culturale, non ancora risolta.
Nel periodo 1970-1988, la ‘ndrangheta ha effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, in particolare in Lombardia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E, infine, di ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti. Eppure l’attenzione su di essa non superava qualche riferimento folcloristico sui rifugi dell’Aspromonte e qualche similitudine con il banditismo sardo. Era il periodo del terrorismo in Italia e le priorità repressive dello Stato erano concentrate su di esso».
Insomma, la ‘ndrangheta operava in silenzio, ma si rafforzava…
«Non è vero che fino a 30 anni fa la ‘ndrangheta non rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale. Né che fosse impossibile pronosticare il successo che poi ha avuto nel mondo criminale globale. Nelle migliori delle ipotesi si tratta di una imperdonabile leggerezza degli apparati di sicurezza del nostro Paese.
Camorre e ‘ndrangheta non erano affatto silenti quando, a partire dagli inizi degli anni ’70, la mafia siciliana occupa la scena criminale e monopolizza l’attenzione della pubblica opinione, della politica e degli apparati di sicurezza. Non erano in una fase di scarsa attività criminale, solo che su di esse – per ragioni varie – non c’era l’attenzione degli investigatori e degli apparati istituzionali dello Stato.
Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo «apprendimento», una lunga sedimentazione alle spalle. E le servono una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate “agevolazioni” da parte di chi doveva contrastarla e combatterla».
L’Italia ha sottovalutato la pericolosità di ‘ndrangheta e camorra?
«I fatti hanno capovolto il paradigma interpretativo delle mafie e la sottovalutazione da parte di studiosi e degli apparati di sicurezza italiani. La camorra, considerata una semplice forma di moderno banditismo urbano sembrava quella più fuori dai canoni mafiosi. Oggi invece è quella più in ebollizione per l’alta conflittualità interna e per le sue capacità di espansione nell’economia legale.
La ‘ndrangheta, che sembrava più secondaria ed era praticamente semisconosciuta, era considerata una forma di ancestrale banditismo rurale. Poiha letteralmente colonizzato, dal punto di vista criminale, il Centro-Nord. Tutte le previsioni in materia di evoluzione dei fenomeni mafiosi si sono dimostrate sbagliate. I servizi di intelligence non hanno fatto una bella figura: la sottovalutazione di camorra e ‘ndrangheta fa parte dei grandi limiti e compromissioni dei servizi di sicurezza italiani di quegli anni».
In tempi di globalizzazione, come si sono comportate le mafie meridionali?
«Innanzitutto si è determinato un processo di “nazionalizzazione” delle mafie, cioè la formazione di una presenza stabile e duratura delle organizzazioni mafiose nelle strutture economiche delle regioni del Centro- Nord che rappresentano il cuore pulsante dell’apparato industriale, produttivo e commerciale dell’Italia. Un esito del genere era considerato assolutamente impossibile dagli studiosi, dagli apparati di sicurezza, dalle forze politiche e dalla pubblica opinione rappresentata dalla stampa e dalle Tv.
Questa novità si era già percepita negli anni ’50 e ’60 del Novecento con la presenza al soggiorno obbligato di boss delle varie mafie meridionali, con investimenti nella piazza finanziaria di Milano. Ma si era trattato di incursioni, presenze sporadiche, finalizzate a qualche obiettivo limitato e non a una presenza stabile e duratura come quella odierna. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a previsioni sbagliate. Nessuno aveva ipotizzato che le mafie potessero insediarsi nel cuore produttivo italiano».
Come mai tutti hanno sbagliato previsioni?
«Si riteneva che il Centro-Nord, e soprattutto le regioni più ricche, fossero un ambiente ostile, inadatto allo sviluppo delle mafie o non in grado di ospitare fenomeni così arcaici. Insomma si pensava che essendo le mafie fenomeni di arretratezza economica e di primitività civile, mai e poi mai avrebbero sfondato in realtà ricche e di avanzata civilizzazione.
Quello che non si era capito e non si vuole capire (nonostante tutte le smentite) è che le mafie non hanno a che fare solo con la mentalità dei territori dove si sono sviluppate prima e dopo l’Unità d’Italia, ma possono espandersi e superare tranquillamente le colonne d’Ercole – o la linea delle palme, come la chiamava Sciascia – se si mette in moto una “affinità elettiva” con l’economia di altri luoghi e con gli interessi imprenditoriali di territori ad alto tasso civico e di benessere».
L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg
Quanto hanno contato i contesti nel Mezzogiorno e nel Nord del nostro Paese?
«Se nel Sud sono state le condizioni economiche, sociali e politiche a dettare le ragioni del successo delle mafie, ora sembra essere la struttura produttiva ed economica del Nord a presentarsi come ospitale e invitante per le mafie. Per capire il radicamento al Nord delle mafie oltre ogni previsione e aspettativa, bisogna interrogare l’economia di questa parte dell’Italia e i comportamenti delle sue classi dirigenti, quelle politiche e quelle imprenditoriali».
Qual è il vettore principale della globalizzazione delle mafie?
«È il traffico di droga ancora oggi a determinarla. Una spinta ancora più significativa perché non è causata dal fatto che in Italia, o in Paesi vicini, si produca droga. È questo il caso di un ruolo internazionale non dettato da ragioni geo-politiche, ma da ragioni commerciali. Cioè dalla capacità di entrare in un mercato dove non si possiede la materia prima, ma la si procura in relazioni con i produttori di altri continenti».
Stanno cambiando – per effetto della nuova dimensione geografica dei mercati – le gerarchie nel mondo delle organizzazioni criminali?
«Il cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso ha avuto recentemente numerosi e ampi riscontri nelle relazioni degli organi di governo e del parlamento preposti al contrasto, negli atti della magistratura, nei dati sugli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, nelle statistiche sui beni sequestrati e confiscati, nel numero di omicidi commessi negli ultimi 25 anni, e perfino nel numero complessivo dei pentiti.
Il Ministero dell’interno, in un recente studio, ha stimato le entrate economiche della camorra in 3.750 milioni di euro e quelle della ‘ndrangheta in 3.491, mentre Cosa nostra si attesta a 1.874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1,124. Camorra e ‘ndrangheta, dunque, cumulano ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. La Calabria risulta essere la regione italiana con la più elevata densità di reati in rapporto alla popolazione, Napoli invece ha il primato per omicidi ogni centomila abitanti (tra le città a presenza mafiosa) e il record assoluto nel numero di clan e di affiliati.
Se si analizzano le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis, si può verificare come la camorra tocchi la cifra di 3.219 arrestati (il numero più alto in assoluto) la ‘ndrangheta quella di 2,800 (il numero più alto in rapporto alla popolazione) Cosa nostra 2.193, mentre la criminalità mafiosa pugliese arriva a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale.
Se poi si prendono in considerazione i delitti commessi dal 1983 al 2018, si può notare come la camorra abbia commesso 3,026 omicidi (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia) Cosa nostra 1.701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1.320 (il 19,85). Quest’ultimo dato, se rapportato alla popolazione, è di gran lunga il più alto».
Quali dialetti si parlano oggi nel mondo criminale?
«Sempre più il napoletano e il calabrese, non il siciliano. Questo cambiamento è stato in qualche modo registrato anche dall’industria culturale, in particolare da quella cinematografica. Dal 2006 al 2018 su 61 film prodotti sul tema delle mafie, ben il 50% di essi ha riguardato la camorra. E per segnalare le perifericità del tema ndrangheta nella opinione pubblica italiana, va ricordato che su 337 film girati dal 1948 al 2018, solo 16 hanno avuto come argomento la ‘ndrangheta, cioè il 4%, come ricorda Marcello Ravveduto nel libro Lo spettacolo della mafia».
Come sta cambiando la struttura della ‘ndrangheta a seguito del suo processo di globalizzazione?
«Così come la mafia siciliana ha assunto un ruolo centrale grazie al rapporto con Cosa Nostra americana che l’ha proiettata nel corso del Novecento tra le protagoniste del crimine mondiale, anche la ‘ndrangheta deve oggi il proprio ruolo nazionale e internazionale alla proiezione globale che le è stata fornita dai legami vasti con le ‘ndrine presenti fuori dai territori calabresi. Ancora una volta sono le relazioni internazionali a decidere del successo di una mafia rispetto a un’altra. Caso a parte è quello delle bande di camorra napoletana».
E la camorra come si sta ristrutturando?
