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  • Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

    Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

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    In un ufficio pieno di carte, con una scrivania disordinata e faldoni incolonnati a terra, legati alla meno peggio con nastri, pezzi di corda e grandi elastici verdi, nell’aprile del 2018 a Manhattan ho incontrato il direttore esecutivo della Waterfront Commission of New York Harbour, la commissione del porto di New York. Un uomo dall’esperienza decennale come pubblico ministero antimafia, o meglio anti Cosa Nostra americana, Walter Arsenault è diventato Executive Director della Waterfront Commission nel 2008. Ha una conoscenza profonda del fenomeno mafioso newyorkese, principalmente e notoriamente legato alle cinque famiglie storiche: Gambino, Genovese, Lucchese, Colombo, Bonanno.

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    Walter Arsenault, Executive Director della Waterfront Commission

    Ma in quell’occasione, insieme ad alcuni agenti della Commissione, parlammo di ‘ndrangheta. E – con mio stupore – non solo di traffici illeciti via navi container attraverso il porto – che era il mio oggetto di ricerca in quel momento. Ma andiamo con ordine. La Waterfront Commission è periodicamente sui giornali – da ultimo il Financial Times qualche giorno fa – in quanto la sua esistenza è oggetto di contenzioso. E non di contenzioso qualunque. È addirittura questione di stato. Anzi di Stati: New York e New Jersey.

    New York: da Brando alla ‘ndrangheta

    Se si pensa a mafia e porto di New York, alcuni forse ricorderanno un vecchio film in bianco e nero del 1954, Fronte del Porto, (On the waterfront) con un giovanissimo Marlon Brando. Tra le altre cose, il film ci racconta di Johnny Friendly, a capo del sindacato dei portuali, che detiene il controllo delle banchine, oltre a essersi macchiato di svariati delitti, frustrando gli sforzi delle forze dell’ordine e di una commissione – proprio la Waterfront Commission – sulla criminalità portuale che tentano di portare avanti le indagini sul fronte del porto. La Commissione, infatti, è nata un anno prima dell’uscita del film, nel 1953. E ha fino ad oggi un mandato e una struttura molto peculiare.

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    Marlon Brando diretto da Elia Kazan in una scena di Fronte del Porto

    Un porto per due Stati

    Innanzitutto, è un’istituzione gestita da due stati, New York e New Jersey, perché a cavallo tra questi due stati si spalma quello che è il principale porto della costa orientale degli Stati Uniti d’America. Dopo quasi 70 anni di storia, il mandato della Waterfront Commission è cambiato certamente, ma non poi così tanto. Nata per contrastare il potere delle famiglie mafiose appartenenti a Cosa Nostra americana sulle banchine del porto e soprattutto il loro controllo delle procedure di reclutamento dei sindacati dei portuali, ad oggi ancora si occupa principalmente di questo.

    La Commissione è chiamata a controllare che chiunque lavori o venga in contatto col porto non abbia legami con il crimine organizzato, e in particolare con la mafia. Per farlo, gestisce autonome unità di intelligence e di polizia che sono un unicum spaziale e temporale. Non esiste altrove una realtà simile, con tale competenza sulla criminalità dentro un porto (e anche fuori dal porto a dire il vero) e da così tanto tempo.

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    Una barca della Waterfront Commission in azione a NYC

    Il New Jersey, la Commissione e il sindacato

    Quale sarebbe dunque il contenzioso? Il New Jersey, nelle persone dei suoi ultimi due governatori, Chris Christie prima e Phil Murphy al momento, ha deciso che la Waterfront Commission non serve più, al punto tale da legiferare, unilateralmente nel 2018, per la rescissione del suo operato proprio in New Jersey. Ne sono nate battaglie legali, finite anche in Corte Suprema – che a marzo scorso ha bloccato l’uscita unilaterale del New Jersey dalla giurisdizione della Commissione.

    Ma all’origine di tutto questo clamore c’è una fondamentale differenza di vedute – o diciamo pure la negazione da parte dei politici del New Jersey – di quello che è oggi il crimine organizzato nel porto di New York, oltre al protrarsi di una sorta di guerra fredda – che dura da 70 anni – tra il sindacato dei portuali, l’International Longshoremen Association (ILA), e la Commissione.

    Il potere della criminalità

    Secondo il governatore del New Jersey Murphy, non ha senso mantenere in vita un ente formato nel 1953, oggi come oggi «inefficace». Un sostenitore di Chris Christie nel 2018, affermava che la Commissione è un impedimento alla crescita economica del porto. Repubblicani e Liberali in New Jersey, insomma, dubitano che serva una commissione che controlli le pratiche di reclutamento del porto, oggi che il potere della mafia a New York è inferiore a qualche decennio fa e l’evoluzione tecnologica ha comunque portato alla riduzione della manodopera sulle banchine. E si sbagliano.

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    L’ex governatore del New Jersey, Chris Christie

    Infatti l’ultima relazione pubblicata dalla Commissione ci dice che il 18% di chi chiede di lavorare al porto nel 2020 – che tra l’altro è un lavoro particolarmente lucrativo a New York (un stipendio medio da portuale si aggira tra i 100,000 e i 200,000 dollari annui secondo i dati pubblici della Commissione) – è stato rifiutato per ‘legami con la criminalità organizzata’. E dice pure che esistono ancora, come esistevano nel 1953 seppur con le dovute differenze, ingerenze pesanti della mafia cittadina sui sindacati. In particolare sull’ILA, il sindacato dei portuali.

    I Gambino, i Genovese e le assunzioni al porto

    Non stupisce affatto. George Barone, affiliato alla famiglia mafiosa Genovese, durante il processo US vs Coppola (2008-2012) confermò che la cosca utilizzava «intimidazione, paura, qualunque cosa» per continuare a controllare la forza lavoro sul porto, estorcendo i membri dell’ILA e gestendone le sorti grazie a presidenti complici. Uno dei presidenti della sezione numero 1235 dell’ILA, Albert Cernadas, fu infatti arrestato nel 2010 proprio per condotte di racketeering (il termine legale usato in USA per crimini simili a quelli di mafia). Fu rivelato in questi casi, come fu proprio la famiglia Genovese a decidere che un certo Harold Daggett, dovesse poi diventare (e tutt’ora rimanere) presidente dell’ILA.

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    Harold Daggett

    Nel 2007, una causa civile contro l’ILA, ancora non risolta, si spinge a dire che Harold Daggett non era/è solo un presidente corrotto, ma sarebbe proprio membro di un’organizzazione criminale che esercita influenza sul porto di New York, con associati sia delle famiglie Gambino che Genovese, il cosiddetto “Waterfront Group”. La vicinanza, personale e politica, tra Harold Daggett e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, hanno poi fatto ipotizzare la chiusura del cerchio: l’opposizione del New Jersey alla Waterfront Commission si rispecchia spesso nelle posizioni prese dall’ILA. Non è difficile quindi vedere come le percezioni di corruzione e malaffare sul porto siano legate ai legami opachi tra la politica e i sindacati.

    ‘Ndrangheta a New York

    E che c’entra qui la ‘ndrangheta? Il riferimento non è (del tutto) diretto; a parte qualche indagine, per esempio Columbus o New Bridge che hanno osservato nuclei ‘ndranghetisti muovere cocaina tramite il porto di New York con l’aiuto di sodali in loco, pochi e sporadici – seppur costanti – sono i dati pubblici sui collegamenti della ‘ndrangheta con le famiglie newyorkesi. Eppure, è proprio nelle parole della Waterfront Commission che troviamo un dato interessante. Nella relazione del 2018 infatti la Commissione rivela di aver ricevuto domande di impiego al porto – non approvate – da soggetti italiani, calabresi, legati alla ‘ndrangheta.

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    I boss protagonisti di “Fear City”, docu-serie di Netflix sulle cinque famiglie

    Questo dato apparentemente banale, rivela molto di più. Infatti, appurato che l’influenza sul porto di 2 delle 5 famiglie di New York, Gambino e Genovese, rimane particolarmente invasiva per quanto riguarda il reclutamento, rimane da chiedersi quale sia il rapporto tra questi presunti ‘ndranghetisti – che vengono addirittura ‘mandati’ dalla Calabria a lavorare al porto – e le famiglie mafiose newyorkesi. Non è questo un esercizio di retorica, ma semmai un problema di analisi. Tutte le mafie vivono anche di reputazione: più solido è il loro brand, più saranno resilienti e riconosciute. Nonostante i tanti ‘successi’ criminali della ‘ndrangheta, a New York il brand delle 5 famiglie è quello vincente.

    Calabresi di nascita, siciliani d’adozione

    Da decenni, le ‘ndrine si muovono dentro le famiglie Gambino e Genovese abbandonando la loro ‘calabresità’ e ‘obbedendo’ al marchio dominante. Proprio per questo in nessun altro luogo, come a New York, è così difficile capire il vero potere – oltre ai traffici illeciti – della ‘ndrangheta. Ma ci sono individui, soprattutto legati alle ‘ndrine di Siderno (Commisso-Macrì), della costa ionica, ma anche legati ai cognomi ‘pesanti’ del rosarnese, che oggi hanno raggiunto posizioni apicali all’interno delle famiglie newyorkesi. Negli anni, molti hanno diversificato le loro attività, investendo nella logistica portuale e inserendosi nelle imprese dedite alle infrastrutture del porto. Sono questi individui a ‘invitare’ giovani leve dalla Calabria a venire a lavorare al porto e a indirizzarli nelle file delle famiglie Genovese e Gambino. Sicuramente tutto ciò conferma come la Waterfront Commission sia ancora molto necessaria.

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    Il porto di New York

    Quando si parla dunque di mafia nel porto di New York, bisogna tenere a mente che parte della storia di questa mafia non è oggi molto chiara. E che ancora la si percepisce, errando, con una stereotipata composizione ‘siciliana’. Una volta compreso l’inghippo analitico che affligge ancora la mafia americana, realizzare che la ‘ndrangheta a New York è inserita all’interno delle famiglie storiche da decenni, mantiene i contatti con l’Italia – e, soprattutto, con il Canada (ma questa è un’altra storia…) – ed è oggi una forza dinamica anche all’interno della contestata realtà portuale, potrebbe generare quesiti molto difficili da affrontare, su politica, sindacati e ‘ndrine, tra New York e New Jersey.

  • Cirò Marina, il padel dei Farao con il permesso del Comune

    Cirò Marina, il padel dei Farao con il permesso del Comune

    Su Cirò Marina, come è noto, quattro anni fa si è abbattuta la scure giudiziaria della Dda di Catanzaro. L’operazione “Stige” ha colpito fortemente il clan Farao-Marincola, egemone su quel territorio ma con ramificazioni nel crotonese, in Germania e, soprattutto, nel Nord Italia, come sottolineato nell’ultima relazione della Dia del 2021.

