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  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

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    Il 21 aprile scorso, sui canali della Australian Broadcasting Corporation (ABC) per il programma Foreign Correspondent è andato in onda The Magistrate vs The Mob (Il Magistrato contro la Mafia), un documentario di 30 minuti sul maxiprocesso Rinascita-Scott. Preceduto da un articolo che ne delinea il contenuto, e con la professionalità che contraddistingue il programma e in particolare le produttrici di questo episodio, il documentario spalanca all’Australia le porte del Vibonese e della sua ‘ndrangheta ora a processo.

    Rinascita-Scott, il documentario australiano

    Con immagini mozzafiato catturate da un drone su Tropea e Capo Vaticano, per poi aggiungerci lunghe riprese su Vibo Valentia città, sulle campagne intorno a Limbadi, sui vicoli di Nicotera, l’episodio inizia dicendo «la Calabria è una terra di feroce bellezza». Il resto del documentario vede riprese a Catanzaro, con il procuratore capo Nicola Gratteri, a cui il maxiprocesso è notoriamente legato, nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per Rinascita-Scott, e sul resto del territorio per incontrare vittime di poteri e soprusi mafiosi e anche ovviamente mostrare quella resistenza civile che, seppure ancora ai primi passi, dopo Rinascita-Scott si è sicuramente formata. Il risultato sono 30 minuti godibili, con belle immagini e note emotive, e anche, prevedibilmente, una serie di commenti stereotipati sui rapporti tra mafia e territorio.

    L’equivoco iniziale e il piano B

    Sono stata invitata a fornire una consulenza per il programma nel gennaio scorso. L’interesse dell’Australia per la ‘ndrangheta non è certo cosa nuova, visto che il paese conosce il fenomeno mafioso calabrese da quasi un secolo e – a volte con più serietà, a volte con molta meno attenzione – fa i conti con una ‘ndrangheta locale dalle molte sfaccettature. Ma i produttori non mi avevano contattato per la ‘ndrangheta australiana, bensì per Rinascita-Scott. «Ci sono dei collegamenti con l’Australia?», mi chiesero. Cercavano un aggancio alla loro ‘ndrangheta, che però in questo processo non c’è – o se c’è non appare affatto chiaro.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Dopo aver precisato che questa era un’altra ‘ndrangheta – vale a dire un processo sulle dinamiche di clan mafiosi del Vibonese – che per quanto collegati alla ‘ndrangheta reggina, preponderante in Australia, non guardava precipuamente a queste connessioni – il programma è stato virato sul territorio ‘straniero’, sul processo, sul procuratore Gratteri (come rivela già il titolo), con buona pace della ‘ndrangheta australiana.

    Rinascita-Scott: Italia vs Resto del Mondo

    Questo documentario è l’ultimo di una lunga serie di articoli, video, interviste, reportage, che svariate televisioni e testate giornalistiche straniere hanno dedicato a Rinascita-Scott dal 13 gennaio 2021 quando il processo è formalmente iniziato. Decine di notiziari, in inglese, francese, tedesco, turco, spagnolo, portoghese. Anche dopo il gennaio 2021 l’interesse è rimasto alto, basti pensare al reportage di France24 titolato A trial for the history books (Un processo per i libri di storia) del gennaio 2022.rinascita-scott-fran

    Al contrario, sui giornali o sui canali di informazione italiani, a parte qualche notevolissima eccezione (pensiamo alla puntata di Presadiretta nel marzo 2021 dedicata al maxiprocesso), gli articoli si limitano primariamente alla cronaca, raramente sul nazionale, molto più spesso sul locale. Ed ecco che per alcuni l’interesse della stampa internazionale al processo è segno incontrovertibile che all’estero prendono sul serio l’antimafia e riconoscono il carattere destabilizzante di Rinascita-Scott, mentre in Italia questo non accade.

    La retorica su Gratteri

    Alcune malelingue poi mettono il carico da novanta, riconducendo il disinteresse italiano al processo (comparato all’attenzione dall’estero) a implicite prese di posizione ‘pro-Gratteri’ o ‘contro-Gratteri’. È questa una retorica di pessimo gusto, perché ovviamente non può e non deve esistere uno spazio del ‘contro-Gratteri’ in questo contesto, essendo il procuratore un bravo magistrato, al pari di tanti altri suoi colleghi, avendo egli la capacità (per alcuni il demerito) di dare alle istituzioni calabresi molta visibilità. Ma soprattutto un processo non si identifica mai con il Procuratore Capo della Procura che l’ha istruito. Specie questo processo che di procuratori, magistrati, funzionari, avvocati e, soprattutto imputati, ne ha davvero tanti.

    Quei maxiprocessi tutti italiani

    La domanda però sorge spontanea: qual è la ragione dei riflettori puntati dall’estero sul processo Rinascita-Scott, a confronto di un interesse molto più scarso in Italia? La risposta non è semplice; possiamo scomporla in quattro diverse componenti, tecniche e culturali.

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    L’aula bunker del maxi processo calabrese

    Una prima componente sono i numeri e le caratteristiche del processo. Sicuramente vedere un processo con oltre 350 imputati, dozzine di avvocati, decine di collaboratori di giustizia, al punto da dover costruire un’aula bunker ad-hoc per contenerli tutti, non è spettacolo quotidiano. E uso appositamente la parola ‘spettacolo’. Se per l’Italia questo non è il primo né l’unico processo di grandi dimensioni – anche dopo il maxiprocesso di Palermo infatti ricordiamo Crimine-Infinito, Aemilia e altri processi con oltre 100 imputati – fuori dall’Italia questi numeri sono molto inusuali, se non impossibili, in un’aula di giustizia.

    La giustizia si fa spettacolo

    La giustizia (altrui, cioè la nostra in questo caso) si fa dunque spettacolo proprio per questo profilo di straordinarietà. Non scordiamoci poi che in molte giurisdizioni non esiste l’istituto per noi costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione legale. Soprattutto nei sistemi anglosassoni il pubblico ministero va a processo quando ha una quasi certezza di vittoria dell’accusa (altrimenti si patteggia o si archivia per mancanza di prove o per assenza di ‘interesse pubblico), per questo nel 90% dei casi vince e ottiene condanne.

    La tortuosità del sistema italiano, con processi abbreviati, ordinari, appelli, controappelli, rende difficile raccontare i processi, perché appunto non si sa come andranno a finire, se l’accusa reggerà oppure no, e di solito si dovranno aspettare molti anni per saperlo. Ma in questo caso il processo si può spettacolarizzare e non solo raccontare, e questo è più facile per gli stranieri che per noi italiani.

    L’eroe contro l’antieroe: Gratteri e Mancuso

    Una seconda componente è la simbologia della classica contrapposizione tra l’eroe e l’antieroe, e conseguente glorificazione del primo e dannazione del secondo. Non è un caso che i media esteri si focalizzino sul procuratore Gratteri. Come non è un caso che alcuni media italiani chiamino in causa quella retorica pro-Gratteri/contro-Gratteri di cui sopra. Sicuramente il procuratore capo di Catanzaro è l’incarnazione simbolica dell’antimafia in Calabria (e oltre), anche perché il suo lavoro è sempre stato diffusamente presentato al pubblico, oltre che nella sua attività di magistrato inquirente, anche a seguito del suo intenso impegno quale autore di libri e protagonista di interventi, dibattiti pubblici, eventi. Ciò favorisce la spettacolarizzazione di un processo che ne esalta l’operato, anche nel racconto delle sue difficoltà di uomo sotto scorta da decenni e ostracizzato da varie parti.

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    Luigi “il Supremo” Mancuso

    All’eroe ecco poi affiancato l’antieroe, che in Rinascita ha un nome e un cognome, Luigi Mancuso, boss di Limbadi e della provincia, onnipresente in articoli e reportage esteri sul processo. Non è il solo boss a processo Luigi Mancuso. Non è neppure la prima volta che va a processo. Eppure spesso, parlando di lui, i media esteri danno a intendere che aver portato Mancuso, l’antieroe, a processo sia una delle vittorie dell’eroe, uno dei caratteri fondamentali di Rinascita. Le due facce, quella del magistrato e quella del boss, spesso affiancate, sono volti nuovi all’estero, meno in Italia e molto meno in Calabria, cosa che ovviamente rende più facile la narrazione giornalistica straniera.

    La ‘ndrangheta ovunque

    Una terza componente è poi la pervasività della ‘ndrangheta sul territorio come viene raccontata in Rinascita-Scott, soprattutto nei rapporti con la politica e le istituzioni. Ecco che all’estero si racconta dell’avvocato, ex-senatore, Giancarlo Pittelli, che accanto ad eroe ed antieroe rappresenta la corruttibilità del potere (e dunque aiuta anch’egli la spettacolarizzazione), e delle vittime, o famiglie delle vittime, della ‘ndrangheta sul territorio, come per esempio Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci ucciso da un’autobomba a Limbadi – vicenda per per cui alcuni membri della famiglia Mancuso sono stati ritenuti colpevoli.

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    Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori del 42enne ucciso con un’autobomba a Limbadi

    Le vittime invocano, giustificano, l’intervento dell’eroe e rendono più nitida, ancor più stilizzata, la figura dell’antieroe. Fuori dall’Italia questi sono ingredienti fondamentali per creare una storia, mentre in Italia sono tutte cose già viste (purtroppo) nei grandi processi di mafia. I rapporti tra mafia e politica, mafia e vittime, mafia e istituzioni per l’Italia sono costanti delle vicende di mafia, ci si aspetta che emergano anche nei processi; così non è all’estero, dove mafia spesso è ancora ‘solo’ crimine organizzato.

    Paradossalmente la novità di Rinascita-Scott non è il presunto o reale rapporto tra mafia e politica o la pervasività delle famiglie sul territorio, ma semmai il contrario – cioè il fatto che il processo voglia confermare come certe dinamiche siano in corso e pervasive da decenni al pari di altri territori, come il reggino, in Calabria. Su LaC News, nel programma di approfondimento ‘Rinascita-Scott’, questo emerge non appena si inizia a parlare con vari ospiti e scavare negli archivi giudiziari.

    Pietro Comito conduce una puntata della trasmissione Rinascita-Scott su LaC Tv

    Gli stereotipi sulla Calabria

    E qui si arriva alla quarta componente, che è lo stereotipo della Calabria come terra meravigliosa e maledetta. Distante, fonte di nostalgia per i tanti migranti, ma impenetrabile. E soprattutto preda di una mafia potente che ne impedisce sviluppo e progresso. Questo stereotipo, che rende possibile ma non facile relazionarsi con la Calabria per chi non la conosce, non vi è nato o non la studia, assolve tanti (politici, cittadini…) e distorce il potenziale di questo processo. Se il problema è la mafia, certo portare a processo oltre 350 ‘mafiosi’ (perché non è facile poi capire a quanti e a chi tra gli imputati sono contestati reati di mafia) dev’essere un colpo mortale, no? Soprattutto se ci si aspetta, come detto sopra, che vengano condannati.

    La realtà è più complessa

    Per questo Rinascita diventa il processo per i libri di storia. Eppure così non è, come riconoscono sia alcuni magistrati che tanti rappresentanti della società civile, perché la mafia non è il ‘cancro’ di una società altrimenti sana, e l’antimafia giudiziaria non può essere l’unica ancora di salvezza.

    Tra esigenze mediatiche di riduzione della complessità e polemiche sul cono d’ombra informativo, questo processo probabilmente non è stato ancora trattato per come sarebbe auspicabile, tanto in Italia quanto all’estero. Senza spettacolarizzazione, riconoscendo la complessità del territorio, delle sue relazioni sociali e la difficoltà di ‘resistere’. D’altronde, questo non accade spesso anche per gli altri processi di ‘ndrangheta, o di mafia in generale? C’è poco da stupirsi allora.

  • Cibo, riti e affari: le “mangiate” delle ‘ndrine

    Cibo, riti e affari: le “mangiate” delle ‘ndrine

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    C’è un menu degli uomini di ‘ndrangheta? Sì, ed è tutto sommato assai simile a quello sulle tavole calabresi nei giorni di Pasqua e Pasquetta. Le ‘ndrine, del resto, hanno sempre pescato a piene mani nella tradizione. Il cibo e le riunioni conviviali hanno sempre avuto un ruolo importante nelle dinamiche di ‘ndrangheta. Sono le cosiddette “mangiate”.

