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  • Dalla tarantella alla trap, passando per il neomelodico: come cambiano i “canti di malavita”

    Dalla tarantella alla trap, passando per il neomelodico: come cambiano i “canti di malavita”

    Certamente canzoni del genere non le vedremo mai in corsa per la vittoria del Festival di Sanremo. Né i videoclip e i film che con esse si accompagnano rimarranno nella storia del cinema e della tecnica registica. Ma tutto si può dire tranne che non riscuotano successo. Sono quelle che, storicamente, vengono definite i “Canti di malavita”.

    I canti di malavita

    Negli anni si è passati da fisarmoniche e organetti, con ritmi che ammiccano alla tarantella calabrese, alle canzoni neomelodiche. E, soprattutto negli ultimi anni, alla musica rap e alla sua derivazione, la trap. Quel mix tra batteria cupa e sintetizzatori. E anche i supporti sono cambiati. Se un tempo, a Polsi, dove a inizio settembre si celebra la festa della Madonna della Montagna, le bancarelle che vendono i cd – e, in alcuni casi, persino le musicassette – con i “canti di malavita” sono tra le più diffuse, oggi questi capolavori li ritroviamo spesso su YouTube e sui social. Dove fanno il pieno di like e interazioni.

    Ma il cliché è quello di sempre. E può essere assimilato ai corridos in voga nel Centro e nel Sud America, soprattutto negli ambienti legati al narcotraffico. Modelle, ballerine, cantanti, attrici. Insieme a soldi, auto di lusso (rigorosamente blindate), droga, alcolici e soldi. Tutto questo appare sempre in questi videoclip che circolano su internet e che fungono da vera e propria propaganda dei cartelli della droga. Qui, invece, gli “eroi” sono i boss, i carcerati, gli ergastolani. Nei corridos si ostenta la vita da nababbi dei narcos, mentre nei “canti di malavita”, ci si pone come uomini pii e devoti, vessati dai cattivi, da combattere e rifuggire: lo Stato e le forze dell’ordine (gli sbirri).

    “Figli da gente”

    L’ultimo brano in ordine di tempo si intitola Figli da gente ed è la colonna sonora dell’omonimo film, le cui riprese sono in corso in provincia di Crotone. Ma l’autore, il 24enne Tony Lena, fa ancora di più, unendo, a detta di taluni, due culture, come quella camorrista e quella ‘ndranghetista. L’autore, infatti è campano e la canzone immortalata in un videoclip che sta facendo il giro del web è in lingua napoletana. Ma viene citata espressamente Cirò Marina, nel Crotonese, strizzando l’occhio alla criminalità organizzata. Con capigliature, vestiti e atteggiamenti da guappi napoletani, i protagonisti tentano di conquistare l’ascoltatore. Il videoclip si snoda per le vie della località marittima, tra pistole, scene di spaccio e fughe rocambolesche proprio dagli “sbirri”.

    Un videoclip che ha registrato migliaia di visualizzazioni su YouTube, prima di essere rimosso. Ma adesso è riapparso tramite un altro canale. Tutto è stato denunciato anche dalla senatrice del Gruppo Misto, Margherita Corrado. Ex esponente del Movimento 5 Stelle, componente della Commissione Parlamentare Antimafia, Corrado ha parlato di “pubblicità negativa”. Proprio la Commissione presieduta da Nicola Morra starebbe seguendo la vicenda. Peraltro, già da tempo è stato depositato un disegno di legge proprio per l’introduzione, nel codice penale, del delitto di istigazione e apologia della criminalità. Ma dal giugno 2020 giace arenata in Commissione Giustizia.

    I testi delle canzoni

    Già, perché si tratta di pura propaganda. Un po’ stantia, forse. Ma pur sempre propaganda. Anche Figli da gente non brilla per innovazione perché non si discosta troppo dai luoghi comuni propri della cultura criminale. Il riferimento è a una terra povera, con poche, pochissime, opportunità Addò si campa ccù niente recita la canzone. Per il paroliere, i “figli da gente” sono, infatti, quelli che “rischiano ‘a vita ppe chesta città, chi ha perso ‘nu pate, chi aspetta nu frate ca sta carcerato e vo turna’ ad abbraccia’”. Persone che vivono sempre sul filo, perché devono difendersi dai blitz delle forze dell’ordine: Chi ‘a notte non duorme ‘ccu chella paura ca so vanno a piglia”. Tra un pensiero e l’altro per i carcerati, che, comunque, non vengono mai abbandonati dall’obolo delle cosche. Così come si raccontava, miticamente, in un’altra canzone di qualche tempo fa.

    “Pe’ guagliune ‘e l’Aemilia”

    Qualche mese fa, infatti, era emersa, altrettanto prepotentemente, la canzone Pe’ guagliune ‘e l’Aemilia, scritta proprio per dare conforto a chi era rimasto coinvolto in una delle inchieste più grandi sulla ‘ndrangheta al Nord. Il processo “Aemilia”, appunto. Scaturito dal blitz con cui i Carabinieri, nel gennaio 2015, arrestarono oltre 300 persone accusate di aver fatto parte di un’organizzazione criminale, capeggiata dal boss di Cutro – anche in questo caso in provincia di Crotone – Nicolino Grande Aracri. Che spadroneggiava su mezza Calabria, parte dell’Emilia e della Lombardia e aveva ramificazioni all’estero. In quel caso, l’idea fu del cantante neomelodico Gianni Live, che rilasciò il proprio brano e il proprio videoclip ancora una volta su YouTube. E, ancora una volta, fu un grande successo.

    L’odio verso i pentiti

    Se Figli da gente si concentra sulle sofferenze della detenzione, il testo del brano di Gianni Live è quasi totalmente incentrato sui pentiti, gli “infami” che, con le loro “cantate” inguaiano gli uomini d’onore. Che, ovviamente, nei testi sono sempre uomini giusti e retti, nonché mariti amorevoli e padri esemplari. Da sempre, gli “infami” e i “tragediatori” della ‘ndrangheta sono nel mirino. Ma con questi testi l’odio raggiunge livelli elevatissimi: “Nui ca ci mettimmu ‘o core dinta ‘e lettere… arret’ a ‘sti cancelli pensann’ ‘a liberta’” (Noi che mettiamo il cuore dentro le lettere… dietro a questi cancelli pensiamo alla libertà), quindi l’attacco al processo: “Ppe colpa d’u pentito nui stamm’a pava’… int’a stu processo Aemilia ‘ncuollo a nui hanno raccuntato nu par ‘e strunzate… c’hanno cundannat’” (Per colpa di un pentito noi stiamo pagando dentro a questo processo Aemilia addosso a noi hanno raccontato un paio di stronzate ci hanno condannato”).

    I tempi cambiano?

    Negli affari e nel modo di relazionarsi con il potere, la ‘ndrangheta cambia ed evolve continuamente. Per quanto concerne i riti e le tradizioni, invece, resta sempre simile a se stessa. Sono passati quasi vent’anni dai fatti cristallizzati nell’inchiesta “Pettirosso”, condotta contro la cosca Bellocco, una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta. In quell’indagine è possibile rintracciare e leggere un componimento dedicato al boss Gregorio Bellocco. Una canzone dal titolo eloquente – “Circondatu” – che è il racconto di una fuga, avvenuta nel 2003, allorquando i carabinieri fanno irruzione in un bunker situato ad Anoia, in provincia di Reggio Calabria. Al momento dell’arresto, due anni dopo rispetto all’epico racconto, il ritrovamento all’interno del covo di un compact disk dal titolo “Penzeri di nù latitanti”.

    Oltre il business

    Raramente si tratta di denaro. Dietro queste opere c’è quasi sempre un aspetto ideologico. Quasi pedagogico del crimine. Anche se alcuni anni fa, due persone sono state anche condannate dal Tribunale di Reggio Calabria per le minacce agli attivisti dell’ex Museo della ‘Ndrangheta (oggi Osservatorio sulla ‘ndrangheta), che da anni ha una sede in un immobile confiscato alle cosche e si muove come un avamposto di aggregazione in un quartiere periferico e degradato.

    Nel maggio 2012 i due si sarebbero presentati presso la sede del Museo dichiarandosi “autore” e “manager-produttore” dei cd “I canti di malavita” per chiedere maggiori informazioni sull’utilizzo che il Museo della ‘ndrangheta fa delle canzoni all’interno di laboratori didattici per lo studio del linguaggio della ‘ndrangheta. Rivendicavano, con minacce i propri diritti d’autore per l’uso delle loro opere. Hanno trovato solo una denuncia e una condanna.

    Il menestrello Otello Profazio

    I tempi, allora, forse non cambiano. In un’altra inchiesta contro le cosche di ‘ndrangheta, denominata “All inside”, emerse come gli uomini e le donne della famiglia Pesce, appartenente al gotha della criminalità organizzata calabrese, comunicassero con i detenuti (ricevendo anche messaggi dagli stessi) attraverso la trasmissione di determinate canzoni. E, allora, più le cose cambiano, più restano le stesse. Forse non saranno più gli strumenti musicali, le grida, i rumori di Polsi, tra tarantelle, organetti, tamburelli sotto l’egida di un “mastru i ballu”. Ma questi “canti di malavita” continuano ad avere quel ruolo di sempre.

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    Otello Profazio

    Anche una canzone popolare, intitolata “Ndrangheta, Camorra e Mafia”, scritta e interpretata dal cantautore Otello Profazio, assai noto a Reggio Calabria e nella sua provincia, pone grande risalto sulla meticolosità con cui, negli anni, siano state approntate le regole su cui si basa gran parte della forza della ‘ndrangheta:Lavuraru trint’anni sutta terra, pi fondari li reguli sociali, leggi d’onori di sangu e di guerra leggi maggiori, minori e criminali…” (traduzione: “Hanno lavorato trent’anni sotto terra, per fondare le regole sociali, leggi d’onore di sangue e di guerra, leggi maggiori, minori e criminali”).

    Canzoni e valori popolari

    La forza della ‘ndrangheta, dunque, si è sempre manifestata nella sua eccellente capacità di strumentalizzare valori popolari in cui chiunque, anche il personaggio più lontano, geograficamente e ideologicamente, dalle cosche e dalla mentalità mafiosa. Una peculiarità che non è sfuggita all’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani: «I valori che la mafia dice di avere sono quelli della dignità individuale, dell’onore, del rispetto della “parola”: una serie di valori analoghi a quelli della cultura popolare. Il problema è che, mentre i valori della cultura popolare sono realmente perseguiti, voluti, come forme di autorealizzazione, i valori mafiosi sono “detti” per acquisire consenso, e vengono vissuti in maniera però truffaldina, perché servono per coprire il comportamento violento». E anche la musica, in questo senso, svolge un ruolo fondamentale. Come una formula di iniziazione o celebrativa, con titoli emblematici come Sangu chiama sangu, I cunfirenti, Omertà, Cu sgarra paga, Appartegnu all’onorata, Ergastulanu, Mafia leggi d’onuri. Forse non ascolteremo nemmeno queste al Festival di Sanremo…

  • La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    Una volta uscito dal carcere, il superboss di Limbadi Luigi Mancuso avrebbe praticato una «politica di pace» per cui ognuno, sul territorio vibonese, doveva avere il suo spazio. E tutti dovevano essere «belli garbati, precisi» e fare «le cose col silenzio». Ne parlavano in questi termini, intercettati, due imprenditori ritenuti sodali del clan di Filadelfia capeggiato da Rocco Anello. Che proprio dai nuovi equilibri garantiti dal «supremo» sembra abbia tratto negli anni grossi vantaggi.

