Ancora non era mafia e non lo sarebbe diventata per un pezzo. Eppure i malavitosi di Cosenza odoravano già di leggenda. Va da sé, di leggenda nera. I loro nomi riempiono rapporti di Pubblica sicurezza, dominano le cronache (anche a dispetto delle censure del fascismo) e passano di bocca in bocca.
Parliamo, in questo caso, del mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu, attivo tra il Ventennio e gli anni ’60, e di altri personaggi, come ad esempio Francesco De Marco, detto ’u Baccu e Michele Montera.
Piazza Riforma negli anni ’50: quartiere di nascita di Luigi Pennino, capo della malavita cosentina (foto L. Coscarella)
I tre facevano parte dello stesso gruppo e, in particolare, Baccu e Penninu erano legatissimi. Poi le cose cambiano. Montera si mette in proprio e fa concorrenza a Penninu, che entra ed esce di galera con accuse non leggerissime: lesioni e omicidio.
Ma anche Baccu si ribella a don Luigi. E la paga cara.
Una malavita “bastarda”
Nella prima metà del XX secolo a Cosenza c’è una malavita effervescente, che tuttavia non si può definire mafia. Il motivo è “sociologico”: i traffici della malavita di Cosenza si basano sulla prostituzione. E il lenocinio, secondo gli statuti dell’Onorata Società (il nome che allora la ’ndrangheta dava a sé stessa) è uno di quegli “strani mestieri” che impediscono al delinquente di considerarsi uomo d’onore.
Una condizione che la mala bruzia si sarebbe trascinata fino agli anni ’70, quando la terza generazione di “guagliuni ’i malavita” (titolo dell’omonimo libro di Francesco Carravetta) avrebbe tentato il salto di qualità, in parte riuscendoci, sotto la guida di altri boss come Franco Pino, Antonio Sena, Franchino Perna e Luigi Pranno. Ai tempi di Penninu le cose erano diverse.
Una storica immagine del quartiere dei Rivocati
Luigi Pennino: profilo di un boss
È doveroso premettere che non c’è alcun atto giudiziario definitivo che inchiodi Luigi Pennino al lenocinio. Inoltre: anche i boss non cosentini stimavano Pennino, che non consideravano un lenone. Tuttavia, ‘u Penninu resta la figura di spicco dell’ambiente cosentino, fatto di papponi, piccoli contrabbandieri ed estorsori. La sua leadership si basa su un misto di fascino personale (lo testimonia il suo successo con le donne), astuzia, coraggio e abilità con le armi.
Nasce nel ’900 alla Riforma, che allora non è una piazza ma una campagna ai confini della città che dà su altre campagne, che costituiscono un hinterland povero in mano a pochi ricchi.
Per qualche anno Pennino fa il fotografo ambulante. Ma il suo tenore di vita, testimoniato dall’abbigliamento elegante, è superiore alla sua professione e al suo ceto.
Come si procuri i soldi per vivere bene – e campare una bella moglie – non è del tutto un mistero per le forze dell’ordine. Già nel ’31 ’u Penninu finisce in galera con l’accusa, confermata in appello, di furto e associazione a delinquere. È solo l’esordio.
Il duello tra Pennino e Baccu avviene proprio nella discesa del Crocefisso alla Riforma
Un duello tra ex amici
Nel ’44 a Cosenza la guerra è finita. Ciò non vuol dire che in città regnino la pace e la sicurezza.
A differenza dei compari reggini e siciliani, i malavitosi cosentini non ricorrono alla lupara bianca ma si affrontano a viso aperto dove e come capita.
Così avviene in un tardo pomeriggio della primavera di quel dopoguerra, quando ’u Penninu e ’u Baccu discutono animosamente nella discesa del Crocefisso, che conduce alla Riforma. De Marco, sodale di Pennino, è un bestione dalla forza erculea. E tenta di ribellarsi al capo, a dispetto del fatto che quest’ultimo sia stimato e temuto in tutta la città, perché gestisce il suo potere con garbo e con un senso personale di giustizia che lo hanno reso una specie di Robin Hood. Come mai Baccu si è ribellato? Sulla rivolta del fedelissimo ci sono due versioni diverse, ma non necessariamente contrastanti.
La prima: sarebbe stato Michele Montera, altro ex sodale di Pennino, poi diventato capo di un gruppo rivale, a istigare De Marco. La seconda: De Marco, tra le varie, era invidioso del successo con le donne. Non è la prima volta che don Luigi subisce un tentativo di golpe. E non si fa trovare impreparato.
Pennino contro Palermo: la malavita di Cosenza
Torniamo indietro di quasi dieci anni, per la precisione al 2 aprile 1935. Pennino convoca i suoi per una partita a bocce.
Chi perde, dovrà pagare il vino per un altro gioco: Patrune e sutta.
Col boss ci sono Albino e Michele Montera, Giovanni Del Buono, Francesco Parise e tale Luigi Palermo, detto ’u Calavisi (che, stando alle carte, sarebbe solo omonimo del boss storico, detto ’u Zorru, che prenderà il posto di Palermo).
Luigi Pennino, storico capo della malavita di Cosenza
La partita a bocce va benissimo. Decisamente meno quella a Patrune e sutta: Pennino si arrabbia coi suoi e li convoca fuori per chiarire. Prende sottobraccio Albino Montera e si dirige verso il gasometro.
Alle sue spalle c’è Palermo, che estrae un coltello e lo colpisce di striscio al collo e poi al petto. Il secondo colpo non va a bersaglio come si deve e il coltello buca solo la giacca del boss. Quest’ultimo reagisce e colpisce ’u Calavisi al fegato con una coltellata ben piazzata.
Palermo muore quattro giorni dopo e Pennino è condannato a quattro anni di carcere, perché la Corte d’Assise di Cosenza gli riconosce le attenuanti sull’imputazione di omicidio colposo.
La fine di Baccu
Lo stesso copione si ripete, più o meno, dieci anni dopo alla Riforma. Abituato a guardarsi le spalle, don Luigi si presenta armato come si deve. Ha una Smith & Wesson a tamburo, con cui ha barattato la sua vecchia Beretta. De Marco spara per primo e colpisce Pennino alle gambe.
Il boss è più preciso e deciso, oltre che fortunato: mira al petto e spara tre volte. E tutt’e tre centra il bersaglio.
Stavolta la legittima difesa c’è tutta. Baccu termina la carriera e la vita. Penninu morirà trent’anni dopo e il suo feretro riceverà onorificenze degne di un leader.
Poi inizierà l’era di Luigi Palermo, ’u Zorru. Ma questa è davvero un’altra storia.
Alcune date vanno cerchiate in rosso. La prima è il 21 luglio 2012. Luigi Mancuso torna libero dopo 19 anni passati in carcere. La seconda: 19 dicembre 2019, scatta la maxioperazione “Rinascita Scott”. Lo «zio Luigi», il «Supremo», viene arrestato a Lamezia su un treno in arrivo da Milano. La terza: 6 novembre 2021, la sentenza in abbreviato porta 70 condanne e 19 assoluzioni. La quarta: 25 novembre 2021, Giuseppe Mancuso (“Peppe ‘mbrogghia”) torna in libertà dopo oltre 20 anni di carcere duro.
L’aula bunker di Lamezia dove si svolge il processo “Rinascita-Scott”
Il nipote più anziano dello zio
La sentenza rappresenta il primo step giudiziario della clamorosa inchiesta contro le cosche vibonesi voluta da Nicola Gratteri. Lo scorso 9 maggio sono state depositate le motivazioni scritte dal gup Carlo Paris e, benché Luigi Mancuso sia sotto processo con il rito ordinario e Peppe Mancuso non sia coinvolto, c’è un capitolo in cui si parla molto di loro due. Sono zio e nipote. Ma il secondo (classe 1949) è più anziano del primo (1954). Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.
Un capo carismatico
L’indagine, scrive il giudice, ha svelato «i collaudati rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria deviata». Luigi è il «più carismatico capo di tutta la ’ndrangheta vibonese, probabilmente il più autorevole di tutte le restanti cosche calabresi agli occhi del Crimine di Polsi». Un collaboratore storico, Michele Iannello, che ha fatto parte del gruppo di Mileto fino al 1995, in un interrogatorio del 2018 ha detto che già all’epoca Luigi e Peppe erano considerati i vertici della ‘ndrangheta vibonese. Secondo Iannello, Peppe aveva la dote del Crimine, Luigi una ancora superiore.
Il pentito Andrea Mantella
Non vuole «cose eclatanti»
Un altro pentito, l’ex boss emergente di Vibo Andrea Mantella, dice di aver conosciuto Luigi tramite suo cognato, il lametino Pasquale Giampà. È «quello che ragiona meglio». Ha «un livello altissimo di ‘ndrangheta». Ed «evita sempre le cose eclatanti tipo gli omicidi». Viene indicato come «il più giovane Capo Crimine» e già come tale lo dipingeva, nel 2001, il collaboratore Francesco Michienzi.
I «tre punti della stella»e gli anni delle stragi
Ancora più evocativo è Cosimo Virgiglio, uno che dice di sapere molto di presunti intrecci tra ‘ndrangheta e massoneria: «So che a Gioia Tauro quando si faceva riferimento al capo dei Mancuso si intendeva Luigi Mancuso. Era considerato uno dei “tre punti della stella”». Gli altri due sarebbero stati Pino Piromalli (a Gioia Tauro) e Nino Pesce (a Rosarno). Una volta tornato in libertà, Luigi avrebbe riattivato, tramite i suoi emissari, i contatti con altri clan calabresi. In particolare, oltre che con i Piromalli, con i De Stefano di Reggio, i Coluccio di Siderno e gli Alvaro di Sinopoli. Zio e nipote, ai tempi dello stragismo, avrebbero avuto un ruolo di primo piano anche nelle trattative tra ‘ndrine e Cosa nostra.