«L’ascesa della ‘ndrangheta tra le principali criminalità del mondo va considerata come un successo di una colonizzazione avvenuta a ridosso delle aree storiche di emigrazione dei calabresi. Per la camorra, invece, il processo di “nazionalizzazione” e “internazionalizzazione” non sembra legato alla riproduzione di un proprio modello tra gli emigrati napoletani o campani in Italia e nel mondo.
I calabresi riproducono all’estero o nel Nord dell’Italia il modello delle ‘ndrine. La camorra non esporta un suo modello organizzativo né un modello di vita, ma solo criminali in affari che si stanziano nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico o in ogni luogo dove è possibile fare investimenti, smerciare prodotti contraffatti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. La camorra, dunque, esporta camorristi, la ‘ndrangheta trapianta un suo modello criminale fuori dalla sua zona di origine».
Cosa nostra assume oggi una posizione defilata?
«Il ridimensionamento internazionale di Cosa nostra (ridimensionamento, si badi, non sconfitta) è stato confermato nel 2014 quando un’indagine della Procura di Reggio Calabria ha dimostrato che Cosa nostra americana, per un cinquantennio principale partner della mafia siciliana, preferiva avere rapporti con la ‘ndrangheta piuttosto che con la sua consorella sicula. E un’altra indagine ha accertato che la mafia siciliana è costretta a comprare la droga dalla ‘ndrangheta perché non è più in grado di approvvigionarsi da sola sui mercati di produzione».
Possiamo definire una gerarchia criminale tra le tre grandi strutture meridionali?
«Nel cambio di gerarchia all’interno della criminalità italiana hanno operato più fattori. Ma quello essenziale riguarda la perdita da parte di Cosa nostra del controllo del mercato delle sostanze stupefacenti. In particolare, quello dell’eroina. Questa caduta di ruolo comincia a manifestarsi a metà degli anni ’90 con l’aumento esponenziale della domanda di cocaina. Al contempo, a causa dell’alto numero di morti e del conseguente allarme della pubblica opinione, si registra la flessione di quella di eroina, droga in cui si era specializzata Cosa nostra grazie ai rapporti storici con la mafia negli USA.
Sempre in quel periodo, l’azione dello Stato si fa più dura in Sicilia dopo l’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino. È in questo momento storico che camorristi e ‘ndranghetisti vanno ad occupare il vuoto lasciato da Cosa nostra. Si propongono come interlocutori privilegiati di numerosi gruppi criminali internazionali, a partire dai narcotrafficanti del Sud America, area produttrice di tutta la cocaina del globo. Se la ‘ndrangheta godrà nel mondo criminale del prestigio di chi paga sulla parola e rispetta i patti grazie alle grandi disponibilità economiche e alla drastica punizione di chi sgarra, la camorra riesce a “democratizzare” il consumo della cocaina, mettendo a disposizione vaste aree di spaccio controllate militarmente, prezzi bassi, facilità di approvvigionamento e rifornimento di altre piazze di smercio in Italia».
Risse a chiamata, violenze tra le mura domestiche, danneggiamenti e vandalismi. E poi furti e rapine, risalendo la scala della gerarchia del crimine fino al narcotraffico e all’associazione mafiosa. È un mondo complesso quello dei minori che finiscono nei guai con la giustizia: un mondo che, anche in Calabria, sta “ridefinendo” i propri confini, dopo il lungo periodo di “cattività” seguita allo scoppio della pandemia da Covid, sui binari di una violenza “gratuita” che vede i minori come protagonisti attivi e passivi. Quello che registrano le statistiche e che gli operatori della giustizia minorile (magistrati, avvocati, assistenti sociali, terapeuti) riscontrano ogni giorno, è infatti un preoccupante aumento dei casi di violenza “spicciola”, soprattutto tra coetanei.
Le risse organizzate
«La convivenza forzata e prolungata dovuta al Covid – filtra dalla procura minorile di Reggio Calabria – ha esasperato gli animi di tutti, e ha reso evidenti quei conflitti nascosti in tante famiglie. Dalla riapertura abbiamo riscontrato un sensibile aumento di aggressioni e violenze maturate all’interno delle mura domestiche ai danni dei più giovani. Violenze e aggressioni che poi si ripropongono anche fuori da casa». E così, nei fascicoli che transitano negli uffici del tribunale minorile reggino, si nota un preoccupante aumento di un fenomeno prima marginale: gli appuntamenti per le risse.
Il tribunale per i Minori di Reggio Calabria
A volte basta pochissimo, uno sguardo a una ragazza, una parola sfuggita tra i denti, un tamponamento. Tutto può funzionare da detonatore, e una volta che la miccia ha preso fuoco fermarsi diventa molto complicato. Come nel caso della maxi rissa di Campo Calabro, prima periferia di Reggio Calabria. Lo scorso febbraio, la piazza centrale del paesino affacciato sullo Stretto, fu infatti teatro di un vero e proprio scontro tra due improvvisate bande di giovanissimi (quasi tutti minorenni).
In quella occasione, una banale questione di cuore tra adolescenti aveva provocato uno tsunami partito con un appello in chat che aveva finito per coinvolgere diverse “comitive” che si erano presentate all’appuntamento a bordo di scooter e minicar con corredo di mazze e catene. Una sorte di sfida all’Ok Corral recitata tra lo sgomento dei residenti e finita con diversi contusi al Pronto Soccorso.
Le “sciarre”
E poi le sciarre nei bar, che a Reggio ormai esplodono con cadenza sempre più frequente. L’ultima in ordine di tempo, appena una manciata di giorni fa in occasione di Halloween: esplosa in un locale del centro ha finito per coinvolgere anche gruppi di persone che erano estranee alla vicenda ed è costata un ricovero con prognosi di 20 giorni per un ventenne colpito sul viso con una bottiglia rotta. E qualche giorno prima un’altra sciarra sul lungomare che vedeva coinvolti gruppi di giovanissimi, immortalati in un video diventato virale su youtube mentre si lanciano tavoli e suppellettilivarie gli uni contro gli altri tra le urla dei passanti, che ha portato il sindaco della città a richiedere al Prefetto una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza.
I figli di ‘ndrangheta
E se le violenze “spicciole” tra minori si spingono oltre i confini consueti, in Calabria e in provincia di Reggio in particolare, dove l’oppressione delle consorterie di ‘ndrangheta pesa di più, una fetta dei reati che finiscono per coinvolgere i più giovani, riguarda quelli legati al crimine organizzato. Sono diversi infatti i casi di giovani, per lo più adolescenti, coinvolti, loro malgrado, nelle dinamiche criminali mafiose. Cresciuti a “Paciotti e malandrineria” spesso vengono inseriti fin da giovanissimi alla periferia della cosca, con compiti che però possono anche diventare importanti.
Come nel caso di un adolescente di Palmi che qualche anno fa, con il resto dei parenti più prossimi blindati in galera da sentenze pesantissime per mafia, si ritrovò suo malgrado a fare il “lavoro” dei grandi. Era lui, avevano scoperto i carabinieri, che si era presentato ad un imprenditore cittadino chiedendo un “fiore” per i parenti in galera. Una “sottoscrizione” da 5000 euro per pagare gli avvocati e aiutare le famiglie dei carcerati per mafia. E fu sempre il ragazzo catapultato nel ruolo del boss ad aggredire il figlio minorenne dell’imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo al clan.
Nella rete dei clan
Accanto ai “figli di ‘ndrangheta” poi – i minori che crescono in ambienti fortemente condizionati dalle dinamiche del crimine organizzato finendo spesso per rimanerne invischiati – gli operatori della giustizia minorile si sono trovati ad affrontare un rinnovato interesse delle cosche verso quei minori che non vengono da famiglie legate a doppio filo con il crimine organizzato, ma che galleggiano in un mondo fatto di disinteresse e solitudine.
Armi, munizioni e marijuana trovate a un minorenne nel quartiere Ciccarello
È a loro, registrano gli inquirenti, che i boss si rivolgono per il lavoro sporco legato soprattutto al traffico di stupefacenti e ai danneggiamenti. «A volte – annotano amaramente gli investigatori – per coinvolgerli basta dimostrare un minimo interesse nei loro confronti. Farli sentire coinvolti in un progetto, seppure dalle dinamiche criminali». L’ultimo caso in ordine di tempo risale a pochi giorni fa: durante un blitz dei carabinieri a Ciccarello, popoloso quartiere della città dello Stretto, i militari hanno fermato un diciassettenne che custodiva due scacciacani a salve, una manciata di proiettili calibro 12 e della marijuana.