    In passato era stato tra i protagonisti di quella che negli ambienti venne definita «linea bastarda», un’alleanza di ‘ndrangheta che si opponeva allo strapotere dei Mancuso. Poi alcuni boss di quella fazione sono stati uccisi, altri ridimensionati, e i rapporti sull’asse Filadelfia-Limbadi si sono ricomposti.

    Anello, il boss imprenditore

    Anello viene d’altronde descritto oggi come un boss imprenditore. Lontani gli anni in cui il suo paese era famigerato per la lupara bianca, si sarebbe rivelato un mediatore scaltro con un infallibile fiuto per gli affari. E dal suo feudo, sul confine tra Vibonese e Lametino, avrebbe costruito un impero economico che arriverebbe oltre le Alpi. Villaggi turistici, impianti eolici, movimento terra, forniture di calcestruzzo, appalti boschivi, estorsioni su lavori pubblici. Armi e droga. Con intermediari legati alla politica e talpe nelle forze dell’ordine.

    Niente telefono, basta la moglie

    Anello faceva business ma non aveva telefoni. Gli bastava che chi ne aveva facoltà facesse il suo nome. Era la moglie, Angela Bartucca, a fare da catalizzatore di tutti i messaggi in entrata e in uscita per il boss. Formalmente separati, lui nei giorni scorsi è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione, lei a 12.

    Con un passato oscuro che rimanda alla scomparsa di due giovani – Santino Panzarella e Valentino Galati avrebbero avuto relazioni con lei, ma sulla loro sorte non c’è mai stata alcuna certezza giudiziaria – Angela Bartucca avrebbe rivestito il ruolo di tramite tra il capocosca e gli altri affiliati.

    Il finanziere coinvolto

    Una condanna a 12 anni l’ha rimediata anche un brigadiere della Guardia di finanza, Domenico Bretti. Gli uomini del clan lo chiamavano “Gardenia” e da lui avrebbero avuto informazioni di polizia giudiziaria, roba di microspie e bonifiche, che dovevano rimanere segrete.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme

    Anello, la moglie, il finanziere, più un’altra sessantina di imputati, hanno optato per l’abbreviato e sono stati quasi tutti condannati. L’hanno chiamato “Imponimento”, il secondo maxiprocesso vibonese dopo “Rinascita-Scott”, ed è arrivato a sentenza proprio nei giorni scorsi. Ancora in corso, invece, è il rito ordinario in cui ci sono imputati eccellenti come l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani.

    Il precedente processo sugli Anello, denominato “Prima”, si era fermato al 2004. Così la Dda di Catanzaro ha provato a ricostruire gli affari e i rapporti che, da allora e fino a oggi, il clan avrebbe intessuto con molte famiglie del Vibonese, ma anche del Reggino e del Catanzarese, per arrivare fino in Sicilia. Per farlo, oltre all’immancabile mole di intercettazioni, sono stati incrociati i racconti di ben 29 pentiti.

    Kalashnikov all’ufficio postale

    Tra questi il più importante è Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo città che ha rivelato come Anello avesse un canale per le armi con la Svizzera. Da lì, via Piemonte, pistole e kalashnikov in quantità sarebbero arrivate in Calabria addirittura per posta, con l’ufficio postale di Curinga utilizzato come una sorta di magazzino-polveriera dai sodali del boss. L’indagine della Dda si è intrecciata con quanto ha raccolto la Polizia Federale elvetica, che grazie al contributo di un agente infiltrato ha svelato gli interessi del clan di Filadelfia in alcuni night club in Svizzera e in un ristorante in Germania.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Un pentito che conosce bene quel territorio è poi Francesco Michienzi, che ha confermato il canale svizzero per le armi e ha tratteggiato la «figura carismatica di Rocco Anello»: quando era libero «riuscì a controllare completamente la costruzione e la gestione» di un villaggio sulla statale 18 «estromettendo i Mancuso». E quando era dentro era la moglie a portare fuori le sue «imbasciate».

    Dal Tirreno allo Jonio

    La zona di confine tra Vibonese e Catanzarese su cui Anello esercitava il suo potere non è però solo quella della costa tirrenico tra Pizzo e Lamezia, ma anche l’area interna dell’istmo che arriva all’altro tratto di costa, quello jonico. Da quella parte c’è Roccelletta di Borgia, il paese di un altro pentito che, fin nei verbali depositati di recente, ha rivelato alcune cose scottanti. Si tratta di Santo Mirarchi, affiliato da giovanissimo a un gruppo criminale che fino al 2009 non aveva un “locale” autonomo di ‘ndrangheta ma era, appunto, sotto quello di Filadelfia.

    Mirarchi ha parlato parecchio di estorsioni. Grosse estorsioni a danno di imprese importanti. Il suo gruppo avrebbe partecipato a quella sui lavori della statale 106 all’altezza di Borgia a danno dell’Astaldi, uno dei principali general contractor italiani e tra i primi 100 a livello mondiale nel settore delle costruzioni.

    «Una parte dei proventi di questa estorsione – in tutto circa 300mila euro secondo il pentito, ndr – e precisamente la somma di 50mila euro, spettava a Rocco Anello». Il boss avrebbe allungato le mani anche sui lavori di movimento terra dell’allora autostrada A3, nonché su un subappalto per la costruzione «del padiglione universitario alle spalle del policlinico a Germaneto». Ancora: il gruppo di Roccelletta, sempre col permesso di don Rocco, avrebbe avuto la sua fetta sui lavori «per il posizionamento delle cosiddette antenne relative alla telefonia cellulare che dovevano essere installate nelle montagne di Roccelletta, Filadelfia e Vallefiorita».

    «I capannoni degli Abramo»

    C’è infine una vicenda che era inedita fino alla discovery degli ultimi verbali. Mirarchi la colloca «fra il 2000 e il 2004» e riguarda «la costruzione dei capannoni industriali in località Germaneto da parte dei fratelli Abramo».
    Da Borgia avrebbero chiesto l’estorsione ma «costoro, cioè gli Abramo, fecero presente – dice Mirarchi – di essere legati a Rocco Anello, pertanto l’estorsione venne pagata a quest’ultimo».

    Il pentito lo avrebbe saputo perché, lavorando al cantiere come guardiano, avrebbe assistito alle discussioni tra Anello, gli Abramo e i referenti di Borgia. «Ricordo – dichiara il pentito – che Rocco Anello ebbe 200mila euro a titolo estorsivo, quelli di Roccelletta vennero ricompensati con gli appalti e con l’assunzione di diversi guardiani tra i quali anche me». Ma non c’è nessun riscontro giudiziario.

    L’erba con la Panda

    Non solo estorsioni, però: nei racconti di Mirarchi c’è spazio anche per traffici di droga. Il pentito dice di aver acquistato spesso cocaina e marijuana da «un certo Fruci». I fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci sono ritenuti l’ala operativa degli Anello su Curinga e, anche loro, sono stati condannati a 20 anni a testa in “Imponimento”.
    Una volta, a consegnare dieci chili di marijuana al pentito sarebbe stato un «corriere di Fruci»: si trattava di «un vecchietto» che gli portò l’erba a casa «a bordo di una Panda».

  • Il regalo dello Stato alla ‘ndrangheta

    Il regalo dello Stato alla ‘ndrangheta

    Invaso, colonizzato, depredato: sono solo alcuni degli aggettivi che vengono utilizzati per definire il Nord in relazione alla presenza della ‘ndrangheta e delle mafie in generale. Da Roma in su, la criminalità organizzata fa i soldi veri. Un po’ perché l’economia che conta, nel nostro Paese, si svolge nelle grandi città e non nel depresso Meridione. Un po’ perché, per anni, su quei territori, le organizzazioni malavitose hanno potuto agire quasi indisturbate. Ricreando le stesse dinamiche della casa madre.

    L’ultima inchiesta

    Appena qualche giorno fa, 13 ordinanze di custodia cautelare emesse dal G.I.P. del Tribunale di Milano nei confronti di altrettanti soggetti. Alcuni di loro sarebbero contigui a storiche famiglie ‘ndranghetiste originarie di Platì radicatesi tra le province di Pavia, Milano e Monza Brianza nonché nel Torinese.

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    Il comune aspromontano di Platì

    Le cosche della Locride, soprattutto (ma non solo), in quei territori hanno riproposto il modus operandi dell’entroterra calabrese. Dalle estorsioni all’infiltrazione nei lavori pubblici, passando per gli investimenti tipici – grande distribuzione, edilizia, slot machine – e persino la guardiania.

    «Ti ammazzo come i cani»

    Fa specie, con riferimento all’ultima inchiesta sulla famiglia Barbaro, leggere le intercettazioni: «L’ho presa e l’ho messa sul tavolo (l’arma, ndr) … gli ho detto … vedi che ti ammazzo … come ai cani ti ammazzo … e me ne sono andato». Così si esprimeva, intercettato, Rocco Barbaro, 30 anni, arrestato assieme al padre Antonio, 53 anni, nell’inchiesta della Guardia di finanza di Pavia e del pm della Dda milanese Gianluca Prisco. Non ci troviamo nei “classici” luoghi di ‘ndrangheta. Ma al Nord.

    Incensurato ma pericoloso

    Nonostante la sua «formale incensuratezza», scrive il gip sulla posizione di Rocco Barbaro, «la pericolosità dell’indagato è emersa chiaramente nell’analisi della presente indagine» come «costante coadiutore del padre Antonio nella gestione del narcotraffico e nelle attività criminali ad esso strumentali (armi ed estorsioni)».

    Terra di conquista

    Il Nord, quindi, da decenni, è la zona prediletta dalle cosche per fare investimenti, ma anche per condizionare la vita economica e sociale. La borghesia lombarda, quella piemontese o ligure, si sono “vendute” con una facilità forse maggiore rispetto a quanto accaduto in Calabria. Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, appalti truccati, sanità condizionata attraverso gli uomini giusti nelle Asl. Ma anche sangue e omicidi.

    Fin dagli anni ’70, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investivano ingenti capitali nel Nord Italia. In particolare nella zona di Milano, dove spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa sei mesi una sanguinaria faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi.

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    Il Palazzo di Giustizia di Milano

    E parte dall’omicidio del boss scissionista Nunzio Novella, avvenuto nel Milanese, la maxi-inchiesta “Crimine-Infinito” che, circa 15 anni fa, svelò a tutta Italia come la ricca Brianza, ma non solo, fosse un’importante e potente succursale. Della Locride quanto della Piana di Gioia Tauro o di centri chiave nella storia delle ‘ndrine, come Guardavalle.

    Personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ’ndrangheta al Nord gliela fornisce.

    Il Nord come la Calabria

    Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da tradizione della ’ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi” piegati alle esigenze dei clan. Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto.

    Le attività criminali dei clan spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni) a quelli relativi a traffici di stupefacenti e armi. Una lista a cui aggiungere anche gli omicidi di appartenenti a organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e/o il controllo di attività economiche. In particolare di ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina e autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, di demolizione auto e commercio rottami, di trasporto).

    Un mucchio di soldi per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore. E per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari. Il passo precedente è stato però quello di occupare l’Italia: nel senso letterale del termine. E questo avviene grazie a una delle (tante) scelte sbagliate mosse contro le cosche. Pensando di poterle affrontare solo sotto il profilo repressivo.

    La colonizzazione

    Tra i primi a occuparsene, lo storico Enzo Ciconte, che, da decenni, tenta di studiare il fenomeno sotto il profilo storico, ma anche sociale. Ebbene, la ‘ndrangheta non ha “scelto” il Nord. Almeno non all’inizio. Col tempo ha capito che fare affari lì era più conveniente, forse anche più “facile”. Ma l’arrivo (e quindi la colonizzazione) di quelle ricche aree del Paese avviene grazie a un “favore” fatto dallo Stato alle cosche: «Tale scelta è relativamente recente perché matura a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono al Nord non per scelta, ma perché inviati al confino da una legge dello Stato» scrive Ciconte nel suo libro Ndrangheta.