Il new deal del Supremo
Ma è la «politica interna» del Supremo a cambiare la storia dei clan vibonesi. Riappacifica i vari gruppi sul territorio. Riavvicina i rami degli stessi Mancuso dopo le profonde spaccature del passato. Segna, così, «una nuova epoca per la cosca di Limbadi». Il giudice, a «riprova della notorietà della sua strategia “pacifista” e del suo ruolo di “Supremo” negli ambienti della criminalità organizzata e della massoneria», richiama diverse intercettazioni. Spesso si fa riferimento «all’autorevolezza di Luigi Mancuso, apprezzato sin da giovane per l’atteggiamento non aggressivo e tendente alla mediazione».
La gente paga spontaneamente il pizzo
Una politica di «concordia» e «consenso» che ha avuto «effetti inimmaginabili». Come la «condivisione, da parte tutti i Mancuso e, in particolare, da parte di Giuseppe Mancuso (il nipote con cui in passato s’erano registrati contrasti), dei progetti criminali dettati dal boss». E come «l’assoggettamento “spontaneo” della popolazione che, perfino, di propria iniziativa andava a pagare le estorsioni direttamente a Luigi Mancuso».
Il dialogo tra Giamborino e Pittelli
Giovanni Giamborino, presunto fedelissimo del superboss, la spiegava così al penalista ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli: «Ormai è finita la storia…non c’è niente per nessuno… perché se vi… come facevano loro… facevano un’estorsione… vanno da un imprenditore questi scappano dai Carabinieri…perché non hanno fiducia avete capito… perché oggi va uno, domani va un altro dopo domani va un altro… questi non sanno dove devono ripararsi e nel cerchio non vanno perché non c’è un garante…invece se va Luigi in un posto e che non va perché vanno loro a trovare lui… avete capito le devono avere sicurezza… hanno tutte cose».
Un incontro fotografato dai carabinieri del Ros tra Giancarlo Pittelli (a sinistra) e Luigi Mancuso (a destra, al centro Pasquale Gallone)
Cinque anni di gelo tra i due boss
I due (Giamborino e Pittelli, tra i principali imputati del rito ordinario) parlano anche dei rapporti controversi tra i due vertici della cosca. Il primo racconta dei dissidi tra zio e nipote, che non si sarebbero rivolti la parola per cinque o sei anni. Poi si sarebbero riavvicinati, mentre era in corso il processo “Tirreno” a Palmi, grazie all’intervento pacificatore di Nino Pesce.
Un cadavere nel terreno dello «Zio»
Lo aveva raccontato anni prima anche il pentito Giuseppe Morano: «Peppe era più anziano di Luigi, però Luigi come persona era più carismatico lì nella zona, era la persona più intelligente, era diciamo il cervello della famiglia Mancuso, invece Peppe era più il braccio armato, era più criminale Peppe, era una persona, cioè se doveva ammazzare una persona l’ammazzava, non ci pensava; insomma, ragionava meno di Luigi. Luigi invece era uno più pacifico; allora dice che per questo avevano litigato un po’, perché Peppe aveva combinato un po’ di cose, addirittura, ho saputo che aveva ammazzato una persona e gliel’ha buttato vicino ad un terreno di Luigi, mi sembra che si diceva, per questo pure il litigio è scoppiato più forte, dice che ha ammazzato uno e lo ha lasciato lì vicino al terreno, che poi hanno inquisito a Luigi per questo fatto».
La scelta del «portavoce» sancisce la pace
A testimoniare la ritrovata unità tra i due boss sarebbe in seguito il fatto che Luigi avrebbe scelto come braccio destro, e «unico portavoce» durante il periodo di latitanza volontaria, Pasquale Gallone. Si tratta del fratello di uno «storico favoreggiatore della latitanza di Giuseppe Mancuso». Che ora per il suo ruolo di fedelissimo del superboss è stato condannato in abbreviato a 20 anni di reclusione.
Giovanni Giamborino
Il «tetto del mondo»
Parlando con Pittelli, Giamborino spiega che Luigi è «il tetto del mondo», il «più alto di tutti» e, rispondendo a una specifica domanda dell’avvocato, il «numero 1 in assoluto». Il concetto viene ribadito anche al cugino, Pietro Giamborino, già consigliere regionale. Che chiede: «È riconosciuto numero uno?». Giovanni assicura: «Si… si… si…». Ma «tutto… tutto … unanime…? Pure i suoi stessi?». Sì, «tutto… tutto… in tutta Italia!».
I destini incrociati e le parole del pentito
Ora le cose sono cambiate. Lo «zio», stratega raffinato e abile mediatore, è alla sbarra. Il nipote, più anziano e forse anche più temuto, è fuori. Condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ha scontato il suo debito con la giustizia. «Ha un cimitero alle spalle», ha detto di lui il primo pentito dei Mancuso, Emanuele, in un’intervista esclusiva a I Calabresi. «Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa».
Dai locali del centro a quelli della periferia, dai tram di piazza Risorgimento al traffico infernale della Prenestina, con il sogno nel cassetto di riprendersi i “gioielli di famiglia” che i magistrati del tribunale di Roma gli avevano portato via qualche anno fa. Quello degli Alvaro per la Capitale è un amore antico: è qui che all’inizio del millennio le coppole storte di Sinopoli e Cosoleto sono sbarcate per reinvestire il denaro del narcotraffico ed è a Roma che hanno continuato ad operare indisturbate e fameliche nonostante la pioggia di condanne subite, infiltrandosi nell’economia barcollante della Capitale con montagne di denaro contante.
Vincenzo Alvaro
Ed è sempre a Roma che, per la prima volta nella storia delle “colonizzazioni” ‘ndranghetistiche, Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro avrebbero varato e gestito la prima locale romana di mafia in qualche modo indipendente dalla casa madre.
La ‘ndrangheta a Roma: c’è posto per tutti
Fu la direzione nazionale antimafia a mettere nero su bianco lo status particolare della città eterna rispetto all’infiltrazione delle cosche del crimine organizzato, non solo di origine calabrese: «A Roma c’è posto per tutti». La Dna si riferiva alla capacità economica sconfinata delle mafie e al fatto che un mercato come quello della Capitale fosse in grado di soddisfare la “domanda” di investimento reclamata dai clan che avrebbero potuto guadagnare senza necessariamente pestarsi i calli a vicenda.
Una carovana per fare la guerra
Uno “status” confermato anche da diversi collaboratori di giustizia che in più occasioni avevano raccontato di come «Roma e Milano non erano state oggetto di colonizzazione, esistevano dei piccoli insediamenti ma fuori dalle grandi città. Serviva per attirare meno attenzione». Uno status che era rimasto granitico nel tempo e che ora, sostengono i magistrati della distrettuale antimafia di piazzale Clodio, sarebbe stato modificato grazie all’intervento diretto della potente famiglia Alvaro che da Cosoleto e Sinopoli avrebbe consentito a Carzo (e alla sua interfaccia economica e finanziaria Vincenzo Alvaro) di inaugurare una nuova cellula autonoma all’interno del raccordo. Anche perché i numeri, c’erano. «Siamo cento di noi – racconterà intercettato dalla Dia nella sua abitazione romana il boss ad un sodale – e siamo una carovana per fare la guerra».
Murales al Quadraro
Le mani sulle periferie
Nel primo periodo di investimenti, gli uomini degli Alvaro si erano seduti al banchetto degli appalti mettendo i piedi direttamente sul tavolo, e rilevando in pochissimo tempo alcuni pezzi pregiati della storia della ristorazione capitolina – dall’Harris Bar al Cafè de Paris – per poi espandersi puntando comunque a rimanere dentro i confini del centro, alle spalle del Vaticano e tra i vicoletti di Trastevere.
Ora, quella strategia così spregiudicata – e che era costata condanne pesanti ai rappresentanti della ‘ndrangheta a Roma – era cambiata. Gli uomini della montagna, che si erano sistemati in una villetta fuori mano, volevano inabissarsi per evitare di mettere inutilmente in allarme gli inquirenti: «dobbiamo starcene quieti quieti» racconta ancora Carzo ad un medico originario di Reggio ma da anni trasferito a Roma e che il boss rifornisce di cocaina per uso personale. E di strategie il boss venuto da Cosoleto ne aveva imparate tante: la sua scuola era stata il carcere e dietro le sbarre il suo “parco insegnanti” era stato il ghota della ‘ndrangheta calabrese: Antonio e Umberto Bellocco, Pasquale Libri, Domenico Gallico, Francesco Barbaro.
Operazione antidroga a Primavalle
La ‘ndrangheta a Roma: Primavalle, Prenestino, Tor Pignattara, Quadraro
Da loro, forse, Carzo mutua l’idea di spostare il mirino degli affari verso zone che danno meno nell’occhio. Il giro di società intestate alle solite teste di legno, vira così verso la prima periferia della città, quella densamente popolate dei quartieri popolari, dove le attività commerciali non si contano e se cambiano di gestione non sempre ci si fa caso. Primavalle, nel quadrante nord e poi il Prenestino, Tor Pignattara e il Quadraro a sud est, in un reticolo fuori controllo di società cartiere e “scontrinifici” che veniva buono per investire i soldi del clan. L’idea però è quella di rientrare anche nel salotto buono e l’occasione potrebbe venire dallo sblocco di tre ristoranti (due attorno alle mura del Vaticano, uno nel cuore di Trastevere) che erano stati sequestrati a Francesco Filippone e che «a giorni tornano liberi». Gli agenti della Dia sono arrivati prima.