    Il processo Stige

    Stige «è una delle più grandi operazioni degli ultimi 23 anni per numero di arrestati» disse il procuratore Nicola Gratteri subito dopo l’operazione. E aggiunse che «ormai nelle istituzioni locali la ‘ndrangheta ha messo suoi uomini funzionali agli interessi dell’organizzazione criminale». Difatti, Stige portò agli arresti anche il sindaco di Cirò Marina e presidente della Provincia di Crotone, Nicodemo Parrilla, poi condannato in primo grado per concorso esterno. Non c’era di mezzo solo la politica, però. Le ramificazioni ‘ndranghetistiche si estendevano nei più svariati settori. Lo stesso procuratore aggiunto Vincenzo Luberto spiegò: «Non possiamo più parlare di infiltrazione dei clan nella vita economica, ma siamo di fronte a una immedesimazione tra ‘ndrangheta e imprenditoria».

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    Sotto quest’ultimo aspetto, l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti nella proposta allegata al decreto di scioglimento scrisse: «Gli accertamenti svolti in sede di indagini hanno interessato la cornice criminale e il contesto ambientale ove si colloca l’ente con particolare riguardo ai rapporti tra gli amministratori e le consorterie locali e hanno evidenziato come l’uso distorto della cosa pubblica si sia concretizzato nel favorire soggetti e imprese collegati direttamente e indirettamente ad ambienti controindicati». Il processo Stige ha portato ad un fiume di condanne in primo grado, mentre per molti di quelli che hanno scelto il rito abbreviato, è già giunta la condanna in appello.

    Un permesso che fa discutere

    Nel 2020 Cirò Marina è tornata alla normalità amministrativa con un voto che ha premiato l’ex assessore comunale al bilancio, simpatizzante di Forza Italia, Sergio Ferrari. Quest’ultimo ha battuto alle urne l’esponente del Pd Giuseppe Dell’Aquila. Oggi Ferrari è, al pari del suo predecessore Parrilla, presidente della Provincia di Crotone.

    Il sindaco Ferrari con il sottosegretario Dalila Nesci

    Il sindaco di Cirò Marina non si esime dal partecipare ad iniziative sulla legalità. Per esempio era di recente al convegno cittadino “Sport: giovani e legalità”, alla presenza, tra gli altri, della prefetta di Crotone Maria Carolina Ippolito e del colonnello della Legione Carabinieri del Comando Provinciale di Crotone, Gabriele Mambor. Ma ha ricevuto anche la visita dello scorso ottobre della sottosegretaria al Sud, la pentastellata Dalila Nesci. Il tema quel giorno era la necessità di «coniugare legalità e sviluppo».

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    Il permesso rilasciato dal Comune di Cirò marina alla Signor Padel Srls di Giuseppe Farao

    Farà discutere ora, però, un permesso di costruire (il numero 18 del 1 giugno 2022) rilasciato per l’intervento di “realizzazione di una tensostruttura da adibire a campo da Padel con relativi servizi da ubicare in Loc.ta Taverna Comune di Cirò Marina (KR)” su un terreno qualificato come “Uliveto” dal catasto.

    Padel e ‘ndrangheta

    Ad ottenerlo, previo il pagamento a favore del Comune di 9.859,43 euro di oneri concessori, è il “proprietario”, nonché amministratore unico e legale rappresentante della ditta “Signor Padel Srls”, Giuseppe Farao. A suo carico, nell’ambito del processo Stige, risulta una condanna in primo grado a 13 anni e 6 mesi di reclusione  per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato dall’agire mafioso.

    La cattura di Silvio Farao

    Giuseppe Farao è figlio del boss Silvio Farao (condannato, invece, a 30 anni nello stesso processo) ed è stato condannato anche alle pene accessorie dell’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per 5 anni, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici a all’interdizione legale durante l’espiazione della pena.

    La “Signor Padel Srls”

    Sul sito della società, contenente anche l’apposito volantino sulla prossima “nuova apertura”, si legge che il progetto Signor Padel Srls «è in fase di realizzazione, siamo in attesa di ricevere i campi per l’installazione», specificando che “I nostri campi di padel a Cirò Marina sono di ultima generazione” e che il Padel “può essere anche semplicemente un’occasione di incontro e di “ritrovo”…può essere un’attività praticata da tutta la famiglia”.

    La società, nata il 19 gennaio di quest’anno (quindi, dopo la sentenza Stige, risalente agli inizi del 2021) ha come codice Ateco 749099 “Altre Attivita’ Professionali Nca” come attività prevalente (possono rientrare, sotto questa codificazione, ad esempio, attività di intermediazione aziendale, ad esempio per la compravendita di piccole e medie imprese e attività di intermediazione per l’acquisto e la vendita di licenze d’uso) e il codice 93113 “Gestione Di Impianti Sportivi Polivalenti”, come attività secondaria.

    Farao e Garrubba, il signore e la signora Padel

    Amministratore unico e legale rappresentante dell’impresa è Giuseppe Farao (che risulta residente allo stesso indirizzo in Cirò superiore dove risultavano residenti all’epoca dell’ordinanza cautelare di Stige, i boss Giuseppe e Silvio Farao, suo zio e suo padre). Come socia unica, invece, è presente Antonietta Garrubba, sua moglie, che è anche la proprietaria del terreno (qualificato dal catasto come “uliveto” con un reddito agrario di 5,86) su cui dovranno sorgere i campi di Padel.

    Il capitale sociale conferito alla società alla sua nascita di gennaio scorso è stato di 500 euro, mentre i soli oneri concessori pagati al Comune di Cirò Marina (alla fine di aprile) per il permesso di costruire sono stati, come si è detto pari, a 9.859,43 euro.

    L’ex latitante Giuseppe Nicastri

    Il progetto, come si legge nella relativa pratica edilizia, è stato presentato dall’architetto Giovanni Ciccopiedi di Cirò superiore, che ne è anche il progettista e il direttore dei lavori. Ciccopiedi, non condannato né indagato, è il nipote di Giuseppe Nicastri, esponente di rilievo della cosca Farao-Marincola e noto pregiudicato ex latitante. Il fratello di quest’ultimo, Leonardo Nicastri, viene definito dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri «medico di professione, persona particolarmente vicina ai componenti la famiglia Farao».

    Farao: prima del padel, le lavanderie

    Nella sentenza Stige si legge che «la cosca Farao-Marincola monopolizzava ‘ndranghesticamente i servizi di lavanderia industriale attraverso le società “Wash Plus s.a.s.” e la “Industrial Laundry s.r.l.” entrambe riconducibili a Giuseppe Farao (detto “Peppone”), figlio del capo-cosca promotore Silvio Farao».

    Per i giudici del Tribunale di Crotone (e per la Dda di Catanzaro), Giuseppe Farao «gestiva per conto della cosca diverse imprese, operanti nel settore della lavanderia industriale che lavoravano in regime di monopolio grazie all’appartenenza alla famiglia Farao nonché alla collaborazione di sodali appartenenti alla consorteria cirotana e altri locali affiliati».

    La Wash Plus s.a.s., società che si occupava di lavanderia industriale, nacque nel 2007 con un capitale sociale di mille euro e due soci («fasulli», disse espressamente il boss Giuseppe Farao durante un colloquio in carcere). Due anni dopo, nella compagine societaria entrò direttamente Giuseppe Farao.

    Da una società all’altra

    Il giovane nipote del boss, il 24 ottobre 2012 costituiva una nuova società operante nel medesimo settore del lavaggio industriale, la Industrial Laundry s.r.l., con capitale sociale di 25mila euro. Le quote di quest’ultima venivano poi suddivise in 17.500 in capo a lui (che era amministratore unico) e 7.500 euro in capo a Antonietta Garrubba, che divenne poi sua moglie. Pochi giorni dopo, Farao cessava la qualità di socio della Wash Plus s.a.s. e il 25 febbraio 2013, dopo soli 4 giorni dal recesso, la Wash Plus conferiva parte del suo capitale, 90mila euro, proprio alla Industrial Laundry srl di cui Farao era socio e amministratore.

    Introiti incompatibili

    «Questa successione di società nel medesimo business, è stata esercitata attraverso una serie di operazioni societarie, a seguito delle quali l’azienda della prima società è confluita nella seconda, entrambe di fatto amministrate e gestite da Giuseppe Farao come delegato della cosca», scriveva il Gip De Gregorio a fine 2017.

    Come si legge, inoltre, nella sentenza di primo grado, «con un investimento iniziale di soli 8mila euro (immediatamente rientrati sul suo conto) Giuseppe Farao nel 2013 ha acquisito la titolarità e la piena gestione di un’impresa fortemente capitalizzata (mediante conferimenti di 115mila euro oltre riserve accantonate) perfettamente avviata e senza alcuna posta passiva».

    La Wash Plus raggiunse un volume d’affari nel 2012 di 575.325 euro, mentre la Industrial Laundry di 566.283,00 l’anno successivo. Introiti, secondo giudici e inquirenti, incompatibili con la situazione reddituale di Giuseppe Farao e della moglie.

    Padel e Farao, interverrà la Prefettura?

    La legge regionale n. 9 del 26 aprile 2018 recante: “Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della ‘ndrangheta e per la promozione della legalità, dell’economia responsabile e della trasparenza” all’articolo 28 impone il rilascio del permesso di costruire previa acquisizione della comunicazione antimafia, ma solo per interventi dal valore superiore a 150mila euro. Si deve presumere, quindi, rispetto al permesso di costruire rilasciato dal Comune di Cirò Marina al figlio del boss Silvio Farao, che l’intervento richiesto inerente il progetto presentato, sia al di sotto di tale soglia.

    Vedremo nel prosieguo se, in merito all’attività societaria posta in essere da Farao quale amministratore unico della Signor Padel srls (unitamente alla moglie) la Prefettura di Crotone interverrà con una informazione antimafia ai sensi dell’articolo 91 del D.lgs. 6 ottobre 2011, n. 159 (codice antimafia), anche alla luce delle citate pene accessorie (in primis il divieto di contrarre con la P.A.) alla condanna per associazione mafiosa di Giuseppe Farao.

  • Quasi cent’anni di solitudine

    Quasi cent’anni di solitudine

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    Del capolavoro di Garcia Marquez sembra condividere un’intuizione: le porte esistono perché qualcuno le chiuda. Per raccontare i suoi novantanove anni di vita non basterebbe un libro, figuriamoci un articolo: è la prima cosa che dice mentre ripone sul comodino il ritaglio di un giornale ingiallito e fa segno di accomodarsi. Da decenni insieme alla moglie abita in una casa di una sola stanza persa in un labirinto di strade strettissime. Il grande letto, il cucinino e la televisione che a volume alto spara le notizie del giorno.

