Tag: ‘ndrangheta

  • Nicola Gratteri racconta le origini del male

    Nicola Gratteri racconta le origini del male

    La prima puntata di Lezioni di mafie, il programma condotto da Nicola Gratteri su La7, andata in onda il 17 settembre 2025, ci riporta alle radici antropologiche di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo quale la ‘ndrangheta calabrese. Attraverso il dialogo tra Gratteri, lo storico Antonio Nicaso e il giornalista Paolo Di Giannantonio, il programma è stato un interessante resoconto giudiziario, che si apre a un viaggio profondo nella psiche collettiva di una terra aspra, dove l’ombra della mafia coesiste con l’essenza stessa della cultura umana.

    Come aspirante antropologo, vedo in questa narrazione un’opportunità unica per decifrare il crimine, quel tessuto sociale che lo ha generato e nutrito, trasformandolo da fenomeno locale in impero transnazionale.
    La ‘ndrangheta emerge come un sistema rituale e simbolico che riecheggia le strutture tribali antiche del Mediterraneo meridionale. Nata sulle montagne della Calabria – come Gratteri evoca con passione, ricordando la sua infanzia a Gerace, un paese isolato tra rocce e silenzi – questa organizzazione è mera delinquenza economica, ma anche una vera e propria “religione profana” del potere.

    Riti e iniziazioni, tra sacro e sciamanesimo

    I riti di affiliazione, descritti nel programma con dovizia di dettagli storici da Nicaso, richiamano le iniziazioni sciamaniche o le società segrete delle culture preindustriali: giuramenti su sangue e croci, gerarchie basate su vincoli familiari e codici d’onore che trascendono la legge statale. Questi elementi non sono casuali: sono radicati in un’antropologia della sopravvivenza.

    La Calabria, con il suo terreno impervio e la storia di emigrazioni forzate, ha forgiato comunità dove il clan familiare – la ‘ndrina – funge da rete di protezione contro lo Stato assente e le carestie storiche. Come osserva l’antropologo Edward Banfield nel suo classico Le basi morali di una società arretrata (1958), in tali contesti il “familismo amorale” diventa norma: la lealtà al sangue prevale sull’interesse collettivo, permettendo alla ‘ndrangheta di evolvere da bande di briganti ottocenteschi a holding globali.

    Dalle antiche montagne, alla conquista del resto del mondo

    Dalle montagne più dure verso i cinque continenti

    Il programma illumina brillantemente questa metamorfosi antropologica. Partendo dai villaggi montani – luoghi di isolamento che favoriscono la coesione endogamica e il sospetto verso l’esterno – Gratteri e Nicaso tracciano il percorso della ‘ndrangheta verso i cinque continenti. Espansione economica, attraverso il traffico di cocaina o l’infiltrazione in finanza e politica, adattamento culturale darwiniano. La mafia calabrese, a differenza della più spettacolare Cosa Nostra siciliana, opera nel silenzio, un’etica del “non detto” che riflette il codice dell’omertà come meccanismo di difesa comunitario.

    Eppure, qui emerge il dramma umano: l’infiltrazione silenziosa nelle istituzioni legali corrompe il capitale sociale, trasformando reti di solidarietà in catene di dipendenza. Pensiamo alle storie di resistenza raccontate nella puntata – imprenditori e cittadini che “dicono no” – come esempi di agency antropologica, di individui che rompono il ciclo culturale del conformismo mafioso per rivendicare un’identità autonoma.

    Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. La loro collaborazione è iniziata molti anni fa

    Magistrato e antropologo

    Ma ciò che rende Lezioni di mafie un gioiello non è solo l’analisi storica, bensì il suo invito a una riflessione etica profonda. Gratteri, con la sua voce rotta dall’esperienza di una vita sotto scorta, incarna l’antropologo militante: un insider che decostruisce la cultura mafiosa dall’interno, mostrando come essa sfrutti le vulnerabilità umane – paura, povertà, senso di appartenenza – per perpetuarsi. In un mondo globalizzato, dove la ‘ndrangheta usa il dark web e le criptovalute (temi accennati come anticipazione delle puntate successive), questa mafia diventa metafora di un’antropologia post-moderna, ibrida, fluida, capace di mimetizzarsi nelle economie legali. Eppure, il programma ci ricorda che le radici rimangono in Calabria, dove il paesaggio montano è sfondo, ma anche agente culturale che modella l’identità, la lotta alla mafia è una battaglia per reclamare l’umanità collettiva.

  • Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
    Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.

    Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
    Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.

    Come sta andando?

    «Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».

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    La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico

    In che senso?

    «Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».

    Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?

    «Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commedia Final Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».

    Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…

    «E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».

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    Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria

    Una lettera scarlatta?

    «Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».

    Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…

    «Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».

    Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.

    «L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».

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    Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro

    Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.

    «A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».

    Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.

    «Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».

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    Rocco Carbone

    Ossia?

    «Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».

    Che Calabria racconta Vins Gallico?

    «Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.

    Corrado Alvaro

    In che senso?

    «Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».

    Questa speranza è finita?

    «Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».

    Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?

    Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».

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    Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria

    Cos’altro bolle in pentola?

    «Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascolto promosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».

  • Rom, malavita e non solo: in manette Patrizio Bevilacqua

    Rom, malavita e non solo: in manette Patrizio Bevilacqua

    L’arresto di Patrizio Bevilacqua lo scorso sabato notte rappresenta un nuovo capitolo nelle vicende della criminalità legata ai clan rom di Reggio Calabria. L’uomo aveva già riportato una condanna per estorsione in relazione al caso Ventura. Stavolta lo hanno fermato mentre trasportava su un’Audi di sua proprietà un ingente quantitativo di stupefacenti assieme a dei bilancini di precisione.
    Il tutto avviene a qualche giorno dalla conferenza stampa sull’operazione Garden contro la ‘ndrangheta reggina dello scorso 14 novembre. A condurla, la Guardia di Finanza del Comando provinciale di Reggio Calabria col coordinamento della Procura distrettuale antimafia diretta da Giovanni Bombardieri.

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    Il procuratore Giovanni Bombardieri

    Il do ut des tra i rom e la ‘ndrangheta

    L’indagine, che colpisce le attività delle cosche Borghetto-Latella e ha portato alle misure cautelari per 27 persone, conferma le ipotesi tracciate nell’inchiesta de I Calabresi sul nuovo ruolo dei clan rom all’interno della ‘ndrangheta.
    Secondo gli inquirenti, i rom dei quartieri Modena-Ciccarello e Arghillà sarebbero ormai organici alla criminalità reggina nell’organizzazione dello spaccio di stupefacenti, di traffico di armi, estorsioni e usura, in continuità con le vicende che riguardano anche altre aree della Calabria, come la Piana di Gioia Tauro, la Sibaritide, il Lametino.
    In particolare i rom avrebbero fornito le armi da guerra trovate dalla Finanza. In cambio avrebbero ottenuto l’autorizzazione a esercitare i crimini in modo libero e autonomo. Potrebbero, infatti, contare su «un’organizzazione autonoma con all’attivo decine e decine di persone, soprattutto giovanissimi», hanno affermato alcune fonti investigative.

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    Una veduta del quartiere Arghillà

    Patrizio Bevilacqua e i guai a casa Ventura

    Si tratta di due vicende che seguono a un altro segnale inquietante: l’attentato intimidatorio dello scorso 24 ottobre alla famiglia Ventura. Ignoti, appropinquandosi all’abitazione dei Ventura, hanno esploso cinque colpi armi da fuoco contro la loro auto. Tutto ciò nonostante la Prefettura di Reggio Calabria avesse messo Francesco Ventura sotto tutela.
    L’episodio è avvenuto dopo l’uscita di diversi articoli sul tema e a margine di un’ulteriore condanna riportata da Patrizio Bevilacqua per violazione dei sigilli.
Osservando le immagini dell’attentato registrate dalle telecamere a circuito chiuso posizionate fuori dall’abitazione la mente torna gli anni Ottanta, quando a Reggio si sparava e vigeva una sorta di coprifuoco non dichiarato.

    Patrizio Bevilacqua, la politica e i Ventura

    Estorsione, trasporto e spaccio di stupefacenti, minacce: questi i segmenti di un filo che legherebbe Bevilacqua a logiche e azioni che vanno ben oltre la bassa manovalanza criminale per saldarsi al racket delle case popolari e alle nuove piazze di spaccio sotto il controllo dei clan rom.
    In merito al tema delle case popolari, la ricostruzione pubblicata da I Calabresi dopo l’analisi dei verbali di alcune commissioni consiliari del Comune di Reggio tratteggiava una situazione opaca e caotica. L’avevano denunciata sia l’allora dirigente del settore, l’avvocata Fedora Squillaci, sia l’ex delegato al patrimonio edilizio Giovanni Minniti.
    Si va avanti così da diversi anni, senza trovare soluzione. E senza che, alla luce delle nuove notizie, la politica abbia speso una parola o un gesto di solidarietà verso i Ventura che da anni, anche alla luce delle risultanze delle loro audizioni in quelle stesse commissioni, denunciano una condizione di illegalità diffusa e perdurante.