Può capitare che una quindicina di uomini seduti attorno a un tavolo si salutino augurandosi «buon vespro, società» e sincerandosi che tutti siano «conformi». Che qualcuno di loro evochi i mitologici «cavalieri di Spagna Osso, Mastrosso e Carcagnosso», oppure delle «prescrizioni» risalenti «al 1830» e le «regole sociali» che vengono «dal Crimine». Che quello che sembra il più esperto di certe cose dica di essere – beninteso, «senza offesa» – se non tra i primi dieci, sicuramente «tra i primi quindici della Calabria».
Il modo in cui si salutavano i partecipanti alle riunioni nella bocciofila svizzera
Onore, estorsioni ed eroina. Ma non è mafia
Può capitare che si parli di una «società» che esiste dal 1970 e che «è onore, saggezza, rispetto». Che i convitati vengano rassicurati sul fatto che «c’è lavoro su tutto: estorsioni, coca, eroina; 10 chili, 20 chili al giorno, ve li porto io personalmente e poi non voglio sapere più niente…». E che tutto questo sia nient’altro che una spacconata, folclore, parole. Soprattutto, che non sia mafia.
Un altro frame del video captato dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta “Helvetia”
Dalle Serre a Frauenfeld
Le riunioni sono state immortalate da una telecamera (qui il video diffuso da Rsi News) che i carabinieri di Reggio Calabria avevano piazzato, ormai un decennio fa, nel ristorante di una bocciofila nei pressi di Frauenfeld (Canton Turgovia). Ne è venuta fuori un’inchiesta che ha fatto epoca, “Helvetia”, sulla riproduzione delle dinamiche della ‘ndrangheta che da Fabrizia, paese sulle montagne delle Serre al confine tra Vibonese e Reggino, erano state trapiantate in Svizzera. Scattata nel 2014, l’indagine si era poi divisa in due tronconi e in primo grado il Tribunale di Locri aveva emesso una serie di condanne per associazione mafiosa.
La cittadina svizzera di Frauenfeld
Sentenze ribaltate: dal carcere duro alla libertà
La tesi della cellula svizzera della ‘ndrangheta di Fabrizia – non mancano certo altre prove delle ramificazioni internazionali della mafia calabrese – è stata però in parte smontata già nel 2019 dalla Cassazione che, dopo qualche anno di 41 bis e una condanna a 14 anni nel primo troncone, ha scagionato definitivamente quelli che gli inquirenti avevano invece ritenuto il «capo società» e il «mastro disponente». Altrettanto storica è stata la sentenza con cui la Corte d’Appello di Reggio nel novembre scorso, dopo le prime 3 assoluzioni sentenziate già nel maggio del 2020, ha ribaltato il primo grado dell’altro troncone assolvendo anche gli altri 9 imputati «perché il fatto non sussiste».
La sede della Corte d’appello di Reggio Calabria
Affiliati ma innocui
Di recente sono state depositate le motivazioni delle sentenza che, ancorché appellabili, cristallizzano un punto destinato a rimanere uno spartiacque della giurisprudenza sulla materia. Nel caso di specie i giudici non hanno ravvisato gli elementi previsti dall’art. 416 bis (associazione mafiosa) «non essendo emersa una qualsiasi forma di manifestazione esterna degli elementi essenziali della fattispecie legale tipica e, dunque, venendo a mancare, in definitiva, lo stesso fatto tipico enunciato dalla disposizione incriminatrice, attesa l’assenza di condotte esteriori, sul territorio estero in questione, e concretamente offensive ricollegabili al paradigma normativo del delitto associativo oggetto di contestazione».
Non bastano le intercettazioni
Fuori dal gergo giudiziario, è chiaro che i giudici reggini intendono mettere nero su bianco come per configurare il reato di mafia non basti assumere pose da malandrini, in un contesto ristretto come un tavolo di una bocciofila, e manifestare intenti criminali, senza che all’esterno di quel circolo ci sia prova di comportamenti realmente conseguenti. Tanto più che «la piattaforma probatoria dell’intero procedimento è costituita in massima parte, se non esclusivamente, da intercettazioni».
«Impossibile dire che esiste quella ‘ndrina»
Perché sia mafia, insomma, ci si deve avvalere concretamente del metodo mafioso e non solo enunciarlo. E di ciò occorre un riscontro nell’azione della cosca, la cui forza di intimidazione deve essere percepita come tale all’esterno. Altrimenti i giudici, almeno quelli che si sono occupati di questo caso, prendono atto «dell’impossibilità», sulla base di tutto quello che è confluito nell’indagine, di «affermare l’esistenza, nella cittadina svizzera di Frauenfeld, di un’articolazione di ‘ndrangheta».
La sede della Corte di Cassazione a Roma
Nessuna pena per le intenzioni
Non basta nemmeno che vengano focalizzate delle gerarchie determinate con il conferimento di cariche e doti. Richiamando il contenuto di un altro recente pronunciamento della Cassazione (27 maggio 2021), i giudici della Corte d’appello di Reggio concludono infatti che «persino l’accertato possesso di una dote di ‘ndrangheta, come nel caso in esame, esige che il vincolo criminoso si sia esteriorizzato e l’ulteriore coevo accertamento – in capo all’agente – di una condotta materiale nell’alveo del consorzio illecito per poter così ritenere integrata una sua condotta penalmente rilevante (un fatto dunque) ex art. 416 c.p., piuttosto che un qualcosa di confinato nel perimetro delle intenzioni, come tali irrilevanti per il noto principio per cui cogitationis poenam nemo patitur». Tradotto: per quanto si atteggi a guappo, nessuno può essere punito per i propri – certamente esecrabili – propositi se alle parole non seguono i fatti.
Ci sarebbe stata una «nave» chiamata ‘ndrangheta dietro capi e gregari della “locale” colpita dall’operazione Propaggine, condotta oggi dalla Dia tra il Lazio e la Calabria. Il gip di Roma, Gaspare Sturzo, lo annota nell’ordinanza con cui ha disposto 43 misure cautelari nell’ambito dell’indagine antimafia sulla cosca che avrebbe messo radici nella capitale per allungare le mani su svariate attività economiche (ristoranti, bar e pescherie nella zona nord di Roma e in particolare nel quartiere di Primavalle). Nel provvedimento si cristallizza la prova del «metodo mafioso» e «della paura di coloro che si sono trovati sulla strada» di quei presunti affiliati che ostentavano la loro «vicinanza alla ‘ndrangheta (“dietro di me c’è una nave“), impedendo alle vittime così di denunciare alle Forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni».
Soldi sporchi e omertà
Per il giudice ci si trova «di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso sino al settembre 2020 e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire – scrive il gip – ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».
Da Bin Laden a “Scarpacotta”
Il boss Vincenzo Alvaro, ritenuto dagli inquirenti uno dei due capi della ‘ndrina operante a Roma, in un’intercettazione agli atti dell’indagine diceva: «Siamo una carovana per fare la guerra». Tra gli arrestati del filone reggino dell’inchiesta ci sono tutti i presunti esponenti di vertice della cosca Alvaro di Sinopoli. In carcere sono finiti Carmelo Alvaro, detto “Bin Laden”, Carmine Alvaro, detto “u cuvertuni”, ritenuto il capo locale di Sinopoli, e i capi locale di Cosoleto Francesco Alvaro detto “ciccio testazza”, Antonio Alvaro detto “u massaru”, Nicola Alvaro detto “u beccausu” e Domenico Carzo detto “scarpacotta”.
Nel 2015 il via libera ai due capi
La “locale” romana, ottenuto il via libera dalla casa madre in Calabria, sarebbe stata guidata da una diarchia: ai vertici ci sarebbero stati Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Le risultanze investigative hanno evidenziato come fino al settembre del 2015 non esistesse una “locale” nella Capitale, anche se sul territorio cittadino e in altre zone del Lazio come il litorale operavano numerosi soggetti appartenenti a famiglie e dediti ad attività illecite. Nell’estate del 2015 Carzo avrebbe ricevuto, secondo quanto accertato dagli inquirenti, dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine) l’autorizzazione per costituire una struttura locale che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di ‘ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d’origine.
Il commercialista e il bancario
Tra le persone raggiunte oggi da misura cautelare ci sono anche alcuni professionisti accusati di «avere messo a disposizione» della cosca il loro bagaglio di conoscenze. Si tratta di un commercialista, al quale il gip ha applicato la misura del carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, e un dipendente di una banca. Contestualmente le forze ordine (questure, i carabinieri e guardia di finanza di Roma e Reggio Calabria) hanno proceduto ad un sequestro preventivo nei confronti di una serie di società ed imprese individuali operanti a Roma e intestate a prestanome.
Il filone reggino
Dalle indagini condotte dalla Dda reggina è emerso che la cosca, oltre ad essere operativa nel territorio di Sinopoli, dominava anche il centro urbano di Cosoleto, paese aspromontano il cui sindaco, Antonino Gioffré, figura tra gli arrestati. Dalle indagini è emerso un forte interesse dei sodali per la competizione elettorale del Comune di Cosoleto del 2018. In particolare Antonio Carzo, ritenuto capo del locale romano, è accusato con il sindaco Gioffré di scambio politico-elettorale. Oltre a questo reato, gli indagati rispondono a vario titolo di associazione mafiosa, favoreggiamento commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso e detenzione e vendita di armi comuni da sparo ed armi da guerra aggravate.
Da Roma a Sinopoli
L’attività investigativa è stata avviata nel 2016 dal Centro operativo della Dia con il coordinamento della Procura di Roma. Successivamente, a seguito dell’emersione di numerosi e significativi punti di contatto con soggetti calabresi operanti a Sinopoli, Cosoleto e territori limitrofi, parte degli atti sono stati trasmessi per competenza e le indagini, per tale parte, sono proseguite con il coordinamento della Dda di Reggio Calabria. Oltre a confermare l’esistenza del locale di ‘ndrangheta nel territorio di Sinopoli, dove è radicata la famiglia mafiosa degli Alvaro e a cui è legata la famiglia Penna, le indagini hanno consentito di appurare come la cosca abbia dato vita, nella capitale, ad un’articolazione (denominata locale di Roma), che rappresenta un “distaccamento” autonomo, del sodalizio radicato in Calabria.