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    Lo storico Enzo Ciconte

    Insomma, con il crescente aumento dei crimini della ‘ndrangheta (e delle mafie in generale) nei territori meridionali, la strategia dello Stato è quella di eradicare le organizzazioni criminali. Ancora dallo studio di Ciconte: «In quegli anni si fece avanti l’idea che, per recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine, fosse necessario adottare la misura del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di origine». Una scelta clamorosamente sbagliata.

    Gli abbagli dello Stato

    Del resto, che la strategia dello Stato contro le mafie, oggi come ieri, sia stata spesso fallimentare è ormai nei fatti. Basti pensare che, all’articolo 416 bis del Codice Penale, quello che punisce le associazioni mafiose, la parola ‘ndrangheta entra solo pochi anni fa, nel 2010. Per anni la criminalità organizzata calabrese viene e verrà sottovalutata. Considerata una mafia stracciona, di serie B.

    Ancora dal libro di Ciconte: «Ci furono abbagli nei confronti della ‘ndrangheta molto clamorosi. È stata considerata come una società di mutuo soccorso o espressione diretta e filiazione del brigantaggio. La ‘ndrangheta si presentò come una variante del ribellismo meridionale, come una delle espressioni del riscatto calabrese e come una necessità dettata dal bisogno di sostituire uno Stato lontano, inesistente e disattento».

    Nessuno, tranne i sindaci dei comuni dove arrivarono i soggiornanti, si accorse della pericolosità di quelle presenze o previde gli effetti che avrebbero potuto determinare. Scrive ancora Ciconte: «I sindaci si opposero, ma le loro proteste non furono ascoltate dai governi dell’epoca. E così, nella sottovalutazione più generale, la ‘ndrangheta mise piede in quei territori».

    Nel libro-conversazione con Antonio Nicaso, La malapianta, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, afferma: «Per molti anni la ‘ndrangheta, ma anche le altre organizzazioni criminali infiltrate in Lombardia sono state sottovalutate. Nel 1989 l’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri ne negò l’esistenza e due anni dopo il procuratore generale Giulio Catellani fece la stessa cosa, sostenendo che nel distretto di Milano non c’erano sentenze passate in giudicato per il reato di associazione mafiosa».

    La ‘ndrangheta sottovalutata

    Solo negli ultimi anni, dopo la strage di Duisburg in particolare, si è iniziato a parlare in maniera più strutturata della ‘ndrangheta. Anche maxiprocessi come l’attuale “Rinascita-Scott” continuano ad avere poco appeal per i media nazionali. A fronte di quanto ancora tirino i “brand” di Cosa nostra e camorra. Nonostante la criminalità organizzata calabrese abbia, probabilmente, indirizzato alcuni snodi cruciali della storia d’Italia, la prima relazione organica della Commissione Parlamentare Antimafia sulla ‘ndrangheta arriva solo nel 2008 con la presidenza di Francesco Forgione.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    In quel testo, Forgione parla di “mafia liquida”, mutuando il concetto di “società liquida” di Zigmunt Bauman. E sottolinea come una grossa mano alla ‘ndrangheta, paradossalmente ed inconsapevolmente, ma di certo con poca lungimiranza, è stata data proprio dallo Stato italiano, negli anni ’50. In quegli anni i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, vengono inviati nelle regioni del Centro e del Nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie e o strade di grande comunicazione.

    «Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia» –  scrive Forgione nella relazione del 2008.

    Il paradosso

    Se il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse o impedisse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno. E così le riunioni di ‘ndrangheta iniziano a tenersi nei luoghi del soggiorno obbligato. Sono questi i primi passi per ricreare al Nord le medesime dinamiche della casa madre.

    Buccinasco, ma anche Bardonecchia, oppure Volpiano e Leinì, diventano luoghi simbolo dell’infiltrazione ‘ndranghetista al Nord. E, oggi, comandano quelli di sempre: dai Saffioti ai Marando, passando per i D’Agostino, i Crea, gli Alvaro, i Mancuso, i Bonavota, i Barbaro, i Morabito-Bruzzaniti-Palamara, i Vrenna, gli Ursino-Macrì. E, ovviamente, soprattutto a Milano città, casati storici come i De Stefano o i Piromalli. Ma tutto nasce in quegli anni.

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    Cartello stradale all’ingresso del comune di Buccinasco

    Ancora dalla relazione della Commissione Parlamentare Antimafia: «Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante».

    Dapprima fu una necessità, poi una scelta. Che ci porta all’attualità: la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere più sedi. Quella principale, in Calabria, le altre nei comuni del Centro-Nord dell’Italia oppure nei principali Paesi stranieri, snodi fondamentali per i traffici di droga. E in queste sedi si riprodurrà la stessa struttura organizzativa presente in Calabria.

  • Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Era una regina del Tirreno, bella e capricciosa. Dal dopoguerra ai primi anni ’80, quando Paola e Torremezzo ne presero il posto, Amantea era anche la spiaggia dei cosentini, che vi arrivavano in tre quarti d’ora attraverso la vecchia, scassatissima “via del mare”, che passa per Potame, alle pendici del Monte Cocuzzo. Ancora: Amantea, specie negli anni ’70, era piuttosto “avanti”: parrebbe che Coreca, al riguardo, vanti il primato dei primi topless, esibiti con generosità, va da sé, dalle “forastìere”.
    La mafia? C’era senz’altro, ma era poca cosa: fece giusto scalpore, il 13 maggio 1981, il triplice omicidio di Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro, avvenuto nel contesto – particolarmente tragico – della guerra tra i clan Perna-Pranno e Pino-Sena.

    Ma il grasso colava e copriva molte cose, comprese alcune forme di sviluppo urbanistico, iniziate prima della “legge Galasso” ma che dopo sarebbero state censurate, più che dagli uomini dalla natura: ci si riferisce al lungomare, costruito attorno alla vecchia “rotonda”, e all’urbanizzazione della costa nei pressi della foce del fiume Oliva e di Campora San Giovanni. Su queste opere, va detto, sarebbe piombata la vendetta del mare, nella duplice forma delle ondate e dell’erosione, che, in particolare, ha divorato un bel tratto della scogliera di Coreca.
    Ma il presente di Amantea va oltre le peggiori dietrologie. La regina, dopo essere stata detronizzata, ha le rughe.

    Le rughe della regina

    Queste rughe sanno più di malattia che di fisiologico invecchiamento. Lo rivela il decreto con cui, il 30 giugno 2021, la Presidenza della Repubblica ha deciso di prorogare su indicazione del prefetto di Cosenza, il commissariamento della cittadina tirrenica.
    Un dato colpisce in maniera particolare: insediatisi nel 2020, i commissari prefettizi erano riusciti sì e no ad approvare i rendiconti del 2016 e del 2017, relativi cioè all’ultima fase dell’amministrazione Sabatino, e si redigono tuttora i rendiconti del biennio successivo.
    I risultati di questa prima, importante attività finanziaria sono già micidiali: certificano un debito che oscilla tra i 27 e i 30 milioni di euro. Su scala, queste cifre ricordano non poco il dissesto di Cosenza. Vediamo come.

    Il municipio di Amantea
    Il municipio di Amantea

    Amantea, che ha circa 13mila e rotti abitanti, dovrebbe pareggiare il Bilancio con più o meno 12 milioni di euro. Ciò basta a far capire come il debito, gestibile o fisiologico in città più grandi, possa risultare micidiale e quindi ripiombare la città nel dissesto.
    Il problema, come per il capoluogo, è soprattutto il mancato incasso dei tributi comunali, relativi alla rete idrica, alla Tari e alla Tasi, che sfiora percentuali da capogiro, che si attestano attorno al 60%.
    Ma c’è di peggio: molti esercenti e residenti non ricevono le tasse da circa due anni e tutto lascia pensare che il default, il secondo in meno di 10 anni sia un’ipotesi quasi certa.
    Di fronte a questo disastro, la ’ndrangheta, che pure c’è e condiziona tantissimo, potrebbe non essere il male principale.

    Tutto mafia è?

    La prima emersione giudiziaria dei retroscena amanteani è nell’ordinanza di “Omnia”, la maxi operazione antimafia condotta nel 2007 dalla Dda contro i Forastefano di Cassano. Cosa curiosa per un’inchiesta gestita dai Carabinieri del Ros, il nome di Franco La Rupa, all’epoca dei fatti (2005) sindaco di Amantea, vi appare grazie a una velina della Digos, che lo tampinava da tempo: secondo i poliziotti, La Rupa trescava con Antonio Forastefano, detto “il Diavolo”, per ottenerne l’appoggio nelle Amministrative regionali a cui partecipava in quota Udeur.

    Franco La Rupa
    Franco La Rupa

    In seguito alle accuse di Omnia, La Rupa finì in galera e subì un procedimento che, tra vicende alterne, è terminato nel 2018 con la sua condanna definitiva a cui è seguita l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della sorveglianza speciale.
    I problemi di La Rupa non finiscono qui: nel 2007 l’ex sindaco finì in un altro guaio grosso, assieme a un suo ex sodale, Tommaso Signorelli, suo compagno di avventura fino al 2004. Ci si riferisce all’operazione “Nepetia”, in cui era emersa l’eccessiva vicinanza dei due amministratori al boss Tommaso Gentile.

    Per amor di verità, occorre ricordare che La Rupa e Signorelli sono risultati prosciolti dal processo Nepetia. Ma ciò non è bastato, evidentemente, al Prefetto e alla Commissione d’accesso, che menzionano i due a più riprese nella relazione inviata al ministro dell’Interno sulla base di un assunto: la loro vicinanza ai clan resterebbe comunque provata, anche a dispetto delle assoluzioni. Di più: a dispetto degli “omissis” La Rupa e Signorelli restano riconoscibilissimi, anche perché i loro nomi sono associati alle ultime elezioni amministrative, svoltesi nel 2017, in cui entrambi hanno avuto ruoli di primo piano. Signorelli come candidato sindaco e La Rupa come organizzatore della lista civica di Mario Pizzino, risultato vincitore e poi commissariato.
    Lo diciamo con tutto il garantismo possibile: quando la polvere è troppa, non la si può più nascondere.

    Il disastro che viene dal passato

    A settembre è franata una strada che collega il centro storico di Amantea alla marina. E non è stato possibile intervenire in alcun modo, anche perché il municipio era già con le pezze al sedere: sono rimasti otto funzionari, tre dei quali prossimi alla pensione e uno “a scavalco”, cioè che lavora non solo per Amantea. Il grosso dei servizi è appaltato, inoltre, a cooperative e aziende esterne e i fondi scarseggiano.
    Il grande buco finanziario emerge tra il 2016 e il 2017, quando salta la maggioranza della sindaca Monica Sabatino, sostenuta dal Pd e vicina a Enza Bruno Bossio, e il Comune finisce in commissariamento.

    Monica Sabatino
    Monica Sabatino

    La sindaca Sabatino, tra l’altro figlia dello storico ragioniere del municipio, non presenta la relazione finale del suo mandato. Ciò spiega il successivo immobilismo di Pizzino, che scarica agevolmente ogni responsabilità sui predecessori. E spiega come mai i conti di Amantea somiglino un po’ troppo a quelli dell’Asp di Reggio Calabria. Cioè risultino misteriosi e, in buona parte “orali”. Ma il disastro risulta enorme e ha più responsabili. Soprattutto, non può essere imputato alla sola Sabatino e al solo Pizzino.
    Occorre un ulteriore passo indietro. Cioè al dramma politico e alla tragedia umana di Franco Tonnara.