Ferrari, Porsche, Lamborghini, BMW: c’è stato un tempo in cui la ‘ndrangheta manteneva un profilo un po’ più basso, con i lussi ben celati. Magari all’interno di case sprovviste di facciata e con i mattoni ben in vista, espressioni di pregio del “non finito calabrese”. Oggi, invece, le nuove generazioni dei clan non disdegnano i lussi. E iniziano anche a ostentarli. Troppo presto per parlare di una “camorrizzazione” della ‘ndrangheta. Ma di certo le nuove leve delle ‘ndrine non disdegnano i motori rombanti. E con essi fanno anche tanti affari.
Il traffico internazionale
L’ultima scoperta, appena poche settimane fa, con l’arresto di 14 persone e il sequestro di oltre 13 milioni di euro in Germania. Tra i soggetti coinvolti, i fratelli Sebastiano e Giuseppe Pelle, esponenti dello storico casato di ‘ndrangheta. Un’inchiesta, quella portata avanti dagli inquirenti italiani e tedeschi, che ha riguardato una enorme frode fiscale internazionale nel settore del commercio di auto di lusso e un traffico di sostanze stupefacenti.
Sebastiano Pelle risponde di frode all’Iva condotta attraverso società cartiere dal 2017 fino a qualche mese fa. Mentre Giuseppe Pelle sarebbe coinvolto in un traffico di sostanze stupefacenti, in particolare hashish. Gli inquirenti ipotizzano una frode Iva transfrontaliera, incentrata sulla vendita dei veicoli. Auto trasferite a varie società con sede in Italia, Belgio, Bulgaria, Francia e Portogallo. Ma secondo gli atti d’indagine «si tratta di trasferimenti soltanto apparenti, posto che i suddetti veicoli venivano in realtà venduti ad altre persone o società e, certamente in molti casi, essi rimanevano nel territorio tedesco, senza dare vita ad una reale transazione intracomunitaria».
Gli affari
Le indagini sul conto di Sebastiano Pelle porteranno anche a scoprire il traffico di droga gestito dal fratello Giuseppe in combutta con la famiglia Barbaro-Papalia. Proprio al nipote dello storico boss Rocco Papalia, il 32enne Domenico Sergi, al momento dell’arresto, avvenuto nel 2018, verrà anche sequestrata una Maserati Gran Turismo del valore di 100 mila euro rubata a una società di noleggio.
Una Maserati GranTurismo
Del resto, già da tempo, sia al Nord, che all’estero, la ‘ndrangheta cura con grande attenzione il settore dell’automotive di lusso. In generale, al pari dell’edilizia e della grande distribuzione, il mercato delle auto è un business storico. Proprio recentemente, il Gip di Reggio Calabria ha rinviato a giudizio i noti imprenditori Frascati, coinvolti nell’inchiesta “Mercato Libero”. Si tratta di un nucleo familiare attivo da decenni in riva allo Stretto e concessionario di marchi importanti come Honda e Mazda. Secondo la Dda di Reggio Calabria, i Frascati sarebbero un avamposto economico della potente cosca Libri.
Nel maggio del 2019, nel corso di un’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Canada, tra i beni sequestrati (oltre a ville di lusso e Rolex) finirà anche una Ferrari del valore di oltre un milione di euro. Due anni prima, un’inchiesta della Dda di Catanzaro si concentra sugli affari della ‘ndrangheta in Umbria. E, in particolare, di clan Trapasso e Mannolo di Cutro. Tra le società interessate, anche una con sede a Milano.
Una McLaren Ma3
E lì, gli inquirenti trovano di fronte un campionario di auto di livello elevatissimo. Tra le altre vetture sequestrate, una Lamborghini “Huracan” da 200mila euro e una “Aventador”, che invece si aggira sui 350mila euro. E poi una McLaren “MA3” da 300 mila euro, un paio di Ferrari cabrio e una “812 Superfast” (anche qui siamo sui 300mila euro), poi Bentley e Rolls Royce. Ma anche Audi e Mercedes. Che in quel garage sembrano quasi utilitarie. Un parco auto da 4 milioni di euro.
Nel maggio scorso, la Procura di Asti ha chiuso il cerchio su una presunta associazione criminale che si muoveva tra Cuneo, Torino e Asti. Un giro internazionale illecito di auto di lusso (tra cui Bmw e Mercedes) e documenti di circolazione. Con un obiettivo: “ripulire” in giro per l’Italia i mezzi usati in vari crimini in mezza Europa, agevolando anche la ‘ndrangheta.
Il garage di lusso della ‘ndrangheta
Nel settembre 2021 l’arresto, dopo tre anni di latitanza, del 39enne Giuseppe Nacci, ricercato a livello internazionale per una condanna a 11 anni per reati di bancarotta fraudolenta, tentata estorsione e associazione a delinquere. Uomo ritenuto in affari con la famiglia Flachi, esponenti di spicco della ‘ndrangheta al Nord. Nel 2018, poco prima di darsi alla macchia, era stato fermato a Montecarlo a bordo di una Lamborghini bianca e con addosso dei documenti poi rivelatisi falsi.
Anni prima, al clan degli Zingari, nel Cosentino, la Dda sequestrò una Ferrari 360 Modena (valore circa 150mila euro), una Chevrolet Camaro (oltre 40mila euro), Smart fourfour (25mila euro), Land Rover, Mercedes ml ed Aston Martin il cui valore complessivo ammonta a diverse centinaia di migliaia di euro. Nel processo “Rinascita-Scott”, il pentito Andrea Mantella definisce “un mito” il boss vibonese Saverio Razionale: “Girava per Vibo con una Lamborghini Diablo”. Una supercar prodotta dall’azienda italiana in nemmeno 3.000 esemplari tra il 1990 e il 2001. Oggi vale tra i 150mila e i 200mila euro.
Una Ferrari F430
All’imprenditore Pasquale Capano, nativo di Belvedere Marittimo, in provincia di Cosenza, ma residente da tempo a Roma, la DIA sequestrerà beni per oltre 50 milioni di euro, ritenendolo uomo assai vicino alla potente cosca Muto di Cetraro. Oltre a ville con piscina e lussi di ogni tipo, nel suo garage, anche una Ferrari F430. Quando era in commercio si partiva da circa € 175.000 per la coupé e da circa 200.000€ per la Spider. Ma non solo: anche un fuoristrada Hummer 6000 di cilindrata, una Mercedes classe E (circa 50mila euro di valore), una Bmw X5 (70mila euro a listino).
L’auto di Franco Muto
A proposito di Franco Muto. Siamo ben lontani dalla sua tipologia di auto. Il “re del pesce” di Cetraro è considerato uno dei boss più carismatici del panorama criminale. Uno dei pochi, fuori dai confini della provincia di Reggio Calabria, così autorevole da potersi relazionare con il “Crimine di Polsi”. Entra ed esce dalle cronache giudiziarie da quarant’anni.
Il 21 giugno 1980 viene ucciso Giannino Losardo, consigliere comunale del Partito comunista di Cetraro, nonché attivista antimafia. Gli inquirenti sostengono che i mandante sia proprio lui, Franco Muto. Ma sarà assolto in primo e secondo grado e la sentenza è passata in giudicato. Il pentito Fonti lo tirerà in ballo anche con riferimento all’affondamento della motonave Cunsky, carica di rifiuti tossici e radioattivi. Ma la vicenda verrà chiusa con grande solerzia.
Alcuni mesi fa, la sua autovettura fu anche messa in vendita all’asta sui portali Classic Driver e Bring a trailer. Né Ferrari, né Lamborghini. E nemmeno Maserati o Mercedes. L’auto di Franco Muto era un’Alfa Romeo “Alfetta 2000”. Una berlina sportiva di classe medio-alta prodotta tra il 1972 e il 1984 dalla casa milanese Alfa Romeo nello stabilimento di Arese.
L’Alfetta 2000 di Franco Muto finita all’asta online
Attenzione a definirla un’auto “banale”. L’Alfa Romeo del 1980, infatti, era totalmente blindata. Dai vetri rinforzati anche col plexiglass, alle ruote in acciaio da 15’’. Dotata persino di un interfono. Nell’annuncio, al limite del grottesco, veniva sottolineato come l’auto fosse appartenuta a «un noto membro della mafia italiana». Un’auto in vendita a poco meno di 20mila euro. E il pacchetto comprendeva anche gli ordini impartiti dal boss all’interno della vettura.