    Che diranno Ripepi e Lamberti?

    Le domande (e le risposte) che una politica usualmente prodiga di dichiarazioni – ma in questo caso muta – non può più ignorare sono di due ordini.

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    Massimo Ripepi

    Il primo riguarda quali provvedimenti si vogliono prendere per diradare la cortina di nebbia che regna sul settore dell’edilizia popolare del Comune di Reggio.
    Il secondo concerne la posizione che Massimo Ripepi ed Eduardo Lamberti Castronuovo assumeranno nei confronti di Bevilacqua. Quest’ultimo con Ripepi è stato candidato al Consiglio Comunale. Con Lamberti, invece, intratterrebbe rapporti di lavoro tali da avere a disposizione, per stessa ammissione di Lamberti, le chiavi di casa sua.

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    Eduardo Lamberti Castronuovo

    Entrambi i politici reggini hanno già da tempo lanciato la propria campagna elettorale per le prossime amministrative come papabili candidati sindaco.
    In attesa di ulteriori sviluppi dei filoni d’indagine, non guasterebbe una presa di posizione da parte dei due.

  • MAFIOSFERA| Hydra a Milano: il futuro della collaborazione criminale è già qui?

    MAFIOSFERA| Hydra a Milano: il futuro della collaborazione criminale è già qui?

    Il 25 ottobre 2023, a Milano, sono state arrestate 11 persone. A quanto pare le richieste d’arresto riguardavano 153 indagati. Una problematica lettura da parte del GIP sulla situazione mafiosa (anche quella giudizialmente accertata) in Lombardia, che ha subito portato la procura a un ricorso al tribunale del riesame.

    I soggetti sotto indagine sono presunti affiliati a doppio laccio con organizzazioni di stampo mafioso calabresi, siciliane, romane e campane. Tutte “unificate” in un sistema di tipo confederativo tipico della città di Milano.
    Si tratta di un’indagine di quasi tre anni. La Dda di Milano, che l’ha istruita, le ha dato il nome di “Hydra”, evocando quello del mostro mitologico a più teste. Ad occuparsene è la pm Alessandra Cerreti, con il coordinamento della procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola.

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    Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano, durante un incontro pubblico

    Milano, Varese e le tante teste dell’Hydra

    L’indagine, come spesso accade, aveva preso le mosse dall’osservazione degli assetti criminali dopo una precedente azione investigativa. Si trattava di osservare il locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo (VA) in seguito al blitz del 2019 “Krimisa” e alla collaborazione intrapresa da alcuni affiliati del clan, siciliani.

    Dall’osservazione degli assetti di ‘ndrangheta a Lonate Pozzolo tra il clan Farao-Marincola di Cirò, la ‘ndrina Iamonte legata al locale di Desio e a Melito Porto Salvo, e il clan Romeo-Staccu, di San Luca, l’indagine ha poi fotografato una serie di interazioni, ripetute e sistemiche, molto oltre la ‘ndrangheta. Di fatto comprendevano gruppi a composizione diversa: alcuni legati a cosche siciliane, da Palermo a Castelvetrano, altre a gruppi campano-romani. Il tutto riunito in quello che appare un consorzio, un sistema federato lombardo.

    Tutti sullo stesso livello

    Si legge nelle carte d’accusa di come si sia in presenza di «una imponente e capillarmente strutturata associazione mafiosa, operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, costituita da appartenenti alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, avente struttura confederativa orizzontale, nell’ambito della quale, i vertici di ciascuna delle tre componenti mafiose operano sullo stesso livello, contribuendo alla realizzazione di un sistema mafioso lombardo».

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    Le ramificazioni delle società finite nell’indagine Hydra

    Gli inquirenti hanno monitorato riunioni cui partecipavano rappresentanti di ogni gruppo. Gli obiettivi erano di vario livello: estorsione, truffa, riciclaggio, detenzioni di armi, traffico e distribuzione di stupefacenti, ma anche gestione di società di capitali per l’importazione di acciaio e ferro, o gasolio, investimenti per lucrare sull’Ecobonus, sui contratti durante il Covid (per Dpi e sanificazioni), sull’Ortomercato, su parcheggi di ospedali e varie altre attività inclusa la prossimità politica con parlamentari, sindaci ed altri esponenti regionali dei vari partiti.

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    Una delle riunioni monitorate dagli inquirenti

    I soldi “lombardi” restano in Lombardia

    Il sistema è ben oliato, come dice Gioacchino Amico durante una “riunione” a Dairago nel gennaio 2021, sottoposta a intercettazione ambientale: «Noi abbiamo in cassa a maggio… cash… per questo dobbiamo spendere (…) acquisteremo tutte le cose che ci va a costare, asse non asse… costruiremo tutto… sempre dove con i proventi di Milano, Milano… con i proventi di Roma, Roma… con i proventi di Calabria, Calabria… con i proventi di Sicilia, Sicilia…certo così noi sul territorio non abbiamo discordanze…(…) Non hai discordanze… è giusto è corretto non è che tu puoi prendere i soldi da Milano e te ne vai in Sicilia… (…) questi qua li devono pagare a meabbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano…passando dalla Calabria da Napoli ovunque…»

    Milano dagli anni ’80 a Hydra

    Il “sistema Milano” di Hydra, pertanto, è presentato come autonomo per quanto partecipato. Questo non è certo motivo di sorpresa né di novità nel contesto lombardo, anzi.
    Da anni ormai non solo esiste “mafia” in Lombardia, ma questa mafia, che sia di matrice siciliana o calabrese, è altamente intimidatoria e soprattutto altamente specializzata. Lo dovremmo ricordare dai tempi di Antonio Papalia, capobastone aspromontano trapiantato a Nord, a capo della cosiddetta camera di controllo lombarda. Era un organismo decisionale che andava oltre la ‘ndrangheta a Milano e provincia, già a metà degli anni Ottanta, decenni prima di Hydra.

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    Il duomo di Milano, capitale degli affari della ‘ndrangheta

    Oltre alla geografia delle riunioni mafiose e alle attività dei singoli gruppi, la novità di Hydra sta nell’impianto giudiziario, che vede – forse per la prima volta – fotografata non solo la collaborazione tra i gruppi, ma la divisione di risorse e responsabilità tra cosche siciliani, calabresi, campane e romane a Milano e dintorni.
    Insomma, appare chiaro che il pubblico ministero voglia guardare al fenomeno dall’alto, con una cosiddetta helycopter view – una visione dall’elicottero – che vada oltre l’analisi della collaborazione, ma si concentri sulla sistematicità dei rapporti e sugli elementi di novità che questa sistematicità implica.

    Le implicazioni dell’indagine

    Ed eccoci quindi già a soppesare le implicazioni di questa indagine, nonostante sia ancora molto presto per definire i contorni delle responsabilità penali dei singoli individui. Implicazioni prettamente analitiche non seguono infatti lo stesso corso delle implicazioni giuridiche.

    1. Appare acclarato da indagini pregresse e da una storia (non solo giudiziaria) ormai di mezzo secolo che le organizzazioni criminali in Lombardia collaborino. E che lo facciano come organizzazioni prettamente mafiose, cioè per interessi sia di profitto che di potere.
      Esiste sostanzialmente un gruppo ibrido e misto. Però – ed è questa la novità paventata da Hydra – assume forme terze, autonome, sicuramente legate alle case madri ma di fatto con connotati diversi. Si costituisce quindi una morfologia mafiosa tutta locale.
      Questo non dovrebbe sorprendere in un paese in cui ogni mafia assomiglia al suo territorio, socialmente quanto culturalmente. Questo poi è esattamente quello che succede altrove, incluso l’estero: le organizzazioni criminali sono tenute insieme da affinità e contesto e non da patti aprioristici e di fatto non sempre convenienti.

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      Il tribunale di Milano
    2. Sembra avventato sostenere che il gruppo ibrido e misto – il sistema mafia lombardo – non possa disporre di un suo apporto intimidatorio proprio, come il GIP avrebbe sostenuto. Infatti, laddove sembra confermarsi l’esistenza dei singoli gruppi – raggruppati per “mafia” d’origine e come tali giudicati – e dunque la loro capacità intimidatoria, si potrebbe sostenere che queste capacità intimidatorie distinte si cumulino per un processo narrativo e costituiscano la forza intimidatoria del sistema mafioso in generale. E dunque, la riconoscibilità e la reputazione dei singoli affiliati come appartenenti a un sistema mafioso unico seguirebbe all’affermazione della loro capacità intimidatoria.
      In questo senso l’esistenza di una cassa comune di supporto ai carcerati, caratteristica tipica dell’associazione mafiosa, rappresenta altro tassello di tale riconoscimento esterno quanto interno.