    Morire col tricolore

    Tonnara è il classico sindaco del “dopo”. È stato l’amministratore che si è dovuto far carico del post La Rupa. Proveniente anche lui dalla Dc, Franco Tonnara si candida nel 2006 contro una coalizione guidata dal superbig ex scudocrociato Mario Pirillo e da La Rupa. Vince ma paga dazio: nella sua giunta c’è Tommaso Signorelli, già sodale dell’ex sindaco. Come già accennato, Signorelli finisce nell’inchiesta Nepetia e il Comune subisce lo scioglimento nel 2008.

    Per fortuna dura poco: l’anno successivo Tonnara e i suoi vincono il ricorso al Consiglio di Stato e vengono reintegrati con tante scuse e un cospicuo risarcimento. La giunta Tonnara si ripresenta nel 2011 e rivince a man bassa. Ma l’ebrezza dura poco, perché il sindaco muore poco dopo di un brutto tumore allo stomaco e Amantea torna al voto nel 2014, dopo tre anni di reggenza del vicesindaco Michele Vadacchino. Vince la Sabatino e tutto il resto è storia nota. O quasi.

    Coppole e debiti

    Potrebbe essere una scena degna di un film di Cetto La Qualunque: durante la campagna elettorale del 2017, Pizzino ringrazia dal palco Franco La Rupa. La Rupa, spiega la relazione del prefetto, si sarebbe dato dato un gran da fare per organizzare la lista che porta Pizzino alla vittoria. Anzi, si è dato da fare un po’ troppo: la lista si chiama “Azzurra”, proprio come le liste che ha organizzato nei suoi anni d’oro. Ancora: nell’aiutare a compilarla, l’ex sindaco non sarebbe andato troppo per il sottile. Infatti, pende a suo carico un’inchiesta per intimidazione, in cui è rimasto coinvolto anche Marcello Socievole, un consigliere di maggioranza costretto alle dimissioni nel 2018.

    Mario Pizzino
    Mario Pizzino

    Tuttavia, questi non sono i problemi principali, perché, come si apprende ancora dalla relazione del Prefetto, il Bilancio resta un’entità virtuale e il Comune continua a non incassare. In particolare, varie aziende e cooperative non pagano i tributi. A scavare un po’ più a fondo, ci si accorge che in alcune di queste lavorano o hanno ruoli importanti persone imparentate con i boss di Amantea e altri personaggi, legati a loro volta ai clan di Lamezia e Gioia Tauro.

    Non è il caso di approfondire oltre, perché si rischia di scrivere intere pagine di storia criminale. Che però non basterebbero a spiegare perché una cittadina una volta ricca e aperta sia finita in un declino così profondo e, probabilmente, con poche vie d’uscita.
    La ex regina si prepara al voto per la prossima primavera. Ancora non è dato capire chi si sacrificherà per sanare un disastro nato in lire a fine ’90 e poi esploso in euro.
    Nel frattempo, il territorio è presidiato in continuazione dai Carabinieri ed è pieno di poliziotti in borghese. Come se non bastasse, gli elicotteri dell’Arma sorvolano di continuo la città, che sembra vivere un paradossale coprifuoco.
    Gli anni ’80 sono lontani e irrecuperabili. Ma, in queste condizioni, anche la normalità sembra un miraggio.

  • Platì punta sul turismo: i bunker delle ‘ndrine trasformati in musei

    Platì punta sul turismo: i bunker delle ‘ndrine trasformati in musei

    Trasformare i bunker in sale espositive, riconvertendo i cunicoli del malaffare scavati nel ventre del paese in moderne “passeggiate” sotterranee aperte ad «arte ottica e concettuale, folklore, sistemi con pannelli e mostre». Un progetto che il comune di Platì intende portare avanti – al costo di oltre due milioni di euro – per provare a dare nuova (e diversa) vita al sistema di capillari collegamenti criminali scavati nella roccia in quasi mezzo secolo per nascondere latitanti, prigionieri, droga e armi. Un “controcanto” che il piccolo centro – poche migliaia di abitanti sul versante jonico d’Aspromonte – vorrebbe intonare per mostrare il volto ripulito di una cittadina che, suo malgrado, è considerata da sempre come una della capitali storiche della ‘ndrangheta.

    Contrastare il binomio Platì-criminalità

    Un progetto dai tratti vagamenti bipolari, nato per smarcarsi da una nomea pesantissima e che non manca di cedere alla retorica un po’ vittimistica di tv, giornali e social che «le hanno riccamente documentate, spesso in maniera malevola con intenti di criminalizzazione generalizzata della popolazione» in una narrazione «folkloristica che contribuisce a infangare l’intera comunità». Da una parte vuole contrastare il binomio Platì uguale mafia. Dall’altra intende portare i turisti proprio in quello che a lungo è stato il regno sommerso di alcune delle più influenti famiglie di narcos a livello globale.

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    L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
    La città nascosta

    E d’altronde erano state proprio le cosche platiesi a costruire la città sotto la città. Gallerie, cunicoli, bunker e stanze nascoste che i boss, in anticipo di un ventennio sulle gallerie scoperte al confine tra Messico e Stati Uniti, avevano commissionato per i propri intenti criminali. E che squadre di “bunkeristi” specializzati avevano realizzato collegando le nuove strutture a vecchi scarichi fognari e grotte naturali per un reticolo imponente di nascondigli e vie di fuga che a lungo avevano protetto i segreti del crimine organizzato locale.

    Era il marzo del 2010 quando i carabinieri del gruppo di Locri durante una retata si erano imbattuti nella “catacombe” platiesi. Perquisendo un garage nella disponibilità del clan Trimboli, i militari avevano scovato un portello automatizzato e ben mimetizzato tra calcinacci e vecchi mobili. Dietro si nascondeva l’ingresso al “sottosopra” criminale platiese. Un mondo al contrario che le cosche avevano fatto scavare negli anni e che, grazie al lavoro mastodontico di una serie di operai “specializzati”, aveva sostituito le precedenti gallerie (meno sofisticate) scoperte nel 2003.

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    Opere di carpenteria nei bunker di Platì
    Ingegneria mineraria al soldo dei clan

    Gli investigatori, che a lungo tennero riservata la notizia del rinvenimento, si trovarono di fronte ad una vera e propria opera di ingegneria mineraria. Dal piccolo box nel cuore del paese vecchio infatti, partiva una galleria lunga più di 200 metri costruita 8 metri sotto il livello del suolo e larga poco meno di un metro. Dotata di un moderno impianto di aerazione che consentiva il continuo ricambio dell’aria e di un funzionale impianto di luci al neon, la galleria collegava diversi bunker, a loro volta infrattati nelle intercapedini nascoste delle case dei boss, per un sistema quasi perfetto di mimetizzazione. Grazie ad esso capi e gregari delle cosche – che, come da tradizione mafiosa, difficilmente si allontanano dal proprio feudo d’appartenenza – erano rimasti a lungo al sicuro.

    Fuori case senza intonaco, dentro rubinetti d’oro

    E così, attorno alle case cadenti del centro storico, le magioni dei mammasantissima – nudo intonaco fuori, rubinetti d’oro nei bagni e mobilio d’ebano nel tinello –erano state dotate, tra picchi d’ingegneria mineraria e folkloristiche immagini della Madonna di Polsi lasciate a presidiare il territorio, di un sistema “arterioso” artificiale che poteva essere usato di volta in volta dalle primule rosse del malaffare della montagna. Un mondo al contrario che, scavato sotto i ruderi di un paese in rovina e stritolato dallo strapotere dei clan di ‘ndrangheta, oggi vuole essere riconvertito in un’operazione “acchiappaturisti” dal retrogusto amaro.

    Militari davanti a un'abitazione di Platì
    Militari davanti a un’abitazione di Platì
    Vita da topi

    E se le “catacombe” di Platì rappresentano, probabilmente, un unicum dell’ingegneria votata al malaffare, i bunker dentro cui si rintanano i pezzi da novanta del crimine organizzato calabrese sono invece una presenza costante in tutto il territorio reggino. Anche perché una delle regole non scritte del crimine organizzato, prevede che un capo, anche se braccato, non si allontani mai troppo dal proprio territorio di “competenza”. E così, nascosti dietro finte pareti, occultati dietro porte scorrevoli e botole meccaniche, i nascondigli dei boss sono sempre più sofisticati e costruiti con tutte le comodità dettate dai tempi moderni, per consentire un soggiorno degno del blasone di chi lo ha commissionato.

    Il “bilocale” di Ciccio Testuni a Rosarno

    Come nel caso del mini appartamento che Francesco Pesce, alias Ciccio Testuni, si era fatto costruire proprio sotto un deposito giudiziale nelle campagne di Rosarno. Braccato dalle forze dell’ordine in seguito all’operazione All Inside, l’allora reggente del potentissimo clan della Piana, si era “sistemato” in un bilocale sotterraneo di circa 40 metri quadri costruito di nascosto da veri esperti del settore. Tv satellitari, impianto di video sorveglianza esterno, collegamento internet e consolle per videogiochi: nella residenza nascosta di Pesce, i carabinieri del Ros (che la mattina del ritrovamento si presentarono al cancello della Demolsud con ruspe e scavatori meccanici) trovarono tutto l’occorrente per trascorrere una latitanza tranquilla.

    Militari nelle gallerie sotterranee dei clan a Platì
    I muratori specializzati nei bunker

    Una tradizione, quella dei bunker, che coinvolge praticamente tutte le cosche criminali del territorio e che ha creato, paradossalmente, operai specializzati che le stesse cosche si contendono: «Ricordo – aveva raccontato agli inquirenti la collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, che di Ciccio Testuni è prima cugina – di avere più volte visto un muratore di Rosarno, uscire dalla casa abbandonata di mia nonna. Era sempre vestito con una tuta da lavoro e mio padre mi spiegò che l’operaio stava ristrutturando per conto suo un vecchio bunker nascosto nella casa».

  • Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Quando Rosina Gullo e Giannino Losardo si sposarono lui era tornato in Calabria da poco. Era la metà degli anni ’50 ed era riuscito farsi trasferire dalla Pretura piemontese a cui era stato assegnato al Tribunale di Paola. Era di Cetraro, dunque era tornato a casa. Ma probabilmente non sapeva cosa lo aspettava. Non solo dentro quegli uffici, ma anche fuori, sulla strada che lo vide cadere vittima, 33 anni dopo, di un agguato mafioso che fu ricondotto al clan del «re del pesce» Franco Muto. Giannino, all’epoca consigliere comunale del Pci e segretario capo della Procura paolana, venne ucciso la sera del 21 giugno 1980, 10 giorni dopo l’omicidio di Peppino Valarioti. Rosina è morta un paio di settimane fa. E non ha mai avuto giustizia per suo marito.

    Sostegno a intermittenza

    Al suo funerale, il 16 dicembre scorso, a Fuscaldo non c’era molta gente. In prima fila il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Quando facciamo il suo nome a Giulia Zanfino, giornalista freelance e autrice del docufilm Chi ha ucciso Giannino Losardo, lei racconta che prima delle elezioni Cennamo era molto disponibile nel metterla in contatto con le amministrazioni locali che avrebbero potuto patrocinare il suo lavoro d’inchiesta. Una volta eletto sindaco, però, è «scomparso». Solo dopo che Zanfino ha parlato di questo in un’intervista alla Tgr Rai lui ha dichiarato «la totale volontà della sua amministrazione di sostenere» il docufilm.