    Accordi ed equilibri a tavola

    Le più o meno affollate tavolate sono sempre state le occasioni dove le cosche di ‘ndrangheta hanno spesso stabilito accordi, creato alleanze, imbastito affari. Le cosiddette “mangiate” sono delle vere e proprie riunioni di ‘ndrangheta. Dei summit mafiosi, seri nei contenuti, ma intervallati da un bicchiere di vino rosso locale. E da succulenta carne di maiale, di capra, di agnello.

    Vale tanto sul territorio calabrese, quanto fuori dalla regione. Le ‘ndrine, infatti, ripropongono le medesime dinamiche. Che ci si trovi a Polsi, prima o dopo la processione della Madonna della Montagna. Oppure in Canada, dove da sempre è egemone il gruppo di Siderno. Oppure nell’Europa centrale – Svizzera, Olanda, Germania – dove i clan della Piana di Gioia Tauro e del Catanzarese sono egemoni. Ma anche in Australia, dove la ‘ndrangheta è capace di eleggere sindaci.

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    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    Dai traffici di droga ai candidati da sostenere, oppure le vicende da chiarire. Nell’inchiesta “Nuova Narcos Europa”, sui traffici del potente casato dei Molè di Gioia Tauro, convivono i metodi moderni delle nuove leve del clan, con l’arcaicità delle “mangiate” per dirimere questioni. Le “mangiate” possono essere risolutive. Oppure stabilire la fine di qualcosa o qualcuno. Anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott” c’è traccia delle “mangiate” organizzate dai membri della famiglia Lo Bianco, egemone nel Vibonese.

    Capretto e agnello al “battesimo”

    C’erano capretto e agnello sulla tavola quando Antonino Belnome entrò nella ‘ndrangheta. È lo stesso Belnome a raccontarlo, una volta divenuto collaboratore di giustizia. Per anni è stato uomo forte dei clan in Lombardia. Capretto e agnello arrostiti, mentre si fa entrare un nuovo uomo nell’organizzazione. Tradizione e futuro convivono perfettamente, come sempre, nella ‘ndrangheta.

    «Giura di rinnegare padre sorelle e fratelli fino alla settima generazione e di dividere centesimo per centesimo, millesimo per millesimo con i tuoi nuovi compagni e senza macchia d’onore o peggio di infamità a carico tuo e a discarico della società”. A quel punto dovevo dire “lo giuro” e tutti quanti dissero “lo giuriamo anche noi”» è scritto nel suo memoriale. E poi il taglio sulla mano e il sangue rosso che fuoriesce. Rosso come il vino con cui poi si accompagnano capretto e agnello.

    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Il valore delle “mangiate” nella ‘ndrangheta

    Uomo della ‘ndrangheta lombarda, Belnome: «Non si poteva mangiare finché non si diceva ‘buon appetito’» spiega. Ed è proprio da una delle inchieste più note sulla ‘ndrangheta al Nord, che arriva una delle definizioni più lucide del valore delle “mangiate” in seno alla ‘ndrangheta. L’operazione “Fiori della notte di San Vito” scatta nel giugno del 1994: l’inchiesta della Dda di Milano porta all’iscrizione di quasi 400 persone. Tutte accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, traffico di armi, omicidio, spaccio e traffico di stupefacenti, rapine, estorsione, usura, minacce, favoreggiamento.

    Ricostruisce le dinamiche e gli affari delle cosche nelle province di Milano, Como, Lecco, Varese, Pavia e Brescia per circa un ventennio, dal 1976 al 1994. E proprio in quell’inchiesta, si legge: «Gli incontri denominati “mangiate” assumono particolare interesse investigativo, poiché permettono di documentare importanti momenti di crescita dei singoli affiliati (concessioni di doti) piuttosto che ricostruire gli equilibri interni delle strutture indagate». Anche negli incontri conviviali documentati ormai circa 30 anni fa, il piatto preferito era la carne di capra.

    In Calabria e ovunque

    Le indagini degli ultimi anni raccontano come sia ancora viva questa ritualità in Calabria e in Lombardia, ma non solo. Un’inchiesta sulle cosche di Giffone, infatti, ricostruisce una “mangiata” a base di carne di capra anche in Svizzera, a Zurigo. Siamo nel maggio 2020.

    E anche una delle ultime inchieste sulla ‘ndrangheta nel Lazio, quella che ha sconvolto i territori di Anzio e Nettuno, c’è traccia di questo tipo di ritualità. Un’indagine che ha fatto emergere le figure di Bruno Gallace, Nicola Perronace, Giacomo Madafferi che fanno riferimento alle ‘ndrine di Santa Caterina d’Aspromonte e di Guardavalle.

    Anzio vista dall’alto

    Proprio Belnome parla delle “mangiate di ‘ndrangheta” in quei territori: «Si mangiano alcuni determinati prodotti tradizionali del tipo capretto, e poi ci sono delle… tutte dei rituali, delle funzioni, delle regole, delle circostanze dove in quella mangiata poi scaturisce sempre in una riunione di ‘ndrangheta […] E ci sono rigide dove c’è il capo tavola che libera la tavola”.

    Il cibo delle ‘ndrine

    Pranzi (soprattutto) e cene dove il menu tipico è la carne di capra. Ma non solo. Anche l’agnello e il maiale. Le cosiddette “frittolate” nei tanti poderi di campagna a disposizione delle cosche. Lontani da occhi indiscreti. Almeno questa è l’intenzione.

    Ma, negli ultimi mesi, sono sempre più ricorrenti i maxisequestri di ghiri. Uno degli ultimi, ingente: diversi ghiri vivi in gabbia e ben 235 surgelati in freezer in oltre 50 pacchetti. I ghiri sono considerati animali di specie protetta. E molto gettonati sulle tavolate di ‘ndrangheta. Sempre in ossequio alla tradizione, dato che se ne cibavano anche già i legionari romani.

    I carabinieri di Reggio sequestrano centinaia di ghiri surgelati a Delianuova

    Bolliti nel sugo o arrosto, la consumazione del ghiro sarebbe una celebrazione di potere. Preparare e consumare i piatti a base dei roditori, nell’immaginario ‘ndranghetista, significherebbe legarsi a un patto indissolubile. Dalle intercettazioni captate dagli inquirenti, infatti, diversi pasti in cui doveva essere rinsaldata la pace tra famiglie e sodalizi sarebbero stati a base di ghiri.

    Una caccia diffusa in tutta la Calabria: in provincia di Cosenza, sul versante ionico (Rossano), ma anche sull’Altipiano della Sila (San Giovanni in Fiore) e sulla fascia tirrenica (Orsomarso). In provincia di Crotone nella zona di Castelsilano (Sila Piccola). Ma è nelle Serre, dove si incrociano le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria, che si trova la tradizione più radicata, nel territorio di Guardavalle, Santa Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi.
    E, in caso di dono, d’obbligo donare il roditore ancora provvisto di coda. Solo dalla coda, infatti, è possibile riconoscere che si tratta di un ghiro e non di un topo.

  • Non solo Affruntata, riti e polemiche della Settimana Santa in Calabria

    Non solo Affruntata, riti e polemiche della Settimana Santa in Calabria

    Come le liturgie laiche di ogni giorno, anche i riti “santi” hanno subìto con la pandemia una sospensione e non saranno certamente più gli stessi. Ora, dopo due anni di stop, stanno per riprendere. Ma sono già al centro di decisioni discutibili e immancabili polemiche. È una questione di simboli, soprattutto, e di sentimenti. I riti della Settimana Santa in Calabria ne sono pieni. Sono tantissimi e chi ci crede li vive con una dose di pathos a volte eccessiva, ma direttamente proporzionale allo scetticismo – non di rado fondato sul pregiudizio – di chi non ci crede.

    Processione a San Luca (foto Angelo Maggio 2004)

    Tra fede e teatralità, le manifestazioni religiose pubbliche sono sempre state occasione per definire e ribadire rapporti di potere reali. Da ben prima che esistesse la ‘ndrangheta, che ne ha poi fatto uso per ostentare il suo dominio. E questi riti sono anche occasioni in cui, attraverso la drammatizzazione, le comunità mettono in scena se stesse, rivelando dinamiche interne che normalmente sono nascoste, tacite o sopite.

    Affruntata di Calabria

    Uno dei riti più diffusi, nella Calabria centrale e meridionale, è quello delle Affruntate. Tra Catanzarese, Vibonese e Reggino ce ne sono diverse con varianti notevoli. Cambiano nomi e dettagli di contesto: Cumprunta, Cunfruntata, Svilata, ‘Ncrinata a Dasà (dove si fa il martedì, mentre nella vicina Arena il lunedì). A Bagnara invece pare fosse l’unica festa in cui le due congreghe non litigavano. Ma i protagonisti del rito sono quasi sempre gli stessi: i simulacri della Madonna Addolorata, di San Giovanni evangelista e del Cristo risorto, a cui in alcuni paesi si aggiungono altre figure evangeliche, come la Maddalena o gli angeli.

    È la rappresentazione dell’incontro, preannunciato da San Giovanni, tra la Madre e il Figlio resuscitato. Con una forte componente simbolica che richiama la dinamica tra ordine divino e umano, la lotta tra la morte e la vita. Il rito è probabilmente collegabile alle “sacre rappresentazioni” del Medioevo e del Cinquecento, anche se in molti centri è arrivato nella seconda metà dell’Ottocento. Vi si riscontrano analogie con le liturgie della Settimana Santa della Sicilia, di Malta e di alcune regioni della Spagna.

    Più di tre secoli fa uno dei più noti e accreditati storici della Calabria seicentesca, Padre Giovanni Fiore da Cropani, raccontava stupito in Della Calabria Illustrata come, la domenica di Pasqua, «si accresce la festa nella città di Gerace con una processione di mattina col concorso di quasi tutta la città, e l’uno e l’altro clero secolare e regolare, nella quale con mirabile artificio s’incontrano insieme la Vergine da lutto con Cristo Sagramentato: al cui incontro svestita la Madre de’ suoi lutti, adora il suo carissimo Figliuolo: incontro qual riempie di molta tenerezza d’affetto i circostanti».

    Vangeli canonici e apocrifi

    Fiore da Cropani è stato citato dallo studioso e missionario scalabriniano Maffeo Pretto che, con La pietà popolare in Calabria, ha tentato una ricostruzione resa difficile dall’impossibilità «di tracciare una storia documentata» dell’Affruntata. I vangeli canonici, infatti, non fanno riferimento all’incontro di Cristo risorto con la Madre. Se ne fa invece menzione nei vangeli apocrifi. Pretto cita, in particolare, il Vangelo di Gamaliele – e poi c’è la liturgia pasquale bizantina in cui ricorre la seconda annunciazione. Infine Pretto ricorda l’uso dei gesuiti di tenere delle recite nelle piazze durante le processioni, chiedendosi se l’Affruntata non sia sorta in tale contesto.

    È certamente fondamentale il ruolo dei portantini. Sono loro a dover raccontare, unicamente con i gesti perché si tratta di una processione “muta”, l’ansia dell’attesa, l’incredulità iniziale, la “pasqua” che esplode quando Maria viene “svelata” dal manto nero e si mostra nel bianco (o azzurro) della Resurrezione.

    Affruntata: la processione annullata dal vescovo a Stefanaconi e Sant’Onofrio

    Sant’Onofrio e Stefanaconi, due piccoli centri alle porte di Vibo, sono finiti nel 2014 sulle prime pagine nazionali perché le autorità civili decisero, a causa della presenza di presunti affiliati alle ‘ndrine tra i portatori delle statue, di affidare questo compito ai volontari della Protezione civile. Decisione accettata, malvolentieri, dai fedeli di Stefanaconi. Rigettata, invece, dalla comunità di Sant’Onofrio che, d’accordo con il vescovo e il parroco dell’epoca, preferì annullare del tutto la processione.

    L’Affruntata “replicata” in Piemonte 

    Non era mai successo prima, mentre nel 2010, sempre a Sant’Onofrio, il rito subì un rinvio di una settimana dopo che la porta di casa del priore dell’arciconfraternita che lo organizza era stata presa a pistolettate. Il pentito Andrea Mantella racconta che l’Affruntata si faceva anche a Carmagnola perché lì sarebbe stata attiva una succursale piemontese del clan Bonavota. Proprio un loro uomo, in passato, avrebbe presieduto il comitato organizzatore. La comunità santonofrese si è però poi riappropriata della sua tradizione. Ora sembra risanata rispetto alle vicende negative degli anni passati.