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      Detenuti a Milano

      Dirà un presunto sodale che i pagamenti ai carcerati vengono prima dei pagamenti ai sodali, siano essi calabresi, siciliani o napoletani.
      «I soldi servono per i carcerati (…) Stoppiamo tutti i pagamenti! per tutti! – Mandiamo un pensiero per i carcerati! Quello che tu riesci a fare, dopo qui! è la cosa principale, i carcerati…! – i carcerati devono essere i primi a fare. Poi che siamo ad attaccarci i calabresi, o i napoletani o i siciliani, i carcerati vanno mantenuti prima di ogni altra cosa a questo mondo!».

    3. Il punto forse più interessante di questa storia è proprio il modo in cui si parla delle organizzazioni mafiose “siciliane”, “calabresi”, “campane” o “napoletane”.
      Qui il caso Milano e Hydra – come d’altronde è avvenuto anche in passato – sono forieri di preziosi spunti per gli studi sulla mobilità mafiosa.
      Ciò che vediamo della criminalità organizzata (mafiosa) a Milano finiamo poi, storicamente, per vederlo altrove in Italia e all’estero.

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      Una scritta contro i meridionali nel Nord Italia

      Il passaggio non è indifferente: dire i calabresi o i siciliani o i campani per indicare gli ‘ndranghetisti, i mafiosi o i camorristi è un modo di dire a cui siamo abituati ormai, soprattutto quando a parlare sono persone interne al sistema criminale. Però è un modo di parlare scorretto e pericoloso perché normalizza lo stigma “etnico” su certi popoli del sud, come se gli ‘ndranghetisti e i calabresi fossero di base la stessa cosa, o comunque ci fosse una componente “etnica” (l’essere calabrese) negli ‘ndranghetisti che li renda riconoscibili a priori. E siccome stiamo parlando di ‘ndranghetisti in trasferta, che calabresi a volte nemmeno lo sono più, questo è paradossale.

    Collaborazione mafiosa e pregiudizi etnici

    All’estero questa giustapposizione di termini sfocerà nel cosiddetto “pregiudizio etnico”, alimentato dal mondo criminale ma che trasmigra tra autorità e comunità. Prestiamoci attenzione, dunque, ché se l’etnicizzazione è parte del futuro della collaborazione mafiosa anche in Italia, come all’estero, abbiamo di che stare attenti.

  • MAFIOSFERA | Gioia Tauro, chiude il porto? Ci guadagnano i narcotrafficanti

    MAFIOSFERA | Gioia Tauro, chiude il porto? Ci guadagnano i narcotrafficanti

    Non c’è dubbio che la priorità dell’Europa e di tutti noi debba essere la salvaguardia dell’ambiente. Così come che questo possa comportare dei sacrifici da parte degli Stati e dei settori pubblici e privati oltre che degli individui.
    Fatta questa premessa, l’ultima misura all’interno dell’obiettivo dell’UE di raggiungere l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050, il pacchetto Fit for 55 – che si ripropone di ridurre le emissioni europee del 55% (rispetto al 1990) entro il 2030 – ha delle ripercussioni molto importanti su economia e società proprio qui da noi, in Calabria.
    A essere a rischio è il porto di Gioia Tauro, fiore all’occhiello (sebbene spesso vituperato) del commercio e dell’economia regionale. Il giornalista Michele Albanese ha definito questa faccenda uno «tsunami epocale» di cui pochi hanno capito la portata effettiva.

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    Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea

    Si tratta di una revisione del sistema europeo di ETS – Emission Trading System – cioè del sistema di scambio delle quote di emissione. È una revisione proposta in Commissione Europea il 14 luglio 2021 per estendere il campo di applicazione del sistema ETS e includere anche le emissioni provenienti dal settore marittimo. Tale sistema era già stato applicato al traffico aereo dal 2014.
    La Direttiva e il Regolamento sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’UE il 16 maggio 2023. Entrambi gli atti legislativi sono entrati in vigore il 5 giugno 2023. Tuttavia, sia la Direttiva che il Regolamento si applicheranno a partire dal 1° gennaio 2024. Ed ecco perché ne stiamo parlando ora.

    La legge non è uguale per tutti

    Il sistema ETS dell’UE avrà un impatto su diverse dimensioni e tipologie di navi nei prossimi anni. Ad esempio, dal 2024, su navi da carico e passeggeri di stazza lorda (GT) pari o superiore a 5.000, indipendentemente dalla loro bandiera. Dal 2027, su grandi navi di servizio offshore (oltre 5.000 GT).
    La direttiva prevede che la tassazione delle emissioni sia calcolata oltre che sulla tipologia di nave anche sulla distanza percorsa: si tasserà al 50% se lo scalo di partenza o destinazione è extra-UE e al 100% se partenza e destinazione se i porti sono in UE.
    Per capirci, da Singapore a Gioia Tauro la tassazione sarà al 50%, ma da Gioia Tauro a Livorno o Genova sarà al 100%. Questo perché i porti di trasbordo (transhipment) ad almeno 300 miglia nautiche da un porto europeo, non saranno considerati come scali, mentre i porti in UE lo saranno.

    La denuncia di Agostinelli

    Si tratta di un sistema per applicare il principio “chi inquina paga” e offrire incentivi alle parti interessate per ridurre la propria impronta inquinante. Purtroppo, però ci sono due effetti collaterali.
    Innanzitutto, sembra ovvio ritenere che le compagnie di navigazione nel settore dei container che effettuano il trasbordo da nave a nave nei porti dell’UE andranno a ridurre i loro pagamenti per l’ETS semplicemente cambiando il loro hub di trasbordo da un hub UE a uno non-UE.
    E secondo, come già fatto notare dal Porto di Gioia Tauro, affiancato da MSC, Filt Cgil e Uiltrasporti, la normativa è discriminante per alcuni porti europei più che per altri.
    Ha dichiarato Andrea Agostinelli, presidente dell’Autorità Portuale di Gioia Tauro: «Tutti gli armatori dovranno pagare una tassa per le emissioni di gas serra nel bacino del Mediterraneo. L’Europa ha deciso di tassare gli armatori perché vuole spingerli a modificare il sistema di navigazione e di trasporto, ma ha adottato un provvedimento che discrimina i porti mediterranei rispetto a quelli extraeuropei».

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    L’ammiraglio Andrea Agostinelli

    Gioia Tauro? Meglio l’Africa

    Lo svantaggio competitivo degli scali di transhipment sud-europei è tanto superiore quanto più alta è la percentuale del porto nell’attività di trasbordo. E Gioia Tauro ha percentuali di transhipment sul totale dei container movimentati pari al 95%.
    Secondo uno studio commissionato dall’Autorità Portuale dello scalo calabrese ad Alessandro Guerri, Gioia Tauro è proprio «la tipologia di porto che gli armatori saranno più incentivati a sostituire/evitare», palesando quindi una reale chiusura o abbandono del porto.
    È dunque molto probabile – anzi, dice già la ricerca scientifica, economicamente molto conveniente – che gli armatori scelgano di dirottare i container da transhipment in porti non EU per portare a zero i costi da ETS, ma de facto mantenendo le emissioni nel Mediterraneo.

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    Tanger Med trarrebbe vantaggio dalla crisi di Gioia Tauro

    Il traffico marittimo non si ferma e il mare – in questo caso il Mediterraneo – ci collega comunque tutti a prescindere dai nostri confini imposti. Ecco che, a prendere il posto di Gioia Tauro potrebbero essere i porti di Tanger Med o di Port Said, entrambi porti a vocazione di trasbordo, il primo – il più grande porto in Africa – in Marocco – di relativa nuova fattura (inaugurato nel 2007); il secondo, in Egitto, a nord del canale di Suez.
    Chi vuole arrivare in Europa, userà l’Africa per il transhipment pagando molto meno all’ingresso in Europa. E chi non vuole fermarsi in Europa (e che faceva transhipment a Gioia Tauro fino ad oggi), tenderà a evitare i porti europei del tutto, a favore di quelli africani.

    Gioia Tauro e il narcotraffico

    Ma c’è un altro aspetto di tutto ciò che è stato per ora ignorato – forse giustamente, vista l’urgenza e i timori diffusi – ma che pure rappresenta un fattore di rischio – controintuitivo – in questa débâcle sul depotenziamento di Gioia Tauro o addirittura sul suo progressivo abbandono.
    Tra tutti i primati che ha il porto di Gioia Tauro c’è infatti anche quello del traffico di stupefacenti; secondo le ultime stime, lo scalo calabrese riceve circa l’80% della cocaina che arriva in Italia.

    I sequestri di droga regione per regione nell’ultimo report del Viminale

    La cocaina – ma anche la cannabis che ancora arriva in porto – viaggia su container da porti dell’America latina – Santos in Brasile o Guayaquil in Ecuador – diretta allo scalo calabrese o ad altri scali europei come Anversa o Rotterdam.
    Non si tratta di scelte arbitrarie dei trafficanti – tra cui vari gruppi ‘ndranghetisti – quanto di scelte economiche, obbligate quasi, perché legate al mercato marittimo. Se si chiude una rotta legale, si chiuderà anche quella illegale e viceversa. Per ogni rotta che si apre, si apre la possibilità di un suo sfruttamento a fini illeciti.
    Quando il porto di Gioia Tauro attraversava gli anni della bancarotta meno di un decennio fa, le rotte preferirono altri porti Italiani e non. La mano invisibile del mercato a economia capitalista muove le pedine anche, soprattutto, sul mare.