    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Una pista da battere

    Losardo era uno strenuo oppositore della mafia e della malapolitica. Quando morì accorsero a Cetraro anche Enrico Berlinguer e Pio La Torre. La politica, la lotta al malaffare e all’ascesa criminale dei Muto – la cui pescheria al porto di Cetraro era il simbolo del suo potere sul territorio – sono state sempre le piste privilegiate per chi ha indagato sul delitto. Il processo è però finito in una bolla di sapone e, oggi, chi come Zanfino insegue tracce da anni si è convinto che un’altra pista è stata sottovalutata. Quella della corruzione nella Procura di Paola, un luogo in cui la rettitudine di un funzionario come Losardo non poteva che essere un ostacolo alla gestione disinvolta di questioni legate agli affari più redditizi sul Tirreno cosentino.

    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo
    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo

    «Secondo me può essere la vera chiave per arrivare, prima o poi, alla verità», dice la regista, che confessa di aver scovato la trascrizione di un’intercettazione nella cassetta di sicurezza che Losardo aveva in Procura. Riguarda una telefonata «interessante», rispetto a questa pista, tra Muto e un noto avvocato.

    Insieme per la verità

    Il progetto – fotografia di Mauro Nigro, tra gli attori Giacinto Le Pera (Losardo) e Francesco Villari (Muto) – ha vinto un bando della Calabria Film Commission. Nato da un’idea di Francesco Saccomanno e prodotto dall’Associazione Culturale ConimieiOcchi (produzione esecutiva OpenFields), ha il patrocinio della Commissione parlamentare antimafia, oltre che il sostegno dei Comuni di Paola, Acri, Casali del Manco, fondazione Carical, Parco Nazionale della Sila, Proloco di Acri, Colavolpe, BCC Mediocrati.

    Il clima a Cetraro

    Zanfino ha intervistato i compagni di Losardo che hanno subìto, negli anni, minacce e soprusi. «Ancora oggi – racconta – a Cetraro c’è un clima di terrore». Ne ha avuto esperienza diretta assieme a Nigro a settembre del 2020: l’unica volta in cui si è esposta con la telecamera a Cetraro, è andata a un seggio elettorale vicino a casa di Muto. Ha chiesto a chi andava a votare se si ricordasse di Losardo ed è stata presa a male parole da una donna che le urlava contro che «Losardo lo dovevamo lasciare dov’era…».

    In un’altra occasione aveva chiesto a un’associazione locale di intercedere con un gruppo di pescatori, con la scusa di documentare le espressioni dialettali con cui conducevano le trattative per la vendita del pesce, affinché li filmasse. Ma anche in quel caso ha incontrato problemi.

    Il fascino del male

    Tra le interviste del docufilm c’è quella a Tommaso Cesareo, oggi assessore nella giunta Cennamo (il più votato alle elezioni del 2020) che non nasconde di aver frequentato in passato gli esponenti del clan. «Con loro – dice Cesareo – potevi permetterti di entrare ai night, nelle discoteche… rappresentavano il potere. E queste cose più che biasimarle io devo ammettere che mi affascinavano. Un errore madornale – aggiunge mostrandosi pentito – che io mi sono portato dietro per anni». Ma racconta anche che «tutta Cetraro era amica di Muto».

    Colpiscono le parole di Leonardo Rinella, pm nel processo che si celebrò a Bari, per «legittima suspicione», perché quando a Cosenza provavano a interrogare Muto in aula succedeva il finimondo. Nel processo erano coinvolti anche Cesareo, il padre Carlo e il fratello Giuseppe – mentre un altro fratello, Vincenzo, è il direttore sanitario accusato di fare tamponi ad amici, parenti e «pure ai gatti». Nello stesso procedimento pugliese finirono accusati l’allora procuratore capo di Paola Luigi Balsamo (omissione in atti d’ufficio) e il sostituto “anziano” Luigi Belvedere (interesse privato in atti d’ ufficio e falso). Per tutti – magistrati, mafiosi e presunti killer – alla fine arrivò l’assoluzione.

    Un processo da spostare

    «La fase istruttoria – racconta Rinella a Zanfino – la svolgemmo in Calabria. Colpiva l’inframittenza continua che il sostituto Belvedere aveva in tutti i processi, anche quelli che non lo riguardavano. Poi c’era la debolezza del procuratore capo. Una brutta Procura della Repubblica. C’era anche stato un altro caso, fuori dal processo Muto, di un magistrato, Fiordalisi, che era stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Non avemmo una buona impressione e capimmo perché il processo difficilmente si sarebbe potuto celebrare con successo a Paola. Direte che neanche a Bari ha avuto successo… avete ragione. Ma, onestamente, non mi sento colpevole».

    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ombre sul tribunale

    Il quadro emerge con chiarezza inquietante da una relazione disposta dal Ministero della Giustizia nel 1991. A scriverla, dopo una lunga inchiesta, fu il «magistrato ispettore» Francantonio Granero. Un lavoro meticoloso che restituisce una realtà giudiziaria in cui i veri «padroni» sarebbero stati l’allora presidente del Tribunale William Scalfari e i due sostituti, Belvedere e Fiordalisi. Del primo vengono ricostruite le attività da «imprenditore di fatto» in società, di cui faceva parte il figlio e in cui non mancavano nomi noti della politica e delle professioni, che costruivano complessi alberghieri con miliardi di finanziamenti pubblici.

    Nel dossier Granero si raccontano dispetti e ripicche tra pm e polizia giudiziaria, ma anche di magistrati con la passione per le auto sportive e gli assegni a vuoto (il figlio di Belvedere ne emise per oltre due miliardi in una vicenda a cui Granero collega il suicidio di un direttore di banca). E di imprenditori amici come Francesco Venturapadre della (per poco) candidata alle passate Regionali Antonietta – che metteva soldi suoi per coprire i debiti del magistrato. Lo stesso magistrato che, per dirne una, pretendeva di avere solo per sé, per andare al bar, un posto auto in piazza riservato alla polizia. Mentre il collega, per dirne un’altra, chiedeva un prestito da 20 milioni di lire a un perito – all’epoca impegnato nel processo sull’omicidio Scopelliti – che era indagato in un’inchiesta di cui lo stesso magistrato era titolare.

    Gli amici

    Per non parlare delle considerazioni sulla gestione delle procedure fallimentari, delle amministrazioni controllate e del giro di commissari giudiziari e consulenti. E per finire con l’avvocato Granata, presidente dell’Ordine e a lungo vicepretore onorario, che era intimo amico di Losardo e che ne raccolse le ultime parole. Quando Giannino era morente, secondo la ricostruzione del pm Rinella, Losardo «chiese solo ed esclusivamente di Granata». Il quale però secondo il magistrato «non lo volle rivelare, chiudendosi in silenzi assurdi» e sostenendo che Losardo avesse solo farfugliato qualcosa di irrilevante.

    Ai suoi soccorritori, mentre lo portavano in ospedale, Giannino disse che erano stati «gli amici» e che «tutta Cetraro» sapeva chi gli aveva sparato. A distanza di oltre 40 anni gli assassini restano impuniti. Qualche magistrato ha fatto carriera e qualche altro è morto tra onori di Stato. E la sorveglianza speciale, misura che per un periodo è stata data a Franco Muto, la si vorrebbe imporre a chi lotta per difendere diritti e beni comuni.

  • Natale di sangue: perché alle ‘ndrine piace uccidere durante le feste

    Natale di sangue: perché alle ‘ndrine piace uccidere durante le feste

    Una faida iniziata nel periodo di Carnevale. Un omicidio avvenuto nel giorno di Natale. Una strage in un giorno simbolo delle ferie estive. Nulla è fatto a caso.  Giorni di festa. Che, però, devono diventare giorni di sangue. E rimanere, per sempre, giorni di lutto. Nella ‘ndrangheta la simbologia conta. Conta molto. La ‘ndrangheta vive di riti, di tradizioni. Non solo per mantenere alto il senso di fascinazione nei confronti degli affiliati, ma anche per colpire i nemici. Si spiegano così i numerosi delitti che coincidono con le festività.

    Le faide

    Le faide sono le guerre che si instaurano tra cosche del medesimo paese o di paesi diversi. Guerre che possono durare anche per diversi anni e che non risparmiano nessuno, anche se il tempo passa, inesorabilmente. La ‘ndrangheta non dimentica mai: «Nel territorio della provincia di Reggio Calabria la faida di Cimino ha causato quasi cinquanta morti, quella di Cittanova sessantacinque, quella di Laureana di Borrello una trentina, tra cui una bambina di nove anni, la faida di Botticella ha mietuto sessanta vittime. Altre faide con decine e decine di morti si sono avute a Gioia Tauro, a Sant’Ilario, a Siderno, a Roghudi, a Bova, a Locri», scrivono Mario Andrigo e Lele Rozza nel volume Le radici della ‘ndrangheta per Nutrimenti Edizioni.

    La faida di San Luca

    Quella più famosa, però, trova il suo culmine il 15 agosto del 2007 a Duisburg, in Germania, quando sul suolo tedesco restano in sei, crivellati di colpi. Una mattanza che si inquadra nella sanguinosissima faida di San Luca iniziata nel 1991 per un banale scherzo di Carnevale. Storicamente, infatti, quella lunga di sangue viene fatta iniziare il 10 febbraio del 1991, allorquando un gruppo di giovani legati ai clan Strangio e Nirta, detti “Versu”, in occasione delle festività di Carnevale, lanciò delle uova contro il circolo ricreativo ARCI, gestito da Domenico Pelle, uno dei “Gambazza”. Un’onta. Resa ancor più grave dal fatto che quelle uova sporcarono, tra l’altro, anche l’auto di uno dei Vottari.

    Inizia tutto in quel modo. I giovani vengono anche puniti con una sonora dose di “legnate” come si dice in gergo. Tutto sembra finire lì. Ma, in realtà, è solo il principio, perché successivamente, in nome di quel sentimento di vendetta che nella ‘ndrangheta è sacro, un altro gruppo di giovani dei Nirta-Strangio, venuti a conoscenza dell’accaduto, incontrarono un affiliato ai Vottari. Questi, spaventato, incominciò a sparare uccidendo due giovani del gruppo, Francesco Strangio, 20 anni, Domenico Nirta, 19 anni, e ferendone altri due. Vista l’estrema gravità dell’azione, il clan dei Vottari decise che l’autore degli omicidi avrebbe dovuto andarsene per sempre da San Luca e dai paesi limitrofi. Egli verrà comunque ucciso presso il comune di Bovalino, dove aveva trovato rifugio temporaneo. La lunga scia di sangue è ormai innescata.

    L’omicidio di Maria Strangio

    Una mattanza che sembra rimanere silente per alcuni anni. Fino alla nuova esplosione, quindici anni dopo il primo evento. E, anche in questo caso, la data ha un certo significato. Il 25 dicembre 2006 viene uccisa Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, reale obiettivo dei sicari, il quale, invece, si salverà. La faida così ricomincia dopo un lungo periodo di pausa. Giovanni Luca Nirta si è sempre professato innocente rispetto alle accuse che lo indicano come un capo carismatico della ‘ndrangheta.

    In varie interviste si è dipinto come un umile agricoltore. Addirittura, in una delle scorribande in terra calabra, anche il massmediologo Klaus Davi, per anni consigliere comunale a San Luca, ha incontrato il presunto boss. Che lo ha fatto accomodare in casa, offrendogli un caffè. Senza, però, voler parlare di ‘ndrangheta. Eppure, per gli inquirenti è un soggetto apicale della ‘ndrangheta di San Luca. Circa un anno fa ha finito di scontare la condanna a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa rimediata nel processo “Fehida”. Che ha ricostruito proprio gli ultimi episodi della faida di San Luca.