    La presenza delle cosche nelle processioni

    Al di là dei singoli casi, il fenomeno a cui ricondurle non è certamente nuovo. La ‘ndrangheta ha affermato la sua forza solo nel secolo scorso. E la presenza delle cosche in questi riti non è che il riflesso del loro dominio reale sul territorio. Le manifestazioni di religiosità popolare, invece, detengono un potenziale “propagandistico” che i potenti di turno sfruttano da sempre per manifestare la propria superiorità. La spiritualità, anche nelle sue manifestazioni folkloriche è dunque, storicamente, un vero e proprio instrumentum regni.

    La “missa alla ‘mberza” a Serra San Bruno

    Un elemento costitutivo di certi riti è poi la loro fisicità. A Serra San Bruno, per esempio, dopo una funzione chiamata missa alla ‘mberza – non una vera e propria messa, bensì una liturgia in cui all’adorazione della croce seguono le letture e l’Eucaristia – il Venerdì Santo c’è il rito della Schiovazziuoni. Si tratta della rappresentazione della deposizione di Cristo morto. I confratelli dell’arciconfraternita dell’Addolorata liberano materialmente dai chiodi la stautua e la depongono dalla croce. Adgiano poi Cristo sulla naca, che ogni anno ha un allestimento ornamentale diverso da cui dipende molto del prestigio del priore in carica, e lo portano in processione il sabato mattina.

    La certosa di Serra San Bruno (foto Raffaele Timpano)

    Stop ai Vattienti di Nocera Terinese

    Ancora più corporea è la tradizione dei Vattienti di Nocera Terinese – simile ai Battenti di Verbicaro – la cui origine si fa risalire almeno agli inizi del XVII secolo. Un corteo di uomini segue la statua raffigurante la madre di Cristo e alcuni di loro si flagellano le gambe con il “cardo” e la “rosa”, pezzi di sughero su cui si conficcano dei vetri. I vattienti «inevitabilmente iniziano a sanguinare e con il sangue vengono macchiate le mura e le porte delle case attraversate dalla processione».

    Non sono parole di uno storico locale. È un passaggio dell’ordinanza dei commissari che guidano il Comune di Nocera Terinese. Un Comune sciolto per mafia dopo l’inchiesta “Alibante”. I commissari hanno vietato il rito valutandone le modalità «in assoluto contrasto con le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e salubrità dell’ambiente, unitamente alla notoria attrazione alla manifestazione di un considerevole flusso di persone».

    Si può immaginare il disappunto della comunità che deve rinunciare alla cruenta tradizione anche quando lo stato di emergenza Covid si è concluso. È però nelle prerogative dei commissari – che assumono le competenze di sindaco, giunta e consiglio – prendere simili decisioni. E si può immaginare anche quanto un ligio funzionario prefettizio possa essere poco sensibile – e poco propenso ad assumersene la responsabilità – alle dinamiche collettive che stanno davanti e dietro al rito, nonché alle relazioni che vi si intrecciano intorno.

    Il dolce lungo 500 metri a Siderno

    A Siderno, riporta il Reggino.it, a causa dei contagi da Covid sono saltate tutte le celebrazioni civili e religiose, compresa la preparazione della Sguta di Pasquetta, un dolce che nella città della Locride ha raggiunto nel 2019 il record di lunghezza: 537 metri e 92 centimetri certificati da un notaio, con conferma di un posto nel Guinness dei primati. A Caulonia invece l’arciconfraternita dell’Immacolata ha deciso di non far portare le “sue” statue in processione perché la chiesa ricade in un’area interdetta per rischio idrogeologico e l’accordo col Comune per un «corridoio sicuro» è saltato.

    Il vescovo di Cosenza contro «balletti di statue e santi»

    Fede e potere, insomma, non sempre vanno a braccetto. E ci vuole una buona dose di coraggio per chi nella Chiesa – e sono in molti anche nelle alte sfere – cerca di lasciarsi alle spalle alcune usanze dai contorni piuttosto pagani. Certamente ne ha avuto parecchio un prete siciliano, il parroco di Ribera Antonio Nuara. Ha proposto su Facebook di «abolire tutte le processioni» che si svolgono dalle sue parti. Forse più facile la provocazione dell’arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano, Francescantonio Nolè, che intervistato da LaC ha sentenziato – evidentemente con qualche ragione – che «la fede vera non ha bisogno di balletti tra statue dei santi». Nel suo territorio però non si segnalano Affruntate.

  • MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    Il 24 marzo 2022, la polizia federale brasiliana ha portato a termine un’operazione contro il narcotraffico durata tre anni, su tre stati: Paranà, Santa Catarina e São Paulo.
    Diciassette persone sono state arrestate con l’accusa di aver inviato tonnellate di cocaina in Europa dal porto di Paraguanà. Questo gruppo criminale, dice la polizia brasiliana, lavorava con un clan (non meglio specificato) di ‘ndrangheta che curava la logistica del trasporto del narcotico in Europa, per esempio dal porto di Le Havre in Francia, ma anche tramite gli scali spagnoli o tedeschi.

    I portuali al soldo delle ‘ndrangheta

    Come accade in molti casi simili, lavoratori portuali infedeli avrebbero aiutato fornendo informazioni e offrendo il proprio know-how portuale al gruppo criminale. Il narcotico veniva nascosto all’interno di vari compartimenti dei container – ad esempio nei vani frigo, oppure nascosto tra i sacchi di caffè o di frutta.

    Si usava anche il metodo del rip-on/rip-off, una tecnica che gli ‘ndranghetisti hanno pionieristicamente utilizzato sin dai tempi di Operazione Decollo negli anni ’90. Con la tecnica del rip-on/rip-off (che letteralmente significa “presa in giro” o “fregatura”) si nasconde la cocaina in borsoni che vengono poi piazzati all’interno del container all’insaputa di armatori, trasportatori e altri, per poi venir recuperati all’arrivo, sempre all’insaputa di chi ha ordinato il carico del container.

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    Santos, in Brasile, è uno dei porti crocevia della coca

    A cercarlo sulla mappa, si nota subito perché proprio Paraguanà sia stato il porto prescelto per questa (apparentemente) nuova venture criminale. Quinto porto del Brasile, Paraguanà è situato proprio sotto il Porto di Santos, il porto più trafficato dell’America Latina e nella top 40 dei porti più grandi del mondo. Da Santos, dicono report e indagini di mezzo mondo, passa una delle rotte più importanti del traffico di cocaina verso l’Europa. E il primato per le importazioni, storicamente ormai, spetta ai broker dei clan di ‘ndrangheta. Da Paraguanà si muove anche il commercio dal Paraguay, che non ha suoi sbocchi sul mare e che ultimamente è diventata una nazione particolarmente interessata dal narcotraffico.

    In Operazione Pollino-European Connection, diretta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nel 2018, si erano già documentati i viaggi che Domenico Pelle aveva effettuato in Brasile per incontrare esponenti broker e rappresentanti di vari cartelli del narcotraffico, con i quali pianificava e definiva le trattative per l’invio in Italia di varie partite di cocaina, in arrivo a Gioia Tauro.

    Nel 2019, a São Paulo, fu arrestato Nicola Assisi, considerato un broker di primo livello dei clan di ‘ndrangheta, soprattutto al nord Italia. Assisi, che era l’erede criminale di Pasquale Marando, altro broker di ‘ndrangheta, aveva contrattato col Primero Comando da Capital (PCC), un’organizzazione criminale brasiliana, per l’approvvigionamento e il movimento di cocaina sul porto di Santos verso l’Europa.

    I colletti bianchi

    E infatti, in Operazione Magma, sempre della procura di Reggio Calabria – che nel 2020 ha rivelato tra le altre cose, i contatti di alcuni associati dei clan a colletti bianchi in Argentina per facilitare la scarcerazione di Rocco Morabito ed evitarne l’estradizione – leggiamo che uno dei fornitori del gruppo facente capo al clan Bellocco di Rosarno, un certo Ruben, sta appunto in Brasile e utilizza proprio Santos come base del suo traffico.

    Lo stesso Carmelo Aglioti, imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina), che si era interessato alla vicenda di Rocco Morabito per conto della sua famiglia, informava un suo collaboratore: «Se ti dice Ruben che in questi giorni ha pronto qua… Se loro riescono a farla venire a Gioia Tauro … […] Ce l’hanno, ce l’hanno. […] Loro dicono di sì […] Ma non diretto da Buenos Aires, da Santos o da un altro porto!». E probabilmente si intende Paraguanà.

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    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo

    Le rotte della coca e i nuovi “varchi”

    Alla luce delle indagini degli ultimi anni tra Italia e Brasile, possiamo identificare quattro ingredienti chiave del narcotraffico, che aiutano anche a comprendere il ruolo della ‘ndrangheta nel mercato della cocaina.

    Innanzitutto, l’importanza di aprire “varchi”, di trovare “porte” d’ingresso – come si dice in gergo – negli scali portuali. Proprio per i volumi di merce in transito dai porti brasiliani, chiunque importi cocaina, dunque deve attrezzarsi per reperire uno o più broker che abbia accesso a tali scali. In questo, molti clan di ‘ndrangheta storicamente impegnati nel narcotraffico, si sono distinti, non solo procurandosi broker esteri, ma inviando proprio emissari che si sono poi “formati” all’estero e sono diventati broker di più clan dunque dominando il mercato. Se il broker riesce a trovare la porta d’accesso a un nuovo scalo, come nel caso del porto Paraguanà, questo influenzerà tutta la filiera di distribuzione.

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    Le rotte della cocaina dai porti del Sudamerica fino allo scalo di Gioia Tauro

    In secondo luogo, è bene ricordare che le rotte della cocaina dipendono immancabilmente dalle rotte regolari delle merci. In questo senso, avere un varco, aprire una porta, in uno scalo che non ha rotte dirette o frequenti verso l’Europa, non serve a molto. Anche gli ‘ndranghetisti dunque, per quanto capaci, devono adattarsi alla legge del mercato (legale).

    Nelle intercettazioni di operazione Magma, un associato di Aglioti ritiene di non essere più sicuro di far giungere future importazioni sfruttando le rotte con scalo in Brasile delle navi cargo dirette a Gioia Tauro a causa, verosimilmente, dei sequestri degli ultimi anni. Si propone quindi un nuovo canale di spedizione mediante l’occultamento su navi cariche di carbon fossile in partenza dalla città colombiana di Santa Marta, ma con destinazione i Paesi Bassi. «[…] Navi … non
    esiste più! (intende dire navi porta container con destinazione Gioia Tauro, ndr) […] Non esiste più … non c’è … […] Se poi ti dice con la nave carbone … trovano lo spazio nella nave carbone … solo nave carbone … ma Amsterdam o Rotterdam […] Partono da Santa Marta! […]».

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    La “roba” sequestrata dalle forze dell’ordine in attesa di essere distrutta

    Due porti “sicuri”: Le Havre e Gioia Tauro

    Terzo, per poter concludere l’importazione, è necessario avere la capacità di muoversi velocemente anche negli scali di arrivo, anche qualora questi cambino, se cambiano le rotte oppure se il carico è a rischio intercettazione. Ci conferma sempre Aglioti in operazione Magma di quanto sia necessario non solo avere i fornitori in America Latina, ma anche avere chi si occupa dello spostamento della cocaina una volta arrivata al porto di destinazione, qualunque esso sia, in Europa.

    Se l’organizzazione criminale riesce ad assicurarsi varchi all’origine e logistica alla destinazione, l’operazione sarà più sicura. «Noi abbiamo un altro porto sotto mano … “LE HAVRE”, sai dov’è Le Havre? In Normandia, in Francia. Io, prima di partire sono venuti due francesi di là …(incomprensibile) … coi calabresi […] “se voi mandate la roba là, dalla Francia, ve l’assicuriamo noi che la portiamo via dal porto! Al 100%!” … dal porto di Le Havre, dal porto internazionale di Le Havre. Quindi c’hanno 2 porti sicuri in questo momento, Gioia Tauro … [e Le Havre]».