    Cordì stringe la foto di Alvaro (Foto Salvatore Intrieri)

    Nato a Bovalino, ha passato metà della propria vita a rimediare a quella che l’ha preceduta. Degli anni di infanzia e giovinezza ricorda con orgoglio solo un’amicizia speciale, quella con Corrado Alvaro. Infatti, in una stanza disseminata di santini e immagini sacre, il posto d’onore spetta a una grande foto in bianco e nero dello scrittore di San Luca. Le sue mani la indicano stringendo convinte un accendino azzurro come i suoi occhi. La fine della sigaretta nel posacenere è il segno che possiamo iniziare.

    L’incontro di Cordì con Alvaro e Pirandello

    Alvaro e Pirandello ebbero in effetti un rapporto confidenziale, fatto di molti incontri. Lo scrittore calabrese ne riferisce in diversi episodi della sua intensa produzione letteraria. Fra queste, memorabili quelle nel libro Quasi una vita, il diario edito da Bompiani che gli valse il Premio Strega nel 1951. In quelle pagine Alvaro di Pirandello riporta anche queste parole: “Per noi italiani, vita e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi”.

    Errori di gioventù

    Il bambino che ha conosciuto questi due giganti ora è il vecchio che è disposto a fare i conti con le colpe della sua vita: «Da giovane non capivo tante cose, perciò ho fatto degli errori». Si scurisce nello sguardo e la voce diventa più roca quando parla di “uomini d’onore”. «Ho iniziato a fare la guardiania ai terreni, con i turni di notte, armati. Deve capire, era gente che pagava bene… e noi avevamo visto tanta miseria». Dice che la chiamavano in modi diversi a Locri e a Reggio, a Cosenza e a Crotone, al tempo in pochi sapevano, ma oggi è chiaro a tutti cosa sia la ’ndrangheta.

    In pochi secondi si compie nello stanzino un efficace trattato sul salto di qualità di questa organizzazione criminale ormai globalizzata. L’uomo di quasi cent’anni di vita snocciola fatti con la precisione degli accademici, ma con il patema di chi quelle cose le ha vissute davvero: la morte banale del capobastone più temuto, la strage in piazza del mercato, le famiglie di pastori che formano imprese edili capaci di diventare in pochi anni vasti imperi. Tutto grazie ai sequestri di persona e agli appalti pubblici, presi con la forza, a volte con vere e proprie irruzioni negli uffici comunali.

    Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934

    Fuga d’amore

    La stella di questo uomo segue il corso di questi eventi e sembra ormai segnata, ma cambia all’improvviso insieme a quello di una ragazza di 17 anni, nel cielo di una sera di maggio. «Deve immaginarla, era una figliola assai bella, di povera gente. Un farabutto se l’era presa con l’inganno, raccontando al padre che l’avrebbe portata al paese e fatta lavorare da un dottore». Invece viveva segregata in un piccolo appartamento, abbastanza vicino a casa sua. Racconta di come un giorno ha trovato lo slancio dell’onore vero: così al tramonto ne organizza la fuga e prima che faccia di nuovo giorno, risalendo le fiumare, riesce a riportarla dai suoi genitori.

    Un duello ad armi impari

    Pare che i fatti gli stiano passando davanti ancora una volta, come nella scura sala del vecchio cinema del paese. Dice che non sapeva bene cosa stesse accadendo in quei frangenti, ma cosa l’attendeva il giorno dopo ancora, lo ha sempre saputo. Così quando, di nuovo a sera, quel poco di buono bussa alla sua porta, i rintocchi sul legno hanno il suono della morte.

    «Io non rispondevo e lui insisteva: “Ti debbo parlare”. Così mi sono messo la pistola sotto la giacca e sono andato con lui. Sotto lo stesso ponte che avevamo usato per scappare la notte prima, stavolta c’erano quattro uomini ad aspettarci. Codardi: cinque contro uno, ma ero pronto, sa? Se dovevo andare all’inferno me ne sarei portato almeno tre di loro con me…».

    La guerra in Africa

    A salvarlo invece fu un caso. O, meglio, un uomo. Tornando dalla pesca passò di lì al momento giusto e con un grido risolse lo stallo. La resa dei conti era solo rinviata.
    Ma prima di lei arrivò la guerra, l’arruolamento a Cosenza, l’addestramento in Piemonte, i lunghi viaggi e la campagna d’Africa. Il racconto si fa sempre più dettagliato, fino alle bombe degli inglesi che lo mandano sotto un metro di detriti.

    La battaglia di El Alamein

    «Il capitano che mi ha aggiustato il braccio nell’ospedale di Tunisi, dove sono stato per tre mesi dopo El Alamein, bestemmiava e gridava: “Loro fanno la guerra e poi mandano questi figli di mamma a morire”. Era contrario alla guerra, e lo eravamo anche noi».
    Dopo la guerra quegli occhi decidono che di morte ne hanno visto abbastanza. Tornato in Calabria, ritrova l’amore della donna che aveva conosciuto prima di partire e non la lascia più. Insieme se ne vanno lontano, sperando di lasciarsi tutto alle spalle. Dopo molti anni, però, nella piazza del paese, arriva un’auto scura.

    Una nuova vita

    Erano tempi in cui i telegiornali litaniano ogni giorno cognomi uguali al suo: è stata la madre delle guerre di ’ndrangheta, che in 40 anni solo a Locri e dintorni ha lasciato a terra quaranta corpi dilaniati dall’odio più cieco. «Io leggevo, ma non volevo saperne più. I miei parenti hanno capito e mi hanno lasciato in pace, altrimenti avrebbero eliminato anche me. Corrado Alvaro lo diceva che non si sconfigge questa dannata malattia, ma forse non pensava che saremmo arrivati a questo. Che devo dirvi, si vede che doveva andare così».

    Corrado Alvaro

    L’appuntamento

    Indica la tv, chiede di avere una copia della foto con in mano il ritratto di Corrado Alvaro e saluta. Il prossimo appuntamento è per il suo centesimo compleanno, vuole un pacchetto di Ms dure da venti per regalo, ma al tabacchino c’è una piccola foto in bianco e nero di un giovane adornato di baffi, giacca e dolcevita: è proprio lui. Dietro c’è scritto: “Quale ricordo a tutti coloro che in vita gli vollero bene e che in morte lo ricordano”. Fatto salvo della moglie e di pochissimi, Enzo è morto in solitudine in quello stesso letto, poche settimane dopo l’intervista. Così, mentre i funerali dei boss vengono celebrati da folle e fanno il giro del mondo, dell’uomo che ha avuto il coraggio di ribellarsi restano una foto sbiadita e venti sigarette dure.

    (ha collaborato Salvatore Intrieri)

  • Il tuono prima della tempesta: i pistoleri della Villa Vecchia

    Il tuono prima della tempesta: i pistoleri della Villa Vecchia

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    A volte la violenza si percepisce nell’aria, che si satura fin quasi a esplodere.
    Nella Cosenza del ’77 è proprio così: la violenza politica degli anni di piombo inizia pian pano a evaporare.
    Quella della malavita, invece, è in crescendo.
    È il pomeriggio del 23 gennaio. Mancano poco più di undici mesi alla morte cruenta di Luigi Palermo, detto ’u Zorru, il mitico capo della mala locale, erede dell’altrettanto mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu.
    Sono passate da poco le quattordici e Francesco Fotino, appuntato di polizia che presidia la guardiola della vecchia prefettura (che oggi è diventata la sede della Provincia), sente alcuni spari e delle urla.

    Un duello di malavita alla Villa Vecchia

    I rumori provengono dalla Villa Vecchia, l’ex regno di Ciccio Scarpelli, alias Ciccio Fred Scotti, ex custode della struttura comunale e celebre per essere stato uno dei primissimi cantanti di malavita calabresi.
    Fotino si precipita fuori e nota uno spettacolo agghiacciante: un ragazzo cerca di trascinare a spalla un coetaneo gravemente ferito a una gamba. Quest’ultimo si chiama Giuseppe Castiglia e ha 21 anni. Ma gli amici lo chiamano Nuccio.
    Il poliziotto urla l’alt e poi spara un colpo di avvertimento in aria.

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    Fred Scotti e il leone della Villa comunale

    Il soccorritore molla Castiglia e scappa. Fotino rientra di fretta e furia nella guardiola e chiama il 113 per avere rinforzi. Poi va alla Villa Vecchia.
    Lo spettacolo, stavolta, è peggiore: un altro giovane riverso per terra, davanti al cancello della Villa. Ha una grossa macchia di sangue all’altezza del cuore. Si chiama Carlo Mussari, ha 25 anni e anche lui ha il suo bravo nomignolo: Dipignano.
    Per Mussari non c’è niente da fare: un proiettile gli ha attraversato il torace da parte a parte e i soccorritori lo trovano già cadavere.

    Il soccorso inutile e la morte

    Qualche speranza in più ci sarebbe per Nuccio: i suoi amici lo caricano su una Mini Minor Cooper 1300 e tentano di portarlo in Ospedale.
    Alla tragedia si aggiunge la sfortuna: l’auto è a rosso fisso e si pianta all’imbocco del ponte Mancini, che collega Cosenza Vecchia all’Ospedale.
    I soccorritori se la danno a gambe e abbandonano Castiglia, ormai agonizzante, per la seconda volta.

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    Una mitica Gazzella degli anni ’70

    Anche l’arrivo di una volante della Polizia è inutile: gli agenti trasbordano il ferito e cercano di arrivare al Pronto Soccorso. Ma Nuccio è gravissimo, perché il proiettile gli ha reciso l’arteria femorale e fermare l’emorragia è impossibile. Il ragazzo arriva a destinazione già cadavere.

    Le indagini sul duello, in tre sotto torchio

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    Il boss Franco Perna

    La prima pista degli inquirenti porta ad Alfredo Andretti. Questa pista parte dalla Mini Minor usata per soccorrere Nuccio, che appartiene alla sorella di Andretti.
    Tra l’altro, i poliziotti hanno trovato dentro l’auto delle prove non proprio trascurabili: i documenti di Castiglia, una pallottola calibro 7,65, una bottiglia di brandy e un paio di guanti in pelle marrone. Quanto basta ad Alfredo Serafini, il procuratore incaricato delle indagini, per fermare Andretti con l’accusa di concorso in omicidio.
    Inoltre, spuntano dei testimoni, tuttora sconosciuti, e un’altra prova: un caricatore Mauser trovato in una tasca di Dipignano.
    I questurini fermano altre due persone: Salvatore Pati, che all’epoca ha 26 anni, e Antonio Musacco, che ne ha 30.