    La strage di Duisburg

    L’eccidio di Duisburg è la risposta all’omicidio di Maria Strangio, fortuito ma lavato ugualmente col sangue. Tra i morti in Germania anche un giovane, appena diciottenne, Tommaso Venturi, cui fu trovato addosso un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo, segno, probabilmente, della recente affiliazione, avvenuta in concomitanza con la maggiore età, festeggiata nella notte.

    strangio-giovanni
    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Una strage che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    L’omicidio Bruzzese

    Date che contano. Che diventano sfregio. Siamo nel 2018. Assassinato nel giorno di Natale anche Marcello Bruzzese, cinquantunenne di origine calabrese. Freddato nel garage sotto casa, in una stradina del centro storico di Pesaro. Un agguato in puro stile mafioso, forse un avvertimento per colpire il fratello di Girolamo Biagio Bruzzese, ‘ndranghetista, diventato nel 2003 collaboratore di giustizia dopo aver tentato di uccidere il capocosca: le sue testimonianze hanno permesso ai magistrati di conoscere i legami tra la cosca Crea e alcuni politici locali.

    L’omicidio Bruzzese a Pesaro

    Proprio alcune settimane fa, magistratura e forze dell’ordine hanno eseguito alcuni arresti, convinti di aver chiuso il cerchio sulla vicenda. È servito il lavoro di tre Dda, Reggio Calabria, Brescia e Ancona per ricostruire ciò che è accaduto nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. La vittima era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.

    Il significato

    In tutti i casi, quindi, le date non sono scelte a caso. Rimanendo sulla faida di San Luca: l’inizio, Carnevale del 1991, l’omicidio di Maria Strangio, Natale 2006, la strage di Duisburg, Ferragosto 2007. Tutti eventi verificatisi in corrispondenza di alcuni giorni di festa. «Secondo l’etnologo Vito Teti, la vendetta in un universo arcaico rappresentava il tentativo di ristabilire l’ordine sconvolto da uno spargimento di sangue», scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso ne La malapianta.

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    «Nell’orizzonte tradizionale, la regola del sangue che chiama sangue è stata spesso assunta, anche in maniera strumentale, per legittimare comportamenti cruenti nella ‘ndrangheta. Si può pertanto capire perché nei giorni di festa, o nei giorni dedicati ai defunti, quando il ricordo è più opprimente e fondante, si ricorra talora a comportamenti rammemoranti. Nella logica di alimentare il ricordo attraverso il dolore, la vendetta praticata nei momenti festivi (in un contesto mediterraneo ma anche in tante altre società tradizionali) assume un valore rituale e altamente simbolico» scrivono ancora il procuratore di Catanzaro e il giornalista ed esperto di ‘ndrangheta.

    Simbologia e religione

    La simbologia, soprattutto se si interseca con la religione, ha un ruolo predominante nei comportamenti, anche di natura criminale, messi in atto dalla ‘ndrangheta. Nelle strategie della criminalità, nelle usanze, niente è fatto a caso. La mafia – e, in particolare, la ‘ndrangheta – sceglie di uccidere soprattutto in date rilevanti che spesso coincidono con festività religiose. Oppure in ricorrenze importanti per il soggetto da eliminare. Non è un caso ad esempio che molti omicidi avvengano nel giorno dell’onomastico o del compleanno della vittima. I killer della mafia talvolta commettono i propri omicidi in luoghi sacri. Come nell’uccisione di Domenico Vallelunga, il boss dell’omonima cosca di Serra San Bruno, Vibo Valentia, assassinato davanti al Santuario dei Santi medici Cosmo e Damiano, a Riace.

    È solo uno dei tanti, possibili, esempi. Delitti, uccisioni, aggravati dal fatto di aver profanato un luogo di culto, di aver macchiato col sangue la terra consacrata. Fatti, ovviamente, in piena antitesi con il manto di religiosità con cui si copre, spesso e volentieri, la criminalità organizzata. E così, dunque, avviene anche per i cosiddetti casi di “lupara bianca”, in cui una persona viene uccisa. E il suo corpo fatto sparire. Seppellito in qualche lontana campagna, oppure sciolto nell’acido. Un modo vale l’altro affinché le famiglie non possano piangere il proprio congiunto. Oltre alla morte, dunque, vi è un altro tipo di punizione, parimenti crudele, per i sopravvissuti.

  • Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Per “tagliare” quattro curve e realizzare un tratto di strada di appena un km c’è voluto l’esercito. Negli anni scorsi gli abitanti delle Serre si erano abituati a vedere i ragazzi con il mitra e la mimetica mandati in questo lembo della Calabria centrale a combattere una guerra che di sicuro non era la loro. Quel tratto, oggi completato dopo enormi ritardi e con modalità assimilabili alla diga di Mosul in Iraq, è uno dei simboli della Trasversale delle Serre, una strada di cui si parla da più di mezzo secolo. E che tra le tante incompiute calabresi assume contorni ormai mitologici.

    L'esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre
    L’esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre (Foto Salvatore Federico, 2016)
    Oltre mezzo secolo, meno di 40 km

    Dovrebbe collegare, in circa 56 km, la costa tirrenica e quella jonica, da Tropea a Soverato, passando per l’entroterra serrese. Non è certo un’opera facile, costellata com’è di gallerie e viadotti. Ma pur essendoci stata nell’ultimo decennio una qualche accelerazione, questo termine rappresenta senza dubbio un eufemismo. Le parti completate oggi misurano circa 37 km e questi chilometri non sono nemmeno consecutivi.

    Una mappa dei tratti realizzati finora
    Una mappa dei tratti realizzati finora

    Siamo pur sempre nella periferia di due province della Calabria (Catanzaro e Vibo) dove ogni cosa sembra più difficile che altrove. Comunque qualche giorno fa il presidente della Regione Roberto Occhiuto l’ha menzionata tra i temi affrontati in un incontro con il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini e anche questa è una notizia. Chissà però se entrambi sanno quanto i loro omologhi in passato abbiano promesso e tagliato nastri vagheggiando uno sviluppo che, nel frattempo, deve aver sbagliato strada.

    Promesse bipartisan

    Non avrebbe potuto perdersi, per esempio, il defunto Altero Matteoli quando, nel febbraio del 2011, per inaugurare due tratti (8 km in tutto) affiancato da Peppe Scopelliti arrivò qui non in auto ma in elicottero. Nell’immaginario locale, poi, più che le parole è rimasta impressa l’improbabile camicia con cui Mario Oliverio si presentò nell’agosto del 2015 accompagnato dall’immancabile stuolo di tecnici e politici che gli illustravano le ben poco progressive sorti dell’infrastruttura.

    In ogni metro della Trasversale delle Serre c’è una quota di retorica e buone intenzioni difficilmente quantificabile. Al di là dell’ironia, ognuno dei politici menzionati e sicuramente molti altri – ci si può inserire anche l’ex parlamentare Giancarlo Pittelli – si è mosso e ha poi messo il cappello sulla “sua” quota di soldi pubblici destinati all’opera. Che in totale potrebbe avere un costo che si aggira attorno ai 600 milioni euro, ma fare una stima compiuta è difficile. Almeno quanto capire se questa, dopo l’incontro Occhiuto-Giovannini, possa essere davvero la volta buona, come l’Anas sostiene da tempo.

    Una storia iniziata nel 1966

    D’altronde si trova traccia della Trasversale delle Serre in atti ufficiali già dal 1966, quando il Comitato regionale per la programmazione economica propose di realizzare una strada «a scorrimento veloce» che collegasse la zona ai due mari. Due anni dopo l’amministrazione provinciale catanzarese inserì l’opera nell’“Asse di riequilibrio territoriale” ma per arrivare al primo appalto si dovette aspettare fino al 1983 (3 km tra Vazzano e Vallelonga). Seguì un altro lungo stop fino a quando, nel 1997, partirono i lavori tra Chiaravalle e Gagliato con grande soddisfazione dell’allora Sottosegretario di Stato ai Trasporti Giuseppe Soriero (governo Prodi), che piazzò se stesso con sfondo di piloni su un memorabile manifesto in cui dichiarava lo sviluppo del territorio ormai inesorabilmente avviato.

    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Cittadini allo scontro

    Tanto avviato che, oggi, la strada realizzata, sul lato vibonese, va da Serra San Bruno a Vallelonga, pochi chilometri per poi fermarsi e ricomparire con un breve tratto tra le campagne di Vazzano e l’imbocco dell’autostrada. Sul versante jonico va invece ininterrottamente dalla cittadina della Certosa fino a Gagliato. Lì finisce: c’è un muro invisibile su cui si scontrano, giusto per non farsi mancare nulla, le rivendicazioni di due gruppi di cittadini. Quelli che abitano proprio le contrade tra Gagliato e Satriano, contrari al progetto – rimodulato da Anas rispetto a uno originario più complesso e costoso – che vedrebbe loro espropriati un bel po’ di terreni, e quelli del Comitato “50 anni di sviluppo negato” che invece spingono perché almeno si completi quest’ultimo, breve tratto che consentirebbe di arrivare dalle Serre a Soverato in circa venti minuti.

    Il malcontento dei cittadini
    Il malcontento dei cittadini
    Costi e tempo aumentano

    Si sono susseguite riunioni di sindaci, dibattiti, interventi sulla stampa e cartelli piantati sul ciglio della strada. Ma ancora è tutto fermo e chi tragga vantaggio da simili lungaggini è difficile stabilirlo. Certo fa specie ciò che la Guardia di finanza qualche tempo fa ha segnalato alla Corte dei conti: un potenziale danno erariale di oltre 56 milioni di euro emerso dopo un monitoraggio durato tre anni sull’appalto che riguarda il tratto vibonese, aggiudicato nel 2005 per un importo di circa 124 milioni di euro e concluso dopo 13 anni spendendone oltre 191. Il risultato è che i tempi contrattuali si sono dilatati del 300% con «un incremento pari al 46% circa dell’importo dei lavori».

    Fiamme e pallottole

    Quella della Trasversale delle Serre non è certo solo una storia di proteste, lungaggini burocratiche e costi lievitati. Nell’aprile del 2015 un capocantiere fu arrestato perché accusato di essere tra i responsabili delle intimidazioni subìte dalla sua stessa azienda. Ne emerse «un solido rapporto fiduciario» tra il capocantiere e alcuni «esponenti di pericolose organizzazioni criminali intenzionate ad affermare il loro potere sul territorio».

    Nella notte tra il 12 e il 13 ottobre 2014 le fiamme distrussero diversi mezzi di quel cantiere e il geometra che aveva denunciato il fatto trovò un bossolo calibro 12 sotto il tergicristallo dell’auto. Poi qualcuno gli telefonò dicendo: «Se non ve ne andate la prossima volta le cartucce saranno piene, per te e i tuoi colleghi». A fare quella telefonata, secondo quanto emerse dall’inchiesta dei carabinieri di Serra San Bruno, sarebbe stato proprio il capocantiere poi arrestato.

    Pentiti e Servizi segreti

    In una relazione consegnata al governo nel 2007 i Servizi segreti segnalavano che tra «le proiezioni imprenditoriali/collusive della ’ndrangheta» c’era il settore dei lavori stradali. E che, in questo ambito, c’erano «soprattutto» quelli di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, della Statale 106 e della Trasversale delle Serre. Che le ‘ndrine della zona abbiano banchettato sui lavori della Trasversale lo ha rivelato l’inchiesta “Showdown 3”. Un pentito, Gianni Cretarola, che ha raccontato molti retroscena della seconda “faida dei boschi” e ha parlato del «grande business della Trasversale».