«Secondo lui dice non va bene. Perché noi al Morandi con questo materiale l’abbiamo fatto… e casca tutto». È solo uno dei tanti passaggi, parimenti inquietanti, che emergono dalle intercettazioni captate dagli inquirenti nell’ambito dell’operazione “Brooklyn”. Con questa indagine la Dda di Catanzaro non solo è convinta di aver dimostrato l’infiltrazione delle cosche nelle opere pubbliche del capoluogo. Ma anche l’impiego di materiale scadente, con il conseguente rischio per i cittadini.
Il ponte di… “Brooklyn”
Sei misure cautelari nell’operazione eseguita dalla Guardia di Finanza. Che sostiene come il gruppo imprenditoriale della famiglia Sgromo fosse un punto di riferimento della cosca Iannazzo di Lamezia Terme. Dalle conversazioni registrate emergerebbe l’impiego nelle lavorazioni di un tipo di malta di qualità scadente. E quindi più economica di quella inizialmente utilizzata: «A me serve nu carico 488 urgente, altrimenti devo vedere… devo mettere quella porcheria di******* qui sui muri eh…, che c’hanno stoccato per Catanzaro nu… nu bilico… però vorrei evitare ste simbrascugli…», afferma il direttore tecnico dei lavori. «Eh… fai… fai… fai… fai una figura di merda… perché quel prodotto non funziona», risponde il rappresentante della ditta fornitrice. Quei materiali, dicono testualmente gli indagati intercettati, «fanno cagare».
«Qua crolla tutto», aggiungono in un’altra intercettazione. Tra le opere costruite con questo materiale scadente c’è il viadotto Bisantis. Lo conoscono tutti come “Ponte Morandi”, dal nome del progettista: l’ingegnere Riccardo Morandi, padre anche del ponte di Genova che crollò il 14 agosto del 2018 provocando 43 vittime. Parliamo della principale strada di accesso a Catanzaro, un ponte ad arco costruito su una sola arcata in calcestruzzo. Per l’altezza, è il secondo ponte in Europa con quelle caratteristiche.
‘Ndrangheta e appalti
Lo spaccato inquietante emerso con l’inchiesta “Brooklyn” non è, purtroppo, un caso isolato. Sia in Calabria, sua terra di origine, che nel resto d’Italia, la ‘ndrangheta si è inserita o ha tentato di farlo nella gestione degli appalti e subappalti pubblici. Lo fa in vari modi. Dalla “classica” imposizione della tangente, sotto forma di mazzetta di denaro, all’aggiudicazione dei lavori tramite aziende apparentemente “pulite”. O, ancora, l’imposizione delle maestranze. Ma anche la fornitura di materiali. O quello che potremmo definire l’indotto: dai servizi mensa per gli operai alle lavanderie.
Un incidente sulla SS 106 nei pressi di Corigliano-Rossano
Un po’ in tutti i casi, la costante è rappresentata dalla durata dei lavori. Più il cantiere rimane aperto, più le cosche possono arricchirsi. innanzitutto grazie l’ormai nota “tassa ambientale”, ossia l’estorsione da pagare per “non avere problemi” unanimemente indicata dai collaboratori di giustizia con il classico 3% sull’importo dei lavori. E poi per la ‘ndrangheta c’è la possibilità di poter lucrare il più possibile sull’appalto in sé. Anche tramite l’utilizzo di materiali scadenti. Che, ovviamente, fanno abbassare sensibilmente i costi di realizzazione. Per questo il caso del ponte Morandi a Catanzaro e dell’inchiesta “Brooklyn” è tutt’altro che isolato.
La Salerno-Reggio Calabria
Nel 2016 su mandato della Procura della Repubblica di Vibo Valentia vengono sequestrati otto chilometri della Salerno-Reggio Calabria. L’autostrada A3 (oggi A2-Autostrada del Mediterraneo) è stata interessata da eterni lavori di ammodernamento. Praticamente fin da subito dopo l’inaugurazione, avvenuta negli anni del boom economico.
Secondo le indagini il tratto che comprende i viadotti del torrente Mesima sarebbe stato costruito con materiale scadente e senza i necessari studi idraulici. Nel decreto di sequestro, emesso nell’aprile 2016, il percorso del torrente Mesima è considerato «pericolosamente incidente sulle pile in alveo». Nella relazione stilata per la Procura si chiedeva urgentemente di mettere in sicurezza quel tratto. Che, tuttavia, non è stato mai chiuso. Con la stessa Anas che fu nominata custode giudiziaria del sequestro e che, a più riprese, ha garantito uno scrupoloso controllo sull’arteria.
L’ingegner Fiordaliso
La questione lavori dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria è strettamente collegata alla posizione dell’ingegnere Giovanni Fiordaliso, al centro delle inchieste “Cumbertazione” e “Waterfront” perché considerato un professionista vicino alle cosche di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. E, in particolare, alla famiglia Piromalli tramite il nucleo familiare dei Bagalà. Recentemente, tuttavia, il Tribunale della Libertà ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti.
Fiordaliso è coinvolto nella veste di ingegnere funzionario ANAS e direttore dei lavori e RUP nell’ambito di varie commesse pubbliche in materia, tra l’altro, di ammodernamento e adeguamento di tratti autostradali della Salerno/Reggio Calabria. Sarebbe stato, secondo gli inquirenti un «indefettibile tassello strumentale all’infiltrazione nel settore degli appalti pubblici di cartelli imprenditoriali connotati da contiguità mafiosa ed il cui contributo si traduceva in plurime e reiterate condotte corruttive, a fronte delle quali traeva ingenti profitti ed utilità di vario genere».
Interessato anche da un sequestro di beni, l’ingegnere non è solo alla famiglia ‘ndranghestista dei Bagalà, ma anche all’imprenditore Domenico Gallo. Quest’ultimo, uomo forte nel settore della bitumazione, secondo alcuni passaggi tecnici, avrebbe anche fornito materiale inferiore rispetto a quello previsto dall’appalto.
I lavori sulla SS106
Altrettanto infiniti i lavori che hanno interessato e interessano la SS106 jonica. Quella che, tristemente, è conosciuta come “strada della morte”. Anche in questo caso le dinamiche sono simili a quelli della Salerno-Reggio Calabria. Anche sulla strada che porta fino a Taranto le cosche hanno spartito territorialmente gli introiti da incassare sui lavori.
Il sospetto di lavori effettuati senza rispettare i requisiti minimi o con materiale scadente è forte. Un’inchiesta di qualche anno fa, denominata “Bellu lavuru”, partirà proprio dal crollo della galleria Sant’Antonino di Palizzi, avvenuto il 3 dicembre 2007. Secondo le indagini, l’opera sarebbe venuta giù perché realizzata in difformità alle prescrizioni dettate dalla Relazione Tecnica e Strutturale e dal Piano Operativo di Sicurezza del Progetto Esecutivo. Nonché a quanto disposto dal Capitolato Speciale di Appalto, quale allegato al contratto d’appalto. Difformità che avrebbero causato la perdita di stabilità del versante scavato ed il riversamento dello stesso sulle opere in fase di realizzazione. Interessate dalle indagini le cosche Morabito, Bruzzaniti-Palamara, Maisano, Rodà, Vadalà, Talia.
Il boss Giuseppe Morabito
L’inchiesta coinvolgerà uomini della ‘ndrangheta, ma anche funzionari dell’Anas, sostenendo una elevata soglia di approssimazione nell’esecuzione dei lavori, la cui qualità si è rivelata inferiore a quanto prescritto negli atti progettuali che presiedevano e dovevano orientare la realizzazione della grande opera. «È proprio un bellu lavuru», dicono i parenti di Giuseppe Morabito, meglio conosciuto come “il Tiradritto”. All’anziano capomafia, recluso nel carcere di Parma in regime di 41 bis, annunciano l’appalto per i lavori di ammodernamento della Strada Statale 106 jonica ed in particolare la costruzione della variante al centro abitato del comune di Palizzi.
La ‘ndrangheta al Nord
Ma, come detto, tutto ciò non riguarda solo la Calabria. Qualche tempo fa, nel corso di un’intervista, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha definito «buona» la salute di cui gode la ‘ndrangheta al Nord. Perché anche lì la criminalità organizzata tende a ricostruire le medesime dinamiche della “casa madre”. Non solo per quanto concerne rituali e gerarchie, ma anche quando si parla di affari e di modalità di fare affari.
Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri
«Nel mondo dell’edilizia le ‘ndrine sono sempre state molto presenti: offrendo manodopera a basso costo, garantendo lo smaltimento dei rifiuti, rifornendo cemento depotenziato. Gli imprenditori del Nord che si sono adeguati, oggi non possono dire di non sapere o di non aver capito. Spiego: se per anni i tuoi fornitori ti offrono un materiale a 100 e i nuovi arrivati te lo danno a 60, c’è qualcosa che non va. È evidente», ha aggiunto Gratteri.
L’amalgama
È stata la Dda di Genova, con un’inchiesta di qualche anno fa denominata “Amalgama”, a dimostrare come le dinamiche siano le medesime anche per i lavori al Nord. In quel caso, il focus investigativo si concentrò sul Terzo valico, la linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Milano e Genova. Un’opera da 6,2 miliardi. Un grande affare in cui il regista dell’operazione è il consorzio Cociv, ovvero i colossi delle costruzioni italiane: Salini Impregilo, Condotte e Civ. Una storia di flussi di denaro enormi e di corruzione, anche attraverso il reclutamento di escort. Con il solito, inquietante, dubbio sul materiale utilizzato: «Il cemento sembra colla», si dicono due degli indagati intercettati,
È un’inchiesta con nomi altisonanti. Tra le persone rinviate a giudizio, c’è Ercole Incalza, ex capo della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, indagato e poi prosciolto nell’inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. C’è Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo spa, detenente la partecipazione di maggioranza nel consorzio Cociv. Ma c’è anche Andrea Monorchio, ex Ragioniere generale dello Stato ed ex presidente di «Infrastrutture Spa», società a partecipazione pubblica costituita per il finanziamento delle Grandi Opere. Originario di Reggio Calabria, è coinvolto insieme al figlio imprenditore Giandomenico.
Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo spa
Tutti avrebbero formato un “amalgama”, da qui il nome dell’inchiesta. Espressione presa a prestito dalle parole dell’imprenditore Domenico Gallo. Sì, ancora lui, l’imprenditore calabrese già coinvolto nell’inchiesta “Cumbertazione” e destinatario di un sequestro di beni. «Chi fa il lavoro, la stazione appaltante, i subappaltatori, deve crearsi l’amalgama, mo è tutt’uno… Perché se ognuno – dice Gallo intercettato – tira e un altro storce non si va avanti. Quando tu fai un lavoro diventi parte integrante di quell’azienda là e devi fare di tutto perché le cose vadano bene, giusto?». L’intercettazione è agli atti del processo. Processo che è a forte rischio prescrizione. I termini scadranno nel marzo 2022.
La ‘ndrangheta malgrado le tante operazioni di polizia e le numerose condanne nei diversi procedimenti giudiziari degli ultimi anni, resta il principale referente dei narcos sudamericani per l’importo e il traffico di cocaina sia in Italia sia in Europa. Anche altre organizzazioni italiane e straniere, ovviamente, si dedicano a questo business miliardario. Ma nessuno come i boss calabresi è riuscito a entrare nelle grazie dei narcotrafficanti colombiani e messicani in termini di fiducia e affidabilità. Basta incrociare un po’ di dati e ci si rende conto agevolmente di questo primato criminale. I numeri della recente relazione della Dia, del dipartimento antidroga del Viminale e delle tante inchieste giudiziarie sul traffico di cocaina, però, stanno descrivendo anche un comportamento delle cosche calabresi che fa riflettere inquirenti e investigatori.
Ma i boss calabresi sono “gente pratica” a cui piace più dei “colleghi” siciliani e campani l’invisibilità. E sono maestri nell’adattarsi al nuovo che avanza come pochi altri al mondo. Troppi occhi puntati su Gioia Tauro da parte dello Stato hanno quindi indotto i mammasantissima calabresi a spostare altrove gli arrivi della preziosa merce. Con strategie degne di una multinazionale i boss hanno iniziato a spostare uomini e mezzi in altre regioni italiane anche per il traffico di droga. Già la Lombardia e l’Emilia erano state per prime conquistate dalla ‘ndrangheta, che aveva bisogno di sviluppare affari e investire i propri guadagni.
I maxi sequestri in Toscana e Liguria
Ma da tempo ormai la Liguria e la Toscana rappresentano le due regioni dove veicolare parte del traffico di coca che prima era destinato quasi esclusivamente verso Gioia Tauro. Addirittura alcuni nipoti di noti boss calabresi sono nati e cresciuti in Toscana e Liguria, come testimoniano i vari dossier e molti atti processuali. Livorno e Genova diventano quindi i due porti dove far arrivare i container pieni di cocaina. Ecco perché i maggiori sequestri degli ultimi anni sono stati registrati proprio in questi luoghi.
Meno rischi di sequestro
Spiega bene infatti l’ultima relazione della Dia: «I maggiori sequestri di cocaina registrati nei porti di Genova e di Livorno indicano che le organizzazioni criminali calabresi, dopo aver utilizzato per anni il porto di Gioia Tauro quale varco privilegiato, di recente hanno posto l’attenzione anche ad altri scali del Mediterraneo al fine di diminuire i rischi di sequestro. Nel gennaio del 2019 l’operazione “Neve genovese”, svolta con la cooperazione di Spagna, Colombia e Regno Unito, ha consentito di eseguire a Genova il più ingente sequestro registrato in Italia negli ultimi 25 anni, oltre tre tonnellate».
Gioia Tauro superata da Genova e Livorno
Tra gli arrestati figura anche un pregiudicato sanremese ritenuto membro alla ‘ndrangheta di Ventimiglia, legata ai clan di Sinopoli e Siderno. Nel 2020 un altro carico da 3 tonnellate di cocaina, stavolta a Livorno, era riconducibile alle cosche calabresi del vibonese. E pochi mesi fa a Goia Tauro le Fiamme gialle hanno sequestrato una “sola” tonnellata di cocaina proveniente dal Sudamerica, nascosta tra un carico di banane.
Questo significa che i boss calabresi hanno ormai diversificato i luoghi dove far arrivare o partire la droga. E che in Liguria e Toscana “si sentono abbastanza forti” e radicati per gestire questo tipo di business anche da un punto di vista economico.
Questa montagna di denaro contante va poi riciclata, investita, fatta fruttare. Se ne occupano attraverso diverse operazioni finanziarie i colletti bianchi che fiancheggiano da sempre i potenti boss calabresi.
Controllo del territorio
Ma senza un controllo anche del territorio, in presenza diremmo di questi tempi, almeno per il traffico di droga, sarebbe impossibile gestire tutti gli aspetti organizzativi e pratici. Ecco spiegato il perché in Liguria, a La Spezia, Genova, Ventimiglia, così come in Toscana, a Firenze, Livorno e Prato, “spuntano” inchieste. Processi giudiziari che sembrano avviati dalla Dda di Reggio Calabria, per i nomi degli indagati. E che invece sono a cura della Dda di Genova e Firenze, come l’inchiesta “Halcon” del 2020 in Liguria, o dell’operazione “White iron” in Toscana, e della recente operazione congiunta tra la Dda fiorentina e quella catanzarese, della primavera scorsa, che ha visto coinvolti boss e picciotti delle cosche calabresi dello Jonio catanzarese, in azione a Livorno. Il traffico di cocaina era destinato alla Capitale e al litorale laziale. Rotte nuove, vecchio business.
«Spiccona un po’ di più, spiccona un po’ di più che diventa ruvido». Hanno tratti surreali alcune delle intercettazioni captate dagli investigatori durante le indagini che hanno portato al sequestro, con facoltà d’uso, del ponte Morandi di Catanzaro. E surreali sono i comportamenti di alcuni dei protagonisti dell’ennesimo scandalo legato agli appalti pubblici finiti nelle mani di imprenditori legati al crimine organizzato: manager che discutono della inadeguatezza dei materiali da usare sui cantieri e la cui unica preoccupazione «è che facciamo brutta figura», controllori che si accordano con i controllati per riscrivere informative di pg mentre puntano il trasferimento al Ministero, segretarie che diventano manager e che «magari ci facciamo assumere» dalla società che sulla carta dirigono.
Tutti ingranaggi, sostengono i magistrati della Distrettuale antimafia di Catanzaro, agli ordini dei fratelli Sgromo, gli imprenditori catanzaresi da anni comodamente seduti alla tavola degli appalti che contano e che, grazie ad un complicato giro di società fantasma e compiacenti teste di legno a cui le stesse venivano di volta in volta assegnate, sarebbero riusciti a nascondere allo Stato, un gigante economico da 50 milioni di euro di fatturato annuo. E poi i Giampàe il senatore Ferdinando Aiello, e ancora il compianto Paolo Pollichieni e il maresciallo gdf infedele, in un baratro di affarismo famelico che si ripropone ogni volta uguale a se stesso.