Lamezia Terme ha conosciuto nel 1991, nel 2002 e nel 2017tre scioglimenti del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. In una intervista del 2013 l’allora procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli ebbe a dire che «Lamezia è una città dove il legame tra la ‘ndrangheta e alcuni settori della società civile è talmente radicato che non viene percepito come una devianza sociale perché è digerito nello stomaco della città».
Il caso Lamezia
Sia come sia, subito dopo ognuno dei tre scioglimenti alcuni commenti paventavano complotti: «Il consiglio comunale di Lamezia Terme andava sciolto per presunte infiltrazioni mafiose? È l’interrogativo che si pongono in molti dopo aver letto con attenzione e scrupolosità la relazione del ministro dell’Interno… Sono in molti a domandarsi: perché sciogliere il consiglio comunale eletto nel 2015 a guida Mascaro e non quello eletto nel 2010 a guida Speranza? (…) Semplice: Speranza non poteva essere sciolto, “nonostante molti degli attuali amministratori hanno fatto parte, a diverso titolo, della compagine eletta nel 2010″, in quanto esponente politico del centrosinistra, area politica alla quale apparteneva e appartiene l’attuale Ministro dell’Interno», scriveva lameziaoggi.it.
L’ex sindaco di Lamezia, Gianni Speranza
Il Consiglio di Stato (settembre 2019) sciogliendo l’amministrazione Mascaro ha lasciato ai posteri questa analisi generale: «Il contributo determinante della mafia nel condizionare il voto popolare è tale da inficiare irrimediabilmente il funzionamento del consiglio comunale per un suo vizio genetico, essendo difficilmente credibile, secondo la logica della probabilità cruciale, che un consiglio comunale i cui componenti siano eletti in parte con l’appoggio della mafia, per una singolare eterogenesi dei fini, possa e voglia adoperarsi realmente e comunque effettivamente, non solo per mero perbenismo legalitario, per il ripristino di una effettiva legalità sul territorio e per la riaffermazione del potere statuale contro l’intimidazione, l’infiltrazione e il sopruso di un ordinamento delinquenziale, come quello mafioso, ad esso avverso per definizione».
Il sindaco di Lamezia, Paolo Mascaro
Mafia e zona grigia
Il primo omicidio importante della storia criminale lametina avvenne nel 1970. Il boss locale Luciano Mercuri venne ucciso da un suo affiliato, Tonino De Sensi. Quella data fu l’inizio di una nuova era per la ‘ndrangheta locale che con la droga fece il salto di qualità. Eppure per decine di anni soltanto una minoranza intellettuale ripeteva che a Lamezia la mafia esistesse. La maggioranza dei notabili e dei politici si ostinava a considerare soltanto l’esistenza di «quattro delinquenti» e non della mafia. Così come oggi il mainstream insiste molto sulla presenza a Lamezia della cosiddetta “zona grigia”, una sorta di cuscinetto (o mondo di mezzo) che si frapporrebbe tra le cosche e la società civile e le imprese.
Stereotipi e cliché
Come da anni sta dimostrando nei suoi studi un valente studioso lametino, Vittorio Mete, «a causa della loro natura segreta e illegale, le mafie sono difficilmente (e comunque problematicamente) esplorabili sul piano empirico». Inoltre l’immagine pubblica delle mafie vive su stereotipi e cliché che creano una diffusa banalizzazione. Banalizzando non si riesce né a distinguere le differenze tra i diversi gruppi mafiosi né quelle «tra i singoli mafiosi, ai quali sono indistintamente attribuiti i medesimi tratti: il carisma individuale, il coraggio, lo sprezzo del pericolo, il fiuto per gli affari, l’elevato tenore di vita e altro ancora».
Ci rendiamo conto che le “mafie regionali” sono diverse tra loro. Ma, per restare a Lamezia, non si distinguono tra di loro le varie cosche egemoni che pur presentano enormi differenze, ad esempio in termini di ricchezza, potenza militare, contatti politici, inserimento nei circuiti internazionali della droga. Una grande varietà e mutevolezza sparisce dunque nelle rappresentazioni dell’opinione pubblica e anche di molti studiosi.
Tre tipi di imprenditori
Nella relazione della Dia sul primo semestre 2018 si leggeva che Lamezia «convenzionalmente è ripartita in tre aree, rispettivamente di competenza dei clan Iannazzo, Cerra-Torcasio-Gualtieri e Giampà (cui si affiancano compagini di minor rilievo)». Se dovessimo descrivere i rapporti tra queste cosche e il mondo imprenditoriale lametino è utile ricorrere ai tre tipi principali di imprenditori, a loro volta articolati in sotto-tipi, che studiosi come Mete o Sciarrone hanno delineato.
I subordinati
Il primo di questi tre tipi di imprenditori presente a Lamezia è definito “subordinato”: essi sono assoggettati alla mafia «attraverso un rapporto fondato sull’intimidazione o sulla pura coercizione. Le attività di questi soggetti sono sottoposte al controllo dei mafiosi mediante il meccanismo della estorsione protezione». A loro volta, gli imprenditori subordinati possono articolarsi in due categorie: gli “oppressi” e i “dipendenti”. Gli oppressi sono coloro i quali pagano la protezione mafiosa in cambio della garanzia di poter semplicemente continuare a svolgere la propria attività. I dipendenti, invece, «non solo devono pagare la protezione ai mafiosi come fanno gli oppressi, ma devono ottenere la loro autorizzazione per poter svolgere la propria attività. Questi soggetti svolgono, infatti, la propria attività in settori in cui si concentrano gran parte degli interessi mafiosi della zona, come i lavori pubblici. Per poter operare in questi settori è necessario ottenere il “permesso” della mafia.
I collusi
Nella seconda categoria sono ricompresi i “collusi”. Tali soggetti sono dotati di risorse diverse e più ampie rispetto ai subordinati. Ciò gli consente di istituire “con i mafiosi un accordo attivo, dal quale derivano obblighi reciproci di collaborazione, scambio e lealtà». Anche i collusi possono articolarsi in due sottocategorie: da un lato ci sono gli imprenditori “strumentali”, che sono dotati di ingenti risorse di tipo economico, tecnico, politico o di altro tipo ancora; dall’altro ci sono gli imprenditori “clienti”, che instaurano con i mafiosi rapporti di scambio e collaborazione più duraturi e stabili nel tempo.
Un esempio di imprenditori strumentali è dato dalle grandi imprese nazionali che operano nel campo delle opere pubbliche e che si aggiudicano appalti in terre di mafia. Uno per tutti, i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (Mete, 2011). Rimanendo sull’esempio di questa stessa grande opera, possono invece considerarsi imprenditori clienti le imprese locali legate alle mafie che lavorano in subappalto.
I mafiosi
Infine, una terza categoria di imprenditori è costituita dagli imprenditori mafiosi propriamente detti. In questo caso, si tratta di persone appartenenti ai gruppi criminali che operano nei mercati legali, sia per guadagnare “legalmente” sfruttando il potere che gli deriva dalla loro posizione, sia come attività di copertura volta al reimpiego di denaro proveniente dai traffici illegali.
Com’è agevole dedurre da queste brevi note, il rapporto tra mafiosi e imprenditori può andare dalla coercizione alla collaborazione attiva. «Tale collaborazione dà generalmente luogo a giochi a somma positiva, cioè interazioni in grado di produrre un’utilità per tutti coloro che prendono parte al gioco».
Zona grigia? Fuorviante
Ora, considerando i molteplici rapporti tra imprese e liberi professionisti da una parte e le cosche operanti nel lametino dall’altra, la prima categoria (i subordinati) e la seconda (i collusi) ci dimostrano che è ormai fuorviante continuare a parlare di “zona grigia”. I subordinati (oppressi o dipendenti che siano) coltivano solo la speranza di mantenere buoni rapporti per poter stare sul mercato; i collusi al contrario instaurano interazioni che dovrebbero essere reciprocamente vantaggiose o complementari con le cosche.
Mentre i subordinati non hanno alcun spazio di autonomia, i collusi svolgono attività autonoma che deve incastrarsi (come la chiave in una serratura) con l’interesse concreto del mafioso di riferimento. Si tratta di raggiungere «un compromesso fra partner che hanno utilità e convenienze differenti, ma complementari». Ora, sia una impresa di qualsiasi dimensione che un qualsivoglia libero professionista (medico, ingegnere, avvocato, commercialista…) intendono ottenere un vantaggio economico entrando in relazione con la cosca mafiosa. Il reddito del professionista e il profitto dell’imprenditore aumentano grazie a questo accomodamento o incastro con il mafioso.
Comanda sempre la mafia?
Il pezzo mancante di questo ragionamento (che mira a confutare la diffusa convinzione che a Lamezia o in altre città calabresi esista una zona grigia) è il seguente. In questi accordi collusivi non sempre i mafiosi sono i soggetti dominanti. Se ci sono imprenditori dotati di grandi risorse, o professionisti di grande prestigio, lo spazio di azione dei mafiosi infatti si riduce sensibilmente. Le interazioni tra mafia e imprenditoria sono così varie per cui il ruolo dei mafiosi cambia a seconda dell’attività.