    Coca e ‘ndrangheta

    La previsione criminologica – sicuramente per ora ipotetica – è molto semplice. Se il porto di Gioia Tauro perde clientela e traffico fino all’abbandono a favore di porti nordafricani, anche la cocaina dovrà spostarsi. I porti nord-europei, per quanto intaccati dalla direttiva europea anch’essi, non hanno molti sostituti ergo il traffico (lecito e illecito) verso i porti olandesi e belgi rimarrà costante.
    Il traffico che dai porti sudeuropei si dirotterà sul Nordafrica invece porterà con sé anche il narcotraffico che da Gioia Tauro o dal Pireo (altro porto ad alto tasso di confische di narcotici) si sposterà in Africa. E qui la geopolitica del crimine organizzato ha sicuramente un peso.

    Più problemi per la polizia che per i narcos

    Come confermato in una recente ricerca di Global Initiative Against Transnational Organized Crime, esistono legami molto solidi tra trafficanti di cocaina, finanziatori e distributori tra America latina – principalmente dal Brasile – e Africa, soprattutto occidentale. Non solo arriva la cocaina in Africa occidentale, ma in parte arriva già anche grazie alla ‘ndrangheta. Se la presenza di gruppi di trafficanti appartenenti a diverse organizzazioni criminali in alcuni paesi dell’Africa è cosa nota, lo è anche l’utilizzo di corridoi tra Mauritania, Mali, Algeria e Marocco per il trasporto della cocaina via terra. Da lì, l’Europa è vicina con navi che non devono essere sempre transatlantici muovi-container.

    La cocaina continuerebbe ad arrivare, ma il mercato sarebbe ancora più frammentato, rendendo molta complessa l’azione di contrasto. Uno spostamento delle rotte sull’Africa – e, dunque, delle rotte illegali sull’Africa del Nord – non turberebbe molto i gruppi criminali, ammesso che riescano a organizzarsi con emissari e broker locali e in Sudamerica (e molti ‘ndranghetisti riuscirebbero). Ma tale spostamento turberebbe moltissimo le forze dell’ordine, italiane ed europee che perderebbero quel poco vantaggio acquisito negli anni nel conoscere e contrastare il modus operandi dei gruppi criminali che si muovono nei nostri porti.

    Gioia Tauro: il porto della cocaina (e dei sequestri)

    Il porto di Gioia Tauro non è solo il porto della cocaina; è anche il porto in cui si confisca più cocaina che altrove. Le ultime stime danno quasi il 40% della cocaina “ipotizzata” in rotta per Gioia Tauro, confiscata dalla Guardia di Finanza. Il rischio di trafficare cocaina a Gioia Tauro ora è condiviso, dai trafficanti e dalle autorità. Se Gioia Tauro non fosse più la destinazione, la cocaina vivrebbe un periodo di rotte imprevedibili e largamente intoccabili da un punto di vista della confisca e della sicurezza portuale.

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    Cocaina nascosta tra le banane rinvenuta a Gioia Tauro: il carico era di circa 3 tonnellate

    C’è di più: i passi avanti, notevoli, in termini di lotta al narcotraffico, in Europa, subirebbero un’enorme frenata se aumentassero i traffici portuali extra-europei, richiedendo alle autorità europee di rafforzare i rapporti con i porti e i paesi africani, già complessi in materia di narcotraffico. Ad aumentare, come detto, potrebbero essere anche i traffici nordeuropei, andando a insistere su situazioni già molto complesse in porti come Rotterdam, dove la violenza del narcotraffico è già cosa nota.

    Grande è la confusione sotto il cielo…

    Il mercato del narcotraffico è di certo tendenzialmente molto disordinato. Ma ad aggiungere disordine – ad esempio con shock geopolitici di questa portata (da ultimo uno shock simile in Europa lo ha portato Brexit) – si rischia solo di aumentare la violenza che a tale mercato si lega (si pensi agli ultimi anni di Rotterdam) e ad aumentare il peso specifico di alcuni gruppi criminali rispetto ad altri (si pensi ai gruppi irlandesi post Brexit).
    Chiunque porterà un po’ di “ordine” nel caos, chiunque saprà gestire al meglio l’emergenza, ne uscirà più ricco e meglio posizionato sul mercato. E quanto a posizione stabile sul mercato la ‘ndrangheta, nonostante i suoi alti e bassi, rimane reputazionalmente ancora molto forte.

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    Il porto di Rotterdam

    Ma forti sono anche altri gruppi, più attenti ai traffici nel Nord Europa o, appunto, in Africa. Paradossalmente, dunque, si abbandona il porto della cocaina, ma la ‘ndrangheta – che quel porto oggi certo lo usa assai – non abbandonerebbe il mercato della cocaina, che però sarebbe più confuso e frammentato da capire per le autorità. A perderci, insomma, non sarebbero le organizzazioni criminali.

    Gioia Tauro, politica e guerra ai narcotici

    Ma mentre si ipotizzano tali scenari, si assiste a flashmob dei lavoratori e al solito balletto della politica, tra colpevoli e più colpevoli. Perché ovviamente questa storia lascerebbe ancora più disoccupazione in una terra già difficile per i lavoratori. Laura Ferrara, eurodeputata col M5S, calabrese, ha risposto agli attacchi che le si sono avanzati su questa vicenda anche con un’interrogazione al Parlamento Europeo che si spera abbia preso risposta. Sicuramente la vicenda non può finire qui.

    Mentre si aspettano risposte dalla Regione e dal governo oltre che dall’Europa, dal porto di Gioia Tauro la proposta arriva chiarissima: il regime applicato a Port Said e Tanger Med si estenda anche a Gioia Tauro e ad altri porti europei simili (Malta, Sines, Pireo), altrimenti lo scalo calabrese andrà perso.
    E se si perde Gioia Tauro, si perde anche quel poco di controllo che si ha sulla cocaina a Gioia Tauro, in Italia e dunque in Europa, a vantaggio solo di chi la traffica.

    Se davvero si arrivasse a quel punto sarebbe auspicabile come minimo un serio discorso sulla decriminalizzazione di alcune sostanze stupefacenti, dal momento che la war on drugs, la guerra contro i narcotici, subirebbe ancora un’ennesima, mortale batosta.

  • Cultura e legalità, oggi Gratteri al Premio Caccuri

    Cultura e legalità, oggi Gratteri al Premio Caccuri

    Cultura e legalità protagoniste oggi, domenica 1 ottobre, al Premio letterario Caccuri. Non prima delle 18:30 il neo procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, dialogherà con il giornalista – volto noto dell’informazione targata Mediaset – Giuseppe Brindisi. I due discuteranno dell’ultimo libro scritto dal magistrato calabrese insieme al professor Antonio Nicaso. “Fuori dai confini. La ‘ndrangheta nel mondo” (2022) è il titolo di questo viaggio nella dimensione sempre più globale della criminalità organizzata calabrese.

    Il giornalista e conduttore di Zona Bianca, Giuseppe Brindisi

    Cataldo Calabretta intervisterà il conduttore di Zona Bianca su Rete 4 e gli consegnerà un riconoscimento alla carriera. Premiazione in programma a ridosso delle ore 20:00. Conduce la serata la giornalista della Rai, Vittoriana Abate.
    Alle ore 17:30 in Piazza Convento sarà proiettato il trailer “Un racconto tra terra e mare: il Premio Caccuri incastonato in una Calabria Straordinaria”.
    Promuovere la nostra identità attraverso un racconto moderno delle nostre tradizioni. È questo lo spirito del workshop in programma alle 17:45. Interverranno: Gerardo Bonifati, vice presidente nazionale FITP (Federazione Italiana Tradizioni Popolari); Giuseppe Marasco, ceo e responsabile di Calabria Sona; Franco Megna, Segretario Generale FITP (Federazione Italiana Tradizioni Popolari); Marcello Perrone, presidente regionale FITP (Federazione Italiana Tradizioni Popolari); Adolfo Barone, presidente del Premio Letterario Caccuri.

  • MAFIOSFERA | Arge…’ndrina: ora la Santa è di casa a Baires?

    MAFIOSFERA | Arge…’ndrina: ora la Santa è di casa a Baires?

    Tira davvero aria buona a Buenos Aires: il 19 settembre scorso presso il Dipartimento Centrale della Polizia Federale argentina si è svolta una cerimonia solenne di presentazione ed inaugurazione del Departamento Investigaciones Antimafia, nato sul modello italiano della Direzione Investigativa Antimafia, la DIA.
    Nonostante il nome e il chiarissimo legame con l’Italia, il focus della DIA Argentina non sarà soltanto sulle consorterie mafiose, tra cui ovviamente la ‘ndrangheta calabrese, protagonista del narcotraffico globale e dunque presente in America latina, inclusa l’Argentina.