    La prova che manca e l’antefatto

    Anche per loro due l’accusa è di concorso in omicidio. Ma a loro carico c’è una sola certezza: aver soccorso (e poi mollato) Nuccio.
    Ma il guanto di paraffina, negativo per tutti e tre gli indagati, toglie ogni dubbio: gli unici pistoleri di quel maledetto 23 gennaio ’77 sarebbero stati Nuccio e Dipignano.
    La sera prima, infatti, Castiglia ha litigato col cognato di Mussari e lo ha preso a schiaffi. I due, quindi si sarebbero dati appuntamento davanti alla Villa Vecchia, anche coi relativi compari, per chiarirsi.
    Ma le cose avrebbero preso un’altra piega: anziché “appaciarsi”, Castiglia e Mussari si sarebbero insultati e poi presi a revolverate a vicenda.
    Un duello violento, tipico di certa mala cosentina, finito male.

    I compari

    Il doppio omicidio della Villa Vecchia è la prima occasione in cui Andretti, Pati e Musacco compaiono nelle cronache giudiziarie. Ma i loro sono nomi destinati a tornare. Vediamo come. Andretti, considerato affiliato del boss Franchino Perna, sarà ucciso nel 1985 per un regolamento di conti. Qualche anno dopo, il pentito Roberto Pagano lo accuserà dell’omicidio dell’imprenditore Mario Dodaro. Musacco finisce in vari procedimenti, tutti dovuti a presunti fatti di mafia, a partire dal celebre maxiprocesso “Garden”.
    Stesso discorso per Salvatore Pati.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    «Eravamo “grattisti”, siamo diventati “sgarristi”». Con quest’efficace espressione, il boss pentito Franco Pino racconta la trasformazione della criminalità cosentina da malavita in mafia.
    Violenti, a volte in maniera vistosa e stupida (come Castiglia e Mussari, appunto), i giovani leoni di una certa Cosenza si preparavano, ognuno a modo suo, al salto di qualità che sarebbe arrivato proprio alla fine del ’77.
    Ma questa è un’altra storia…

  • Vuoi i voti della ‘ndrangheta? E a Cirò cala il silenzio

    Vuoi i voti della ‘ndrangheta? E a Cirò cala il silenzio

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    Sono due i candidati a sindaco del Comune di Cirò, paese che torna al voto il prossimo 12 giugno. Uno è l’uscente, l’avvocato Francesco Paletta. Già vice sindaco, assessore in passate consiliature e consigliere comunale dal 2003, Paletta sfiderà il medico Mario Sculco, che è stato presidente dell’assise civica e sostenitore dello stesso Paletta nel 2017.

    Un territorio complicato, quello di Cirò. Proprio lì c’è stata la prima amministrazione comunale sciolta per infiltrazioni mafiose in assoluto nella provincia di Crotone nel 2001. Ma anche quella che ha “fatto giurisprudenza” salvandosi dallo scioglimento del 2013 con un ribaltamento operato dal Tar del Lazio, prima, e dal Consiglio di Stato dopo nel 2015.

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri

    L’operazione Stige

    Certo, dopo la maxi operazione “Stige” del 2018 della Dda di Catanzaro, che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione della vicina Cirò Marina (città che oggi, invece, esprime nuovamente il presidente della Provincia, ma anche un consigliere regionale), l’attenzione pubblica su ciò che avviene nel Cirotano è ancora maggiore, soprattutto in occasione delle competizioni elettorali.

    «È cambiato il rapporto tra mafia e politica. Oggi i clan gestiscono direttamente la cosa pubblica» dichiarò pubblicamente il procuratore capo Nicola Gratteri a seguito della citata operazione “Stige” in cui sono rimasti coinvolti (e condannati) numerosi amministratori locali.

    Farao-Marincola: le mani su Cirò

    Già, perché a Cirò, come dimostrano molteplici operazioni di polizia, con risultanze che hanno trovato conferma in sentenze definitive passate in giudicato, non solo esiste, ma è anche operativo, pervasivo e radicato il clan Farao-Marincola.
    La sentenza “Galassia” emessa dalla Corte di Assise di Appello di Catanzaro l’11 agosto 2001, divenuta irrevocabile, sancì l’esistenza e l’operatività a Cirò e dintorni di questa associazione per delinquere armata, di tipo mafioso. A dirigerla, a partire dal 1977, e sino alla fine degli anni ’90, Nicodemo Aloe. Dopo l’uccisione di quest’ultimo, sono stati invece Giuseppe e Silvio Farao e Cataldo Marincola. Anche le operazioni “Eclissi”, “Scacco Matto”, “Dust” e “Bellerofonte” portarono alla conferma dell’esistenza del locale di Cirò.

    Le condanne di Stige

    «Siamo di fronte a un locale, quello di Cirò, antico, che partecipa al Crimine e al Tribunale della ‘ndrangheta. È una struttura così radicata nel territorio che non necessita neanche più di fare intimidazioni» ha dichiarato Nicola Gratteri. La sua Procura ha ottenuto nel processo di appello di Stige, lo scorso settembre, la condanna (in abbreviato) a 20 anni per il figlio di Silvio Farao. Per quest’ultimo e suo fratello Giuseppe, invece, una condanna (in ordinario) 30 anni di carcere in primo grado.
    Non di secondo rilievo è l’ultima relazione della Dia, risalente al primo settembre 2021 (e, quindi, post-Stige) dove si trova conferma dell’operatività dei Farao-Marincola a Cirò.

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    Silvio Farao, appartenente alla potentissima cosca di Cirò

    Legalità a Cirò

    Sia all’interno del programma elettorale “Attivamente Cirò” del sindaco uscente Francesco Paletta, sia in quello di “Progetto Cirò” di Mario Sculco, pubblicati entrambi sull’albo pretorio del Comune, non si fa alcun riferimento però a mafie e ‘ndrangheta.
    Nel programma di Paletta si legge: «Oggi più che mai si sente il bisogno di educazione alla legalità per una promozione trasparente e pulita della crescita del territorio». In un altro passaggio dice: «Legalità, trasparenza ed efficienza continueranno ad essere i punti fermi della nostra azione amministrativa».

    Continua: «Per noi la garanzia saranno i tanti progetti messi in cantiere che dovranno trovare esecuzioni nei prossimi 5 anni e continuare a mantenere un clima di serenità e legalità attraverso il rispetto delle regole uguali per tutti». Più timido in questo senso pare essere quello di Sculco, in cui si legge: «Verità, trasparenza e lealtà devono caratterizzare la macchina amministrativa ed essere alla base dello sviluppo individuale, sociale, economico e spirituale di tutti cittadini».

    Due domande

    Entrambi i candidati a sindaco sono stati contattati da I Calabresi. Abbiamo rivolto loro due domande:

    1. Prende le distanze dal clan Farao Marincola?
    2. Dichiara di non volere i loro voti e quelli delle altre mafie presenti sul territorio?

    Francesco Paletta ci ha risposto dopo un paio di giorni: «Non ho nessun rapporto né con associazioni né con cosche. Non voglio i voti di nessun tipo di mafia, di nessuna cosca, di nessuna organizzazione criminale. Ho bisogno solo dei voti dei cittadini perbene». Silenzio, invece, da Sculco.

    Lo scioglimento di Cirò nel 2001

    A guidare l’amministrazione di Cirò eletta nell’aprile del 1997 e sciolta nel febbraio 2021, pochi mesi prima della scadenza naturale della consiliatura, c’era Antonio Sculco, fratello dell’attuale candidato, all’epoca al secondo mandato ed eletto con l’80% dei voti.
    Giova premettere che a seguito di quello scioglimento, al netto di una condanna definitiva per danno erariale di cui si dirà, non c’è stata per Antonio Sculco alcuna conseguenza penale.

    In ogni caso, come ricordato da Claudio Cavaliere nel suo libro Un vaso di coccio. Dai governi locali ai governi privati: comuni sciolti per mafia e sistema politico istituzionale in Calabria (2004, Rubbettino), l’accesso antimafia disposto dal prefetto all’epoca, avvalorò la sussistenza delle ipotesi di infiltrazione, mettendo in evidenza «la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, amicizie e frequentazioni, che vincola la maggior parte degli amministratori comunali, così come numerosi dipendenti ed esponenti delle cosche locali» e che il Tar ritenne poi che le risultanze siano state «inequivoche e rivelatrici di un inquinamento ambientale tra amministrazione e malavita organizzata».

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    Enzo Bianco, ex ministro dell’Interno

    Condizionamenti esterni

    Nel decreto di scioglimento del 2001, firmato dall’allora ministro dell’Interno, Enzo Bianco, si legge che i collegamenti tra esponenti della criminalità e gli amministratori compromettevano «la libera determinazione dell’organo elettivo ed il buon andamento dell’amministrazione di Cirò». Il documento rileva che «la permeabilità dell’ente ai condizionamenti esterni della criminalità organizzata arreca grave pregiudizio allo stato della sicurezza pubblica e determina lo svilimento delle istituzioni e la perdita di prestigio e di credibilità degli organi istituzionali». E sottolinea che «la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, amicizie e frequentazioni, che vincola la maggior parte degli amministratori comunali così come numerosi dipendenti ad esponenti della dominante cosca locale, costituisce il principale strumento attraverso cui la criminalità organizzata si è inserita nell’ente condizionandone l’apparato gestionale».

    Antonio Sculco venne condannato dalla Corte dei conti Sezione Giurisdizionale per la Calabria con sentenza depositata il 23 ottobre 2003 (confermata dalla sezione giurisdizionale centrale il 29 settembre 2010 e divenuta definitiva con la sentenza 12902 del 2011 delle Sezioni Unite della Cassazione) per un danno erariale di 28.888,72 euro per aver contratto un mutuo da 900 milioni di lire per pagare «il prezzo di acquisto dell’immobile Castello di Cirò poi utilizzato parzialmente in spese correnti». Insomma, una distrazione di fondi acquisiti con mutuo e, quindi, una violazione delle disposizioni in tema di utilizzo delle entrate a destinazione vincolata, con alle spalle una situazione di dissesto finanziario del Comune.

    L’appoggio del Pd e del M5S a Sculco

    Volendo “politicizzare” la competizione, a fronte di Paletta, simpatizzante di Forza Italia, Sculco si caratterizza per un chiaro appoggio Pd-M5S. Significativo è stato il post su Facebook del 20 maggio 2017 sulla sua diretta discesa in campo (come consigliere al seguito di Francesco Paletta). Mario Sculco scriveva testualmente: «Non ho mai, prima d’ora, voluto saperne di fare politica in prima persona, sebbene abbia sempre seguito e appoggiato le direttive politiche impartite in ogni tornata elettorale da chi, nella mia famiglia, al contrario di me, ha sempre fatto politica attiva».