Sei le ordinanze di arresto disposte dal tribunale di Catanzaro. Le manette sono scattate per i due imprenditori e per una serie di loro collaboratori oltre che per un maresciallo della guardia di finanza attualmente in forza a Reggio. Gli indagati rispondono, a vario titolo, di intestazione fittizia di beni e associazione per delinquere aggravate dalle finalità mafiose, corruzione, autoriciclaggio, frode in pubbliche forniture e truffa.
I lavori al Morandi
Quella malta non piaceva proprio a nessuno. Non piaceva al rifornitore abituale dei materiali che aveva messo in guardia il cliente: «Fai una figura di merda, quel prodotto non funziona». Non piaceva a Gaetano Curcio, direttore tecnico della Tank (la società gestita dagli Sgromo che si occupa dei lavori di ristrutturazione al viadotto Bisantis e lungo la statale tra Lamezia e Catanzaro) che temeva quel prodotto «perché se non bagni bene il supporto si fessura».
Non andava giù nemmeno al direttore dei lavori dell’Anas, Silvio Baudi, che dei lavori necessari per rendere migliore la resa del prodotto più scadente aveva paura: «non è che mi piaccia molto, meno di un centimetro non mi piace». E ovviamente, la malta Repar Tix – che la Tank aveva appena comprato in sostituzione del prodotto usato abitualmente ma molto più costoso – non piaceva agli operai che quel prodotto poi avrebbero dovuto usarlo sui cantieri: «L’abbiamo usato al Morandi, con questo materiale l’abbiamo fatto e casca tutto. Posso spicconare nu poco di più ma non va bene se mettete un altro tipo di materiale».
A nessuno piaceva quella malta da utilizzare sui cantieri, raccontano le intercettazioni raccolte dagli investigatori, e tutti erano perfettamente consapevoli che non avrebbe reso come da progetto. Ma i soldi in azienda in quel periodo scarseggiano e la liquidità necessaria per rifornirsi della malta tradizionalmente utilizzata non c’è: inevitabile svoltare su un prodotto scadente ma decisamente più economico. D’altronde era stato lo stesso Sgromo a dare il via libera all’intera operazione «pur a conoscenza – scrive il Gip – della scarsa qualità del prodotto e dell’inopportunità di mischiare i prodotti».
Un via libera che aveva cancellato tutti i dubbi. Sia nel direttore tecnico della Tank, che si affretta a presentare l’ordine di acquisto per il nuovo prodotto perché anche se «è una porcheria… è una questione finanziaria e il cantiere non si può fermare» e sia nell’ingegnere dell’Anas che, espresse le proprie perplessità, non fa una piega e firma l’ordine per 30 mila chili della malta che «aggrippa» premurandosi di promuoverne la consegna urgente.
E così, nonostante la omogenea presa di coscienza della totale inutilità del prodotto, come da perfetto copione calabrese, nei lavori Anas per il risanamento strutturale di opere del lotto 5 Calabria (che comprendono anche il ponte simbolo del capoluogo e la bretella che collega Catanzaro con l’autostrada e l’aeroporto) ci finisce proprio la malta che non fa presa sulle superfici lisce. Tanto basta «spicconare un po’ di più. Tu spiccona un po’ di più che poi diventa ruvido».
Il maresciallo e il senatore
I fratelli Sgromo sono sotto la lente della Dda dal 2016. A febbraio, un’informativa della Guardia di Finanza, anche a seguito delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, li bolla come imprenditori di riferimento della cosca Giampà: per gli investigatori delle Fiamme gialle, gli Sgromo sono agli ordini de “u professora”.
Consapevoli dell’interessamento dell’antimafia, i due fratelli cercano qualcuno tra le forze dell’ordine che lavorano al caso che li tenga informati e che, magari, riesca a intervenire in loro aiuto. L’uomo giusto, sostengono gli inquirenti, è il maresciallo Michele Marinaro, in forza alla Dia di Catanzaro ma smanioso di un trasferimento alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
È Paolo Pollichieni (il direttore del Corriere della Calabria deceduto due anni fa), raccontano gli screenshot finiti nell’indagine, che nel 2017 fornisce il nome di un investigatore «del posto» che lavora a quella indagine. Sgromo e Marinaro cominciano così a frequentarsi: sul piatto l’intervento direttamente sulle indagini che vale il tanto agognato trasferimento. E così mentre i fratelli Sgromo, nelle informative della Pg redatte da Marinaro si trasformano progressivamente da imprenditori legati al clan e accusati di associazione mafiosa, in imprenditori vessati dalla mafia e quindi imputabili del solo favoreggiamento per non avere denunciato, la carriera di Marinaro segue la rotta che ormai era stata tracciata.
Ad occuparsene è Eugenio Sgromo in prima persona che da quel momento intensifica i propri rapporti con “Ferd”, inteso l’ex senatore Ferdinando Aiello che, annota il Gip «si è interessato per risolvere la questione che interessa il Marinaro, e cioè il suo trasferimento alla Presidenza del Consiglio». Un intervento che, ipotizzano gli investigatori, sblocca la situazione in pochi mesi. «Ho visto Ferdinando – scrive Sgromo al maresciallo – mi ha detto che ti hanno chiamato, ah che bella notizia, sono contento».
Grazie alla complicità di diversi professionisti, la ‘ndrangheta avrebbe mantenuto la titolarità di un’azienda confiscata fin dal 2007. Ma, soprattutto, avrebbe nascosto il vasto e nocivo giro di rifiuti ferrosi, che sarebbero andati a inquinare anche i territori della Piana di Gioia Tauro. Sono in tutto 29 le misure cautelari disposte dal Gip di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Mala pigna”, curata dalla Dda reggina ed eseguita dai Carabinieri Forestali. Diciannove tra arresti e arresti domiciliari e 10 provvedimenti di obbligo di presentazione all’Autorità Giudiziaria.
I rilievi sui terreni con valori altissimi minerali e idrocarburi
Il blitz dei Carabinieri Forestali ha portato anche al sequestro di cinque società operanti nel settore dei rifiuti per il valore complessivo di un milione e seicentomila euro. Il provvedimento è stato eseguito nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Ravenna, Brescia e Monza-Brianza.
Giancarlo Pittelli di nuovo in carcere
L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci, e dai sostituti Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Un’inchiesta che apre scenari inquietanti sullo stato di inquinamento del territorio. Ma che, ancora una volta, scoperchia le numerose complicità di cui possono godere i clan. In primis quella che vedrebbe protagonista Giancarlo Pittelli.
La conferenza stampa dell’operazione “Mala Pigna”. Terzo da sinistra il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri
L’attività dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia viene definita dal procuratore Bombardieri “a tutto tondo” al servizio della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Pittelli è già coinvolto nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, curata dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Nel maxi-processo alla ‘ndrangheta, gli inquirenti gli contestano di essere un elemento di congiunzione tra l’ala militare dei clan e la massoneria deviata. In particolare, la potente cosca Mancuso. Da sempre, in contatto anche con i Piromalli.
Dopo mesi di detenzione, era da poco ritornato a casa agli arresti domiciliari. Ma è stato nuovamente condotto in carcere. Anche nell’inchiesta “Mala pigna”, il ruolo di Pittelli si staglia come quello di professionista in rapporti di grande affinità con la ‘ndrangheta.
L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli
sarebbe stato al servizio della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro, veicolando messaggi dal carcere verso Rocco Delfino, considerato uomo di spicco della cosca e referente di Pino Piromalli, detto “Facciazza”, e del figlio Antonio Piromalli. Delfino, insieme ad altri complici, avrebbe aggirato la normativa antimafia, promuovendo un’associazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili a se stesso e alla sua famiglia.
I professionisti al servizio del clan
Secondo le indagini, la ‘ndrangheta si sarebbe schermata dietro società apparentemente“pulite”. Con un amministratore legale privo di pregiudizi penali e di polizia, che aveva tutte le carte in regola per poter ottenere le autorizzazioni necessarie alla gestione di un settore strategico, qual è quello dei rifiuti speciali. Così si potevano intrattenere rapporti contrattuali con le maggiori aziende siderurgiche italiane. Contrattare l’importazione e l’esportazione di rifiuti da e per Stati esteri. Nonché aspirare all’iscrizione in white list negli elenchi istituiti presso la Prefettura.