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    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Il nuovo dipartimento antimafia, infatti, esiste già da oltre un anno ed è stata la risposta più o meno concertata dei paesi latinoamericani a una serie di emergenze, incluso l’omicidio di Marcelo Pecci, pubblico ministero paraguayano ucciso nel maggio 2022 e che, tra le altre cose, aveva indagato anche sui rapporti di ‘ndranghetisti con trafficanti locali. Per l’omicidio di Pecci, a indagini ancora in corso, si è arrivati persino a sollevare l’immunità parlamentare di Erico Galeano, in Paraguay, per i presunti legami tra questi e il gruppo che avrebbe ucciso il pubblico ministero. Insomma, si tratta di criminalità organizzata particolarmente sofisticata e protetta dall’alto.

    ‘Ndrangheta in Argentina: la Santa a Buenos Aires

    Ma la decisione di creare questo organo investigativo a Buenos Aires aveva anche due altre ragioni. Primo, in Argentina risiede il maggior numero di italiani all’estero, al pari o poco sopra gli Stati Uniti d’America (contando anche le seconde generazioni per esempio). Secondo, riporta il quotidiano La Nación, la decisione sarebbe arrivata dopo che uno dei capi dell’Arma dei Carabinieri italiana avrebbe rivelato che proprio in Argentina si sarebbe svolta la prima riunione della “Santa” fuori dall’Italia.

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    Italo-argentini sfilano per le strade di Buenos Aires

    Non è dato sapere cosa si intenda precisamente per “riunione della Santa”. In Calabria, infatti, per “Santa” si indica la parte riservata, elitaria, della ‘ndrangheta e non in generale l’onorata società. Se confermata pubblicamente, questa notizia cambierebbe di molto l’assetto della ‘ndrangheta internazionale, che ha avuto storicamente in altri posti – come il Canada e l’Australia per esempio – delle sue propaggini estere apparentemente molto più solide e radicate che quelle argentine.

    Una riunione in Argentina implicherebbe forse un ruolo di “tramite”, di “frontiera” riconosciuto agli ‘ndranghetisti in America latina che va un po’ oltre quello che si sa della presenza mafiosa italiana in queste terre. Oppure si potrebbe trattare soltanto di un ruolo di convenienza, proprio per l’assenza di densità mafiosa locale (meno concorrenza, meno disturbo) e per la mancata attenzione delle forze dell’ordine ai fenomeni criminali di questo tipo.

    Non solo ‘ndrangheta: la Dia argentina

    Fatto sta che la DIA argentina è la prima unità antimafia a nascere in America latina. Con oltre 60 agenti, fa capo alla Sovrintendenza alle Investigazioni della Polizia Federale e mira a perseguire non solo la ‘ndrangheta, ma anche altre organizzazioni para-mafiose (si menzionano le triadi della mafia cinese) che operano nel paese.
    Ci sono già delle prime operazioni in cui l’unità ha riscosso successo.
    Nel luglio dell’anno scorso dieci persone sono state arrestate con l’accusa di aver commesso una truffa milionaria ai danni dell’azienda Tarjeta Naranja, mediante falsi acquisti.
    Ad agosto di quest’anno agenti della DIA hanno fatto irruzione in diversi uffici e abitazioni legati alla società Crypto Coinx World sia a Buenos Aires e provincia che a Santa Fe. L’azienda è stata denunciata per aver messo in atto schemi fraudolenti di tipo “piramidale”.

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    Una filiale dell’azienda truffata

    Dunque, il focus della DIA in Argentina al momento appare molto ampio. E la ‘ndrangheta? Nel novembre del 2022, gli agenti dell’unità antimafia hanno portato a compimento l’arresto di Carmine Alfonso Maiorano in una località vicino a Buenos Aires. Originario di Cosenza, secondo I-CAN, il programma di scambio e cooperazione internazionale contro la ‘ndrangheta creato dall’Italia a mezzo di Interpol, Maiorano era associato o comunque facilitatore di clan calabresi ed era ricercato dal 2015 in seguito all’operazione Gentlemen della DDA di Catanzaro contro i clan della Sibaritide. In questo caso quindi, la DIA argentina ha agito da tramite dell’Italia via Interpol.

    Cocaina e facilitatori

    Bisognerà ovviamente aspettare per valutare l’operato di questa unità speciale antimafia. Nel frattempo sarebbe opportuno che si facesse chiarezza sull’effettiva presenza della ‘ndrangheta in Argentina, per evitare di partire col piede sbagliato. Sicuramente non si parte bene se una persona come Maiorano viene definito “capo-maximo” della ‘ndrangheta dai giornali a seguito del suo arresto.

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    Per i giornali in Argentina, Maiorano è un “capo-maximo” della ‘ndrangheta

    Che esistano cellule di ‘ndrangheta in Argentina non è cosa nuova. Lo ha confermato anche di recente l’operazione Magma (2020) coordinata dalla DDA di Reggio Calabria. Sono emersi gli interessi sudamericani dei clan sia per quanto riguarda la cocaina sia per quanto riguarda la presenza di facilitatori – avvocati, imprenditori – che possono aiutare i latitanti (si pensi a Rocco Morabito, arrestato in Brasile e facilitato, tra gli altri, da un avvocato italo-argentino, Fabio Pompetti, proprio a Buenos Aires) e consigliare su investimenti locali.

    A Buenos Aires per gli accordi

    La cocaina è ovviamente ciò che più attrae i clan in Sudamerica e anche in Argentina. Ce lo ha raccontato, tra le altre, Operazione Santa Fe, della DDA di Reggio Calabria nel 2015. Riguardava un traffico di cocaina dalla Colombia alla Spagna organizzato e partecipato dai Bellocco, dagli Alvaro e altri clan di ‘ndrangheta.
    Nella sentenza di Santa Fe del 2017 si legge che in data 06.09.2014, Vincenzo Alvaro, che commissionava la partita di cocaina, si sarebbe imbarcato da Lamezia, via Roma, alla volta di Buenos Aires per incontrarsi con un intermediario montenegrino, secondo accordi presi laggiù da Angelo Romeo.
    Buenos Aires era, appunto, il luogo dove si facevano gli accordi per il resto della regione.

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    Parte della cocaina – circa 150 kg – sequestrata in Operazione Santa Fe

    Come dichiarato da Giuseppe Tirintino durante un’interrogatorio: «Poi noi parlavamo con le diverse famiglie, chi voleva investire e stabilivamo il quantitativo del lavoro che si doveva fare. … Il 90% delle volte qualcuno di noi andava là sul posto, in Argentina, Uruguay, o Brasile, da dove doveva partire il lavoro per vedere con i propri occhi che le persone erano fattibili per fare il lavoro, magari controllare la merce; una volta che la persona era andata là in Sudamerica e aveva visto che era tutto a posto, dava l’ok qua in Italia per consegnare i soldi».
    Lo schema non riguarda solo l’Argentina, dunque, ma in Argentina trova terreno fertile anche per via di quelle che comunemente vengono chiamate le rotte “controintuitive” del narcotraffico, cioè rotte meno bazzicate, meno rischiose.

    La ‘ndrangheta di Siderno in Argentina

    Oltre alla cocaina, come già detto, in Argentina vivono alcuni facilitatori per i calabresi ‘ndranghetisti, come ci ha raccontato Operazione Magma.
    Ma per quanto riguarda la “struttura” della ‘ndrangheta in Argentina, si può ipotizzare che molto sia ancora rimasto sommerso. Infatti, già nel 2012, in Operazione “Falsa Politica”, coordinata dalla DDA di Reggio Calabria, si vede come proprio l’Argentina fosse già crocevia di incontri e interessi dei clan, e non di clan qualsiasi, ma di quelli della Locride, di Siderno, e dunque delle loro propaggini internazionali.

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    Giuseppe “U Mastru” Commisso

    Diceva Antonio Macrì durante un interrogatorio: «Premetto che vado spesso in Argentina; in occasione dell’ultimo mio viaggio Commisso Giuseppe ha insistito per venire con me perché voleva trovare i suoi avi argentini; il periodo era aprile 2010; in tutto siamo stati insieme sei giorni; con me c’erano tanti miei amici di New York, tutti oriundi calabresi, poi si è aggiunto anche un “canadese” tale Commisso Francesco che vive da tanti anni in Canada, mi pare che abbia un fratello detenuto, poi un mio amico di Vibo tale Ioppolo Nicola, imprenditore; abbiamo alloggiato tutti nell’Hotel Santa Rosa nella pampa argentina».
    Francesco Commisso, alias “Ciccio di Grazia”, già conosciuto alle cronache, è cugino di Giuseppe Commisso, capo della ‘ndrangheta sidernese, conosciuto come U Mastru.