Gli appalti (e i subappalti) per le opere pubbliche possono essere appannaggio di imprese mafiose o di grandi imprese che trattano, con esiti variabili e incerti, con i mafiosi. Un supermercato, per fare un altro esempio, può essere taglieggiato dai mafiosi o può essere di loro proprietà. Se la “zona grigia” è definita (Rocco Sciarrone, 2011) «un’area relazionale fitta, che si colloca a cavallo tra legalità e illegalità… i professionisti, industriali, pubblici ufficiali e membri della cosiddetta società civile che senza dubbio sono collusi con le organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta, non sono i servitori del potere mafioso ma sono i mandanti delle loro azioni e influenze illecite, perché i loro interessi economici e di potere, spesso coincidono con quelli dei clan».
A Lamezia, così come in altre realtà calabresi, si continua a parlare di “zona grigia” dimenticando del tutto «la parte di società che è compenetrata o collusa con la ‘ndrangheta… che spesso rappresenta la parte più produttiva di essa, almeno nel meridione: il risultato è che qui al Sud si è creato un mercato drogato, con meccanismi particolari e difficilissimi da analizzare e sconfiggere, che rappresenta una parte assai considerevole dell’intera economia dell’area».
Né mondo di mezzo né zona grigia
I mafiosi non chiedono gentilmente, impongono, e come spiegò Puzo ne Il Padrino, «fanno offerte che non si possono rifiutare». Se questo è vero, è chiaro che il commerciante che paga il pizzo per ottenere la pace e tutti coloro che per quieto vivere accettano le richieste mafiose non stanno in un virtuale mondo di mezzo ma si schierano dalla parte della mafia.
Marlon Brando nel film Il Padrino, ispirato al romanzo di Mario Puzo
La cosa è molto evidente, basta seguire la cronaca dei giornali, tra i cosiddetti liberi professionisti. Non ci sono tra di loro collusi ma professionisti che si mettono a disposizione oppure che non lo sono. La stessa cosa avviene con gli imprenditori e i politici. Ci sono aziende che chiudono se non hanno clienti, altre che senza clienti sopravvivono perché rientrano nelle aziende controllate dalla mafia; ci sono politici votati su imposizione dei mafiosi e altri no, e così via.
Da una parte o dall’altra
Alla società civile deve diventar chiaro che in Calabria la guerra ognuno, qualsiasi lavoro faccia, la combatte in uno schieramento legale oppure nell’Antistato, magari per paura, furbizia, accondiscendenza, pigrizia, avidità, qualsiasi sia la motivazione della scelta.
Prendiamo il caso di Clarastella Vicari Aversa, l’architetta che con la sua denuncia ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha condotto una battaglia in solitudine sostanzialmente per 14 anni, attraverso ricorsi amministrativi, tutti accolti al Tar e al Consiglio di Stato, una quarantina. L’Università disattendeva tutto ciò che disponeva la giurisprudenza amministrativa.
Clarastella Vicari Aversa
La sua battaglia dimostra che i metodi mafiosi non li adoperano soltanto quelli con la coppola che definiamo criminalità organizzata. Dimostra che in Calabria, nonostante sentenze della magistratura per ripristinare il diritto, la sopraffazione, la prepotenza e il potere vengono esercitati in maniera spietata in qualsiasi settore. Lo stesso conclamato disprezzo per la meritocrazia, che osserviamo negli atenei così come nelle scuole e nell’amministrazione pubblica, dimostra come clientelismo e nepotismo, favoritismo e ricatto non siano fenomeni diversi da quelli che adopera chi chiede il pizzo o fa pagare tassi usurai, o concede un fido in banca.
Una società dove le persone perbene, le imprese sane, i professionisti non corrotti, sono costretti a lottare per decenni per non soccombere, significa che la questione “mafiosa” va raccontata in un altro modo. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, è il caso di ricordarlo talvolta a noi calabresi.
Francesco Scoppetta Scrittore ed ex dirigente scolastico
Alzi la mano chi non conosce la storia di Maria Serraino. Mamma Eroina è stata una di quelle donne che hanno sbaragliato il mito della donna di ‘ndrangheta che può solo essere vittima. Maria Serraino era carnefice, se vogliamo dirla tutta. Ai vertici di una delle famiglie di ‘ndrangheta più influenti del reggino, nella sua propaggine milanese, La Signoraha dominato il mercato dello spaccio di eroina e di hashish in Lombardia negli anni ’80.
Come spesso accade per le donne al potere, la sua è una figura ambigua, ambivalente. Ricordata come “madre amorevole” eppure condannata per aver guidato “un’organizzazione criminale che ricorreva all’eliminazione fisica dei concorrenti”, Mamma Eroina, originaria di Cardeto (RC), è stata donna di vertice nella ‘ndrangheta in un periodo di enorme cambiamento per l’organizzazione criminale, in Calabria, in Italia e nel mondo. È morta nel 2017, agli arresti domiciliari.
La fiction sulla nipote di “Mamma Eroina”
Chi non dovesse conoscerla, Maria Serraino, può vederla in versione fiction su Amazon Prime, nella nuova serie Bang Bang Baby. Interpretata da Dora Romano, il personaggio di Donna Lina è Mamma Eroina, o meglio, Nonna Eroina in questo caso, come tra l’altro è conosciuta in inglese (Granny Heroin). La serie TV, infatti, non è inspirata alla storia di Maria Serraino, quanto a quella di Marisa Merico, sua nipote.
Maria Serraino in un singolare ritratto di famiglia
Figlia di Emilio Di Giovine, primo di 12 figli di Rosario Di Giovine e Maria Serraino, Marisa non è una rampolla di ‘ndrangheta come tutte le altre. A renderla diversa è sua madre, Patricia Riley, inglese, che incontrò e sposò Emilio a Milano e che, quando la situazione familiare diventò insostenibile (cioè spararono a Emilio, anche se non fatalmente, in un ristorante milanese) decise di andarsene, con Marisa, a Blackpool, in Inghilterra.
La storia di Marisa non è nuova, è stata raccontata in un documentario del 2015, Lady ‘Ndrangheta. E soprattutto l’ha raccontata lei stessa nel 2010 nella sua autobiografia Mafia Princess, pubblicata da Harper Collins, come si legge sul suo sito web. Giornali, riviste, true-crime podcast, e interviste hanno raccontato del rapporto di Marisa con la famiglia milanese/calabrese, con la nonna Maria che – nonostante la vita a Blackpool – Marisa continuò a vedere nelle estati della sua adolescenza.
Marisa Merico e la scalata al clan
Si è raccontato del rapporto di Marisa con suo padre, della ‘scalata’ nei primi anni 90 ai vertici della famiglia Serraino di una Marisa appena ventenne e sposata con Bruno Merico, fedelissimo della nonna e del padre, prima come ‘banchiera’ della famiglia e poi come emissaria della famiglia anche all’estero. In seguito al pentimento di sua zia Rita Di Giovine, nel 1993, che ha inflitto un colpo quasi mortale a tutto il clan, Marisa scappa in Inghilterra e nel 1994 viene arrestata con l’accusa di riciclaggio (1.9 milioni di sterline in un conto in Svizzera usati per l’acquisto di un’abitazione). Marisa sconterà tre anni a Durham in carcere tra altre donne ‘pericolose’, tenute a regime carcerario particolarmente duro.
La piccola Marisa Merico in braccio a suo padre Emilio Di Giovine
La seconda vita in Inghilterra
La seconda vita di Marisa inizia qui. Uscita dal carcere, completerà una laurea triennale in criminologia all’università di Lancaster, è intanto diventata madre due volte.
Marisa Merico il giorno della sua laurea
In Italy vs Merico, il tribunale amministrativo inglese, che nel 2011 decise di non concedere l’estradizione di Marisa all’Italia per il completamento della sua sentenza di condanna, non menziona mai né la parola mafia, né la parola ‘ndrangheta. E conclude che Marisa è «nonostante il suo passato criminale, una madre responsabile e una figlia devota». Marisa ha svoltato. Oggi utilizza la sua particolare esperienza di vita per spiegare cosa, per lei, sono crimine organizzato ed esperienza carceraria. E come si passa da essere principessa di ‘ndrangheta, il suo brand, a donna ‘normale’, laureata in criminologia, quasi attivista, a Blackpool.
Maria Merico con sua nonna Maria Serraino
Nonna Maria e mamma Patricia
Ora che Bang Bang Baby è disponibile su Amazon Prime, e la storia di Marisa è nuovamente alla ribalta, è forse necessario provare a riallineare qualche elemento di questa storia. C’è infatti un lato dimenticato nella narrazione che se ne fa. E cioè la dimensione inglese dell’identità di Marisa, e di sua madre Pat.
La prima cosa che incuriosisce è come i giornali inglesi raccontano di questa storia. E soprattutto quali giornali inglesi. Si tratta per lo più di tabloid, giornali che cercano il sensazionalismo con molte foto e con titoli risonanti, dal The Sun al Mirror al Daily Star. La storia è considerata una storia di costume, chiaramente schiacciata sulla dimensione criminale mafiosa. Che però non è né compresa, né tantomeno raccontata criticamente.
Tanta Italia, poca Inghilterra
Il Daily Mail parla di una “Milan ‘Ndrangheta Gang”; il The Suncompara la nonna Maria Serraino al Padrino. Si legge chiaramente in queste storie che a fare notizia è l’influenza che la mafia ha avuto su questa ragazza prima-donna oggi di Blackpool. Non si chiede mai il contrario, e cioè l’influenza che essere cresciuta a Blackpool – una tipica cittadina balneare inglese spesso raccontata (in modo eccessivo e stereotipato) come uno dei posti peggiori, e uno dei più violenti, in cui vivere in Inghilterra – possa avere avuto su una Marisa ragazzina che andava e veniva da Milano e dalla ‘ndrangheta.