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    Flora Sculco, candidata nelle file dell’Udc alle scorse regionali in Calabria

    Alle ultime elezioni regionali ha sostenuto la candidata dell’Udc, Flora Sculco. Ora, invece, gode dell’appoggio del consigliere provinciale del Pd ed ex presidente facente funzioni della Provincia, Giuseppe Dell’Aquila. Lo stesso che a Cirò è stato consigliere comunale (eletto nella lista opposta a Sculco e Paletta nel 2017) prima di candidarsi a sindaco di Cirò Marina nel 2020. Per poi perdere al ballottaggio.

    Oggi si vocifera con insistenza di un suo ritorno a Cirò nella qualità di vicesindaco della futura amministrazione Sculco. Ma solo se il cugino presente in lista, Andrea Grisafi, fosse il più votato tra i candidati. Certamente godrà dell’appoggio del responsabile dell’ufficio finanziario del Comune, lo zio di Dell’Aquila (fratello della madre), Natalino Figoli, recentemente finito nell’occhio del ciclone per presunte irregolarità nel concorso per gli autisti dello scuolabus e, prima ancora, per le tasse universitarie pagategli dal Comune (circostanza citata nel decreto di scioglimento).
    Presente in lista anche una giovane parente del consigliere regionale del M5S, Francesco Afflitto, Martina Virardi, con sostegno (almeno virtuale, con “like” social) dell’ex maresciallo dei carabinieri di Cirò, Diego Annibale, a processo per rivelazione di segreto d’ufficio proprio a favore del citato Figoli.

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    Natalino Figoli con il ministro Roberto Speranza

    Le parentele “scomode” degli assessori di Paletta

    Tra i candidati di Sculco è presente l’attuale consigliera comunale di opposizione Maria Aloe. Si tratta della nipote del già citato boss di Cirò Nicodemo Aloe, freddato nel 1987. Accanto al cadavere, con macabro rituale, gli assassini hanno fatto trovare anche un cane impiccato. Suo cugino, Francesco Aloe, è stato condannato a 10 anni nell’ambito del processo di appello “Stige”.

    Tra la compagine attualmente in carica di Francesco Paletta si trovano altre parentele degne di nota. L’assessore comunale alla viabilità urbana, Giuseppe Mazziotti, ha una figlia, Daniela, sposata con il nipote di Cataldo Marincola. Mentre l’ assessore comunale allo sport Mario Romano (lo era anche nelle due giunte precedenti e, prima ancora, semplice consigliere) è fratello di Giuseppe Romano, considerato dagli investigatori un elemento apicale della cosca e già condannato per associazione di stampo mafioso. Inoltre, è cugino di Giuseppe Sestito, la cui sorella è moglie del boss Cataldo Marincola. Sestito, inoltre, è parente di Nicodemo Guerra, condannato per associazione mafiosa.

    L’assessore Romano, in una pubblica seduta del Consiglio comunale del 31 gennaio 2013, affermò di non rinnegare le proprie parentele, non capendo il motivo per cui le condanne dei suoi familiari debbano influire sulla sua persona o sull’amministrazione.
    La stessa sentenza del Consiglio di Stato (numero 4792 del 2015) che confermò l’annullamento dello scioglimento specifica che le parentele rilevano ai fini dello scioglimento di una amministrazione «a condizione che siano effettivamente legami e cioè siano connotati da attivi comportamenti di solidarietà e cointeressenza».

    Per questo, una pubblica presa di distanza di entrambi i candidati sindaci, provenienti dalla medesima maggioranza uscita dalle urne nel 2017, rispetto al voto mafioso e inquinato e a queste “cointeressenze”, sarebbe stata un atto dovuto rispetto a quel principio di trasparenza tanto decantato nei reciproci programmi elettorali.

  • Rocco Morabito, il Brasile conferma l’estradizione del re della coca

    Rocco Morabito, il Brasile conferma l’estradizione del re della coca

    Rocco Morabito deve tornare in Italia. La prima sezione della Corte suprema federale (Stf) del Brasile ha confermato l’autorizzazione all’estradizione del narcotrafficante della ‘Ndrangheta. Morabito, detto U Tamunga, era uno dei criminali più ricercati al mondo. La notizia dell’estradizione del boss arriva dall’Agência Brasil. Rocco Morabito, dopo una rocambolesca fuga da un carcere uruguaiano, era stato arrestato nel maggio dello scorso anno dalla Polizia federale a João Pessoa. Da quel momento è rimato dietro le sbarre del penitenziario federale di Brasilia.

    Rocco Morabito scortato dalla polizia federale brasiliana

    Un primo ok all’estradizione era arrivato a marzo di quest’anno. Ieri il tribunale ieri ha confermato quanto già deciso. Respinto il ricorso dei legali della difesa di Rocco Morabito che avevano sostenuto l’illegittimità delle procedure. Unanime il rigetto dell’istanza da parte dei giudici, che hanno quindi disposto la fine del processo di estradizione. Ora sarà il governo federale a consegnare il boss alle autorità italiane.

    Nella sentenza la Corte suprema brasiliana ha ricordato all’Italia che dovranno essere rispettati alcuni requisiti previsti dalle leggi brasiliane. In primis, la sottrazione da una eventuale condanna della detenzione già scontata in Brasile e l’applicazione di una pena massima di 30 anni di carcere. I nostri tribunali avevano già condannato in più occasioni Morabito, affibbiandogli oltre 100 anni di reclusione per traffico internazionale di droga.

  • Delle Chiaie a Capaci? I legami oscuri del leader di Avanguardia Nazionale

    Delle Chiaie a Capaci? I legami oscuri del leader di Avanguardia Nazionale

    Sono passate appena poche ore dalla messa in onda della puntata che Report ha dedicato ai 30 anni dalla strage di Capaci. Gli uomini della Direzione Investigativa antimafia bussano alla porta del giornalista Paolo Mondani. Inviati dalla Procura di Caltanissetta, gli uomini della DIA perquisiscono l’abitazione del giornalista e sequestrano atti riguardanti l’inchiesta nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci.

    L’inchiesta di Report e Delle Chiaie

    Nel corso della perquisizione, gli investigatori hanno cercato atti sul cellulare e sul pc di Mondani. Una scelta forte, quella dei magistrati, che arriva all’indomani dell’inchiesta di Report. E che riaccende le polemiche sulla tutela delle fonti che dovrebbe essere sempre garantita ai giornalisti.

    La procura di Caltanissetta, attraverso il capo dell’ufficio Salvatore De Luca, ha precisato che la perquisizione «non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista (che non sarebbe indagato, ndr), benché la stessa sia presumibilmente susseguente a una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario».

    Riecco “Er Caccola”

    Nel giorno del trentennale della strage di Capaci, con la puntata “La bestia nera”, Report ha provato ad aggiungere un tassello di verità. Almeno a porre domande e instillare dubbi sui mandanti esterni, su quelle connivenze tra mondi diversi e occulti che avrebbero animato la strategia stragista che, nel 1992, toccherà il culmine con le stragi di Capaci e via D’Amelio in cui perderanno la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

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    I giudici Falcone e Borsellino uccisi dalla mafia

    E spunta fuori il nome di Stefano Delle Chiaie. Anzi, rispunta. Sì perché Delle Chiaie entra ed esce da inchieste giornalistiche e giudiziarie da decenni. Deceduto nel 2019, si tratta di uno dei soggetti più oscuri della storia d’Italia. Detto “Er Caccola”, è stato accostato a stragi di matrice terroristica, alla P2 di Licio Gelli e alla criminalità organizzata. Con la sua inchiesta, Report ipotizza e sospetta legami con Cosa Nostra e fatti siciliani. Ma da anni sono presenti agli atti elementi che collegherebbero Delle Chiaie alla ‘ndrangheta.

    Il summit di Montalto

    Uno dei primi a parlarne è il collaboratore di giustizia Stefano Serpa, uomo influente della ‘ndrangheta degli anni ’70 e ’80. Serpa colloca Delle Chiaie in Calabria in uno degli eventi più iconici della storia della criminalità organizzata calabrese.

    Un summit di ’ndrangheta. Anzi, probabilmente il summit di ’ndrangheta per eccellenza. Cui, però, stando al racconto del collaboratore partecipano anche elementi importanti della Destra eversiva, quali Stefano Delle Chiaie, appunto. Ma anche Pierluigi Concutelli, esponente di spicco della Destra eversiva e condannato per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, avvenuto il 10 luglio 1976 a Roma, col movente di impedire al magistrato di proseguire le proprie delicate indagini sul terrorismo nero.

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    Pierluigi Concutelli

    Una riunione fondamentale nella storia della ’ndrangheta, perché si incastra proprio negli anni più caldi della storia di Reggio Calabria, quelli della rivolta del Boia chi molla. Borghese, Delle Chiaie, Concutelli e gran parte della colonna di destra eversiva del tempo a Reggio Calabria, in quegli anni, sarebbero stati di casa.

    La circostanza viene raccontata anche da Carmine Dominici, ex membro di spicco di Avanguardia Nazionale, poi divenuto collaboratore di giustizia: «Vi fu, nel settembre 1969, un comizio del principe Borghese a Reggio Calabria che fu proibito dalla Polizia. In quell’occasione c’era anche Delle Chiaie e il divieto da parte della Questura provocò scontri a cui tutti partecipammo. Vi fu anche un assalto alla Questura per protesta».

    Delle Chiaie e la ‘ndrangheta

    Ma non si tratterebbe solo di politica. Anche perché Serpa non è l’unico collaboratore di giustizia che tira in ballo Delle Chiaie e la sua vicinanza, non solo al territorio calabrese, ma anche alla ‘ndrangheta.  A parlare, infatti, è uno dei collaboratori di giustizia storici: quel Giacomo Ubaldo Lauro che, insieme a Filippo Barreca, sarà tra le principali fonti dei giudici che imbastiranno il maxiprocesso “Olimpia”.

    Le dichiarazioni di Lauro, quindi, aprono squarci di luce (che, va detto, non avranno particolari sbocchi di natura giudiziaria) sul legame tra ’ndrangheta e Destra eversiva: «[…] nell’epoca dei moti di Reggio, io capitai due volte detenuto nella stessa cella, lo presi con me a Carmine Dominici. Una volta perché aveva messo una bomba, e che poi è stato assolto da questa bomba e fece un paio di mesi, un’altra volta per il sequestro Gullì assieme a Domenico Martino. Dalla bocca di Carmine Dominici […] mi disse a parte che io lo sapevo già che “Er Caccola” non mi ricordo ora come si chiama dunque Delle, Delle Chiaie era stato a Reggio nel ’70 ospite, ospite suo di lui e di Fefè Zerbi».