    La reputazione della ‘ndrangheta

    La capacità di adattarsi ai cambi di rotta (letterali a volte) e l’abilità nel forgiare legami sia nei paesi fornitori che negli scali fondamentali per la logistica dell’arrivo sono fondamentali per quei clan di ‘ndrangheta che importano cocaina. Sono questi legami e queste capacità che rendono la mafia calabrese “conosciuta” in questo settore e ne forgiano la “reputazione”. Non bisogna dimenticare, da ultimo, un ulteriore fondamentale ingrediente che rende tutto questo possibile, e cioè la disponibilità di denaro.

    Serve molto denaro per operare a questi livelli. E in questo la reputazione acquisita aiuta gli ‘ndranghetisti. Aglioti conferma di essersi guadagnato la fiducia dei fornitori a tal punto che questi gli concedevano di inviare le partite di stupefacente previo pagamento in anticipo solo del 50% dell’intero valore «[…] tu paghi il 50%, il 50% a nostro carico, a nostro carico. In più, tu metti uno, noi mettiamo due. Tu metti dieci, noi mettiamo venti. Tu metti 50, noi mettiamo cento. Ne paghi 50, poi il resto è vostro», tutto il resto. Perché una volta andavano lì e compravano in conto vendita.

    E dunque, cambieranno ciclicamente le rotte, cambieranno anche le modalità di accesso agli scali portuali, si apriranno nuovi varchi, e si inventeranno nuove modalità di spedizione. Ma fintanto che ci sono domanda, offerta, denaro da investire e reputazione criminale, i clan di ‘ndrangheta che lo vorranno continueranno a scegliere il mercato della cocaina.

  • Economia e coronavirus: un affare di famiglie

    Economia e coronavirus: un affare di famiglie

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    Nei mesi bui del 2020, quelli del lockdown, la già stagnante economia calabrese ha avuto un calo del Pil di circa 9 punti percentuali. Paura, incertezza, emergenza: sono situazioni che le cosche della ‘ndrangheta «hanno sempre dimostrato di saper sfruttare a proprio vantaggio». Come? Ovvio: con i soldi. «Massimizzando i profitti ed orientando gli investimenti verso contesti in forte difficoltà finanziaria».

    Lo scrive chiaramente la Dia nella relazione inviata al Parlamento: una radiografia sull’attività delle mafie nel primo semestre del 2021 che, però, parte proprio dallo shock economico che la pandemia ha prodotto per capire come e quanto organizzazioni finanziariamente potentissime come la ‘ndrangheta ci abbiano guadagnato.

    L’area grigia

    Con il covid un sistema produttivo che era già fragile e indebitato ha avuto un improvviso, ulteriore bisogno di liquidità. Nel mercato del credito – dice il Rapporto della Banca d’Italia su “L’economia della Calabria” – c’è stato un «forte rallentamento osservato nei finanziamenti destinati alle famiglie». E la mafia calabrese ha sempre saputo proporsi come un sostegno per le famiglie in difficoltà. La “filantropia” della ‘ndrangheta, però, non è ovviamente gratis. La si paga a tempo debito.

    C’è poi un altro aspetto che la Dia ribadisce, quello della famigerata area grigia: «Le cosche continuano a dimostrarsi abili nel relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti la cui opera è strumentale al raggiungimento di precisi obiettivi illeciti».

    Il record delle interdittive antimafia? In Calabria

    Cose note, certo. Come non sorprende che la Calabria abbia il record delle interdittive antimafia (134 su 455 in tutta Italia, +18,49% rispetto al 2020) proprio nei settori maggiormente provati dalla pandemia e dunque più a rischio infiltrazione.

    Si tratta comunque di premesse necessarie per focalizzare altri dati, forse meno d’impatto rispetto alle classiche mappe sulla spartizione territoriale delle province calabresi o alle considerazioni sugli agganci con i colletti bianchi. Non perché siano più o meno importanti, ma perché ne sono la diretta conseguenza.

    La ‘ndrangheta con la droga, le armi, l’usura, le estorsioni, gli appalti pubblici e quant’altro fa una montagna soldi, così tanti da non sapere dove metterli. Ed è qui che entra in gioco l’attività antiriciclaggio che la Dia effettua partendo dalle segnalazioni che provengono sia dall’estero che dal territorio nazionale attraverso le Financial Intelligence Unit (F.I.U.) e l’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia.

    Nel primo semestre dell’anno scorso sono state segnalate 11.915 operazioni finanziarie sospette, delle quali 2.459 di diretta attinenza alla criminalità mafiosa e 9.456 riferibili ai cosiddetti reati spia (per esempio impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, usura, estorsione, danneggiamento seguito da incendio ecc.).

    Segnalazioni di operazioni sospette (percentuali tra quelli di diretta attinenza alle mafie e reati spia)

    Sos, ma non è una richiesta d’aiuto

    Le 11.915 s.o.s. (segnalazione di operazione sospetta) constano di 374.764 operazioni finanziarie, un numero che risulta più che raddoppiato rispetto al 1° semestre del 2020. La maggior parte (circa l’85%) avviene attraverso ricariche di carte di pagamento (47%), trasferimento di fondi (23%) e bonifici (15%). Il maggior numero delle operazioni finanziarie riferite a segnalazioni sospette potenzialmente attinenti alla criminalità organizzata è stato registrato nelle regioni del Nord (141.000, ovvero il 37%), seguite da quelle meridionali (107.504, 29%), centrali (89.466, 24%) e insulari (33.187, 9%).

    La preferenza per i territori più ricchi

    In Calabria ci sono state nel periodo in esame 13.518 operazioni finanziarie relative a s.o.s – si tratta del 3,6% rispetto al dato nazionale – delle quali 6.503 ritenute direttamente attinenti alla criminalità organizzata e 7.015 a reati spia. Il “record” è della Campania con un totale di 62.701 operazioni relative a segnalazioni sospette (16,73%), seguono la Lombardia con 58.705 (15,66%) e il Lazio (58.022, 15,48%). È insomma evidente come, pur essendo il 3,6% una percentuale non insignificante per una regione economicamente disastrata, le mafie riciclino su tutto il territorio nazionale prediligendo i territori più ricchi, quelli ritenuti più redditizi dal punto di vista degli investimenti.

    Riciclaggio all’estero

    Guardando alle ramificazioni estere i dati sul riciclaggio si confermano nel primo semestre 2021 «in continua crescita» rispetto agli anni precedenti: 852 note provenienti dalle F.I.U. estere (fra queste sono ricomprese anche 25 informative che «delineano alcuni possibili profili di anomalia di movimentazioni e transazioni finanziarie connesse all’emergenza epidemiologica Covid-19»), di cui 266 richieste di scambi informativi e 586 trasmissioni di informazioni con conseguente attività di analisi e di approfondimento dei dati che ha riguardato oltre 3.200 persone fisiche e oltre 2.600 persone giuridiche segnalate.

    Prestanome e Bitcoin

    L’analisi delle informazioni su fondi ritenuti di provenienza illecita collocati in altri Paesi da persone indagate in Italia in alcuni casi fornisce, secondo la Dia, «validi contributi per riconoscere ipotesi di intestazione fittizia a prestanome o di interposizione di società di comodo e la titolarità effettiva dei patrimoni da parte dei soggetti coinvolti anche in considerazione della rinnovata morfologia dei mezzi di pagamento e di movimentazioni finanziarie». Per questi scopi si fa ricorso a «numerosi» tipi di “money transfer” o alle valute virtuali, le ormai note criptovalute «fra cui spiccano i Bitcoin, le svariate Altcoins e i crypto-asset».

    ‘Ndrangheta Spa

    Mettendo insieme questi e altri elementi emersi da indagini e segnalazioni la Dia descrive il vasto panorama dell’imprenditoria mafiosa come «sempre più caratterizzato dalla presenza di holding criminali». Che accumulano risorse tanto ingenti da risultare «di gran lunga superiori» rispetto a quelle che servirebbero per «corrispondere ai bisogni dei loro associati, a sostenere i costi di mantenimento delle proprie strutture ed a promuovere l’avvio d’ulteriori attività delittuose».

    Le mafie, insomma, fanno molti più soldi di quanti ne servano per gestire se stessa e i propri business. Così «la maggior parte» dei fondi illeciti viene investita «nel tessuto produttivo e commerciale per costituire profitti apparentemente leciti». Grazie ai soldi, dunque, la ‘ndrangheta si mimetizza e si sovrappone alle imprese sia sul piano sociale che su quello finanziario. E senza esporsi al cosiddetto «rischio d’impresa».

  • Sciolti e poi abbandonati: ma l’antimafia dei record funziona?

    Sciolti e poi abbandonati: ma l’antimafia dei record funziona?

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    Questa storia ha inizio nel primo pomeriggio di un giovedì di maggio di 31 anni fa all’interno di un salone da barbiere a Taurianova, nel Reggino. Quel giorno un killer uccide un uomo mentre fa la barba. La vittima – la faccia ancora sporca di schiuma – si chiama Rocco Zagari ed è un boss della ‘ndrangheta. Il suo omicidio rappresenta il punto di non ritorno della faida tra gli Zagari-Viola-Avignone e gli Asciutto-Alampi che in due anni ha già fatto 32 morti. Il giorno seguente, il 3 maggio 1991, rimarrà agli annali come quello della “mattanza del venerdì nero”.

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    Il “venerdì nero” di Taurianova nel racconto giornalistico della Gazzetta del Sud

    La vendetta degli Zagari è impressionante: tre agguati e quattro omicidi. In uno di questi il sicario mozza la testa del cadavere, la lancia in aria e spara come in un macabro tiro al piattello davanti a una ventina di testimoni pietrificati. La Calabria finisce in prima pagina e il governo è costretto a intervenire: il 7 maggio presenta una serie di misure sul caso Calabria e il 31 emana il decreto legge 164 che introduce lo scioglimento per mafia degli enti locali.

    A distanza di poche ore, il prefetto reggino dispone la sospensione del consiglio comunale di Taurianova, il 2 agosto arriva lo scioglimento. È la prima volta nella storia d’Italia. O meglio, la prima volta che avviene grazie a una legge. Era già successo infatti nel 1983 quando, alle elezioni del Comune di Limbadi, il boss Ciccio Mancuso aveva ottenuto 469 preferenze su 1215 votanti. Da latitante. Per impedirne la scontata indicazione a sindaco, si era reso necessario un decreto del presidente della Repubblica Sandro Pertini.

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    Il boss Ciccio Mancuso, quasi sindaco di Limbadi

    Record su record

    Da allora questa storia di record e prime volte si ripete senza soluzione di continuità. La conferma, l’ennesima, arriva dal dossier Le mani sulla città appena pubblicato da Avviso Pubblico, l’associazione degli enti locali contro le mafie: per il quindicesimo anno consecutivo, anche nel 2021 (questa volta al pari di Sicilia e Puglia) la Calabria è prima in Italia per numero di enti sciolti per mafia (quattro su 14: Guardavalle, Nocera Terinese, Simeri Chichi e Rosarno). Ma la Calabria è in vetta anche alla classifica assoluta.

    Su 365 decreti di scioglimento, ben 127 riguardano la Calabria (la Campania segue con 113). Di questi, 71 la provincia di Reggio, 24 il Vibonese, 17 il Catanzarese, 10 la provincia di Crotone e cinque il Cosentino. Ben 28 enti – ancora un primato – hanno subìto decreti plurimi, 11 consigli comunali sono stati addirittura sciolti per tre volte (Rosarno, Lamezia Terme, Taurianova, Briatico, Nicotera, San Ferdinando, Gioia Tauro, Platì, Africo, Roccaforte del Greco e Melito Porto Salvo). Sono almeno altri due i primati: su sette aziende sanitarie coinvolte, ben cinque sono calabresi. Ed è calabrese il primo capoluogo di provincia ad avere subìto un decreto di scioglimento: Reggio Calabria.

    Comuni sciolti per mafia: il caso Reggio

    È il 9 ottobre 2012 quando il Viminale usa la scure sul Comune guidato dal sindaco di centrodestra Demetrio Arena. Per l’Amministrazione, già impantanata in un dissesto finanziario, è un’onta: il provvedimento parla di «contiguità» con ambienti criminali, indica la necessità di «rimuovere le cause del rischio di infiltrazioni mafiose» e chiama in causa la gestione delle aziende municipalizzate e il comportamento di alcuni consiglieri e dipendenti comunali.