Addirittura, Rocco Delfino continuava a gestire la “Delfino s.r.l.”, che gli era stata confiscata fin dal lontano 2007. Questa ditta era diventata un’azienda di schermatura per le attività illecite dei fratelli Delfino. Fondamentale il ruolo di professionisti compiacenti e asserviti. In particolare, un ruolo fondamentale è rivestito dagli amministratori designati dall’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Nonché di professionisti, come avvocati, consulenti, commercialisti ed ingegneri ambientali. Costoro prestavano per la stessa l’azienda opera di intelletto, con metodo fraudolento e sotto la direzione dei Delfino.
Dalle intercettazioni raccolte emergerebbero le gravi condotte messe in atto dai professionisti a cui gli inquirenti contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’elenco figurano amministratori giudiziari (e poi esponenti dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati) come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi. E poi, la commercialista Deborah Cannizzaro. Ma anche l’ingegner Giuseppe Tomaselli, che avrebbe avuto un ruolo per quanto concerne gli interramenti e l’inquinamento ambientale.
Valori oltre il 6.000% rispetto alla norma consentita
È inquietante ciò che avrebbero scoperto i consulenti nominati dalla Procura. Nella zona limitrofa all’azienda di Delfino (e, fittiziamente, dei Piromalli) i dati inquinanti raggiungerebbero picchi altissimi. Tassi che la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a occultare proprio attraverso perizie di comodo, volte a celare ciò che invece era avvenuto.
Secondo l’inchiesta, infatti, autocarri aziendali partivano dalla sede della società con il cassone carico di rifiuti speciali, spesso riconducibili a “Car Fluff” (rifiuto di scarto proveniente dal processo di demolizione delle autovetture) e giungevano in terreni agricoli posti a pochi metri di distanza, interrando copiosi quantitativi di rifiuti, anche a profondità significative. Gli accertamenti eseguiti avrebbero quindi dimostrato l’interramento di altri materiali, quali fanghi provenienti presumibilmente dall’industria meccanica pesante e siderurgica. Tali terreni agricoli, a seguito degli interramenti ed a cagione di essi, risultavano gravemente contaminati da sostanze altamente nocive.
In particolare, le analisi disposte dalla Dda di Reggio Calabria avrebbero dimostrato come lo zinco fosse presente con valori sette volte superiori a quanto previsto dalla legge. Una presenza crescente per il rame, segnalato con un tasso di dodici volte superiore al consentito. Il piombo saliva fino a cinquantasette volte rispetto alla norma. E, ancora, gli idrocarburi raggiungevano picchi del +4.200% rispetto alle soglie. In alcuni casi i valori sono arrivati al 6.000% sopra la soglia di guardia. Per l’accusa, esiste il concreto ed attuale pericolo che le sostanze inquinanti possano infiltrarsi ancor più nel sottosuolo determinando la contaminazione anche della falda acquifera sottostante.
«Faccendiere di riferimento della ‘ndrangheta»
Il capo d’imputazione a suo carico dipinge Giancarlo Pittelli come un soggetto totalmente a disposizione della cosca Piromalli. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe veicolato informazioni dall’interno all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti al 41 bis. “Facciazza” e suo figlio Antonio Piromalli avevano necessità di comunicare con il loro avamposto, Rocco Delfino, e avrebbero usato proprio Pittelli per farlo.
«Uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento, avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico» è scritto nelle carte d’indagine. Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino per la revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino s.r.l., pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro Sezione Misure di Prevenzione, con l’intento di “influire” sulle determinazioni del Presidente del Collegio al fine di ottenere la revoca del sequestro di prevenzione. Ad accusarlo è MarcoPetrini, il giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari che ha iniziato a “vuotare il sacco” rispetto al sistema di mazzette in cui si sarebbe mosso. Mettendo in mezzo anche Pittelli.
Ma dalle intercettazioni emerge anche la volontà di Delfino di raggiungere l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Delfino avrebbe interpellato Pittelli per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato. Frattini, comunque, è totalmente estraneo alla vicenda. «Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip – Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino».
La discarica d’Italia. E forse non solo. Questa è stata la Calabria. Non solo sotto il profilo degli accordi, i patti, le connivenze, tra il mondo criminale e pezzi deviati dello Stato. Non solo come laboratorio criminale, quindi. Ma in senso stretto. Un territorio “a perdere”, dove poter sperimentare le peggiori alleanze. E dove poter occultare scorie di ogni tipo. Ben oltre la “Terra dei fuochi”. Qui non parliamo di “monnezza”. Ma di rifiuti tossici. Di scorie nucleari. Di materiale radioattivo.
Il carteggio
Qualcosa che sarebbe iniziato già tra gli anni ’70 e ’80. Lo dimostra il fitto scambio di comunicazioni, di cui I Calabresi vi hanno già dato conto qualche settimana fa. Comunicazioni tra pezzi dello Stato. Servizi segreti, forze dell’ordine, magistratura. Ma, forse, non tutti giocavano nella stessa squadra.
Matteo Renzi ai tempi in cui guidava il Governo
Un carteggio iniziato almeno dal 1992. Fu la decisione dell’allora Governo presieduto da Matteo Renzi a far toccare con mano quanto fosse già nella conoscenza di diverse autorità investigative circa il traffico di rifiuti tossici e radioattivi che avrebbero avuto per teatro la Calabria. Tra gli atti desecretati sulle “navi dei veleni” e sull’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono anche quelle note dei Servizi Segreti con cui viene segnalato l’interesse delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito di scorie nucleari sul suolo calabrese.
Le note “riservate”
Oggi è possibile documentare alla fine del 1992 la prima comunicazione ufficiale. Ma “riservata”. Come da DNA dei Servizi Segreti. È il 17 novembre 1992 quando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia. Rifiuti sotterrati lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria.
I rifiuti – è scritto nella nota dei Servizi – «verrebbero sotterrati, grazie alla copertura dei predetti fratelli, lungo canali scavati la posa dei tubi del metanodotto in via di costruzione presso il fiume Mesima e più precisamente nella contrada Vasi». Addirittura, la nota dei Servizi individua anche il mezzo utilizzato per effettuare la manovra. Un camion del Comitato Autotrasportatori CAARM.
Contestualizziamo: Cosa Nostra ha appena ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in quel terribile 1992. Ovviamente, tutta l’attenzione è concentrata, quindi, sulla potenza e sulle connivenze della mafia siciliana. E così, la ‘ndrangheta imperversa. Con soggetti, la cui importanza ci è ormai chiara solo da qualche anno.
Il “Tiradritto”
Uno di loro è il boss Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo. Catturato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2004. In quel periodo, invece, il “Tiradritto” è latitante. E “attivamente ricercato”, come si dice in gergo. Di lui si occupano anche i Servizi Segreti. Gli 007 segnalano come in cambio di una partita di armi, Morabito avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche. E, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania.
«Gli accertamenti e le indagini tuttora in corso – scriveranno dai Servizi – hanno consentito di acclarare che l’area interessata allo scarico del materiale radioattivo sarebbe compresa nel territorio sito alle spalle di Africo e segnatamente nella zona di Santo Stefano-Pardesca-Fiumara La Verde». Anni dopo, molti anni dopo, emergerà come in alcune zone di Africo vi sia un’incidenza tumorale e di malattie neoplastiche insensata per quel territorio. Privo di apparenti agenti inquinanti.
Forse, a posteriori, quindi una spiegazione arriva proprio da quelle note “riservate” sul conto della ‘ndrangheta che conta. Perché quelle informative dei Servizi erano piuttosto circostanziate: «In contrada Pardesca è stato riscontrato un tratto di terreno argillosorimosso di recente. Verosimilmente, per l’interramento di materiale di ingombro. Nello stesso tratto è stato rinvenuto, altresì, un bidone metallico di colore rosso adagiato sul terreno».
Settemila fusti
Gli atti desecretati alcuni anni fa dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, mostrano anche come alla fine del 1994 i Servizi Segreti segnalassero l’esistenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossico-radioattivi, ubicate nella zona aspromontana e nel Vibonese. Lì esponenti della cosca Mammoliti avrebbero occultato sostanze pericolose provenienti dall’Est Europa. Via mare e via terra. Anche in questo caso, la segnalazione arriva al Ros.