Il lungomare di Blackpool
Cos’è che non “tornava”, cos’è che appariva strano o diverso o anche uguale e familiare della calabresità milanese della ‘ndrangheta di famiglia a questa donna che per devozione al padre e alla nonna ha scelto vie criminali? E, ovviamente, non si chiede poi mai nulla su Pat, la donna inglese che si era trovata a cercare di capire cosa volesse dire entrare nella famiglia Serraino a Milano con una figlia destinata a far parte della ‘ndrangheta. Sicuramente avrebbe avuto molto da dire Pat, prima della sua morte nel 2012.
Tabloid e pregiudizi
Per i tabloid inglesi la storia di Marisa Merico, suo padre Emilio, sua nonna Maria e tutti gli altri personaggi, è interessante perché permette di consolidare sia i pregiudizi che si hanno sulla mafia – esterna – diversa – ‘fenomeno-che-non-ci-riguarda’ – seppur condita di un ingrediente in più, Blackpool, sia i pregiudizi sulle donne che commettono crimini e finiscono in carcere per questo.
Per dirla diversamente, l’esperienza di Marisa come esperienza di donna, e madre, di Blackpool, che uscita dal carcere ha studiato e, sicuramente non senza fatica, ha provato a tenere insieme tante diverse identità, passate e presenti, e (tramite i suoi figli) anche future, passa in secondo piano rispetto alla sua esperienza come donna di ‘ndrangheta, come principessa di mafia, come detenuta speciale.
Le donne appiattite
E non solo; l’immagine di Marisa come “scolaretta” di Blackpool (“schoolgirl” nel titolo del Daily Mail) catturata nelle trame sinistre di un “sindacato criminale”, o come “un’ordinaria casalinga di Blackpool che si è trovata a gestire l’impero criminale di famiglia” (sul Mirror) ancora una volta appiattisce la realtà della criminalità al femminile su un’immagine della donna come vittima degli eventi e in balia di scelte che non comprende o che sono più grandi di lei.
Marisa Merico (foto Chloe Dewe Matthews per il Sunday Times)
In Bang Bang Baby, forse si fa un passo in più in questo senso, cioè si rimette al centro la storia di una donna complessa, mai totalmente condannabile ma nemmeno totalmente assolvibile. Però, il problema di narrare l’inglesità della protagonista è qualcosa che anche la serie italiana non sa recepire.
Le mille identità scomparse di Marisa Merico
La serie che racconta della teenager Alice (cioè Marisa) e delle sue esperienze criminali milanesi dal punto di vista fluido-pop della mente adolescente della sua protagonista, racconta la ‘ndrangheta ancora con tanti stereotipi (alcuni anche borderline razzisti sui calabresi a Milano, ma questa è un’altra storia…) e senza la dimensione inglese della sua protagonista, che invece viene fatta ‘partire’ dall’hinterland milanese. Sicuramente la storia di Marisa Merico, una storia che tenga insieme tutte le identità di questa donna, il suo accento inglese e il suo sangue calabrese, il suo essere figlia, madre, mafiosa, detenuta, studentessa universitaria, attivista, narratrice, non è stata ancora del tutto raccontata.
Sei anni senza verità, senza giustizia. Per molti anche senza memoria. Ma non si arrende la famiglia di Maria Chindamo, l’imprenditrice scomparsa nel nulla il 6 maggio 2016 tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Proprio oggi, a Limbadi, il sit-in per richiamare la memoria, promosso da Libera, Agape, comitato Controlliamo Noi Le Terre di Maria, Penelope Italia Odv.
Nel 2015, il marito della donna, Ferdinando, si suicida, non accettando la fine della relazione. Circa un anno dopo, Maria scompare nel nulla, in quella che sembra una normale giornata, trascorsa tra la famiglia, a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, e l’azienda di proprietà, a Limbadi, nel Vibonese.
Vincenzo Chindamo, fratello della imprenditrice scomparsa nel 2016
Le modalità mafiose
Da anni, la famiglia di Maria Chindamo chiede che venga infranto il muro di omertà che soffoca il territorio. Lo fa anche attraverso la formazione dei più giovani: «Una volta – dice a I CalabresiVincenzo Chindamo, fratello di Maria – un ragazzo in una scuola mi ha chiesto se abbia mai pensato di farmi giustizia da solo. Ma parlare ai giovani, creare un indotto di pensiero contro la subcultura mafiosa è farsi giustizia da solo».
Da sei anni, Maria non si trova più. Nessuno ha mai chiesto un riscatto. E, nel probabile caso in cui la donna sia stata uccisa già nell’immediatezza del rapimento, la famiglia non ha mai avuto una salma da piangere. Un femminicidio perpetrato con le modalità ndranghetistiche, in cui la ‘ndrangheta potrebbe avere un ruolo importante. O ha verosimilmente consentito una rete di protezione di tipo criminale.
Fin dall’inizio si affaccia l’ipotesi inquietante che Maria sia stata punita proprio per aver lasciato il marito. Perché ha “osato” interrompere la relazione con il marito. E perché ha tentato di rifarsi una vita, sentimentale e lavorativa. Per questo andava punita, non solo con l’uccisione, ma anche con la sparizione, per cancellarla per sempre. Eccola la cultura ‘ndranghetista. La damnatio memoriae che deve accompagnare, nel linguaggio cifrato, chi si è macchiato di determinate “colpe”. Maria Chindamo va dimenticata. La “lupara bianca” serve proprio a questo.
Le indagini sulla scomparsa di Maria Chindamo
Maria Chindamo sarebbe stata aggredita davanti al cancello della propria azienda da due o più persone. Il motore della sua auto resterà acceso. A bordo gli inquirenti troveranno tracce di sangue e poco altro di utile. La Procura della Repubblica di Vibo Valentia per anni ha indagato per omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere.
Ma quello della “vendetta familiare” non è l’unico movente che, in questi anni, si è affacciato sulla scena. Ne è convinta Angela Corica, giornalista che ha seguito moltissimo la vicenda: «Maria era una donna libera, non solo in termini sentimentali, ma anche sotto il profilo professionale. Forse le indagini hanno avuto qualche lacuna perché si sono concentrate troppo su una sola causa. Mentre io credo che vi sia un mix di motivazioni», dice a I Calabresi.
Fin dall’inizio, ci si concentra su diversi particolari che nessuno crede possano essere coincidenze. Dall’assenza di alcuni operai che Maria avrebbe dovuto incontrare quella mattina, al fatto che l’auto verrà ritrovata senza alcuna impronta estranea. Ma, soprattutto, la manomissione di una telecamera che avrebbe potuto immortalare i tragici attimi di quel 6 maggio 2016. Nel luglio del 2019 viene anche arrestato un uomo, Salvatore Ascone, in passato coinvolto in diverse inchieste riguardanti la cosca Mancuso.
Ma il Tribunale del Riesame prima e la Cassazione poi ritengono che non vi siano prove sufficienti e rimettono in libertà Ascone. «Il capitolo sulle telecamere potrebbe essere investigato ulteriormente», afferma a I Calabresi l’avvocato della famiglia Chindamo, Nicodemo Gentile. «Di sicuro qualcuno la seguiva e ha fatto da vedetta», aggiunge.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Non un delitto di ‘ndrangheta, forse. Ma in cui la ‘ndrangheta sembra c’entrare eccome. In quelle zone, non si commette un crimine del genere senza il placet delle cosche. E infatti, negli anni, arrivano le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.
Il primo a parlare è Giuseppe Dimasi, un tempo affiliato alle cosche di Laureana di Borrello: «Con riferimento alla scomparsa di Mariella Chindamo, Marco diceva “secondo me gliel’hanno fatta pagare”, alludeva al fatto che la donna aveva avuto una relazione extraconiugale e il marito non accettando la separazione, si era suicidato». Il riferimento del pentito è a Marco Ferrentino, considerato il boss dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Laureana di Borrello.
Più recenti le dichiarazioni di Antonio Cossidente, ex componente del clan lucano dei Basilischi, che riapre uno scenario che si è sempre affiancato alla pista dell’“onore”: quello delle attività economiche che Maria stava portando avanti su terreni che deteneva insieme all’ex marito e che potevano essere reclamati da qualcuno.
Maria Chindamo
Maria Chindamo data in pasto ai maiali?
Secondo quanto ha riferito Cossidente alla Dda di Catanzaro, Maria sarebbe stata uccisa per essersi opposta alla cessione di un terreno a Salvatore Ascone, proprio l’uomo indagato per l’omicidio dell’imprenditrice. Il corpo della donna sarebbe poi stato dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore.
A raccontare a Cossidente i fatti legati alla scomparsa di Maria Chindamo sarebbe stato Emanuele Mancuso, oggi collaboratore di giustizia, figlio del boss Pantaleone. Proprio il clan di Limbadi. Cossidente, infatti, trascorre una parte di detenzione con Mancuso e apprende alcuni particolari sulla scomparsa dell’imprenditrice di Laureana di Borrello: «Mi disse che lui era amico di un grosso trafficante di cocaina, detto Pinnolaro, legato alla famiglia Mancuso da vincoli storici e mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo Pinnolaro chevoleva acquistare i terreni della donna in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà. Pinnolaro aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà a questa persona».
E “Pinnolaro” è proprio il soprannome di Ascone: «Pinnolaro l’ha fatta scomparire, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Emanuele mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali».
Il caso alla Dda
E proprio per questo, quindi, il fascicolo d’indagine dopo la scarcerazione di Ascone è passato alla Dda. «Non abbiamo notizia di provvedimenti di archiviazione, quindi questo ci lascia pensare che le indagini siano ancora aperte. E abbiamo fiducia completa nell’operato della magistratura», dice l’avvocato Gentile.
Il legale sembra essere convinto di una matrice chiara: «Quello che ha decretato la morte di Maria Chindamo è un tribunale clandestino di matrice vendicativa». A distanza di sei anni, però, la magistratura non è ancora riuscita a venirne a capo: «Sembra che tutto sia in una fase di stallo perché non vi sono molte tracce e poche testimonianze», commenta amaramente Angela Corica.