    Secondo Cretarola «tutto l’ambiente ‘ndrangheta» era coinvolto nelle decisioni sui grandi appalti: agli imprenditori veniva imposto di pagare il 3% che veniva poi diviso tra le ‘ndrine del luogo. Anche il pentito vibonese Andrea Mantella ha raccontato di presunti legami tra la ‘ndrangheta locale e un noto politico della zona per «raddrizzare questi grossi imprenditori, che venivano dal Nord» e piazzare gli escavatori e il calcestruzzo del clan sui cantieri della Trasversale delle Serre.

  • Da Anversa a Bruxelles, perché il Belgio piace così tanto alle ‘ndrine

    Da Anversa a Bruxelles, perché il Belgio piace così tanto alle ‘ndrine

    Già nel 2004, le operazioni “Nasca” e “Timpano” avevano accertato gli interessi immobiliari della ‘ndrangheta a Bruxelles. In quell’occasione, la lente d’ingrandimento della Guardia di Finanza aveva puntato le famiglie Bellocco e Ascone, di Rosarno, alleate con il clan di San Luca. Come molti Paesi del Centro-Nord Europa, il Belgio è un terreno congeniale per il riutilizzo degli ingenti capitali delle ‘ndrine. All’epoca le Fiamme Gialle contestavano ben 28 milioni di euro frutto del narcotraffico e reinvestiti nelle operazioni immobiliari.

    Il Belgio, crocevia delle mafie

    Oggi quelli che, circa 17 anni fa, potevano essere solo dei sospetti, dei flash su una realtà ancora inesplorata, possono essere considerati certezze. Già nel 2017 una relazione depositata in Parlamento sulle mafie recitava: «Il Belgio, per la propria posizione al centro dell’Europa ed in virtù dell’importante scalo portuale di Anversa, polarizza numerose attività illecite transnazionali. Da anni, il territorio, visto come opportunità di investimenti per profitti illeciti, costituisce centro di interesse per tutte le principali mafie di matrice italiana, in particolare Cosa nostra e ‘ndrangheta, dedite innanzitutto al traffico di sostanze stupefacenti ed alla commissione di reati economico-finanziari».

    L’ultima relazione della DIA, di appena poche settimane fa, è ancor più chiara: «Il Belgio è un territorio considerato fortemente a rischio di infiltrazione mafiosa, soprattutto da parte dei clan calabresi ed in particolare delle cosche ionico-reggine che, col passare del tempo, sono riuscite a permeare l’ambito economico del Paese, in prevalenza in quelle regioni quali ad esempio quella di Mons Charleroi, situata al confine con la Francia, e quella di Liegi-Limburg confinante con l’Olanda. In questi territori, ove tradizionalmente la comunità italiana è molto radicata sul territorio, è stata accertata la presenza di esponenti del crimine organizzato, che, in diverse occasioni, avrebbero anche favorito la latitanza di soggetti di rilievo delle organizzazioni criminali».

    Il porto di Anversa

    Per decenni, il porto di Gioia Tauro è stato il principale accesso per la droga commercializzata dalla ‘ndrangheta in Europa. Lo è tuttora, come testimoniato dalla recente inchiesta “Nuova Narcos Europa”, ma anche dai continui e costanti sequestri di sostanze stupefacenti, cocaina soprattutto nello scalo gioiese. Ma non è l’unico.

    In un intervento pubblico, il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Nicola Morra, ha affermato: «La ‘ndrangheta ha delocalizzato l’arrivo di sostanze stupefacenti dal porto di Gioia Tauro verso i porti di Rotterdam e Anversa che vengono preferiti perché i loro sistemi di controllo sono più blandi». Un quadro confermato anche dalla stessa DIA, nella sua ultima relazione: «Si è visto come le organizzazioni criminali nostrane utilizzino il porto di Anversa, secondo scalo europeo per volume di scambi, per l’importazione della cocaina destinata poi al mercato italiano».

    Il porto di Anversa
    Il porto di Anversa – I Calabresi

    Nei primi tre mesi del 2021, nel porto di Anversa sono state sequestrate quasi 28 tonnellate di droga. Un’infinità. Soprattutto perché non ci troviamo in provincia di Reggio Calabria, dove la ‘ndrangheta controlla tutto. Soprattutto perché fino a pochi anni prima i flussi sembravano preoccupanti, ma sensibilmente più bassi: in tutto il 2014, solo per citare un esempio, i sequestri supererarono di poco le 8 tonnellate. Cifre, quindi, che viaggiano pericolosamente verso i numeri del 2020. Quando su 102 tonnellate di cocaina intercettate all’arrivo in Europa, quasi due terzi approderanno nel porto di Anversa.

    Le alleanze

    Da diverso tempo oramai è diffusa, sul territorio estero, tra le diverse organizzazioni criminali italiane, una politica delle alleanze. Tale strategia è riscontrata anche in Belgio, dove la cosca Commisso di Siderno e il clan Pesce hanno stabilito una sinergia criminale finalizzata alla permeazione del tessuto economico di quel Paese.

    Proprio quelle alleanze che già emergevano nel 2004 con le operazioni “Nasca” e “Timpano”. In quell’occasione, il GOA della Guardia di Finanza di Catanzaro aveva scoperto il lucroso giro di cocaina ed eroina delle famiglie della fascia ionica e tirrenica della provincia di Catanzaro. Ma, soprattutto, individuato i canali di riciclaggio. I metodi d’indagine sempre più sofisticati rendono “semplice” individuare i flussi di droga che giungono in Europa dal Sud America. Assai complesso è invece capire come i milioni di euro dello stupefacente venga reinvestito. Quasi sempre in attività apparentemente lecite.

    Colletti bianchi

    In quel caso (ma non è l’unico) le cosche avevano scelto il mercato immobiliare. Quello che, se ci trovassimo in Italia, al Sud, in Calabria, verrebbe banalmente definito il “mattone”. E invece siamo nel bel mezzo dell’Europa. Dove insistono i palazzi della politica continentale. Ventotto milioni di euro ripuliti in poco tempo. Grazie, ovviamente, agli immancabili “colletti bianchi” su cui possono contare le ‘ndrine. Addirittura, a Bruxelles, un intero quartiere sarebbe stato acquistato dalle cosche di ‘ndrangheta.

    Anche in Belgio, tanto per il traffico di droga, quanto per il riciclaggio di denaro, si punta su quegli elementi “cerniera” fondamentali per le cosche. “Facilitatori”, direttamente in contatto con il Sud America per quanto riguarda la cocaina. Oppure che sanno dove spendere (e, quindi, ripulire) i denari frutto del business delle sostanze stupefacenti.

    Gli albanesi

    Alleanze che non si limitano ai rapporti tra cosche calabresi. O, magari, tra organizzazioni mafiose diverse. Come Cosa Nostra o la Camorra. Ma anche la Stidda. Un ruolo sempre più importante, negli ultimi anni, quello dei criminali albanesi. Ancora dalla relazione della DIA del secondo semestre 2020: «La criminalità albanese è attiva prevalentemente nel traffico di sostanze stupefacenti e di armi nonché nella tratta di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione talvolta in accordo funzionale con organizzazioni di diversa etnia (rumena e nigeriana)».

    I sodalizi a connotazione transnazionale si avvalgono delle connessioni con gruppi delinquenziali costituiti da connazionali operativi principalmente nei Paesi Bassi, in Belgio, Austria, Germania, Regno Unito, Spagna, Francia, in centro e sud America e in madrepatria. «Tale capacità di proiezione internazionale e la disponibilità di droga a prezzi concorrenziali ha determinato l’insorgenza di stabili rapporti tra la criminalità albanese e le organizzazioni mafiose italiane. Relazioni che sono agevolate dall’assenza di conflittualità per il predominio sul territorio. Infatti, di norma gli albanesi si occupano dell’approvvigionamento delle droghe che vengono poi cedute ai sodalizi autoctoni per la gestione dello spaccio» scrive ancora la DIA.

    L’ultimo blitz

    La ‘ndrangheta, attraverso alcuni intermediari internazionali, sfrutta le rotte del narcotraffico che originano dalla Colombia, dall’Ecuador e da tutto il Sud America per far giungere in Europa grandi quantità di sostanza stupefacente attraverso lo scalo portuale belga. Un business cristallizzato anche con le indagini “Pollino” ed “Edera”. Nelle due inchieste curate dalla Dda di Reggio Calabria, le famiglie di ‘ndrangheta protagoniste erano i Pelle-Vottari di San Luca, i Cua–Ietto di Natile di Careri e gli Ursini di Gioiosa Jonica.

    Poco più di un mese fa, l’ultima operazione tra Anversa e Liegi, con decine di arresti e centinaia di perquisizioni. Oltre mille gli agenti impiegati dalle forze dell’ordine, sequestrati stupefacenti per un valore stimato di circa 80 milioni di euro, Kalashnikov, cavalli e beni di lusso. La scoperta, da parte degli inquirenti locali, anche di un laboratorio per la lavorazione e il confezionamento della cocaina. Anversa, quindi, è il punto di approdo della droga in Belgio (e in Europa). Il sospetto è che la capitale, Bruxelles sia il centro per lo stoccaggio e il confezionamento. Lo snodo per lo smistamento.

    La ‘ndrangheta è riuscita ormai a penetrare il tessuto economico del Belgio, soprattutto nelle province di Hainaut, Liegi e Limburgo. Assai forte la presenza degli Aquino, clan d’élite originario della Locride. Anche se, ormai, si può parlare di gruppi criminali italo-belgi.

    All’ombra dei palazzi del potere

    In un’intervista rilasciata a Sergio Nazzaro per il magazine dell’Eurispes, Francois Farcy, dal 2001 in forze nella Polizia Federale Belga, afferma: «La sfida futura che il Belgio deve affrontare per quanto riguarda la mafia, e più in generale la criminalità organizzata di stampo mafioso, è quella di (ri)costruire una comprensione migliore del loro insediamento nel nostro paese e di evidenziare i loro obiettivi prioritari».

    Perché il Belgio, da tempo, è ormai un crocevia fondamentale per le mafie. Per la ‘ndrangheta, soprattutto. Proprio all’ombra dei palazzi del potere europeo, a Bruxelles. Da dove partono miliardi e miliardi di euro di finanziamenti europei. Che, spesso, vanno in pasto alle cosche. Ma questa, è un’altra storia…

  • Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Qualcuno è convinto che la via maestra sia allontanarli dalla famiglia d’origine. Quei nuclei dove si cresce a pane e ‘ndrangheta. Qualcun altro considera questa pratica – peraltro ormai consolidata da alcuni percorsi istituzionali – una barbarie. Altri ancora, studiando il fenomeno ‘ndranghetistico, hanno parlato di “familismo amorale”, mutuando il concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield.

    Il tentativo di togliere acqua fresca e corrente al mulino della ‘ndrangheta tramite le nuove leve dei clan, è, fin qui, riuscito a fasi alterne. Le cosche possono contare su un esercito di giovani pronti a rischiare vita e carcere. Guidati da altri giovani, spesso figli e/o discendenti diretti dei vecchi capibastone. Nel frattempo deceduti o costretti al carcere da lunghe pene detentive.

    Giovane, ma già narcotrafficante

    L’ultimo caso noto è quello emerso nell’ambito della maxi-inchiesta della Dda di Reggio Calabria, “Nuova Narcos Europa”. Un blitz congiunto con le Dda di Milano e Firenze, volto a contrastare l’enorme business della droga gestito dalla potente cosca Molè. Un casato storico che, da sempre, si divide Gioia Tauro con l’altra celebre famiglia dei Piromalli. Proprio i dissidi con i Piromalli avrebbero causato, negli anni, un momento di difficoltà, di declino, da parte dei Molè. Dissidi e frizioni culminate con l’eliminazione, l’1 febbraio del 2008, del boss Rocco Molè. Ma la cosca, secondo gli inquirenti, sarebbe stata tutt’altro che in declino. Proprio le nuove leve avrebbero contribuito a far rialzare la testa al casato di ‘ndrangheta.