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    Il Comune di Reggio Calabria

    A nulla serve pubblicare il documento Reggio rivendica il suo ruolo nel goffo tentativo di scongiurare in extremis il provvedimento: si tratta di un retorico e banale appello che – senza esprimersi sui fatti all’attenzione della commissione d’accesso o agevolare un confronto pubblico – richiama a una presunta «ingiusta campagna di diffamazione che criminalizza un’intera città»» e a «una strategia denigratoria di una intera comunità» che ha «bellezze naturali ma anche cultura, eccellenze lavorative, imprenditoriali, professionali, scolastiche». Un testo incredibilmente sottoscritto da oltre 500 tra «professionisti reggini, imprenditori, rappresentanti di organizzazioni di categoria» e dalle principali associazioni antimafia cittadine (Libera, Riferimenti, Ammazzateci tutti, Museo della ’ndrangheta – non lo sottoscrivono invece daSud e Reggio non tace).

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    Arena e Scopelliti abbracciati

    Lo scioglimento è un colpo fatale per il cosiddetto Modello Reggio, il sistema politico e di potere del presidente della Regione Giuseppe Scopelliti, padrino politico di Arena, già barcollante per una delle pagine più drammatiche della storia cittadina: il misterioso suicidio di Orsola Fallara, potentissima dirigente del Settore Finanza del Comune. A Reggio inizia l’era dei commissari, poi di nuove amministrazioni targate centrosinistra. Ma un vero dibattito sull’accaduto non ci sarà mai. Un’occasione sprecata.

    Il paradosso dell’antimafia

    Reggio non è tuttavia un caso isolato. L’analisi di Avviso Pubblico sui trent’anni di applicazione della legge dimostra infatti che esiste un deficit di trasparenza sul lavoro delle commissioni di accesso. E che non funziona la necessaria attivazione di una discussione pubblica sui fatti oggetto del provvedimento. Inoltre, emergono problemi a proposito di scioglimenti giudicati arbitrari perché “politici”, di commissari spesso non all’altezza e dell’impossibilità di intervenire sulla macchina amministrativa: circostanze che creano diffidenza, se non insofferenza, tra i cittadini.

    «Alla lunga – sottolinea Vittorio Mete, docente di Sociologia all’Università di Torino, alla presentazione del dossier di Avviso Pubblico – gli scioglimenti godono di un deficit di popolarità e consenso. Quello della legittimità percepita è un problema che dobbiamo porci, perché lo scioglimento non rimedia a un meccanismo di raccolta del consenso che non è sano e che non si ripara in pochi mesi».

    Le conseguenze, a volte, rischiano il paradosso: succede quando l’intervento dello Stato crea una frattura del patto tra istituzioni e cittadini, soprattutto nelle aree in cui è più pervasiva la presenza dei clan. Una questione delicata, ricca di contraddizioni che riguarda – è un’avvertenza necessaria – la possibilità di esercitare i diritti costituzionali e nulla ha a che vedere con il falso garantismo che cerca di insinuarsi nelle fragilità del sistema.

    Due casi emblematici e una legge da cambiare

    Sono emblematici, da questo punto di vista, i casi dei comuni aspromontani di Platì, rimasto per anni senza sindaco a causa di tre scioglimenti e della ripetuta assenza di candidati, e di San Luca, dove Bruno Bartolo è stato eletto nel 2019 (con il 90% delle preferenze!), a distanza di sei anni dallo scioglimento e di ben 11 dalle ultime elezioni, solo grazie alla candidatura del massmediologo Klaus Davi che ha garantito la possibilità di una competizione.

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    Il municipio a Platì

    «Coniugare diritti fondamentali – ha scritto di recente lo studioso delle mafie Isaia Sales – con l’esigenza che lo Stato faccia sul serio lo Stato è una questione aperta e non banale. Ma se la sfida si pone a questa altezza è necessario rivedere alcuni cardini della strategia. A partire dalla norma sullo scioglimento dei consigli comunali». Una discussione antica e non più rinviabile. «Quando si arriva a constatare – aggiunge – che ben 78 comuni sono stati sciolti più di una volta, e a volte per ben tre volte (e si potrebbe arrivare addirittura alla quarta!) vuol dire che la legge non è più efficace». E bisogna trovare il coraggio, e la volontà, di cambiarla. Sono tre le proposte di modifica della legge, in commissione Affari costituzionali alla Camera, ma una vera discussione non c’è.

    Un fenomeno di classi dirigenti

    La ragione va forse cercata nelle parole di Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso Pubblico: «Quella delle mafie, scriveva Pio La Torre, è una questione di classi dirigenti, che ha a che fare cioè con il potere e con coloro che lo detengono». La forza delle mafie sta fuori dalle mafie, spesso nei rapporti politici. «Nel corso del tempo – aggiunge – diverse inchieste giudiziarie, storiche e giornalistiche hanno dimostrato che non può esistere mafia senza rapporti con la politica, ma che può e deve esistere una politica senza rapporti con le mafie». Spezzarli spetta agli apparati repressivi, ma «anche alle forze politiche e ai cittadini elettori».

    E tuttavia il tema delle mafie, e del loro rapporto con il potere e con la politica, rimane «assente dal dibattito, anche in questo momento in cui cerchiamo di far partire il Paese col Pnrr», cioè con quella valanga di soldi in arrivo dall’Ue di cui tanto si parla ma su cui non è possibile discutere né per decidere come spenderli, né per individuare il modo migliore di impedire che finiscano nelle mani sbagliate. L’esperienza, a quanto pare, non insegna. Ma questa, seppure anch’essa antica, è un’altra storia.

     

  • MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

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    Rocco Morabito, detto U Tamunga verrà estradato in Italia. Così ha deciso la prima sezione della Corte Suprema Brasiliana il 9 marzo scorso, approvando la richiesta di Roma. Ci sono voluti 10 mesi dall’ultimo arresto di U Tamunga, nel maggio del 2021, a Joao Pessoa in Brasile. E ci sono anche delle condizioni per l’Italia: la detenzione di Morabito non potrà durare più di trent’anni e si dovrà tener conto anche del tempo già trascorso in carcere precedentemente.

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    Rocco Morabito negli anni ’90 e al momento dell’arresto in Sud America

    Narcotrafficante e membro apicale del clan omonimo di Africo, sulla costa ionica reggina, Morabito era stato condannato in Italia nel 1994 in seguito all’Operazione Fortaleza. Trenta gli anni di carcere per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, dall’America Latina alla Calabria e, soprattutto, nel Milanese. Secondo InsightCrime il reggino avrebbe forgiato una collaborazione tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital – PCC, un network para-mafioso brasiliano dominante, tra le altre cose, nel traffico di cocaina.

    U Tamunga, il re della cocaina

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    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    U Tamunga rimane latitante fino al 2017 quando fu catturato a Montevideo, in Uruguay. A quanto pare aveva vissuto lì per 15 anni sotto falsa identità; aveva ottenuto documenti uruguaiani presentando certificati brasiliani con il falso nome di Francisco Antonio Capeletto Souza, nato a Rio de Janeiro. Durante i suoi 23 anni di latitanza, conosciuto come il “Re della Cocaina”, era considerato il secondo latitante italiano più pericoloso dopo il siciliano Matteo Messina Denaro.

    L’evasione e il nuovo arresto: dall’Uruguay al Brasile

    Rocco Morabito si è fatto conoscere anche per la sua rocambolesca evasione dal carcere con altri tre detenuti nel 2019. Dopo essere fuggito da un passaggio che portava direttamente sul tetto del carcere di Montevideo, insieme agli altri tre compagni di evasione, U Tamunga si sarebbe introdotto in un appartamento al quinto piano di un palazzo vicino. Avrebbe quindi derubato la donna che ci viveva per poi scappare in taxi.

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    Rocco Morabito e i suoi tre compagni di fuga

    Dopo oltre un anno passato lungo la Triple Frontera tra Brasile, Argentina e Paraguay, secondo IrpiMedia, viene ricatturato dalla polizia brasiliana nel maggio 2021 grazie a una partnership promossa da Interpol, I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta). I-CAN, un programma voluto, sostenuto e guidato dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza in Italia, ha altri 11 stati partner in giro per il mondo:

    • Stati Uniti
    • Australia
    • Canada
    • Brasile
    • Argentina
    • Germania
    • Svizzera
    • Colombia
    • Francia
    • Spagna
    • Uruguay

    Al servizio di sua maestà Rocco Morabito

    E proprio grazie all’Interpol e ad I-CAN un altro tassello si aggiunge alla parabola di Rocco Morabito con l’Operazione Magma. A guidarla è la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e si concentra sui traffici di stupefacenti del clan Bellocco di Rosarno in America latina. Nell’estate del 2020 – in seguito a sei arresti guidati da Interpol tra Argentina, Costa Rica e Albania – Magma ha rivelato come Carmelo Aglioti, un imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina) si stesse impegnando anche per conto del clan Morabito, per trasferire 50.000 euro in Uruguay per facilitare la liberazione di Rocco Morabito. Dopo il suo arresto a Montevideo nel 2017 per la famiglia Morabito bisogna evitare l’estradizione.

    Rocco Morabito scortato dalla Polizia brasiliana

    Questa estradizione non s’ha da fare

    Aglioti agiva dunque per conto di Antonio Morabito, cugino di Rocco, U Tamunga: «Il cugino vostro, per riciclaggio è? […] Quindi, il motivo … per cui bisogna fare tutte questa operazione … pi mu staci ddocu (per farlo stare in quel luogo, ovvero in Uruguay, ndr) quindi non estradato qui in Italia, giusto!? […] Di farlo rimanere là! Perché i reati contestati là (Uruguay, ndr) non sono gli stessi di qua, giusto o no!? […]». E Antonio Morabito confermava «[…] Mh mh … questa è la prassi che stiamo cercando di fare! […]».

    L’avvocato del diavolo

    I messaggi whatsapp su un’utenza in uso ad Aglioti rivelano i contatti dello stesso Aglioti con Fabio Pompetti, avvocato italiano residente in Argentina, arrestato nel luglio 2020 a Buenos Aires per operazione Magma con I-CAN. «Mi hanno contattato delle persone per dirmi se conoscevo un avvocato in Uruguay, io gli ho fatto il tuo nome perché hanno bisogno di essere assistiti per un loro parente che si trova carcerato in Uruguay. Questi sono persone che pagano, praticamente e lo stesso problema di cui ti sei occupato in passato capito?». «Tutto ok per le tue persone in Uruguay. Mi devo muovere con molta cautela», risponderà Pompetti.

    Un caso, tre temi

    Il caso di Rocco Morabito offre spunti di analisi su tre temi interconnessi:

    1. le sfide alla cooperazione internazionale per finalità di polizia;
    2. la natura della ‘ndrangheta all’estero;
    3. il ruolo dei fixer in località come Argentina, Uruguay o Brasile, strategiche per gli affari dei clan.

    Indagini: serve collaborare e in fretta

    I-CAN è un progetto sicuramente innovativo, il cui massimo impegno sta nel facilitare la comunicazione tra paesi e forze di polizia molto diverse tra loro. Quando si tratta di fare indagini transnazionali o transcontinentali infatti il problema primario, soprattutto fuori dall’Europa, rimane la difficoltà delle istituzioni nei vari paesi coinvolti di comunicare velocemente e altrettanto velocemente condividere dati e intelligence.

    È necessario valorizzare, come cerca di fare I-CAN, team di indagine unitari che dall’inizio dei lavori possano condividere ipotesi e dati. Soprattutto perché, e qui arriviamo al secondo spunto di analisi, la ‘ndrangheta all’estero non ha sempre la stessa faccia. Ed è necessario non solo saperlo ma ipotizzare quale faccia ci si possa trovare davanti.

    rocco-morabito-chi-proteggeva-re-della-cocaina-sud-america-i-calabresi
    Milano, la provocazione di Klaus Davi, Pasquale Diaferia e Alberto Micelotta all’indomani dell’arresto di Morabito in Uruguay

    Rocco Morabito e la ‘ndrangheta all’estero

    Prendiamo il caso di Rocco Morabito. Abbiamo un soggetto, Aglioti, che – da associato di un clan tirrenico, i Bellocco – si pone come intermediario per un clan della ionica, i Morabito, grazie alla sua frequentazione di alcuni luoghi, nello specifico Uruguay e Argentina. «No, basta che li avvisano… non c’è problema! Buenos Aires e Uruguay sono due passi, con il traghetto si fa… arrivi a Rio de La Plata e vai fino a Buenos Aires e viceversa!»; Aglioti dimostra di conoscere i paesi in cui egli stesso fa affari. E sa dare consigli a riguardo a chi li chiede, nel suo clan o in altri clan. Questo rende alcuni soggetti particolarmente importanti all’estero.