La famiglia di Maria Chindamo
E, allora, non è affatto casuale il luogo scelto per il sit-in odierno. Un’ulteriore occasione per non dimenticare Maria e per non dimenticare di chiedere, di pretendere giustizia. Il fratello di Maria Chindamo, Vincenzo, e i figli della donna, Federica, Vincenzino e Letizia, in tutti questi anni non hanno mai smesso di ricercare la verità.
«È una ferita che non si rimargina per la famiglia Chindamo, ma è una ferita nel tessuto sociale di questo territorio, un’infamia che dev’essere capita, attraversata e punita», dice l’avvocato Gentile. Dal canto suo, il fratello di Maria, Vincenzo, non molla: «Fin quando sarò presente il 6 maggio, significa che avrò fiducia e speranza».
«Con l’archeomafia, rubano il nostro passato, la nostra storia. Attraverso l’ecomafia, rubano il nostro futuro, l’avvenire della terra. Con la zoomafia, rubano il nostro presente, razziando la pietas che supera i confini di specie, rendendoci empaticamente sterili, indifferenti alla sofferenza degli altri individui del nostro stesso regno animale. Ambiente, animali umani e no: tutti vittime del morbo mafioso». Si esprime così Ciro Federico Troiano, criminologo e attivista che ogni anno cura il Rapporto Zoomafia per la Lav, con la collaborazione della Fondazione Antonino Caponnetto.
Ciro Federico Troiano, criminologo e attivista
Il lockdown non ha fermato la zoomafia
Neanche il lockdown del 2020 ha fatto crollare il fenomeno dei reati contro gli animali. «I traffici legati allo sfruttamento degli animali, rappresentano un’importante fonte di guadagno per i vari gruppi criminali che manifestano una spiccata capacità di trarre vantaggio da qualsiasi trasformazione del territorio e di guadagnare il massimo rischiando poco», è scritto nell’ultimo rapporto redatto da Troiano.
Le mafie riescono a ottimizzare ogni cosa per i propri profitti: «A livello internazionale, la criminalità organizzata dedita ai vari traffici a danno degli animali si distingue per la sua capacità di agire su scala internazionale, per il suo orientamento al business, per la capacità di massimizzare il profitto riducendo il rischio. Tali traffici sono il simbolo, al pari delle altre mafie, della società globalizzata», si legge ancora nel Rapporto Zoomafia.
Pesce spade a tonni sequestrati dalla Guardia costiera
Il mercato ittico
Le capitanerie di porto calabresi sono tra le più attive nel contrasto agli illeciti riguardanti il materiale ittico. I controlli e i sequestri si susseguono. E, ovviamente, sono molto più intensi durante la stagione estiva.
In riferimento alla pesca e commercio del cosiddetto “bianchetto” si legge nel “Rapporto Annuale sul controllo della pesca in Italia”: «Nell’anno 2020 l’attività di repressione posta in essere dagli uomini della Guardia Costiera delle Direzioni Marittime di Bari, Reggio Calabria, Catania, e Palermo contro gli illeciti in materia di pesca e commercializzazione illegale di prodotti ittici sottomisura di sardine cosiddetto “bianchetto”, hanno consentito di interrompere una rete di commercializzazione di questo prodotto, che a bordo di automezzi isotermici partivano dalla Puglia e dalla Calabria ionica per raggiungere le località della bassa Calabria e della Sicilia dove tale prodotto riscuote un forte apprezzamento».
Non si tratta di argomenti interessanti solo per i “fanatici” dell’animalismo. Perché questi crimini consentono enormi guadagni: «L’attività di controllo ha consentito di rilevare 157 violazioni e sequestrare oltre tredici tonnellate di prodotto ittico illegalmente detenuto o commercializzato elevando sanzioni amministrative per circa 614 mila euro» – si legge ancora nel Rapporto.
E si susseguono le operazioni antibracconaggio. Spesso anche all’interno di aree protette. Nel mese di gennaio 2020 c’è stato un servizio antibracconaggio a ridosso dell’area dello stretto di Messina. È stato eseguito dai Carabinieri forestali dei nuclei Cites di Reggio Calabria e Catania e del Soarda. Sono stati numerosi i bracconieri denunciati a Oppido Mamertina, Taurianova, San Giorgio Morgeto, Feroleto della Chiesa, Montebello Jonico e Messina.
Carabinieri forestali in servizio
Nel dicembre del 2020, l’indagine “Fox”, curata dal NAS di Cosenza, nelle province di Crotone, Cosenza e Reggio Calabria, ha portato a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Crotone, a carico di 8 persone (tra cui 6 veterinari ufficiali in servizio presso l’Asp di Crotone e 2 gestori di uno stabilimento di macellazione carni). Con il sequestro di uno stabilimento di macellazione e 4 allevamenti ad esso direttamente collegati, per un valore di oltre un milione di euro.
I veterinari indagati, al fine di procurare ingiusti vantaggi patrimoniali agli allevatori cui erano contigui, avrebbero attestato falsamente l’esecuzione della profilassi anti-tubercolosi, alterando i prelievi di sangue effettuati su capi suini al fine di consentirne la macellazione.
Le corse clandestine di cavalli
È, quindi, spesso fondamentale il ruolo dei professionisti per poter portare a compimento questi e altri illeciti. In passato, è emerso il ruolo di un veterinario che forniva ai clan le sostanze dopanti per rafforzare la corsa dei cavalli. Diverse inchieste degli ultimi anni hanno infatti confermato l’interesse di alcuni sodalizi mafiosi per le corse clandestine, in particolare il clan Giostra – (Galli – Tibia) di Messina, i Santapaola di Catania, i Marotta della Campania. A questi vanno aggiunti i Casalesi del Casertano; il clan Spartà e i “Mazzaroti” della provincia di Messina; i Parisi di Bari; i Piacenti -“Ceusi” di Catania; i Labate, detti “ Ti Mangiu”, i Condello e gli Stillitano di Reggio Calabria.
Il 29 gennaio 2020 è stata resa nota l’indagine “Helianthus” della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sugli affari economici della cosca Labate. L’inchiesta ha portato alla luce anche gli interessi del clan nel settore delle corse clandestine di cavalli e in quello dei giochi e scommesse on line.
Militari dell’Arma impegnati nel contrasto alle corse clandestine di cavalli
Il clan Labate ha mantenuto inalterato il tradizionale “prestigio” nel territorio di competenza criminale (l’ampia area a sud della città di Reggio Calabria ed in particolare nel popoloso quartiere “Gebbione”), coltivando e rafforzando i rapporti e le alleanze criminali con altri storici “casati” di ‘ndrangheta. E dimostrando anche un certo dinamismo criminale in relazione a “nuovi” settori illeciti.
Una cosca che ha saputo superare le epoche, rimanendo neutrale nel corso della seconda, sanguinosissima, guerra di ‘ndrangheta in riva allo Stretto. E mantenendo così il proprio territorio inviolato dalle ingerenze degli altri clan. Lì si fa razzia di estorsioni e di lavori edili. Ma non solo: «Ulteriori interessi sono emersi in seno al lucroso settore delle scommesse online, delle slot-machine e delle corse clandestine di cavalli». Ecco quanto è scritto nella Relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel primo semestre 2020.
I “cani fantasma”
Si scommette sulle corse dei cavalli. Ma anche sui combattimenti tra cani. In questo caso, L’AIDAA, l’Associazione Italiana in Difesa degli Animali e dell’Ambiente, ha denunciato: «Sono tremila i cani che nel 2021 sono spariti nel nulla in Sicilia, Sardegna, Puglia e soprattutto Calabria». Sono i cosiddetti “cani invisibili”, randagi che scompaiono nel nulla. Cuccioli e non.
Cani di grossa tagliaogni giorno – ne parla la stessa AIDAA – sono picchiati e seviziati in allevamenti abusivi. Lì avviene la preparazione per i combattimenti, che si svolgono su tutto il territorio nazionale, ma anche all’estero. A volte, forse, anche con la complicità di canili compiacenti.
Cani feriti e trattati in maniera disumana
Nel mese di maggio 2020, i Carabinieri di Siderno coordinati dalla Procura di Locri hanno sequestrato un canile in provincia di Reggio Calabria. Una struttura con 187 box e 444 cani, di cui 146 sprovvisti di regolare microchip, dunque non iscritti all’anagrafe canina. Alcuni animali non erano nemmeno registrati negli elenchi dello stesso canile.
Gli animali morti, è stato appurato nel corso dei controlli, sarebbero stati posti in contenitori di plastica tenuti in una cella frigo non funzionante. Diversi cani avrebbero presentato malattie della pelle, deperimento, piaghe purulente e importanti ferite da morso, causate durante gli scontri tra cani alloggiati negli stessi box. Inoltre, secondo quanto emerso, quasi tutti gli animali non erano sterilizzati e ciò alimentava aggressività e competizioni in particolari periodi.
Ancora, il 27 settembre 2020, vicino Vibo Valentia, i Carabinieri hanno scoperto un canile abusivo, senza alcun tipo di autorizzazione, in cui i cani erano tenuti in evidente stato di malnutrizione, rinchiusi in gabbie all’aperto, senza acqua e fra i loro escrementi, con sporcizia e cibo in decomposizione. I cani presenti all’interno della struttura abusiva erano 28, di cui solo 10 dotati di microchip.
La cultura animalista in Calabria
La Calabria è ancora tra le regioni maglia nera per quanto riguarda i cani avvelenati. Nei primi cento giorni di quest’anno sono poco meno di 3.000 i casi di avvelenamento. Lo scorso anno erano 7.000 secondo le stime dell’AIDAA.