    Rocco Molè
    Il giovane Rocco Molè – I Calabresi

    Lo dice anche in un’intercettazione il giovane Rocco Molè, nipote omonimo del capo ‘ndrangheta assassinato. Appena 26 anni, ma sarebbe stato lui, insieme all’anziano nonno Antonio Albanese, il leader del sodalizio criminale. Il giovane Molè, intercettato, fa proprio riferimento ai fasti di un tempo. E al fatto che, una volta completata la rinascita, tutti sarebbero dovuti tornare a bussare alla loro porta. E che lui, nonostante la giovane età, si sarebbe ricordato di chi, negli anni, è rimasto fedele. Ma, soprattutto, di chi ha voltato le spalle. Così, quindi, i Molè hanno provato a rialzare la testa. Anche grazie ai rapporti con la potente famiglia Pesce di Rosarno e con i Crea di Rizziconi. Ma anche con la ‘ndrangheta del territorio vibonese.

    Il progetto “Liberi di scegliere”

    Il giovane Rocco Molè è stato per 3 anni, quando ancora era minorenne, a Torino in una struttura di recupero gestita da Libera nell’ambito del progetto “Liberi di scegliere” promosso dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria per il reinserimento nella società dei figli dei boss mafiosi. Si tratta di un percorso elaborato ormai diversi anni fa dall’allora presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Protocollo di intesa tra vari Enti, anche governativi, Libera e la Chiesa, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri, provenienti da famiglie mafiose.

    Una pratica ormai consolidata, che, in diversi casi, ha dato frutti importanti. Sono più di 100 i minori coinvolti e circa 25 le donne andate via con i propri figli. Alla ricerca di un futuro diverso. Sebbene non siano mancate le polemiche circa la logica – secondo alcuni “militare” – di sottrarre i giovani alle famiglie di origine. Sottovalutando, sempre a detta dei detrattori, l’aspetto pedagogico, culturale e formativo che deve necessariamente avere la lotta alla ‘ndrangheta. Il giovane Molè – Roccuccio per tutti – era rientrato in questo programma proprio alla morte dello zio omonimo Rocco, assassinato nel 2008 nell’ambito di un conflitto interno con gli alleati storici Piromalli. Un recupero fallito, evidentemente.

    Malefix

    Scardinare i modelli ‘ndranghetistici non è affatto semplice. Soprattutto in famiglie che hanno fatto la storia della ‘ndrangheta. I Molè e i Piromalli sono tra questi. Ma la cosca che più di tutte ha contribuito a modernizzare la criminalità organizzata calabrese è, probabilmente, quella dei De Stefano. Con i suoi rapporti privilegiati con massoneria e servizi segreti. Con il potere, in generale. Ascesa e caduta di “Malefix” sono emblema di quel familismo amorale della ‘ndrangheta. Giorgio Condello Sibio, conosciuto a Reggio Calabria come “Giorgetto” o “Giorgino” ha capito ben presto che il cognome De Stefano, forse, può essere un biglietto da visita, un brand, più interessante. Anche e soprattutto a Milano, dove si era trasferito. Dove faceva la bella vita.

    Giorgio Condello Sibio
    Giorgio Condello Sibio con l’ex fidanzata Silvia Provvedi – I Calabresi

    Soggetto misterioso fin quando non verrà arrestato su mandato della Dda di Reggio Calabria. Balzato alle cronache dei giornali scandalistici per la sua relazione con la showgirl Silvia Provvedi, ex del paparazzo pregiudicato Fabrizio Corona ed ex partecipante del Grande Fratello Vip. I giornali di gossip lo definivano “imprenditore di origini calabresi, membro di una famiglia molto importante”. La “famiglia importante” era quella dei De Stefano. Giorgetto Condello Sibio, infatti, è il figlio naturale di don Paolino De Stefano, assassinato nel 1985 agli albori della seconda guerra di ‘ndrangheta. La madre di Giorgetto, Carmelina Condello Sibio, sarebbe stata l’amante di don Paolino, da cui avrebbe avuto tre figli.

    È quindi fratellastro dei più noti Carmine, Dimitri, ma, soprattutto, di quel Peppe De Stefano considerato al vertice dell’ala militare della ‘ndrangheta. In riva allo Stretto, Giorgetto/Giorgino aveva iniziato a essere troppo esposto. E così, la decisione di delocalizzare. E Milano, da sempre, per i De Stefano è una seconda casa. Basti ricordare i rapporti con il boss Franco Coco Trovato. Ma anche il boss Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro avamposto nel capoluogo lombardo.

    Il peso criminale

    Non solo bella vita, però. Stando alle indagini a suo carico, Giorgio Condello Sibio/De Stefano avrebbe avuto un ruolo molto importante nel dirimere le questioni interne al quartiere Archi, considerato una roccaforte della ‘ndrangheta reggina e non solo. Nelle conversazioni captate, il giovane De Stefano parla già da veterano e sottolinea come le spaccature tra i sodali – che iniziavano ad essere note nel sottobosco criminale reggino – avrebbero indebolito la cosca, facendola apparire più vulnerabile.

    Se Giorgetto/Giorgino ha ben capito, fin da subito, l’importanza del cognome De Stefano, c’è chi con cognomi importanti ci nasce. Proprio come in una monarchia, il peso criminale, nella ‘ndrangheta, ha anche un valore di discendenza diretta. Per questo Roccuccio Molè poteva gestire flussi di cocaina così enormi. Il 25 marzo 2020 – siamo quindi nel pieno del primo lockdown – in una masseria di Gioia Tauro sono stati rinvenuti e sequestrati oltre 500 kg di cocaina, suddivisi in panetti di 1 kg circa, alcuni dei quali marchiati con il logo “Real Madrid”, giunti nei giorni precedenti al porto di Gioia Tauro, occultati all’interno di un container commerciale. Tutta droga che avrebbe una firma chiara. Quella del giovane Rocco Molè.

    C’è chi il cognome se lo sceglie. E chi ci nasce. È il caso anche di Luigi Greco, figlio secondogenito del boss Angelo, soprannominato Lino. Una famiglia egemone a San Mauro Marchesato, nel Crotonese, che da tempo, però ha spostato il suo core business in Lombardia, a Milano. Proprio nel cuore della City Life, tra sfarzo e auto di lusso, gli inquirenti censiscono incontri e cene tra gli uomini di ‘ndrangheta e importanti imprenditori. Evidentemente per parlare di affari. Ma anche di politica.

    vincenzo macrì
    Vincenzo Macrì scortato nel viaggio dal Brasile all’Italia dopo l’estradizione – I Calabresi

    Nel 2017 viene invece arrestato in Brasile Vincenzo Macrì. Considerato elemento di spicco della cosca Commisso di Siderno, dedito al narcotraffico internazionale. Figlio di Antonio Macrì, classe 1904, leader carismatico, soprannominato per la sua caratura criminale “Boss dei due mondi”, particolarmente influente anche oltreoceano (Canada e Stati Uniti), il celebre don ‘Ntoni venne ucciso in un agguato a Siderno nel 1975, nell’ambito della prima guerra di ‘ndrangheta. Quel delitto sul campo di bocce, che era la sua passione, segnò la presa del potere da parte della nuova ‘ndrangheta dei De Stefano.

    ‘Ndrangheta e movida

    Da sempre legata ai De Stefano e originaria di Archi è la cosca Tegano. Cresciuta tra la prima e la seconda guerra di ‘ndrangheta grazie a boss del calibro di Giovanni Tegano, recentemente scomparso. Dopo il suo arresto, in seguito ad anni di latitanza, qualcuno, tra la folta folla fuori dalla questura di Reggio Calabria, gridava «uomo di pace». Proprio per testimoniare le sue capacità di mediatore. Per mantenere equilibri che, da sempre, sono la forza della ‘ndrangheta. Non la pensano così, evidentemente, i rampolli della cosca Tegano. Giovani, ma già con un curriculum criminale importante. Ma, soprattutto, ben visibile. Molesto. A fronte di una ‘ndrangheta che ha sempre amato rimanere sotto traccia. I “Teganini”. Così è soprannominato il gruppo di giovani del clan, che, negli anni, hanno seminato il panico nei locali della movida di Reggio Calabria.

    Mico Tegano
    Mico Tegano – I Calabresi

    Sì perché i giovani di ‘ndrangheta amano la movida. Proprio come Giorgio Condello Sibio/De Stefano. Ma se del figlio naturale di don Paolino, fino a poco tempo fa, non esistevano nemmeno foto sui social, i “Teganini” sono diversi. Soggetti come Mico Tegano, figlio del boss ergastolano Pasquale, o Giovanni Tegano, nipote omonimo del cosiddetto “uomo di pace”, fanno parte della ‘ndrangheta 2.0. Quella che si spalleggia sui social. Ma quella, soprattutto, che fa soldi con i nuovi modi di delinquere. Il gioco d’azzardo online, soprattutto. Come testimoniano le inchieste “Gambling” e “Galassia”. Ma, soprattutto, terrorizzano avventori ed esercenti dei locali più “in” di Reggio Calabria. Chiedendo, anzi, pretendendo, di non pagare. Oppure per una parola di troppo. Talvolta per uno sguardo. Molti di loro sono già dietro le sbarre.

    Chi va avanti e chi si ferma

    Ma è lungo l’elenco di figli che hanno proseguito le orme dei genitori. Da Rocco Morabito, figlio del boss Peppe Morabito, “il tiradritto” di Africo. A Peppe Pelle, figlio di don ‘Ntoni Pelle, che negli anni ha ricoperto anche il ruolo di capo crimine a Polsi. E, ancora, Antonio Piromalli, figlio del boss Pino Piromalli, detto “facciazza”, a sua volte fratello del celebre don Mommo Piromalli.

    Uno dei punti di forza della ‘ndrangheta – che la rende quindi anche più immune al fenomeno del pentitismo – è la sua struttura familiare. Ruoli che vengono acquisiti per discendenza. Casi emblematici sono quelli della cosca Mancuso. Una famiglia d’elite della ‘ndrangheta. Sebbene, negli anni, sia stata pesantemente colpita da indagini giudiziarie, non risulta indebolita. Proprio per la capacità di attingere sempre a nuove leve. Domenico Mancuso, 45 anni, figlio del boss ergastolano Peppe, alias “Mbrogghjia”, è stato recentemente condannato a oltre 20 anni di reclusione nel processo “Dinasty”, una delle indagini caposaldo contro i Mancuso.

    Ma c’è chi, all’interno di quella famiglia, cerca di spezzare la catena. È il caso di Emanuele Mancuso, figlio del carismatico boss Pantaleone, detto “l’ingegnere”. Si tratta del primo caso di pentimento all’interno della storica cosca di Limbadi, al centro di molti traffici criminali anche a livello internazionale. Emanuele Mancuso, tra l’altro, è il nipote di Rosaria Mancuso, accusata di essere stata la mandante dell’omicidio di Matteo Vinci, con una bomba collocata sotto la sua automobile. Una collaborazione storica, nell’ambito della quale, Emanuele Mancuso sta raccontando fatti e dinamiche criminali della sua famiglia, ma non solo.

    E non è l’unico. Anche Francesco Farao, oggi poco più che 40enne, ha deciso di passare dalla parte della giustizia. Figlio del boss ergastolano Giuseppe, racconta degli affari del clan crotonese. Con propaggini anche al Nord.
    Perché, da sempre, nella ‘ndrangheta chi collabora è considerato un infame. L’anello debole. Ma l’anello debole è anche quello più forte. Perché spezza la catena.