In quegli anni è molto attivo il ruolo del SISMI e del SISDE. Ciò che colpisce è che dietro questi affari, vi sia la “grande ‘ndrangheta”. Quella dei Cordì e quella dei Morabito per la Locride. I Mammoliti, da sempre clan importante a cavallo della provincia di Reggio Calabria e di quella di Vibo Valentia. Ma anche di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta. Le famiglie che più di tutti hanno contribuito al salto di qualità della criminalità organizzata calabrese. I Servizi Segreti segnalano infatti l’esistenza di un vasto traffico nazionale riguardante lo smaltimento illecito di sostanze tossiche e radioattive attraverso il conferimento in discariche abusive per conto di tre tra le famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i De Stefano, i Tegano e i Piromalli.
Le note dei Servizi parlano addirittura di circa settemila fusti sparsi nelle discariche del Nord Italia, a opera delle cosche. Gli 007 arrivano anche a fare una mappatura: «Nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz)».
Via mare e via terra
Altri tempi. Luoghi come Serra San Bruno e Fabrizia ancora indicano la dicitura della provincia di Catanzaro. Fatti che riemergeranno solo molti anni dopo. Più di venti. Delle scorie, invece, neppure l’ombra. Eppure l’intelligence parla anche di un traffico di uranio rosso. E sottolineano, nero su bianco, i primi incoraggianti riscontri info-operativi. Attivando le proprie fonti, infatti, gli 007 acquisiranno ulteriori dati: «Le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie site, oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, ecc.). Nonché nel Vibonese».
Il porto di Odessa
In quella zona la famiglia Mammoliti, competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossici-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto in quell’area. Rifiuti che – stando alle note dei Servizi – sarebbero arrivati dall’Est dell’Europa per mare e per terra: «Il canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni. Il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir. Anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi».
Il ruolo dei Servizi
Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti anche le dichiarazioni del magistrato Alberto Cisterna. Per un determinato periodo, lavorerà al caso delle “navi dei veleni” e dei traffici di scorie sul territorio calabrese: «Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti. Questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell’attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione».
Sì perché – lo abbiamo visto – i Servizi c’erano eccome di mezzo: «Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i Servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo. Fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava. Quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D’accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro”.
La versione del Sismi
Abbastanza criptico (e inutile) il contributo del direttore del Sismi dell’epoca, il generaleSergio Siracusa: «Il Servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (…). Nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c’è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l’attività svolta. Vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell’Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia» dirà Siracusa.
Pronti a colpire ancora. Con armi da guerra. La cosca Crea di Rizziconi è una delle consorterie più feroci della ‘ndrangheta. Il lavoro congiunto di tre Direzioni Distrettuali Antimafia lo dimostra ulteriormente. Dal profondo Sud, con il lavoro dei pm di Reggio Calabria. Al Nord, con le attività della Dda di Brescia. Fino al Centro, con la Dda di Ancona, competente territorialmente per il delitto.
Tre Procure al lavoro
Con le indagini congiunte, infatti, gli inquirenti sono convinti di aver fatto luce sul delitto di Marcello Bruzzese, consumato nel giorno di Natale del 2018 a Pesaro, nelle Marche. Un delitto gravissimo, realizzato in un giorno simbolo, il 25 dicembre. Come nelle migliori tradizioni di ‘ndrangheta. Reso ancor più inquietante dal fatto che Bruzzese risiedeva nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. Era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.
Associazione di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi, reati questi ultimi aggravati dall’aver commesso i fatti al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta. Queste le contestazioni che gli inquirenti muovono agli indagati. I pm hanno spiccato un provvedimento d’urgente di fermo a carico di quattro persone: Vincenzo Larosa, Michelangelo Tripodi, Rocco Versace e Francesco Candiloro. Tutti, ad eccezione del primo, sono ritenuti organizzatori ed esecutori materiali del delitto.
Il delitto Bruzzese
Una falla pazzesca nel sistema di protezione. Le complesse verifiche condotte hanno consentito di accertare come nei periodi immediatamente precedenti all’omicidio gli indiziati avevano condotto minuziosi e ripetuti sopralluoghi per studiare le abitudini della vittima. Servendosi, in queste circostanze, di documenti falsi e di una serie di accorgimenti utili a impedire la propria identificazione.
Il vasto compendio probatorio raccolto dalle attività condotte dal ROS, ha permesso di circoscrivere il movente dell’azione omicidiaria nella “vendetta trasversale”, nell’interesse della cosca Crea. Per la decisione collaborativa assunta da Girolamo Biagio Bruzzese nel 2003.
All’omicidio del Natale 2018 va quindi attribuita una valenza strategica, in quanto necessario a rimarcare la perpetuazione dell’operatività della cosca Crea e della sua capacità di intimidazione. Nonché a scoraggiare, nell’ambito della consorteria, ulteriori defezioni collaborative.
Pronti a colpire ancora
Ma, paradossalmente, non è questo l’elemento più inquietante dell’inchiesta. Le indagini dei Carabinieri del Ros, infatti, avrebbero dimostrato come Vincenzo Larosa e Michelangelo Tripodi fossero soggetti a disposizione degli interessi del sodalizio. Larosa affiliato di vecchia data ai Crea. Il padre Carmelo avrebbe anche fornito un bunker per la latitanza di alcuni soggetti apicali del clan della Piana di Gioia Tauro. Sul conto di Tripodi, soggetto del Vibonese, pesano invece le dichiarazioni del collaboratore di giustiziaBartolomeo Arena, recentemente escusso anche nel maxiprocesso “Rinascita – Scott”, condotto dalla Dda di Catanzaro.
L’ex sindaco di Rizziconi, Antonino Bartuccio, vive sotto scorta dopo le sue denunce contro la cosca Crea
Ebbene, secondo l’inchiesta, Larosa e Tripodi stavano pianificando più attentati omicidiari nell’interesse di Domenico Crea. Anche come ritorsione per l’emissione della sentenza di condanna emessa il 12.12.2020 dalla Corte di appello di Reggio Calabria a carico di Teodoro Crea, Giuseppe Crea (cl.78) e Antonio Crea (cl. 63). Si tratta del procedimento “Deus”, con cui la Dda di Reggio Calabria ha dimostrato l’ingerenza del potente casato di ‘ndrangheta nell’amministrazione comunale di Rizziconi. In quell’occasione, si registrò la coraggiosa denuncia dell’allora sindaco Antonino Bartuccio, soggetto sgradito ai Crea. Da quel momento, Bartuccio vive sotto scorta insieme ai propri familiari. E potrebbe essere proprio lui uno dei soggetti nel mirino dei Crea.
Le armi da guerra
Alla conclusione, gli inquirenti arrivano valorizzando delle captazioni di tipo tecnologico che non si era potuto acquisire “in diretta”. Le conversazioni testimonierebbero l’astio degli affiliati dopo la sentenza d’Appello del processo “Deus”. Da quel momento, sarebbe scattata una corsa agli armamenti di tipo pesante. Un gruppo di fuoco agguerrito, nonostante i vertici della cosca siano da tempo detenuti in regime di 41 bis. Come ha spiegato il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri: «Sempre pronti “a dare soddisfazione” ai loro capi in carcere».
Il procuratore Bombardieri durante la conferenza stampa di oggi
Un canale individuato per ottenere l’approvvigionamento di armi sarebbe stato il territorio dei Balcani. Sebbene non ritrovato in sede di perquisizione dai Carabinieri, gli affiliati fanno chiaro riferimento a un bazooka. Evidentemente in grado di poter colpire con successo anche un’auto blindata. Proprio come quella su cui viaggia Bartuccio insieme alla famiglia. Agli atti dell’inchiesta una conversazione in cui uno dei fermati, facendo riferimento a una sentenza della Corte d’Appello, diceva che ci voleva un AK47, un kalashnikov. E sparare à gogo.
Insomma, sebbene il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto Gaetano Paci, mantengano ufficialmente il riserbo, appare pressoché scontato che uno degli obiettivi fosse proprio Bartuccio. Protagonista di una coraggiosa (e rara) denuncia e quindi da punire. Soprattutto dopo la dura sentenza d’Appello.
«Due dei fermati erano pronti a commettere altri episodi delittuosi con la disponibilità di armi da guerra inquietanti. Stavano pianificando un altro delittodi un altro testimone di giustizia che aveva reso testimonianze» ha rivelato, la procuratrice distrettuale antimafia delle Marche, Monica Garulli.
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