    La ‘ndrangheta all’estero, infatti, non si presenta mai come un’organizzazione fissa, pre-strutturata e razionale, dunque prevedibile. Occasioni e opportunità individuali per i singoli clan dipendono in larga misura dalla capacità e dalla reputazione internazionale di alcuni soggetti in supporto ai clan; il tutto ovviamente si adatta di volta in volta a cosa conta nei contesti di destinazione, che sia denaro, potere o anche il capitale relazionale di individui e di associati.

    Fixer e broker: un aiuto oltreoceano

    Lo spaccato di Operazione Magma che riguarda Rocco Morabito e il tentativo (vano) della sua famiglia di proteggerlo dall’estradizione ci racconta anche altro. E cioè che è grazie alla figura del fixer – colui che aiuta i clan nelle questioni specialistiche – oltre che alla figura del broker – colui che aiuta i clan negli affari – che si mantiene un piano criminale oltre oceano. Quando il fixer e il broker sono la stessa persona, o sono molto legati come a Buenos Aires sono Fabio Pompetti e il suo ‘collaboratore’ Giovanni Di Pietro (alias Massimo Pertini) – che si occupava anche della gestione del narcotraffico per vari clan calabresi – allora si garantisce la continuità del servizio e dunque la possibilità di espanderlo a più gruppi criminali.

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    Pantaleone Mancuso

    Non manca di far notare, Aglioti, che la ragione per cui si è rivolto a Pompetti è perché l’avvocato italo-argentino aveva già dimostrato di poter gestire questioni simili a quella di Rocco Morabito. «Dato che allora hanno fermato qua, a coso qua … a Mancuso …… l’ha cacciato lui (lo ha fatto uscire lui, ndr) … per riciclaggio, praticamente» Il riferimento è a Pantaleone Mancuso, estradato in Italia, dall’Argentina, a febbraio del 2015. Per la sua assistenza legale si sarebbe attivato proprio Pompetti insieme ad altri soggetti vicini ai clan della tirrenica.

    Non solo Rocco Morabito

    Tra colletti bianchi che diventano fixer, opportunità di fare affari sia nel legale che nell’illegale grazie a broker che utilizzano i contatti con la nutrita comunità migrante per diversificare il proprio operato, non è difficile vedere come per certi clan, con disponibilità di soldi e uomini, alcuni paesi possano diventare territori chiave.

    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo era il secondo latitante più pericoloso d’Italia

    Rocco Morabito verrà estradato in Italia, ma a preoccuparci adesso dovrebbero essere i contatti che ha forgiato e dunque avviato in paesi come Uruguay, Argentina e Brasile. Quei contatti lo hanno protetto per anni, da latitante o da evaso, e potrebbero proteggere altri come lui, se a chiederlo sono le persone col giusto know-how.

     

  • La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

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    Qualcuno l’ha sempre considerata la “provincia babba” della Sicilia. A fronte di roccaforti di Cosa Nostra, come Palermo e Catania, soprattutto, ma anche Trapani, Messina è sempre stata considerata come figlia di un dio minore sotto il profilo criminale. Ma è davvero così?

    L’ultima inchiesta

    Proprio nelle ultime ore, la Procura della Repubblica di Messina, retta da Maurizio De Lucia, ha tirato le fila di un’inchiesta che dimostrerebbe come, nel capoluogo peloritano, gli affari criminali siano tutt’altro che trascurabili. Sono 21 le persone accusate, a vario titolo, di reati in materia di stupefacenti e armi. Una organizzazione criminale, armata, perfettamente organizzata che riforniva di droga i quartieri cittadini di “Gazzi” e “Mangialupi”.

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    La sede della Procura di Messina

    Le indagini condotte dalla Polizia di Stato avrebbero dimostrato l’esistenza di una centrale di spaccio nel rione “Gazzi”. Con due distinte cellule criminali: una più ristretta, che operava in Calabria ed era impegnata nel rifornire la seconda, l’altra, più articolata e capillare, che immetteva sul mercato di Messina e provincia, grosse partite di cocaina.

    Il ponte sullo Stretto esiste già

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    Messina e il suo porto affacciato sullo Stretto

    Un’organizzazione che spacciava giorno e notte e che riusciva a tirar su almeno 50mila euro mensili. Stando all’inchiesta, la continuità dei rifornimenti era assicurata da alcuni calabresi. Anch’essi arrestati, gestivano i contatti con i vertici del gruppo dei messinesi mediante apparecchi cellulari dedicati. Così si garantivano un elevato livello di riservatezza delle comunicazioni.

    E sono pressoché quotidiani gli interventi delle forze dell’ordine che agli imbarcaderi, tanto di Messina quanto di Villa San Giovanni, bloccano corrieri, talvolta insospettabili, carichi di droga. Il ponte sullo Stretto, voluto da tanti e osteggiato da altrettanti, resta una chimera. Ma sotto il profilo criminale le due sponde di terra sembrano già ampiamente collegate. E l’ultima inchiesta ne sarebbe solo l’ulteriore prova.

    Messina “provincia babba”?

    E, allora, forse, Messina è stata bollata un po’ troppo superficialmente e frettolosamente come “provincia babba”. A pochi chilometri dal capoluogo, infatti, sorge Barcellona Pozzo di Gotto. Un centro oggi di quasi 40mila abitanti che, da anni e negli anni, è stato un crogiolo di interessi e commistioni.

    Il boss locale, Pietro Gullotti, si dice fosse assai vicino al boss catanese Nitto Santapaola. E negli scorsi anni la “creme” della città messinese finirà al centro di una serie di scandali che riguarderanno, peraltro, l’uccisione del giornalista Beppe Alfano e il suicidio del professore Adolfo Parmaliana. Proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, infatti, alcune inchieste mostreranno, almeno sotto il profilo storico, un coacervo di interessi tra politica, magistratura e criminalità organizzata, all’ombra di un circolo noto come “Corda fratres”.

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    Nitto Santapaola

    E di Barcellona Pozzo di Gotto è originario anche quell’avvocato Rosario Pio Cattafi, considerato elemento di congiunzione tra mondi occulti e la criminalità organizzata. Indagato anche nell’inchiesta “Sistemi Criminali”, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, il terrorista nero Stefano Delle Chiaie, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste.

    La ‘ndrangheta dell’altra sponda

    Già, la ‘ndrangheta. Per qualcuno, Messina sarebbe sostanzialmente una propaggine della Calabria, sotto il profilo criminale. Un locale di ‘ndrangheta distaccato. A parlarne è Gaetano Costa, capo della locale di Messina, con strettissimi legami con la ‘ndrangheta, sull’altra sponda dello Stretto. Negli anni ’90, Costa diventa collaboratore di giustizia e racconta, per esempio, della fase evolutiva che segna il passaggio dalla ‘ndrangheta basata sulle regole dello “sgarro” a una nuova formazione, quella della “Santa”.

    Ma Costa, da persona qualificata in quanto uomo forte del crimine in quei luoghi, racconta anche che tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, Messina era considerata quasi un’entità sganciata dal resto della Sicilia e, invero, una propaggine della Calabria, soprattutto sotto il profilo criminale. La città dello Stretto viene definita un “locale” di ‘ndrangheta distaccato dalla Penisola.

    L’Università di Messina e i rampolli dei clan

    E appartengono ormai all’epica della storia della ‘ndrangheta i racconti riguardanti l’Università degli Studi di Messina, soprattutto tra gli anni ’80 e ’90. Lì, con l’ormai celeberrima “pistola sul tavolo”, si sarebbero laureati i rampolli dei vecchi capibastone. E così la ‘ndrangheta si sarebbe fatta classe dirigente. Se i vecchi boss erano, infatti, semianalfabeti o quasi, le nuove leve sono diventate medici e avvocati. E, quindi, con la possibilità di occupare i posti di potere in maniera apparentemente lecita.

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    L’Università di Messina

    Parlando di don Giovanni Stilo, controverso prete di Africo, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca racconta infatti che questi, grazie alle sue influenze massoniche, avrebbe avuto importanti relazioni, sia all’interno dell’ospedale di Locri, che all’interno dell’Università di Messina.

    Grazie ai legami massonici e ‘ndranghetisti, nell’Ateneo messinese sostanzialmente le lauree sarebbero state regalate: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti» dice con chiarezza Barreca.

    La ‘ndrangheta e la massoneria

    In quanto a salotti, peraltro, Messina non ha nulla da invidiare alle più blasonate Palermo e Catania. E nemmeno alla dirimpettaia Reggio Calabria, vera capitale della masso-‘ndrangheta. Interessanti, sul punto, anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio. Pentito un tempo legato alle cosche della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, ma anche massone e molto vicino al boss Rocco Molè.

    Virgiglio ha a che fare con grembiulini e cappucci già negli anni Novanta, ai tempi dell’università a Messina. Tra il 2007 e il 2008 coinvolto e condannato nell’ambito del processo “Maestro”, per i traffici della famiglia Molè nel porto di Gioia Tauro. In mezzo, però, tanta massoneria pesante.

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    L’ex presidente della AS Roma, Franco Sensi

    Già nel 1995, Virgiglio entra in contatto con l’allora presidente della Roma, Franco Sensi, oggi deceduto, ma ben inserito nei circuiti massonici: «Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni ’80. Io frequentavo l’università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nel GOI. Il tempio di Messina, che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questi ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 1992-93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di un’indagine sulla massoneria».

    La relazione della DIA

    Storia della ‘ndrangheta? Forse no. Dato che queste dinamiche vengono cristallizzate anche nell’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. La DIA, infatti, dedica un intero paragrafo alla situazione di Messina e dintorni: «Il territorio provinciale costituisce il crocevia di varie matrici criminali. L’influenza di Cosa nostra palermitana e catanese con le loro peculiari caratteristiche hanno infatti contribuito a creare una realtà eterogenea», si legge.

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    Ma non solo, anche in quest’ultimo studio ufficiale sulla criminalità organizzata in Italia, il ruolo della ‘ndrangheta è preminente: «Ancora sono stati riscontrati rapporti con le vicine cosche calabresi soprattutto per l’approvvigionamento di stupefacenti. Le interazioni tra sodalizi appaiono come in passato orientate a rapporti di vicendevole convenienza, evitando scontri cruenti».

    La ‘ndrangheta a Messina per reinvestire capitali

    Il rapporto costante con la criminalità calabrese emerso dalle risultanze investigative è, per i vertici della Procura peloritana, aspetto su cui va posta la massima attenzione «dal punto di vista della prospettazione futura, avendo ragione di ritenere che la ‘ndrangheta possa in futuro utilizzare lo stesso canale individuato per gli stupefacenti anche per altri traffici, in particolare quello del reinvestimento dei capitali».

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    E tra gli allegati dell’ultima relazione è possibile leggere anche stralci dell’audizione resa proprio dal procuratore De Lucia, autore dell’ultima inchiesta riguardante le due sponde dello Stretto: «Attraverso il traffico di stupefacenti si creano degli accordi e delle convenienze comuni proprio con la ‘ndrangheta, considerato che tale traffico illecito implica una relazione costante delle organizzazioni sia della città di Messina che dell’area di Barcellona P.G. con organizzazioni ‘ndranghetiste».

    Sul punto anche il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Lorenzo Sabatino, ha dichiarato che «le principali organizzazioni mafiose messinesi si sono sviluppate subendo l’influenza sia di Cosa nostra palermitana e catanese, con cui hanno intessuto significativi rapporti criminali, sia della ‘ndrangheta calabrese, di cui alcuni gruppi, in passato, mutuarono strutture, rituali e denominazioni. Il territorio provinciale del resto, è da sempre esposto all’infiltrazione da parte dei sodalizi mafiosi delle province limitrofe e a fenomeni di cooptazione in Cosa nostra di esponenti della criminalità mafiosa locale».

  • Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

    Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

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    Misteri, ma anche sospetti: sono parole che, se si parla di massoneria, quasi sempre finiscono nella stessa frase. Ma è davvero così? Lui si schermisce. Non si considera affatto un “tuttologo” della massoneria. Ma la sua è un’opera monumentale: I Liberi Muratori – Storia Mondiale della Massoneria, edito da Laterza. John Dickie, professore all’University College di Londra, è un esperto di fama internazionale su molti temi della storia italiana. Si è dedicato molto alle dinamiche di natura mafiosa e ‘ndranghetista. Lo ha fatto con testi di rango scientifico. Ma anche con lavori televisivi, come alcuni documentari di successo trasmessi da History Channel.