    Doppia anima

    Ancora Calabria-Europa-America, il brand dei Sidernesi. Laddove spesso diventa noto lo ‘ndranghetista che dalla Calabria fa viaggi verso l’estero, meno noto è spesso cosa effettivamente faccia una volta all’estero. È ipotizzabile che se ‘ndranghetisti di rango elevato come Giuseppe Commisso vanno in Argentina, incontreranno persone di Siderno e dintorni che sono emigrate in Argentina e che si mostrano, consapevolmente o meno, vicine ad ambienti mafiosi. Sapere come si compongono e nutrono le reti di appoggio all’estero rimane la priorità e dovrebbe essere il primo interesse delle autorità straniere, proprio come la DIA argentina, poiché sono queste reti a supportare e attrarre la resistenza del fenomeno.

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    Buenos Aires

    La dichiarazione di Antonio Macrì, infatti, conferma anche un’altra profondissima verità nella ‘ndrangheta odierna: l’esistenza non tanto di una ‘ndrangheta globale, ma di una ‘ndrangheta che si sposta all’interno di paesi migranti, come molti in Calabria, a doppia anima: a casa e all’estero.
    Sono le reti dei paesi quelle che più facilmente nascondono – spesso involontariamente – i movimenti mafiosi (non sono le uniche). E in Argentina, queste reti sono parte integrante del tessuto sociale nazionale e dunque creano ancora più possibilità di ingresso e movimento dei capitali mafiosi.
    Ha tirato finora davvero aria buona a Buenos Aires, anche per la ‘ndrangheta.

  • MAFIOSFERA| Polsi NON è il santuario della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Polsi NON è il santuario della ‘ndrangheta

    A Polsi le carovane, cioè i gruppi di pellegrini, entrano nel santuario a suon di tarantella. La tarantella è una danza anarchica eppure precisa. Precisa nella ripetitività delle note e nel cerchio che si forma tra i danzatori; anarchica nei suoi passi, nel come si “sente” l’energia della musica. L’energia della tarantella e della sua danza è parte dell’arrivo a Polsi, è tutta Polsi.
    Il Santuario della Madonna della Montagna è a oltre 800 metri sopra la superficie del mare, ma non si “erge”; piuttosto, si inabissa nelle gole dell’Aspromonte, tra i 2.000 metri di Montalto e le colline da cui partono i pellegrini dai paesi tutti attorno. È nel territorio di San Luca, ma dista dal paese oltre due ore di macchina oggi, perché le strade sono quelle che sono.

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    San Luca: in basso a destra, il santuario di Polsi seminascosto tra le gole dell’Aspromonte (foto Anna Sergi)

    Un santuario “difficile”

    È un santuario “difficile” Polsi. Le strade sono mulattiere che nessuno davvero si premura di rendere adatte alla percorrenza. Buche, voragini, cemento ormai distrutto da anni, asfalto inestistente da decenni. Doppio senso di marcia che blocca in una direzione come nell’altra e senso di sconforto che dà l’assenza di segnale telefonico per chilometri. E, dunque, la consapevolezza del disagio e del pericolo se succedesse qualcosa.
    Per il più importante culto religioso della Calabria ci si aspetterebbe un interesse maggiore delle autorità locali e regionali, politiche quanto religiose.

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    Cartelli sulla strada per il santuario di Polsi (foto Anna Sergi)

    Ma nonostante questo Polsi è un luogo dove si può emozionare fino alle lacrime anche chi non crede. Il silenzio ovattato della montagna; l’equilibrio precario tra natura e umanità; l’integrazione tra fede, cultura e storia; la tarantella che sgorga da dentro; la danza che livella e connette tutti.
    Polsi è un luogo che non ha eguali, non solo per chi è devoto, ma anche, forse soprattutto, per chi lo vive nella sua essenza spirituale e culturale.
    A Polsi la Calabria è solo e soltanto terra di energia positiva e forte di una primitiva autenticità.

    Polsi e la ‘ndrangheta

    Forse è proprio per le sue difficoltà orografiche e infrastrutturali – e per le sue atmosfere ritmate tra musica e silenzio – che Polsi si presta a essere strumentalizzato.
    Da un lato come luogo di interessi occulti, criminali, da parte di clan di ‘ndrangheta di paesi limitrofi. Ma dall’altro come centro di attenzione morbosa da parte di giornalisti a caccia di scatti che contengano la graffiante bellezza del luogo, mista al suo lato percepito come sinistro, e la solita immagine della Calabria da malaffare, meglio ancora se condita con l’imbrattamento della fede cattolica.

    https://www.youtube.com/watch?v=A79oXiOt5WI

    Il filmato dei carabinieri a Polsi, finito tra i documenti della famosa operazione Crimine, è ancora su YouTube. Dopo quasi 15 anni possiamo ancora vedere come attuali quelle conversazioni di uomini riunitisi in cerchio, venuti da Rosarno, da Platì, da San Luca stessa, da Sinopoli. Si parlava di Crimine, Capocrimine, Contabile e doti varie. E si “sistemavano” faccende di ‘ndrangheta che a Polsi non avrebbero dovuto mettere piede.

    Profanato da interessi mafiosi: parola della Cei

    Nel giorno della festa della Madonna di Polsi, il 2 settembre scorso, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha inviato un messaggio letto da monsignor Francesco Oliva, vescovo di Locri e abate del Santuario.
    «Il Santuario della Madonna di Polsi – scrive Zuppi – è stato profanato nel recente passato. La casa della Madre di Dio è diventata luogo per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. Papa Francesco a Cassano all’Ionio il 21 giugno 2014 ha avuto parole inequivocabili di condanna verso i mafiosi e la ‘ndrangheta in particolare, dichiarandone la scomunica. Chi fa della casa di Dio luogo di interessi di alcuni offende Maria, la Chiesa tutta, la comunità umana e, in realtà, anche la loro stessa dignità umana».

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    Il cardinale Zuppi e Papa Francesco

    Il luogo di culto per eccellenza

    Non è la prima volta, dunque, che la Chiesa disconosce la strumentalizzazione di Polsi per interessi mafiosi. Ciononostante, si parla ancora spesso di summit di ‘ndrangheta a Polsi, amplificando, come spesso accade, ciò che di male può accadere in quei luoghi.
    Summit, però, implica un’organizzazione specifica. Implica dei fini precisi. Implica anche un’appropriazione consapevole del territorio. E così non è.
    Non è la strategia mafiosa che porta la ‘ndrangheta a Polsi. E non è nemmeno solo la volontà di avere un luogo appartato dove potersi riunire.
    Ciò che può portare esponenti della ‘ndrangheta a Polsi – e li spinge poi a discutere più o meno apertamente di strutture e attività criminali – non è la lucida consapevolezza o volontà di manipolare la religione o profanare il Santuario. È proprio il fatto che la Madonna della Montagna è il luogo di culto per eccellenza di quei territori.

    Polsi nel DNA della ‘ndrangheta

    Gli ‘ndranghetisti sono calabresi e, che ci piaccia o no, sono uomini (a volte anche supportati da donne). Come tali hanno identità plurali.
    Il lato religioso si mischia qui a quello culturale. La pratica secolare dei pellegrinaggi e della novena si mescola alle consuetudini della mangiata della domenica di agosto al Santuario, della presenza alla festa del 2 settembre o alla festa della Croce del 14 settembre. L’abitudine della birra ad un euro mentre si balla la tarantella nella piazza antistante la chiesa fino a tarda ora è inestricabile dalla recita del rosario e dall’intonazione delle canzoni in dialetto dei devoti.

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    Il santuario (foto Anna Sergi)

    L’identificazione culturale con Polsi non è appannaggio solo della maggioranza sana di chi frequenta il Santuario, con le sue paure, le sue fatiche e le richieste perché la Madonna faccia una grazia. È parte anche del DNA dello ‘ndranghetista, che come sempre accade, soprattutto per la ‘ndrangheta, prende il comportamento, i valori e le tradizioni del suo popolo e le rende, consapevolmente o inconsapevolmente, parte di un disegno criminale.

    Ribaltare la domanda

    Bisogna ribaltare, quindi, la potenziale domanda: non è “com’è stato possibile che la ‘ndrangheta si sia appropriata anche di Polsi?”, ma “cosa non abbiamo capito del perché la ‘ndrangheta può continuare ad andare a Polsi?”.
    Perché c’è di più. Lo ‘ndranghetista che a Polsi porta sé, la sua famiglia e parte della sua attività criminale, oltre a profanare il territorio sacro, fa del male – come sempre – a una parte dei suoi compaesani e corregionali, ma non tutti se ne preoccupano allo stesso modo.
    Lo fa anche avallando la mancanza di rispetto che quel luogo sacro imporrebbe.

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    Polsi: zona sacra, ma non troppo (foto Anna Sergi)

    Manifestazioni di dispregio che non sono solo di matrice ‘ndranghetista e che portano alcuni – sempre una sparuta minoranza, si badi bene – a partecipare alle svariate celebrazioni religiose e sociali perché così fan tutti, o perché ci si vuol far vedere arrivando con la moto rombante fino al piazzale del Santuario. Diverse, certo, dal banale disinteresse di altri che magari vedono il tutto come una bella gita da fare con gli amici. Nulla di illecito in tutto questo, ovvio. Ma non lasciarsi avvolgere da questi luoghi cosicché venga naturale rispettarli nella loro intramontabile, primordiale, bellezza, è già una ferita.