Proprio nel 2021, in particolare alla fine dell’estate, vi fu una preoccupante impennata dei casi. Numeri da mettere in diretta correlazione con la tragedia della giovane Simona Cavallaro, sbranata da un branco di cani a Satriano, nel Catanzarese.
«È una vera strage silenziosa quella dei cani avvelenati di cui stranamente le grandi organizzazioni sono molto tiepide nel denunciare la necessità di leggi severe e di messa al bando di alcuni prodotti che vengono utilizzati per questo sterminio di massa dei cani randagi» – afferma ancora l’AIDAA.
La presa di coscienza sulla zoomafia
Nel corso degli anni, grazie al lavoro della Lav e, soprattutto al rapporto sulla Zoomafia, si sono aperti altri filoni investigativi, come la macellazione clandestina, l’abigeato, le sofisticazioni alimentari. Il rapporto Zoomafia, ogni anno, viene stilato sulla scorta di oltre 20mila pagine consultate.
«Quando parliamo di zoomafia non intendiamo la presenza o la regia di Cosa nostra dietro gli scenari descritti, piuttosto ci riferiamo ad atteggiamenti mafiosi, a condotte criminali che nascono dallo stesso background ideologico, dalla stessa visione violenta e prevaricatrice della vita» – dice, infine, Ciro Federico Troiano.
Da covo di segugi a rifugio per anziani; da centro nevralgico per la ricerca dei sequestrati, a punto d’aggregazione per la piccola comunità di Canolo Nuovo. Si chiude così, a distanza di una decina d’anni dalla dismissione e con un progetto di inclusione sociale da due milioni di euro per la riconversione dell’ex campo Naps (il nucleo antisequestro della Polizia), una delle pagine più nere della storia calabrese recente.
Una storia fatta di vite rubate e mamme coraggio, di banditi feroci e fondi neri che li hanno ingrassati. E sullo sfondo l’Aspromonte, bollato con infamia come “la montagna dei sequestri” e per anni a sua volta vittima di bande di malviventi che tra le sue gole e i suoi boschi fitti, nascondevano uomini e donne trattenuti in catene. Una storia terminata solo quando le grandi famiglie di ‘ndrangheta virarono i propri interessi verso i più redditizi (e più sommersi) mercati del narcotraffico. E a cui lo Stato rispose, con imbarazzante ritardo, catapultando sull’Aspromonte migliaia di uomini e donne con l’ordine di setacciarne ogni anfratto alla ricerche di carcerati e carcerieri.
Quel che resta del campo della polizia di Canalo Nuovo nel Parco d’Aspromonte
Prova di forza
I Naps a Canolo Nuovo, Campo Steccato e Mongiana, nel cuore d’Aspromonte. E poi il nuovo commissariato a Bovalino e le sedi della Mobile a Locri e Gioia Tauro: nel giro di pochi mesi, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, gli effettivi della polizia stanziati nel reggino passano da 867 a 2173: una cinquantina di agenti in più rispetto all’intero contingente presente in regione fino ad allora. Una risposta massiccia (e tardiva) al clamore mediatico e all’allarme sociale che avevano generato i sequestri di persona negli anni precedenti.
Una parte di quegli agenti fu destinata al campo di Canolo Nuovo, costruito a quota mille metri sulla soglia della porta settentrionale del Parco d’Aspromonte, proprio di fronte alla piazza principale della piccola comunità che, unica nel reggino, quando il dissesto idrogeologico rese necessario lo sviluppo di un nuovo insediamento urbano, rifiutò di scendere a valle, per rifugiarsi ancora di più verso il cuore della montagna.
Caldo, gelo e blitz
Trasferiti in fretta e furia in Calabria dalle sedi più diverse, gli agenti del Naps furono alloggiati tra le baracche appena allestite dal Viminale. Una grande sala comune dove mangiare e socializzare, una serie di stanzette anguste dove preparare i blitz e i pattugliamenti, file e file di dormitori più che spartani in lamiera, gelidi sotto la neve e roventi sotto la canicola d’estate.
Da queste baracche partivano i blitz coordinati anche con carabinieri e fiamme gialle. Blitz che cinturarono paesi – l’epicentro dell’anonima sequestri da sempre gravitava attorno ai centri di San Luca, Platì, Natile di Careri e Ciminà – e rastrellarono la montagna alla ricerca dei covi – poco più che buchi nel terreno dove era impossibile anche solo stare in posizione eretta – in cui erano tenuti i prigionieri.
Le vittime dei sequestri erano nascoste in luoghi introvabili dell’Aspromonte
Il progetto
Ora, questo campo fatto di baracche malmesse, preda dell’incuria e dei soliti vandali, e ufficialmente dismesso dal ministero degli Interni ad inizio secolo, potrebbe tornare a vivere anche se profondamente trasformato. Sul piatto ci sono due milioni di euro che il Comune di Canolo, proprietario del terreno su cui sorge il campo, conta di raccattare grazie allo scorrimento di una vecchia graduatoria per una richiesta di finanziamento datata 2015.
«Sarà il nuovo centro nevralgico del paese – dice il sindaco Larosa – se tutto va come pensiamo, il finanziamento dovrebbe essere garantito dal Ministero e a breve potrebbero partire i lavori». E pazienza se, come sempre più spesso succede, non si sia registrato nessun contatto preventivo con i vertici del Parco d’Aspromonte, che del progetto di riconversione non ne sanno nulla. «Chiederemo i nulla osta al Parco quando sarà il momento, quando cioè saremo sicuri del finanziamento» chiosa ancora il sindaco.
In attesa del finanziamento – e del propedeutico progetto di bonifica del sito di cui ancora non si trova traccia – le baracche abbandonate di Canolo Nuovo restano lì, nella radura a due passi dall’altopiano dello Zomaro, a segnare il tempo di una stagione amara.
John Paul Getty III rapito dalla ‘ndrine nel 1973
La stagione dei sequestri
Quando gli agenti del Naps arrivano a Canolo, siamo nel 1990, quello dei sequestri è un “mercato” in forte ridimensionamento. Passati i tempi dei riscatti miliardari come quello di Paul Getty III – sequestrato a Roma nel ’73 da un commando dell’anonima e rinchiuso in Aspromonte fino al pagamento di 1,7 miliardi da parte del nonno petroliere del ragazzo – le cosche hanno capito da tempo che quello dei sequestri è un gioco a perdere: troppo alti i rischi, troppo costosa la gestione degli ostaggi, troppo violenta la reazione dello Stato, troppo alto l’allarme sociale provocato.
Nel maggio del 1990, le immagini di Carlo Celadon, il ragazzo di Arzignano rilasciato a Piano dello Zillastro, tra i comuni di Platì e Oppido Mamertina, dopo 831 giorni di prigionia, fanno il giro del mondo. Rapito all’alba dei suoi 18 anni, Celadon viene rinchiuso per più di due anni – il sequestro più lungo in Italia – in un buco tra i boschi della montagna.
Incatenato al terreno, picchiato e continuamente vessato dai sequestratori, quando il ragazzo torna libero è molto più vecchio dei suoi 20 anni. Magro all’inverosimile, barba lunghissima e volto emaciato, fa fatica a rimanere in piedi mentre si fa largo tra l’esercito di giornalisti che assediano il tribunale di Locri: «Ecce Homo» lo chiameranno i media.
Angela, madre di Cesare Casella: con la sua battaglia per la liberazione del figlio rapito ha scosso le coscienze di tutta l’Italia (foto Gigi Romano)
Madre coraggio
Ma il vero punto di non ritorno di questa storia di «sudiciume sociale» è sicuramente rappresentato dal sequestro di Cesare Casella e dalla forza strepitosa di sua madre Angela. Questa donna minuta riuscì, praticamente da sola, a risvegliare le coscienze di un popolo stordito e immobile davanti a tanta violenza. Quando “mamma coraggio” pianta la sua tenda nel centro della piazza principale di Locri, il reggino è una polveriera. I rinculi della seconda guerra di ‘ndrangheta riempiono le cronache di morti ammazzati e svuotano le strade.
Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990 dopo una terribile prigionia
Sarà questa signora dall’aria risoluta, mossa solo dalla forza della disperazione, a smuovere le cose. Gira per le stradine di Platì e di San Luca, da sola, in una Regione dove non era mai stata prima. Incontra le donne del luogo che rompono la diffidenza iniziale e fanno loro la sua invocazione di aiuto, in una ricerca di riscatto sociale che esplode e si diffonde tra i paesi della Locride. Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990, dopo avere passato 743 giorni incatenato ad un albero. Pochi giorni prima era stato uno dei sequestratori, Giuseppe Strangio, rimasto ferito in uno scontro a fuoco con i carabinieri del Gis, a chiedere in diretta tv la liberazione dell’ostaggio.
I fondi neri
Dinieghi sdegnati, mezze ammissioni, clamorosi omicidi: sulla parabola terminale della stagione dei sequestri di persona – che coincide temporalmente con l’invio degli uomini a presidiare l’Aspromonte – molte furono le voci (e le inchieste della magistratura) su pagamenti sotto banco che i servizi segreti dispensarono per ottenere la liberazione di (almeno) una parte degli ostaggi in mano all’anonima.
Fondi parzialmente ammessi dall’allora titolare del Viminale Vincenzo Scotti e dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi che in un’audizione della commissione parlamentare antimafia del 1993, esclusero il pagamento di alcun riscatto ammettendo però il pagamento di alcuni confidenti, utili al ritrovamento degli ostaggi. Pagamenti nell’ordine di qualche centinaio di milioni dell’epoca e onorati, dissero i due rappresentanti delle istituzioni, solo in seguito all’arresto dei componenti delle bande interessate, e che lasciarono a mezz’aria la sensazione amara di una sorta di divisione gerarchica tra gli stessi sequestrati.
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