    Con il suo lavoro, John Dickie mette al centro del ragionamento l’entità che più di tutte al mondo ha attirato le più arzigogolate teorie: la massoneria e i massoni. Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? Dalle Rivoluzioni alle stragi e le trame oscure della storia repubblicana: cosa c’è di vero sui massoni e cosa, invece, appartiene al mito complottista? Il docente inglese ne parla in un’intervista esclusiva a I Calabresi.

    Nel suo libro “I liberi muratori – Storia mondiale della Massoneria” ripercorre le varie epoche vissute dalla Fratellanza. Qual è la genesi della Massoneria? Quali i valori che la ispiravano nel momento della sua nascita?

    «I massoni amano rifarsi alle arti dei mestieri del medioevo inglese, e in particolare all’arte dei lavoratori in pietra. Secondo i massoni, sarebbero state queste radici della Libera muratoria come organizzazione a plasmare allo stesso tempo i loro valori fondamentali (cioè fratellanza, umiltà, solidarietà e beneficienza, pretesa di stare al di fuori della lotta politica, tolleranza religiosa, politica, sociale e etnica…) e la simbologia che sta al centro della vita delle Logge. Tant’è vero che i simboli massonici più importanti (grembiulino, squadra, compasso, ecc.) sono arnesi i quali, per la massoneria, sono ormai diventati metafore di qualità morali.

    Secondo il codice massonico, lo scopo della loro fratellanza è quello di “costruire” uomini migliori così come i lavoratori in pietra di una volta costruivano castelli e chiese. La realtà storica è, inevitabilmente, diversa rispetto a questa mitologia delle origini. L’arte dei lavoratori in pietra era, per una serie di motivi pratici, molto debole e incapace di imporsi come invece facevano l’arte dei sellai o quella degli orefici, per esempio.

    Però in due momenti storici particolarmente importanti l’élite dei lavoratori in pietra (un gruppo di professionisti che oggi chiameremmo architetti) costruisce un legame col potere politico che lentamente trasforma l’arte dei lavoratori in pietra in qualcos’altro: in un’associazione con pretese filosofiche e morali e un luogo dove uomini di diversa provenienza sociale possono riunirsi e discutere in un’atmosfera relativamente libera e egualitaria».

    Quali sono i due momenti di cui parla?

    «Il primo momento accade negli ultimissimi anni del ’500 in Scozia alla corte del re Giacomo VI. Il secondo momento accade a Londra all’inizio del ’700, quando la massoneria si stacca definitivamente da qualsiasi legame con l’edilizia e trova invece un posto all’interno delle reti d’influenza del partito Whig. Ricordo che, per gli standard di quel periodo, i Whigs e la società urbana inglese in genere manifestano forme di tolleranza religiosa e politica, e di libertà d’espressione, molto all’avanguardia rispetto al resto del continente. Vari studiosi hanno sostenuto che la massoneria aveva un ruolo importante come “palestra” della vita politica e istituzionale delle società moderne».

    In Inghilterra, suo Paese, com’è vista l’appartenenza massonica? Quali sono gli snodi più importanti della storia mondiale in cui la Massoneria ha avuto un ruolo centrale?

    «Da Londra, a partire degli anni ’20 del ’700, la Massoneria si diffonde molto velocemente nel resto del mondo, grazie al commercio e all’Impero. Infatti, è con il suo contributo all’imperialismo che la Massoneria forse ha la sua più grande influenza nella costruzione del mondo contemporaneo. Per i soldati, i mercanti, gli amministratori dell’Impero britannico che si muovono tra Calcutta e Città del Capo, tra il Canada e l’Australia, la massoneria offre una specie di welfare internazionale, una banca di contatti, e una vita sociale già bell’e pronta all’arrivo in qualsiasi angolo lontano dei territori britannici.

    E tutto aiuta naturalmente a legittimare ideologicamente la conquista e lo sfruttamento di altri popoli. Detto in parole povere, il codice massonico della tolleranza si presta a diffondere l’idea che gli inglesi costruiscono l’impero non per motivi di avidità, ma per portare la luce della civiltà ai “luoghi oscuri del mondo” (per usare la frase del vate dell’imperialismo di fine Ottocento, Rudyard Kipling, un massone)».

    Lo scrittore britannico Rudyard Kipling

    Nota differenze particolari con l’Italia?

    Per quanto riguarda l’immagine della massoneria in tempi più recenti, un po’ come in Italia con la storia della Loggia P2, in Gran Bretagna gli anni ’80 del ventesimo secolo vedono degli scandali che danneggiano moltissimo l’immagine della Massoneria. Nel nostro caso sono casi di corruzione nella polizia dove vengono chiamati in causa i massoni. Nella mente di persone della mia generazione, la massoneria è rimasta quella invischiata negli scandali di 40 anni fa: una lobby piuttosto squallida, dunque.

    La differenza rispetto all’Italia, dove lo scandalo della P2 dava veramente motivi di preoccupazione, è che questa immagine di una massoneria centro di influenze clientelistiche è, nel caso inglese, uno stereotipo, una memoria collettiva fallace. Molto anni dopo gli scandali, alle fine degli anni ’90, l’inchiesta parlamentare incaricata di analizzare in profondità i legami tra massoneria e corruzione pubblica un rapporto che essenzialmente scagiona le logge e completamente ridimensiona il quadro che avevamo della loro influenza. Emblematico il caso del poliziotto massone che aveva giocato un ruolo eroico nello scoperchiare la corruzione della polizia della City di Londra. E si trattava di forme di corruzione molto serie: legami con violentissimi rapinatori in banca, per esempio.

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    Licio Gelli è stato il capo della P2

    In Gran Bretagna la massoneria ha preso atto dei problemi di immagine che sono l’eredità degli anni ’80. C’è stata una specie di Glasnost massonica, per esempio, con l’apertura degli archivi a storici non massoni come me. Ma cambiare le percezioni del pubblico è un lavoro lungo e difficile, soprattutto quando la Massoneria è in declino».

    Molto spesso, anche in questi due anni di pandemia, quando il cittadino medio non sa spiegarsi qualcosa, tira in ballo la Massoneria e presunti piani di controllo internazionali. Si tratta di teorie complottistiche destituite di fondamento? 

    «Assolutamente sì. So per esperienza che è quasi inutile cercare di convincere un complottista a cambiare idea, ma proviamoci ragionando in base alla natura stessa della massoneria. Innanzitutto, la Massoneria in quanto tale non esiste a livello nazionale in molti casi, figuriamoci a livello internazionale. Sin dal ’700 la storia della massoneria è caratterizzata da scissioni e da una diversificazione di tradizioni e obbedienze. Non c’è nessun franchising mondiale. I massoni hanno perso il controllo del proprio “marchio” secoli fa. Oggi come oggi è facile per un gruppo qualsiasi di chiamarsi massoni e mettere su una loggia, scopiazzando i riti e i simboli da Internet. Il risultato è un mondo quasi ingovernabile.

    Persino nelle tradizioni più autorevoli, come il Grande Oriente d’Italia o la United Grand Lodge of England, le singole logge hanno molta autonomia. E i singoli massoni vivono la propria appartenenza alla fratellanza in modi molto molto diversi. Chi copre una carica alta all’interno della Massoneria tende a non essere una persona con molta influenza nel mondo esterno, per il semplice motivo che immergersi in questa vita porta via un sacco di tempo in riti, amministrazione, diplomazia interna, ecc. Chi invoca “la massoneria” senza distinguo, non fa che dimostrare la propria ignoranza. Altro che complotto internazionale.

    “I Liberi Muratori”, un libro di John Dickie

    Però il legame tra massoneria e miti complottistici non è casuale. Infatti, possiamo rintracciare le origini del complottismo contemporaneo agli anni immediatamente dopo la Rivoluzione francese. Per l’Europa conservatrice, e soprattutto per la Chiesa cattolica, la Rivoluzione francese rappresenta un trauma collettivo di dimensioni inaudite. Come spiegare una catastrofe del genere? A chi dare la colpa? Come orientarsi quando sono saltati tutti gli schemi dell’antico regime? Nel 1797 un prete francese in esilio a Londra, l’abbé Augustin de Barruel, scrive un libro che fornisce la risposta che tutti cercano: la Rivoluzione francese è il risultato di un complotto dei Massoni, ispirati dal demonio. Questo mito del complotto diventerà presto l’ideologia della Chiesa cattolica per gran parte dell’Ottocento, e poi la matrice di tutti i complottismi dei nostri tempi».

    C’è stata, negli anni e nelle epoche, una degenerazione?

    «No. La massoneria è un fenomeno globale, vecchio 300 anni, che si manifesta in forme diverse a seconda del contesto e del momento storico. La massoneria si è prestata alle attività di statisti e rivoluzionari, imperialisti e lottatori per la liberazione, razzisti e umanitari, poliziotti e delinquenti, fanatici religiosi e razionalisti… Questa diversità rende estremamente interessante la storia della massoneria. Non mi sono mai divertito così tanto a scrivere un libro! E questa straordinaria diversità del fenomeno non si può riassumere in un’unica parabola di degenerazione.

    Il fattore dell’affarismo— ed è a questo che si vuole far riferimento quando si parla di una degenerazione attraverso il tempo — c’è stato sin dall’inizio. L’età d’oro della massoneria, l’età della purezza dei valori massonici, non è mai esistita. Ma dall’altra parte, anche in tempi più recenti, l’affarismo rappresenta soltanto una dimensione della lunga storia della Libera muratoria. E nemmeno, a mio avviso, la dimensione più interessante».

    In generale, c’è secondo lei un ambiente o un settore, tra quello politico, militare, economico in cui, nell’attualità che viviamo, l’appartenenza massonica, ha un ruolo preminente?

    «Dipende da dove ci troviamo nel mondo. In molti paesi oggi la maggioranza dei Massoni è composta di pensionati. La massoneria ha sempre avuto un legame molto forte con la vita militare: gli ex militari nella Massoneria sono tanti. Penso che sia perché la massoneria sostituisce alcuni aspetti della vita collettiva nelle caserme e offre una rete di sostegno per chi cerca di fare il difficile viaggio di ritorno al mondo dei civili.

    Al prezzo di generalizzare moltissimo, si potrebbe dire che la massoneria è un fenomeno delle classi medie. Però sarebbe un lavoro molto complicato fare una sociologia dell’appartenenza massonica anche in una sola realtà come quella italiana. In Italia ho visto molti professionisti. Ma le due obbedienze maggiori sono diverse: nella Gran Loggia d’Italia ci sono le donne, per esempio, e nel Grande Oriente no. E poi, ripeto, ogni loggia avrà le proprie caratteristiche».

    In questo momento, tutto il mondo parla della Russia. La massoneria ebbe un ruolo nella Rivoluzione russa, come alcune fonti sostengono?

    «No. Espresso in questi termini, si tratta dell’ennesimo mito del complotto. Lo Zar Alessandro I aveva messo a bando la Massoneria nel 1822, e dopo la Rivoluzione russa anche lo Stato sovietico la vieta. Poco spazio di manovra, dunque, per chi cerca una spiegazione della Rivoluzione russa chiamando in scena le eterne manovre dei fratelli in grembiulino. Non sono per niente un esperto di storia russa, ma nessuna delle analisi scientifiche che ho letto attribuisce importanza al fattore massonico nella Rivoluzione russa.

    Lo stesso vale anche per la Rivoluzione francese, l’Unità d’Italia, la Rivoluzione americana, il palleggio di responsabilità dopo l’affondamento del Titanic, ecc. ecc. In casi simili, la tesi secondo la quale l’influenza massonica è stata decisiva si sente soltanto da sedicenti esperti di massoneria che tendono a vedere la storia attraverso il buco della serratura delle proprie ossessioni».

    Veniamo all’attualità, ma sempre pensando alla storia. Nel suo libro parla anche dell’atteggiamento avuto, negli anni della Guerra Fredda dall’Unione Sovietica nei confronti della Massoneria. Cosa può dirci sul rapporto attuale tra la Russia e la Fratellanza?