    Cosa può attrarre la ‘ndrangheta a Polsi

    Di questo la ‘ndrangheta si appropria, come tutto ciò che è borderline qui da noi tra inciviltà e criminalità. Ed è anche per questo che alla domanda “cosa non abbiamo capito del perché la ‘ndrangheta può continuare ad andare a Polsi” si potrebbe rispondere che non solo gli ‘ndranghetisti sono individui a identità plurale e anche loro calabresi, ma anche che la mafia in generale – e la ‘ndrangheta nello specifico – si nutre di quei comportamenti arroganti e irrispettosi che stanno anche fuori di essa.
    Un po’ come i comportamenti di alcuni giornalisti stranieri che mi chiesero come fare per andare a filmare a Polsi e, addirittura, suggerimenti su come riconoscere gli ‘ndranghetisti tra la gente.

    Tutte le mancanze di rispetto per la cultura, la storia e la passione umana, religiosa e non, che diventano arroganza e presunzione possono contribuire ad attrarre la ‘ndrangheta anche a Polsi.
    E come nel canto per eccellenza che si intona a Polsi, la Bonasira, «E la Madonna si vota e ndi dici: vaiiti, bona sira, e santa paci!».

  • Non è mafia ma quasi: l’ascesa dei clan rom a Reggio Calabria

    Non è mafia ma quasi: l’ascesa dei clan rom a Reggio Calabria

    Le dichiarazioni del pentito Vittorio Giuseppe Fregona sulla criminalità rom di Reggio Calabria sono l’ultimo dei tre tasselli che delineano una mutata morfologia della ’ndrangheta in Calabria.
    Addirittura una nuova “geopolitica” criminale in cui emergono e si rafforzano inediti equilibri di potere.
    Seguiamo questa trama in tre tappe.

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    Il tribunale di Reggio Calabria

    Criminalità rom: una storia in tre tappe

    Nel 2005 Arcangelo Badolati, nel suo volume I segreti dei boss (Klipper, Cosenza 2008) affronta la criminalità del Cosentino, con riferimenti specifici al mutato ruolo dei clan rom nelle gerarchie di malavita. Badolati, nello specifico, approfondisce i fatti relativi all’indagine Lauro e alla faida di Cassano (2002-2003).
    Il 18 aprile 2023 a Catanzaro la Procura arresta 62 cittadini rom. Nelle ordinanze di custodia cautelare, relative all’operazione coordinata dal procuratore Gratteri, il gip Filippo Aragona contesta per la prima volta il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
    Inoltre, stesso Gratteri parla apertamente di intercettazioni che testimoniano l’affiliazione dei rom alla ’ndrangheta con tanto di battesimo.
    Il 12 maggio 2023 nel processo Epicentro il pentito Fregona, interrogato dal pm Walter Ignazitto, delinea un salto di qualità dei clan rom di Arghillà.

    Droga e case popolari: l’impero della criminalità rom

    I dettagli della deposizione riguardano l’ingresso di questi clan nel mercato degli stupefacenti con il benestare delle cosche di Catona e la gestione abusiva degli alloggi popolari. Lo stesso pentito, inoltre, dichiara di essere a conoscenza di riti di affiliazione alle ’ndrine reggine.
    Il quadro tracciato da Fregona testimonierebbe la nuova autonomia dei clan rom nella gestione di attività illecite. E quindi il loro affrancamento dalle ’ndrine storiche come i Serraino, celebrati di recente anche su Amazon Prime. Anche a Reggio Calabria, sotto l’apparente coltre di immobilismo, qualcosa si muoverebbe. O meglio si sarebbe già mosso.
    Il caso di Reggio Calabria aprirebbe un nuovo squarcio sulle dinamiche con cui la ‘ndrangheta sta mutando assetto e organizzazione in tutta la regione. E i primi esiti del caso Ventura suffragano le dichiarazioni di Fregona.

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    Maria Serraino e la nipote Marisa in un singolare ritratto di famiglia

    Caso Ventura: troppa violenza per un alloggio

    A Reggio nel 2022 Patrizio Bevilacqua riceve una condanna in primo grado a 5 anni e 6 mesi per estorsione insieme all’ex moglie Anna Maria Boemi.
    È la sentenza 1369 sul noto caso della famiglia Ventura.
    Come appartenente alla Polizia Penitenziaria, Vincenzo Ventura era regolare assegnatario di un alloggio popolare al rione Marconi.
    Ma la sua famiglia fu costretta ad abbandonare l’appartamento dopo attacchi verbali e fisici, minacce di morte e danneggiamenti. Poi l’immobile fu occupato abusivamente dai rom. Questi lamentarono, con diversi comunicati e in vari servizi tv, l’illegittimità dello sgombero ordinato dal Tribunale.
    Il caso Ventura resta una vicenda travagliata e violenta dai cui atti processuali emergono rapporti tra Bevilacqua ed esponenti del comando dei Vigili urbani di Reggio Calabria.

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    L’alloggio popolare della famiglia Ventura nel quartiere Marconi devastato dai vandali

    Case popolari: il mercato della criminalità rom

    Durante l’audizione di Ventura del 7 aprile 2016 in Commissione controllo e garanzia, l’allora delegato al Patrimonio edilizio del Comune di Reggio, Giovanni Minniti, dichiarava di conoscere la vicenda e i suoi protagonisti e sottolineava che «nel tempo in cui è stato assessore e delegato è venuto a conoscenza su alcune vicende legate alla vendita degli alloggi. Ci troviamo a constatare che c’è un “Mercato delle case”, che con un gioco maldestro e pericoloso [è] gestito dalle famiglie dei Nomadi, circa 300 alloggi del Patrimonio Edilizio venduti in modo poco chiaro». Da allora poco si è mosso.

    Alloggi popolari: quel disordine non è un caso

    Il 12 giugno 2020 la Terza commissione speciale permanente politiche sociali e del lavoro si riuniva per discutere di patrimonio edilizio ed edilizia residenziale pubblica. I verbali della dirigente, l’avvocata Fedora Squillaci, disegnano un quadro quantomeno caotico.
    Squillaci parla di un settore di difficile gestione, a cominciare dalla sistemazione dell’archivio, di ruoli notificati a deceduti ancora risultanti titolari di alloggio, di ostilità dei dipendenti del settore, di carenza nell’organico.
    La dirigente afferma che «c’era anche chi faceva visitare gli appartamenti ai nomadi con la conseguenza che il giorno dopo venivano occupati abusivamente […] non lo posso dimostrare ma sono convinta che c’è un mercato dietro al patrimonio degli alloggi Erp, c’è un premeditato disordine, caos e ingovernabilità che consente di fare ciò che si vuole […] Su 3.000 alloggi c’è un’altissima percentuale di abusivismo». Ivi compresi i beni confiscati.
    Emerge un quadro desolante: un ipotetico mercato degli alloggi probabilmente gestito in modo violento e “imprenditoriale”, protetto da legami opachi con altrettanto ipotetiche ramificazioni nel municipio. Che di questo si tratti non c’è ancora certezza. Ma le suggestioni sono tantissime.

    Case popolari nel rione Marconi

    Le tariffe quartiere per quartiere

    Alcuni bene informati parlano espressamente di mercato, di gestione dei rom e di divisione in territori: da Arghillà al Rione Marconi. E c’è chi ipotizza tariffe che vanno dai 3.000 ai 10.000 euro, per prestazioni di vario tipo.
    Ad esempio, la possibilità di scegliere l’alloggio con una maggiorazione dei prezzi e quella di ottenerlo comunque, magari con l’“intervento” dei rom, se è già occupato.
    Questo prezzario certificherebbe un’organizzazione stabile col benestare della ’ndrangheta. E ribadirebbe che i clan rom sarebbero ormai affiliati e non più semplice manovalanza.

    Vita e carriera di Patrizio Bevilacqua

    Bevilacqua, oggi interdetto a vita dai pubblici uffici, correva per le Amministrative reggine del 2011 nel movimento Pace di Massimo Ripepi, uno dei leader dell’attuale opposizione.
    Bevilacqua, almeno fino alla pandemia – riferiscono alcune fonti -, e comunque a procedimento in corso, sarebbe stato inoltre alle dipendenze di Eduardo Lamberti Castronuovo, noto imprenditore reggino, già assessore al Comune di Reggio e poi sindaco di Procopio.
    Il 5 dicembre 2012, in un servizio di Rtv, Lamberti, tra l’altro editore della testata, dichiarò che «ad uno di loro [rom] ho affidato le chiavi di casa […] Si chiama Patrizio, lo potete incontrare tutti». Parlava di Patrizio Bevilacqua.
    Definire criminali tutti i rom è, come dice Lamberti, uno stereotipo. Ma fa quantomeno specie che il protagonista di vicende opache poi attenzionate dalla magistratura mantenesse determinati rapporti con una personalità arcinota della vita pubblica reggina. Cioè di una città in cui tutti si conoscono.