    Zerbi, Delle Chiaie e De Stefano

    Il marchese Genoese Zerbi era, a detta di tutti, il coordinatore dei gruppi di estrema destra in quel periodo assai caldo vissuto dalla città, in lotta dopo l’assegnazione del capoluogo di regione a Catanzaro. Una rivolta che, secondo taluni, avrebbe subito la strumentalizzazione della ‘ndrangheta, in un accordo tra gruppi estremisti e boss. Stando al racconto di Lauro, Delle Chiaie ebbe contatti con la ’ndrangheta e, in particolare, proprio con Paolo De Stefano, in quel periodo capo della famiglia che, più di tutte, avrebbe modernizzato la ‘ndrangheta grazie ai suoi rapporti promiscui: «Nella seconda carcerazione […] io mi ritrovai detenuto dal ’79 e c’era anche lui. […] Da Dominici seppi che […] praticamente Fefè Zerbi fece conoscere a Delle Chiaie a Paolo De Stefano e ad altri […]».

    L’uomo dei misteri

    Nomi che si intrecciano con la storia più oscura d’Italia, fatta di complotti, accordi e trame messi in atto tra Destra eversiva, criminalità organizzata e Servizi Segreti deviati. Delle Chiaie è uno dei personaggi più controversi della storia d’Italia. Fondatore di Avanguardia Nazionale, movimento della Destra eversiva negli anni Settanta, Delle Chiaie si segnala per la propria appartenenza a organizzazioni e movimenti di natura fascista fin dagli anni Sessanta. Particolarmente inquietanti sono i contatti con il Fronte Nazionale del principe Junio Valerio Borghese. Sì, proprio l’ex gerarca fascista promotore di un tentato colpo di Stato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970.

    Junio Valerio Borghese

    Un dato molto significativo, emerge dalla sentenza della Corte d’Assise di Bologna sulla strage della Stazione, che condanna i neofascisti Giusva Fioravanti e Francesca Mambro: «Stefano Delle Chiaie si muove con grande disinvoltura nell’Argentina dominata dal regime militare. Da latitante qual è, frequenta liberamente vari ambienti e compare a cena a fianco del console italiano. Reduce dall’esperienza cilena, dopo un primo momento di difficoltà, comincia a prosperare, raggiungendo l’apice della sua fortuna nel periodo in cui le forze governative argentine – il che, tenuto conto di quella realtà, equivale a dire gli apparati militari – appoggiano, assieme a quelle cilene, il colpo di Stato militare boliviano». La sua presenza in Sud America si registra già con la vicinanza al regime di Augusto Pinochet alle riunioni della Dirección Nacional de Inteligencia (DINA) di Manuel Contreras e in seguito nell’Operazione Condor per la persecuzione dei dissidenti.

    Delle Chiaie e Licio Gelli

    Ma, come paventato peraltro anche dalla trasmissione Report, Delle Chiaie sarebbe stato vicino anche ad ambienti occulti. E, in particolare, alla P2 di Licio Gelli, quel progetto massonico e criminale che doveva sovvertire l’ordine costituito in Italia.  Per questo, scrivono infine i giudici di Bologna «“il collegamento Gelli-Delle Chiaie non si presenta come una possibilità, più o meno plausibile, ma costituisce una necessità logica».

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    La sala d’attesa della stazione di Bologna sventrata dalla bomba

    Il nome di Delle Chiaie è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, come piazza Fontana o Bologna, e a omicidi eccellenti, come quello del giudice romano Vittorio Occorsio, ma i processi lo hanno sempre visto assolto per “non aver commesso il fatto” o per “insufficienza di prove”.

    I “Sistemi Criminali”

    Entra ed esce da inchieste giudiziarie da decenni. E fa parlare di sé anche ora che è deceduto da circa tre anni. Spiccava la sua presenza tra gli indagati dell’inchiesta sui Sistemi Criminali, condotta alcuni anni fa dal pubblico ministero Roberto Scarpinato sulla strategia della tensione dei primi anni Novanta, ma sfociata in un’archiviazione complessiva per personaggi del calibro del gran maestro della P2, Licio Gelli, i boss mafiosi Totò Riina e i fratelli Graviano, l’avvocato mafioso Rosario Pio Cattafi, altro soggetto che lega il proprio nome ad alcune delle vicende più oscure d’Italia.

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    L’avvocato Paolo Romeo

    Ma anche l’avvocato Paolo Romeo, avvocato reggino condannato in via definitiva per mafia nel processo Olimpia e considerato un’eminenza grigia delle dinamiche ’ndranghetiste, condannato in primo grado a 25 anni nel maxiprocesso “Gotha”. Quanto all’inchiesta “Sistemi Criminali”, invece, sarà la stessa accusa a richiedere l’archiviazione.

    Le accuse respinte dalla moglie di Delle Chiaie

    Un altro processo da cui Delle Chiaie uscirà pulito. L’ennesimo. Come quello per la strage di Bologna, che ha visto recentemente la condanna di Paolo Bellini. L’inchiesta di Report tira in ballo anche lui. «Tutta l’inchiesta si fonda su una dichiarazione fatta in un colloquio investigativo di 30 anni fa, che quindi non può essere utilizzata. Il mio assistito è stato implicato in quella storia nel ’92, ’93 ed esaminato da Giovanni Melillo, oggi procuratore nazionale antimafia. Lo vogliono rimettere in mezzo? E lo rimettano in mezzo. Ma, ricordiamolo, è stato archiviato» afferma l’avvocato di Bellini.

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    I funerali di Stefano Delle Chiaie

    E anche Delle Chiaie ha sempre respinto al mittente le accuse. Così come i riferimenti effettuati da diversi collaboratori di giustizia agli intrecci con la ’ndrangheta. Ora, deceduto da quasi tre anni, secondo qualcuno ha portato con sé tanti segreti. Secondo altri, invece, non può più difendersi e quindi lo infangano. Lo afferma Carola Delle Chiaie, moglie e vedova dell’ex avanguardista: «Una formazione che si può accusare di tante cose, ma non di connessioni con gentaccia come la mafia e tanto meno con la massoneria, che mio marito detestava come poche altre cose», dice. E conclude: «Si permettono di inserirlo in uno scenario incredibile. Dopo quanti anni scoprono che Delle Chiaie era a Capaci, che addirittura ha dettato la strategia delle stragi? È una follia, non c’è altra spiegazione».

  • Funerale vietato, il carro vuoto di Aquino sfila per Gioiosa Marina

    Funerale vietato, il carro vuoto di Aquino sfila per Gioiosa Marina

    Un carro trainato da tre coppie di cavalli neri. Un carro vuoto, addobbato di fiori e tirato a lutto, che avrebbe percorso il tragitto dalla casa del defunto fino al piazzale del cimitero di Marina di Gioiosa dove però non sarebbe entrato. Un carro che avrebbe dovuto trasportare il corpo di Nicola Rocco Aquino nel suo ultimo viaggio se, qualche ora prima della cerimonia funebre, non fosse arrivato l’altolà della questura di Reggio Calabria che disponeva le esequie in forma strettamente privata e da svolgersi all’alba come a tanti presunti esponenti del crimine organizzato prima di lui.

    Annullato il funerale pubblico previsto per il pomeriggio – e il relativo corteo – però, qualche minuto prima delle sette del mattino, il carro, senza la bara al suo interno, avrebbe comunque percorso il tragitto originariamente previsto lungo il corso principale della cittadina jonica. Una sorta di “aggiramento” simbolico – il funerale di Aquino si è svolto comunque in forma strettamente privata – delle norme divenute ormai consuete in occasione dei funerali dei grandi vecchi della ‘ndrangheta, ed esibito in faccia a Gioiosa Marina. Proprio come un enorme dito medio, con tanto di pennacchi sui cavalli e corone rosse di contorno.

  • Tramonte e Cristiano: uccisi a Lamezia Terme senza un perché

    Tramonte e Cristiano: uccisi a Lamezia Terme senza un perché

    Quella di Stefania Tramonte sarebbe dovuta essere una storia come tante altre. Ha 42 anni e una voce squillante. Vive a Lamezia Terme («non potrei farne a meno») e ogni mattina per lavoro va a Catanzaro. È sposata (con Pasquale, “una benedizione” lo definisce) e ha due figli (Matteo e Christian, di 11 e 8 anni). Le piace stare con gli amici e ha imparato a fare tesoro delle piccole cose. Se le chiedi un bilancio della sua vita ammette di avere sofferto, ma non ha dubbi nel definirsi anche fortunata e circondata d’amore. Tante giovani donne calabresi potrebbero riconoscersi in queste parole.
    Ma quella di Stefania, suo malgrado, non è una storia come tante altre. Non lo è da una dannata notte di 31 anni fa.

    L’agguato a Lamezia

    Le tre del mattino, giù dal letto, una fugace colazione e poi di corsa fuori di casa, senza svegliare la moglie Angela e le tre bambine – Maria, Stefania e Antonella, di 13, 11 e tre anni. Il 40enne Francesco Tramonte fa il netturbino al Comune di Lamezia e anche quella notte raggiunge Palazzo Sacchi, sede del centro della nettezza urbana. Prende le consegne e si dirige al piazzale dove il camion è già pronto. Alla guida c’è il 36enne Eugenio Bonaddio, autista della Sepi, la ditta privata che gestisce la raccolta dei rifiuti. A bordo anche un ragazzone di 28 anni, Pasquale Cristiano, che non dovrebbe stare lì: il medico gli ha sconsigliato il lavoro notturno sui mezzi per un problema di epilessia, ma – vai a capire il destino – c’è un’emergenza e lui si mette a disposizione. Partono.

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    Mamma Angela con Antonella, Stefania e Maria Tramonte anni prima della tragedia

    Intorno alle cinque sono nella zona di Miraglia, a Sambiase, dove l’illuminazione pubblica è cosa rara e la sensazione di degrado e abbandono soffocante. Il camion accosta, vanno per scendere quando notano l’ombra di un uomo dietro i cassonetti: ha corporatura media, porta lunghi capelli pettinati all’indietro e la barba incolta, indossa un giubbotto scuro e paio di jeans. Soprattutto, imbraccia un fucile da guerra. Il suo ghigno è spaventoso, complice il canino inferiore destro più lungo e appuntito degli altri denti. Intima ai tre netturbini di scendere, loro obbediscono.

    All’alba del 24 maggio 1991 Lamezia Terme diventa il teatro di uno spaventoso massacro. Il killer spara 22 volte: i proiettili di kalashnikov calibro 7.62 centrano Francesco 12 volte e Pasquale 7. Non hanno scampo. Se la cava con qualche ferita Eugenio Bonaddio che riesce a mettersi in salvo. Dopo l’inferno di piombo è l’ora dell’odore del sangue e del silenzio.