    «Il mio libro copre 400 anni di storia, e episodi affascinanti dalla storia di paesi quali la Gran Bretagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’India, il Sudafrica, la Francia, la Spagna, la Germania, l’Australia…. Ma non è un’enciclopedia mondiale della massoneria, e averlo scritto non mi autorizza a dichiararmi un tuttologo in materia di massoneria. Quello che so è che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della messa a bando sovietica, la massoneria è rinata ma ha avuto una vita molto difficile in tutto l’ex Impero URSS, tra sospetti dello Stato e pregiudizi popolari».

    Lei conosce molto bene la Calabria. E nel suo ampio excursus letterario c’è una parte molto dettagliata che riguarda i rapporti tra la massoneria e la criminalità organizzata. Che idea si è fatto sui legami tra la ‘ndrangheta e la Fratellanza, che da più parti vengono indicati come il vero punto di forza delle cosche? 

    «Mi sono concentrato sul processo Gotha. Sono carte molto importanti che anche tu conosci molto bene. Da anni si parlava di un livello “massonico” del potere della ’ndrangheta. Giravano testimonianze preoccupanti, anche di pentiti e di massoni importanti, alcune dirette, ma molte per sentito dire, e spesso contraddittorie l’una con l’altra. Parlavano di una profonda penetrazione della ’ndrangheta all’interno delle logge del Grande Oriente. O di un controllo della ’ndrangheta da parte di elementi massonici. O di logge corrotte, logge deviate, logge coperte. Parlavano di una rete nazionale, o di una concentrazione del fenomeno nella Piana di Gioia Tauro, o sulla Ionica, e via di seguito. Una enorme confusione, insomma, su cui era doveroso fare luce, compito che il processo Gotha si è assunto.

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    I giudici del processo Gotha durante l’udienza

    E alla fine, almeno secondo le sentenze più recenti, la luce c’è. Ed è una luce abbastanza deludente per i complottisti della situazione. Quello che il processo ha scoperto è un nuovo organo di controllo politico-affaristico della ’ndrangheta, a cui gli ’ndranghetisti stessi fanno riferimento usando diversi nomi: per esempio, “gli Invisibili” o “la Massoneria”. Ma è importante capire che si tratta di una metafora: gli Invisibili non sono letteralmente massoni, la ’ndrangheta non è letteralmente sotto il controllo della massoneria.

    Come ha dichiarato pubblicamente il dottor Giuseppe Lombardo, magistrato da anni coinvolto in questa materia, nel corso di un dibattito con me al festival Trame a Lamezia: “Il rapporto tra la ‘ndrangheta non è un rapporto tra la componente mafiosa e la componente massonica regolare o universalmente conosciuta. Nel momento in cui si parla di componenti massoniche in contatto con le organizzazioni mafiose si parla di componenti che vivono di logiche massoniche, ma non possiamo assolutamente in alcun modo pensare che le massonerie siano un sistema che entra a far parte delle organizzazioni di tipo mafioso. Questo è grave e fuorviante. Non serve al contrasto alle mafie”. Se un problema all’interno del mondo massonico c’è, sempre secondo Lombardo, è con alcune logge irregolari o fasulle, cioè non appartenenti alle tradizioni massoniche maggiori.

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    Il magistrato Giuseppe Lombardo

    Quindi non c’è alcun legame specifico tra le due organizzazioni?

    Io esprimerei il problema in un altro modo. Le logge massoniche sono pezzi di società come gli altri, e come tali hanno i loro specifici punti di forza e di debolezza quando si tratta di rapportarsi col potere della ’ndrangheta. Hanno risorse, umane e culturali soprattutto, che possono far gola alla ’ndrangheta, come ce l’hanno le altre associazioni culturali e religiose calabresi. In una situazione del genere, bisogna seguire le prove, i casi singoli, e non fare di tutta l’erba un fascio.

    Gli intellettuali socialisti dell’inizio del ventesimo secolo usavano dire che “l’antisemitismo è il socialismo dei cretini”. Cioè prendersela con “l’Ebreo” in nome della lotta al capitale era pericoloso e fuorviante. Noi dobbiamo stare attenti a non fare un errore analogo. L’antimassonismo è l’antimafia dei cretini, e prendersela con “la massoneria” nel nome della lotta alla mafia o al malaffare, è pericoloso e fuorviante. Rischia di mettere la lotta alla mafia in mano al populista di turno, che non cerca altro che un capro espiatorio, ruolo svolto dalla massoneria già in molti altri contesti storici».

    In generale, crede che l’aura oscura che avvolge la massoneria, forse soprattutto in Italia, sia frutto dell’esperienza della P2 e che, quindi, si guardi alla massoneria con eccessivo allarmismo?

    Direi di sì. Ma ripeto, si fa presto a dire “massoneria” come se fosse un tutt’uno. Aggiungerei che trovo poco rassicurante l’atteggiamento della leadership del Grande Oriente. Il rifiuto di esaminare seriamente le proprie responsabilità nella vicenda P2. Il rifiuto di prendere sul serio il rischio di infiltrazioni mafiose o corruttive. La tendenza di lanciare accuse di pregiudizio antimassonico ogni volta che il tema della mafia viene sollevato. Tra antimafia e massoneria vedo solo un dialogo tra sordi, quando invece potrebbero avere molto da imparare l’una dall’altra.

    In conclusione, chi sono i massoni oggi?

    «Mi rifiuto di generalizzare. Ma ai non massoni come me darei un consiglio. Non vedere nei massoni degli affaristi e dei dissimulatori a prescindere. Parlateci».

     

  • Elvis, il narcos albanese che voleva fregare la ‘ndrine a Roma

    Elvis, il narcos albanese che voleva fregare la ‘ndrine a Roma

    Droga e “rispetto”, armi e denaro, case sicure e figli scostumati. C’è un filo rosso che lega Elvis Demce – il narcos albanese che si era preso una fetta importante del mercato della coca nella Capitale e che progettava di fare fuori i magistrati Francesco e Giuseppe Cascini – e la ‘ndrangheta.

    Un filo che intreccia il solito fiume di cocaina sull’asse Roma Calabria e che si aggroviglia con la ricerca spasmodica e continua di nuove armi, perché il mercato, dopo esserselo preso, tocca mantenerlo. E il canale delle ‘ndrine è sempre ben rifornito: basta avere gli agganci giusti e anche l’improvviso arresto del sidernese che si occupava di rifornire il clan albanese può essere bypassato, spostandosi di pochi chilometri appena: è il gran bazar della ‘ndrangheta, a cui la batteria romana si “abbevera” di continuo e ai cui rappresentanti va mostrato il rispetto dovuto, almeno ufficialmente.

    Pensavano di non essere intercettati

    Sono le conversazioni decriptate dagli specialisti dell’Interpol a tratteggiare l’ennesimo romanzo criminale che la gang di Demce e i suoi “compari” ‘ndranghetisti recitano sentendosi al sicuro dietro lo schermo della Skyecc, la compagnia canadese che si illudeva di garantire ai propri clienti l’assoluta inviolabilità dei propri, costosissimi, dispositivi. Ed è nelle chat disvelate dei criptofonini sequestrati che gli investigatori del carabinieri di Roma trovano i pezzi di un puzzle complicato ed in parte ancora da decifrare. Un puzzle fatto di nomi in codice e codici identificativi che certificano il ruolo dei calabresi come fornitori dei “grossisti” che operano nelle redditizie piazze di spaccio all’interno del raccordo: “Zio” e “Spartaco”, “Rangara”, “er Chiappa” e “Noodles”: tutti ingranaggi di un meccanismo che, una volta avviato, era in grado di garantire fino a 50 chili di cocaina a spedizione. E che, all’occorrenza, era in grado di recuperare kalashnikov e mitragliette Uzi.

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    Spesso le organizzazioni criminali utilizzano criptofonini

    All inclusive

    «Dice che domani stanno a venì du parenti loro a Tiburtina, tu basta che li pigli in stazione e li porti a casa. Fra’ me raccomando, stai appresso a sti ragazzi, fammi fare bella figura». Gli emissari delle ‘ndrine sono in arrivo a Roma: saranno loro a garantire il flusso di coca per le piazze di spaccio capitoline e Demce è preoccupato che tutto vada nel migliore dei modi. Tocca alla sua organizzazione occuparsi delle necessità logistiche per i due narcos in arrivo e tutto deve filare nel migliore dei modi perché «so’ pesanti sti calabresi e mi interessano i padroni loro che ci mandano lavoro, quindi curameli un po’. Mo ti mando i soldi e je pii na machina in affitto per loro, troviamo uno do se pia senza carta de credito».

    Il canale tra la gang dell’albanese e i fornitori calabresi – rimasti ancora senza un nome – si sta consolidando. I primi carichi sono andati a buon fine e ora si prospettano affari ancora più succulenti, ma per sedere al tavolo dei pezzi grossi, bisogna dimostrare di essere gangster veri. Anche quando si tratta di saldare i debiti per tempo: sul piatto ci sono 400mila euro per un carico di cocaina di qualità “ndo”, meno pregiata della “Fr1” «ma piace lo stesso» che tocca consegnare direttamente allo “zio”, l’emissario delle cosche di base nella Capitale.

    «Quattro piotte a sti calabrotti»

    «Mo famo na cosa – dice il boss albanese istruendo un sodale – organizzamo de mannà quattro piotte a sti calabrotti, così se sbrigano a mandare» altri carichi di droga. Un’operazione che deve filare liscia: «I soldi je li portate tu e Braccio, dovete stare lì e loro ve li devono contare davanti e confermare che so 4 piotte pare. Fai scrivere a “zio” al suo capo che è tutto ok e gli fai mandare un foto ai padroni sua, che so brava gente».

    Gli affari sono affari

    Con i calabresi tocca comportarsi con rispetto e deferenza, e farsi trovare sempre pronti alle loro richieste, almeno quando si tratta di pezzi grossi questo Demce lo sa. Ed è per questo che il boss albanese si mette in moto per organizzare la logistica per l’arrivo di un carico destinato ad altri trafficanti: «Dovete andare a San Cesareo compare – dice al telefono, forte della convinzione di non potere essere intercettato, l’albanese al boss calabrese – con un camion, che un camion non da nell’occhio in una zona industriale». Ma i criminali restano criminali e la regola del “cane non mangia cane” che viene buona per le ricostruzioni romanzate, non trova spazio nella realtà; e così, se si trova il giusto meccanismo, si possono truffare anche i galoppini dei propri soci.

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    Il mercato della cocaina è una delle attività preferite dei clan nella capitale

    Volevano “fare la cresta” ai calabresi

    I calabresi hanno bisogno di comprare una casa isolata fuori città e con un pezzo di terra dove nascondere i «pacchi» di droga in arrivo. È il gruppo di Demce che si deve occupare di trovare la giusta soluzione: una soluzione su cui si può anche tirare su una bella sommetta di straforo: «Trova urgente sta cazzo de casa isolata col terreno per sti pecorari – dice il boss al telefono al suo braccio destro – vedi quanto vonno per sta casa e in base a quello che costa te metti d’accordo col proprietario e ce carichi 50 mila sopra, tanto pagano loro, i sordi ce stanno. E ce li spartimo. Se la casa costa 100, tu je dici 150 e via. E ce esce una mezza candela pulita per noi».

    Gran bazar delle armi

    Ma il canale calabrese non si occupa solo di rifornire cocaina. All’occorrenza, i narcos possono anche trovare armi da guerra e mitragliette corte da usare per fare «le punture» ai rivali, se il fornitore abituale è momentaneamente impossibilitato a farlo.

    È lo stesso Demce a raccontarlo durante una conversazione decrittata con il mammasantissima calabrese che si nasconde dietro il codice identificativo “6ffefa”: «Compare, io prima per le armi mi servivo da un mio caro amico di Siderno che le trattava, ma ora è dentro. Voglio comprarmi 20mila euro di armi, potete aiutarmi? Mi serve un Ak47, un Uzi, M12 Scorpion. Poi le corte mi servono Glok 17, Beretta 9×21 parabellum e qualche 3-4 bombe a mano ananas. Avevo chiesto a “Rangara” ma non si è interessato». Demce si fida del suo interlocutore e gli confessa che le armi gli servono «per educare qualche figlio scostumato, che se non gli fai qualche puntura poi si sentono le briglie sciolte. E per quelli come noi che siamo uomini di classe e di intelletto comparuccio, è dovere nostro istruire questi figli persi».