    L’ultima notte di Tramonte e Cristiano

    È un collega del padre a bussare alla porta di casa Tramonte e dare la notizia alla moglie: «Hanno ammazzato vostro marito su un camion», le dice. «Mia madre è rimasta scioccata, incredula e senza parole». Poi le lacrime, la disperazione e la ricerca del coraggio per parlare con le figlie. «Sono rimasta di ghiaccio», aggiunge. Poi ricorda «la confusione, l’arrivo di una vicina di casa, poi un gran viavai di tantissime persone: abitavamo in quel quartiere da una vita, non ci riusciva a credere nessuno». Anche a casa Cristiano è così. «Il padre e il fratello pensano a uno scherzo di cattivo gusto: cosa c’entra Pasquale con quelle cose?».

    Appunto. Ci pensa spesso Stefania: «Erano due puri: sono stati due martiri». Dalla memoria riaffiora un ricordo: «Un giorno mio padre racconta che un collega si è fatto male a una mano e rischia di perdere un dito – dice – non dimentico la paura che provai pensando che potesse accadere a lui. Figuriamoci una morte così». Un omicidio non è mai giustificabile, ma ci sono delle circostanze in cui è più facile immaginare che possa capitare. «Me lo ha detto anche il figlio di un poliziotto: lui aveva paura quando suo padre usciva di casa con la pistola. Mio padre invece aveva in mano una scopa».

     

    Era mio padre

    «Non se lo meritava, papà – dice Stefania – E poi era una bella persona, era un giocherellone, aveva l’animo di un bambino, e infatti tutti i bambini erano innamorati di lui». Racconta i giri sull’Ape a tre ruote con i nipoti, i picnic improvvisati in montagna: «Era divertente, lo ricordano tutti così. Mi sento fortunata ad avere ereditato questo tratto». Era anche affettuoso con le sue figlie e la moglie Angela: «La baciava sempre. Eravamo una famiglia umile, però felice, soprattutto delle piccole cose. Siamo ancora così». Forse perché cercano di non smarrire il ricordo di Francesco: «Con Maria condividiamo gli stessi ricordi, Antonella invece era troppo piccola, non ha memoria di quegli anni, è una cosa che mi fa soffrire. Però parliamo sempre di lui, anche per i miei figli è una presenza viva».

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    Francesco Tramonte con la sua famiglia

    Lo shock e il dolore sono enormi, ma bisogna andare avanti. Angela si rimbocca le maniche: «Abbiamo avuto solo lei come punto di riferimento, s’è dedicata completamente a noi. Avrebbe potuto fare la bidella, ma non ha voluto privarci anche della sua presenza. Abbiamo vissuto con la pensione di mio padre: ha fatto la scelta giusta, è stata una madre straordinaria». La loro vita è cambiata per sempre, «ma ce l’abbiamo fatta». Anche perché, lo sottolinea spesso Stefania, «mi sono sempre sentita amata, dai miei compagni di scuola di allora, dai miei amici, dalla mia famiglia, dalle persone comuni: sono sempre stati tutti molto comprensivi, attenti, vicini».

    Tramonte e Cristiano, morti che riguardano tutti

    D’altra parte, le cittadine e i cittadini di Lamezia hanno condiviso anche la rabbia e la paura con le famiglie di Tramonte e Cristiano: «Da quel giorno si sono sentiti in pericolo: hanno pensato che se avevano ucciso degli innocenti in quel modo sarebbe potuta toccare a chiunque».

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    Pasquale Cristiano

    Lamezia si sente vulnerabile, cerca una spiegazione. Anche gli investigatori si interrogano. Perché quella notte? Perché Tramonte e Cristiano? E perché con quelle modalità?
    Lo scenario che si va via definendo è sconvolgente. Cristiano e Tramonte non erano un obiettivo, sono rimasti vittime della necessità dei boss di compiere un gesto dimostrativo per affermare che i rifiuti sono affar loro: poteva esserci chiunque su quel camion. In altri termini, Lamezia scopre che si può morire così, senza motivo. Anche per questo migliaia di cittadini sfilano per le vie della città.

    L’illusione delle indagini

    Le indagini intanto sembrano procedere speditamente. «I giornali scrivevano che c’era un testimone, che la pista era quella giusta», ricorda Stefania amareggiata. E un testimone, in effetti, c’è. Bonaddio, l’autista del camion, è impaurito ma fornisce un identikit del killer. Per gli investigatori è Agostino Isabella, di Sambiase, considerato vicino alle cosche. Bonaddio lo riconosce e, nel giro di poche ore, il caso sembra chiuso. Finché l’autista di fronte a un nuovo riconoscimento esita e tra le quattro persone dietro il vetro ne indica due diverse: uno è Agostino Isabella, l’altro il fratello che gli somiglia molto. «Che devo dire? – commenta Stefania – Certo, con Bonaddio ci siamo conosciuti e abbiamo sperato nella sua testimonianza, ma non ne abbiamo mai parlato: ogni tanto ci incontriamo, ma non abbiamo nessun rapporto».

    La Corte d’appello di Catanzaro

    La verità però è che «tutta l’indagine non è stata fatta bene, diciamo che sono stati commessi troppi errori». Isabella l’11 maggio 1992 viene comunque mandato a processo ma la Corte d’Assise di Catanzaro lo assolve il 19 giugno 1993 per non aver commesso il fatto. Le motivazioni descrivono però un omicidio di ’ndrangheta maturato nella lotta tra clan per “assicurarsi l’appalto del servizio di nettezza urbana”, che fino ad allora “era stato conferito con dubbia legalità e con dispendio sproporzionato di pubblico denaro a imprese non immuni da sospetti di contiguità al mondo mafioso”.

    Un messaggio bestiale per Lamezia

    E c’è di più: “Il barbaro eccidio – scrivono i giudici – volle essere un significativo messaggio, tanto più efficace quanto più permeato da bestiale efferatezza, rivolto a tutti, pubblici e privati operatori; un messaggio che preannunziava nuovi equilibri mafiosi e dei quali non poteva non tenersi conto nello spendere i miliardi della nettezza urbana”. Tutto questo in un quadro di esternalizzazione (dal 1988), nonostante il Comune fosse “in grado di attivare in proprio il servizio”. Insomma, è stato un atto di terrorismo mafioso per regolare gli affari nel settore dei rifiuti in una città piegata e in crisi (il 20 settembre 1991 ci sarà lo scioglimento per mafia del consiglio comunale, il 1992 si aprirà con il duplice omicidio del sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano).

    Nel 1993 si aprirsi una nuova stagione: quella del vescovo Vincenzo Rimedio e della sindaca Doris Lo Moro – eletta anche grazie ai voti di Vincenzo Cristiano, il papà di Pasquale, che decide di candidarsi – durante la quale il Comune organizza una commemorazione ogni 24 maggio. Nel 2000 Vincenzo Cristiano muore, l’anno successivo il centrosinistra frana alle elezioni e inizia un periodo di lenta rimozione della storia dei due netturbini. Fino all’elezione a sindaco nel 2005 di Gianni Speranza che riaccende una luce su Tramonte e Cristiano. Tuttavia qualcosa nella memoria deve essersi inceppato se Stefania – il 7 dicembre 2006 – avvia una piccola grande rivoluzione personale. “Conservo ancora il ritaglio del giornale di quel giorno”, rivela.

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    Il ritaglio conservato da Stefania Tramonte

    La svolta di Stefania Tramonte

    In un teatro cittadino viene organizzata la presentazione di un libro a cui partecipano, tra gli altri, il sindaco Speranza, Maria Grazia Laganà, la moglie del vicepresidente del consiglio regionale Franco Fortugno ucciso l’anno prima, e il presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione. Quando l’incontro sta per terminare dal palco chiedono se qualcuno tra il pubblico ha delle domande. Si alza una ragazza, le tremano le gambe, ha la voce incerta: «Sono la figlia di una vittima della ‘ndrangheta, vorrei sapere chi ha ucciso mio padre». Cala il gelo nella sala. «Vorrei sapere se ci sono indagini in corso».

    È Stefania Tramonte. «Non avevo mai parlato di mio padre in pubblico fino a quel giorno – ricorda oggi che invece è diventata la voce della famiglia – mi faceva troppo male. Ho sentito una forza dietro le spalle che mi spingeva. Dovevo farlo, da troppo tempo era tutto insabbiato». Le viene quasi da sorridere: «Ho parlato due secondi – parla di sé con tenerezza – perché poi mi sono messa a piangere». Prendono la parola alcuni studenti, ma dalla sala cresce la protesta: datele una risposta. L’inchiesta è arenata, non ci sono novità. Tocca a Speranza lanciare un appello (l’ultimo lo scorso anno lo ha promosso il festival Trame): riaprire le indagini! Tutta la città ha bisogno di conoscere una verità sinora impossibile visto che non s’è celebrato neppure il processo d’appello. Il pubblico ministero ha presentato l’appello in ritardo e la sentenza di assoluzione è divenuta esecutiva il 18 luglio 1996.

    Gazzetta del Sud, 15 maggio 2016, in occasione dei 25 anni del duplice delitto

    «Non so se era tutto programmato – afferma sconsolata – ma mi dispiace non avere mai avuto l’occasione di chiedere una spiegazione al pm Luciano D’Agostino. Ma all’epoca cosa avrei dovuto fare? Non conoscevamo le procedure. Oggi cosa posso dire? Alcune indagini sulla massoneria su certi magistrati mi fanno riflettere». Ma non prova «odio né rabbia, e ne sono fiera. Vedere in carcere gli assassini non mi darebbe pace. Tanto il vero ergastolo lo stiamo vivendo noi, con un dolore che durerà tutta la vita, e niente potrà restituirmi mio padre. Ma è giusto conoscere la verità».

    Dopo 31 anni

    Sono trascorsi 31 anni da quella dannata notte e non è stato facile. «Devo dire grazie a mio marito, che ha accettato la tristezza, le lacrime, il panico quando era tutto difficile. Ma da qualche tempo le cose vanno meglio: sono mamma, so che devo stare bene per i miei figli. E poi è giusto per me». L’aiuta anche avere incontrato sulla sua strada la famiglia Cristiano, forse perché lo considera un po’ un lascito di suo padre.

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    Maria Tramonte, Antonio Cristiano e la piccola Francesca

    «Un giorno mia madre con la macchina urta e danneggia il gradino davanti a una casa. Ci fermiamo e lasciamo un biglietto per dire al proprietario che siamo disponibili a rimborsare i danni. Era la casa di Rosa e Vincenzo, i genitori di Pasquale Cristiano. Non lo sapevamo. È stato il primo di una serie di segnali che ci hanno fatto percepire per sempre la presenza di papà e Pasquale». Di certo non il più sorprendente: «Mia sorella Maria – rivela – ha sposato il fratello di Pasquale. Si sono conosciuti al cimitero e si sono innamorati. La loro bambina si chiama Francesca, come papà». È stato importante questo accompagnarsi reciprocamente tra le famiglie di Francesco e Pasquale. «Ma papà mi manca, sempre. Vorrei abbracciarlo, vorrei stringere quel corpicino fragile che è stato bombardato da quei colpi di fucile. Bombardato. Non se lo meritava, nessuno se lo merita». Nessuno.

  • MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    Le spiagge di Cartagena, città caraibica sulla costa nord della Colombia, in queste settimane sono invase dal sole e dai colori. Cartagena non è solo una bellissima città, dove il giallo-oro ispanico-coloniale si mischia perfettamente al rosso, verde e blu di cibo, vestiario e vita di strada. È anche una città la cui posizione geografica ha sempre attirato molto turismo e reso il territorio un importante hub commerciale, grazie anche al porto, il più importante dei Caraibi.

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    Il magistrato paraguayano Marcelo Pecci con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera

    Marcelo Pecci ucciso in luna di miele a Cartagena

    L’isola di Barù a poche miglia da Cartagena è stata l’ultima meta turistica del procuratore paraguayano Marcelo Pecci, ucciso il 10 maggio 2022 a colpi di pistola da individui su una moto d’acqua venuta dal mare, mentre era sulla spiaggia con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera. I due, appena sposati e in luna di miele, avevano appena annunciato sui social di aspettare il loro primo figlio, cosa che ha reso questo omicidio, se possibile, ancora più tragico.

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    Il procuratore Marcelo Pecci e la moglie: le scarpette del bambino che il giudice non potrà conoscere

    Marcelo Daniel Pecci Albertini aveva 45 anni e aveva dedicato gli ultimi anni della sua professione alla lotta al narcotraffico e al crimine organizzato, anche nelle sue manifestazioni terroristiche, tra Paraguay, Colombia, Bolivia e il resto dell’America Latina. “A Ultranza Py“, l’operazione anti-droga e antiriciclaggio che lo aveva coinvolto in prima linea insieme alla Drug Enforcement Administration – la DEA americana – colleghi uruguayani e forze di polizia di Europol, aveva portato, solo un paio di mesi fa, il presidente del Paraguay Mario Abdo Benítez a chiedere le dimissioni di due ministri, per il loro coinvolgimento con dei narcotrafficanti tra Brasile e Paraguay.

    Le vie della coca: Paraguay e ‘ndrangheta

    L’operazione, infatti, si concentra sul ruolo che il Paraguay ha assunto nel panorama del narcotraffico da Bolivia e Colombia verso l’Europa sfruttando i container, la logistica e i network brasiliani da un lato, e i porti, la rete di distribuzione e la disponibilità di capitali in nord Europa. Che il Paraguay sia diventato un paese chiave per comprendere il traffico di cocaina dai paesi produttori, non è una novità.

    L’indice globale sulla criminalità organizzata redatto dall’Ong The Global Initiative Against Transnational Organized Crime nota come in Paraguay sia non solo aumentata la capacità di lavorare la coca, dunque diventando una tappa importante della catena di produzione, quanto sia anche aumentata la presenza – proprio per questo – di gruppi brasiliani sul territorio, come ad esempio il PCC – Primeiro Comando da Capital – temuta organizzazione criminale che da anni – si dice – essere in combutta con i peggiori (o migliori, dipende dai punti di vista) ‘ndranghetisti. Dal Brasile infatti, ‘ndranghetisti importatori di stupefacenti, hanno da lungo tempo stabilizzato una delle rotte più importanti dell’approvvigionamento di cocaina verso l’Europa.

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    Il Paraguay è una tappa fondamentale della catena di produzione e commercializzazione della cocaina

    Colletti bianchi in Sud America

    Questo lo sapevo sicuramente Marcelo Pecci, che infatti proprio a dicembre 2021 si era recato a Buenos Aires a incontrare l’esperto per la sicurezza italiana stazionato in Sud America. Avevano discusso anche di ‘ndrangheta, come ricorda proprio un suo tweet. In un’intervista rilasciata sotto Natale a La Nacion, il procuratore parlava molto lucidamente della presenza della mafia calabrese in Paraguay e avvertiva che membri di questa organizzazione nel suo paese «sono persone con preparazione accademica e senza precedenti penali», le cui attività commerciali «vanno da ristoranti a hotel, il tutto con un sistema di comunicazione attento e cifrato»; i soliti fixer in colletto bianco. Marcelo Pecci notava come ci fossero cittadini italiani indagati, ma come ciò non significasse che venissero necessariamente considerati parte dell’organizzazione.

    La ‘ndrangheta dietro la morte di Marcelo Pecci?

    Il procuratore paraguayano aveva compreso bene, dunque, che la ‘ndrangheta d’oltremare è una criminalità affarista, che si protegge spesso con la legge – nei gangli della società – e non dalla legge – come spesso fanno i gruppi di narcotrafficanti, con armi, forza bruta e terrore. Nonostante la chiarezza delle analisi di Pecci (decisamente più bilanciate di tante disamine italiane sull’argomento della ‘ndrangheta all’estero), e sicuramente complice lo shock della notizia del suo omicidio, è subito stata paventata, da alcuni canali di informazione italiani e non solo, l’ipotesi che dietro questo atto efferato ci fosse proprio la ‘ndrangheta. Non a caso si parla, in Italia, dell’ombra della mafia calabrese tra i possibili mandanti del crimine.

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    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Marcelo Pecci diventa pm antimafia

    A sostegno di questa tesi, sposata anche da canali spagnoli, proprio quelle indagini discusse da Pecci nel dicembre 2021, e alcuni arresti che ne sono seguiti. Non mancano riferimenti alla sua discendenza italiana. Tra i giornali italiani si intervistano magistrati, da Gratteri a Ingroia, perché speculino (ché di pura speculazione si tratta) su queste voci e in generale ché parlino dei rischi di chi è esposto in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Non a caso poi Pecci, il cui ruolo ufficiale era ‘Fiscal Especializado contra el Crimen Organizado’, diventa nelle news italiane ma anche straniere “pm antimafia”. Perché quando si tratta di morire per mano di gruppi organizzati dediti, tra le altre cose, al narcotraffico e al riciclaggio, siamo noi – italiani, o meglio siciliani e calabresi – a saperne di più, nel bene e nel male.

    In quest’ottica la corsa a far commentare la notizia dai procuratori nostrani non è di per sé cosa stranissima: Gratteri ammette di non averlo conosciuto di persona e si concentra sui metodi “mafiosi” utilizzati. Vista la nota efferatezza dei narcos, Ingroia si chiede come mai non fosse protetto. Altri commentatori poi dicono che «è perfettamente possibile» che ci sia la ‘ndrangheta dietro all’omicidio.

    L’ex magistrato siciliano Antonio Ingroia

    Perché potrebbe non essere un omicidio di ‘ndrangheta

    Sarà anche perfettamente possibile ma è veramente improbabile per almeno tre ragioni con la natura del crimine organizzato di cui si occupava il procuratore Pecci. Primo, quei narcos efferati, come li definisce Ingroia, come già detto scelgono lo scontro diretto con lo Stato perché il loro potere si fonda – tra le altre cose – sulla paura (e non solo sul consenso) e sulla sopraffazione violenta di qualunque competitore: i loro mezzi sono pertanto molto più violenti che in altre parti del mondo e soprattutto impiegati senza necessariamente che ci siano delibere dall’alto del gruppo criminale, spesso molto più fluido nell’organizzazione.

    Questione di metodo

    Secondo, se si va a guardare quel metodo mafioso di cui parla anche Gratteri, non può non notarsi che se il metodo terrorista-brutale è stato certamente usato dalle nostre mafie (cade questa settimana proprio il trentennale del morte di Giovanni Falcone), la ‘ndrangheta è stata molto più parsimoniosa di questo strumento soprattutto per “esterni” all’organizzazione. Bisognerebbe poi capire di “quale” ‘ndrangheta staremmo poi parlando, perché – come ci ha ricordato Pecci – in America Latina – soprattutto Paraguay, Brasile e Colombia – non sembra esserci capacità decisionale dell’organizzazione calabrese a questi livelli – quindi il massimo ipotizzabile è una partecipazione secondaria degli ‘ndranghetisti a una vicenda del genere.

    Terzo, infine, non dimentichiamo poi che un omicidio a migliaia di chilometri di distanza, in territorio altrui non è organizzabile in poche settimane (come in questo caso sarebbe successo se davvero l’operazione A Ultranza Py fosse la ragione scatenante) perché richiede contatti locali e supporto in caso seguano indagini dal carattere imponente; un’organizzazione cauta e sotto-esposta come la ‘ndrangheta dovrebbe, a rigor di logica, vedere un omicidio del genere come un’attività molto rischiosa e poco utile.

    Orgoglio e pregiudizio

    Detto questo, come mai si vuole tirare dentro per forza in questa vicenda la ‘ndrangheta, come mandante, o anche solo i metodi mafiosi? Da una parte perché la nostra concezione della mafia, come anche dell’antimafia, è etnocentrica e relativista: cioè, in molti magari pensano che la mafia, e dunque anche la ‘ndrangheta, siano non solo archetipo ma anche prototipo del crimine organizzato nel mondo. Così non è, le mafie sono in realtà tra le forme di crimine organizzato meno diffuse sul pianeta, senza volerne negare diffusione o pericolosità ovviamente.

    Inoltre, soffriamo in Italia – e ultimamente anche in Calabria – di orgoglio negativo nei confronti della mafia e della ‘ndrangheta. Il paese, l’Italia, che ha l’antimafia più forte del mondo (così va il noto adagio) – orgoglio positivo – ha anche le mafie più forti del mondo – orgoglio negativo. Così forti che diventa possibile, anche quando altamente improbabile, che siano i mandanti di un omicidio come quello di Marcelo Pecci.

    Conferenza stampa della Polizia colombiana dopo i 17 arresti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del procuratore Pecci

    Le indagini: 17 arresti e la pista che porta al clan Rocha

    Le indagini vanno avanti: ci sono stati almeno 17 arresti di individui di varie nazionalità in Colombia. Le piste sono concentrate, al momento, sul clan Rocha, un gruppo criminale su cui Marcelo Pecci indagava, legato al Primeiro Comando da Capital (PCC) brasiliano e dedito al traffico di stupefacenti da Bolivia, Perù e Colombia verso Stati Uniti, Africa ed Europa. Mentre ci auguriamo che si faccia presto chiarezza, oltre ogni ragionevole dubbio, su mandanti ed esecutori, e si riflette sul come si possano evitare in futuro altri atti così tragici, qui da noi sarebbe auspicabile mettere da parte il protagonismo, soprattutto quello negativo.