    La Questura di Reggio Calabria

    Non è mafia… quasi

    Ora, la sentenza 1369 contro cui Bevilacqua e Boemi hanno fatto appello, contestava ai condannati una forma di consorteria con ignoti, ma non arrivava al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.
    Ma, se le ipotesi sono concrete, anche a Reggio Calabria si viene delineando un nuovo ruolo e una rafforzata capacità da parte dei clan rom. Presidiare il territorio, intimidire, minacciare, gestire (in associazione) un vero e proprio racket delle case popolari con una metodologia malavitosa studiata, concordata, attuata, forti di connivenze anche all’interno delle pubbliche amministrazioni.
    Se non è mafia, questa, ci somiglia assai.

  • MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    Un ennesimo documentario, questa volta prodotto da SkyNews, propone 20 minuti di riprese in Calabria per spiegare How To Fight the Mafia, come combattere la mafia (nello specifico, la ‘ndrangheta).
    Il fermo immagine del video è immancabilmente la figura del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. L’inizio è una marcia dei carabinieri con scudi protettivi e bastoni minacciosi su cui si inserisce la giornalista. Dice «This is Mafia Land», «questa è la terra della mafia», a braccia aperte verso l’alto.
    Con un inizio così terribile ci si auspicherebbe un miglioramento nel contenuto che segue, ma il documentario purtroppo non migliora. Se l’obiettivo era spiegare all’audience come si combatte la mafia, chi guarda non può che uscirne confuso.

    La Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    La giornalista visita San Luca e Platì. Parla con i carabinieri locali, le fanno vedere qualche bunker e delle foto in caserma con su scritto “catturato”, molto sceniche. Gli stereotipi arrivano subito a «Mafia Land», con commenti sulla gente di San Luca e Platì che guarda curiosa e torva dalla finestra. Seguono i soliti numeri mitologici della ‘ndrangheta: il controllo dell’80% del mercato della cocaina europea e il fatturato annuale di 60 miliardi di euro. Entrambi appaiono periodicamente sui media senza una vera spiegazione su come si ricavino.
    Si passa poi ad un volo panoramico coi Cacciatori d’Aspromonte, la squadra speciale dei carabinieri a cui la giornalista chiede «Quanto è difficile il vostro lavoro?».
    Poi, senza soluzione di continuità né spiegazione del cambio di passo e luogo, ecco il racconto di una vittima di mafia, a Lamezia Terme. È l’assist all’ultima parte del programma sulla ‘ndrangheta di SkyNews, centrato sul processo Rinascita-Scott e sul procuratore Nicola Gratteri.

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    Una capatina alla caserma dei carabinieri di San Luca

    A onor del vero bisogna menzionare un raro momento di illuminazione nel dare spazio a un commento del comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca, Michele Fiorentino. Il militare ricorda come non solo ci siano persone oneste a San Luca ma anche come il ruolo dello stato sia di proteggere loro, gli onesti, e non solo arrestare gli ‘ndranghetisti.
    Altro momento interessante è la risposta finale di Gratteri alla domanda sulla possibilità di sconfiggere la ‘ndrangheta. Il procuratore dichiara che l’unica cosa che si può fare è tentare di indebolirla, sapendo che probabilmente, in questa vita non la sconfiggerà.

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    Un momento dell’intervista a Nicola Gratteri

    Romanzo criminale

    Nicola Gratteri, da uomo intelligente e magistrato competente, conosce il potere della comunicazione e per questo investe in un’attività di divulgazione continua sul fenomeno che il suo ufficio contrasta. La sua figura, proprio perché capace di comunicare facilmente contenuti complessi, viene però spesso strumentalizzata da prodotti televisivi, mediatici, radiofonici che vogliono spettacolarizzare la mafia, amplificarne l’abnormalità, esacerbarne la difformità da una presunta normalità di altri. Questi altri sono però mutevoli: poco di frequente gli altri calabresi, a volte gli italiani, molto più spesso l’audience di riferimento dell’emittente estera, che siano gli inglesi, i tedeschi, i canadesi.

    Ed ecco poi che invece di intavolare un discorso serio, che so, sullo stato della giustizia in Italia, sugli effetti nefasti che alcuni provvedimenti antimafia, anche quelli approvati coi migliori intenti, producono sul territorio, si finisce per raccontare di come il procuratore di Catanzaro non possa più nemmeno coltivare il suo giardino e accudire i suoi polli senza le telecamere (poveri polli senza privacy, verrebbe da dire).
    Una spettacolarizzazione ad personam della lotta alla mafia operata soprattutto dai media esteri – ma, a dire il vero, qualche volta anche da quelli italiani – che sminuisce il lavoro delle (altre) procure, appiattisce l’impegno serio e di lungo corso del procuratore Gratteri a una narrazione da thriller. E ha onestamente stancato chi di noi vorrebbe contenuti con un minimo di spessore analitico.

    1897-2023: cosa è cambiato?

    Comunque, se anche lo spessore analitico non si potesse avere per ragioni stilistiche e di target/audience, che ci sia almeno una correttezza di narrazione nel prodotto di “intrattenimento”.
    L’assenza di voci di contrasto – che siano i cittadini, i sindaci e le istituzioni amministrativo-politiche e le associazioni – rende documentari come questo parziali e non molto utili nel descrivere “come combattere la mafia”. Ma qui il mio lavoro da analista finisce, si entra in altri settori – la produzione televisiva e il giornalismo – che non mi competono. Quel che però un documentario come quello di SkyNews dovrebbe suscitare è un dibattito su come la Calabria viene raccontata anche quando si parla di ‘ndrangheta.

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    Robbins a spasso per Platì

    Siamo rimasti alla questione meridionale, dove l’arretratezza del Sud, la sua mafia, il malcostume e il malaffare, sono diventate caratteristiche non solo dilaganti, ma praticamente “razziali”, identitarie di un omologato meridione “diverso” che provoca stupore e quasi un’attrazione morbosa da circo in chi lo guarda da fuori.
    Poco è cambiato da quando Lombroso, che il meridionalismo lo aveva riconosciuto ed anticipato di qualche anno, scriveva nel suo libro L’Uomo Delinquente, edizione del 1897: «Una prova, pur troppo evidente, che la formazione delle associazioni malvagie dipende dall’adattamento all’indole od alle condizioni di un paese, l’abbiamo nel vedere ripullulare spontanea la mafia e la camorra, anche dopo la distruzione od il sequestro dei suoi membri».
    Ineluttabile fato affligge il calabrese a ripetere i suoi errori, tanto da non chiedersi più nemmeno perché accade. Ma anche estrema verità che Lombroso aveva colto: ci si adatta anche alla mafia nelle “condizioni del paese”.

    Un problema complesso

    Quando si arriva in Calabria e si sceglie di raccontare come SkyNews la ‘ndrangheta come onnipresente, ultra-fagocitante bestia che attanaglia una regione ineluttabilmente piegata al suo volere, si racconta infatti solo una parte del problema mafia. Si appiattisce il problema e lo riduce a un unico nemico. Raccontarne invece la complessità richiederebbe parlare dei calabresi che in convivenza con la ‘ndrangheta – in quei territori “controllati” aspromontani, per esempio – fanno invece altro, molto altro.
    Come andare in pellegrinaggio di una giornata al Santuario della Madonna di Polsi, ignorandone le sue strumentalizzazioni mafiose, invocando le grazie della Madonna della Montagna. Magari suonando una tarantella che a provare a ballarla ti manca il fiato, tanto è dinamica, tanto è vitale.

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    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    No: non si tratta di proporre la solita narrazione della Calabria-folklore, che ignora la presenza della mafia e guarda solo al bello che qui da noi c’è. Si tratta di raccontare insieme la mafia che esiste e opprime e la gente comune che si adatta e ci convive. Conviverci non significa necessariamente piegarsi o approvare il comportamento mafioso, ma accettare che tutti i luoghi sono plurali e che esistono insieme tante dinamiche personali e sociali che esulano dalla nostra sfera di controllo personale.

    Come bestie al circo

    Si potrebbe dunque raccontare la tensione, in alcune parti della Calabria, nel vivere la presenza mafiosa al pari dell’immobilità sociale: ineluttabilmente. Scriveva ancor Lombroso nel suo saggio scritto dopo tre mesi in Calabria, nel 1863, «ogni lamento sarebbe lieve a deplorare lo stato in cui giace in Calabria l’educazione della mente e del cuore del popolo». Interverrebbero a mutare questi assetti sicuramente la fiducia verso lo Stato e la sua azione propulsiva, lo sviluppo economico, la coesione sociale promossa come strumento di questo sviluppo economico. Le colpe, in Calabria, si sa, non sono solo della ‘ndrangheta, che di questa terra è madre e figlia al tempo stesso.

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    Due uomini osservano la troupe di Sky dal loro balcone

    Tornando al documentario di SkyNews sulla ‘ndrangheta a Mafia Land (e alle sue approssimazioni), si constata invece come il processo di “alterizzazione” – e cioè di additamento dell’altro come diverso, strano, pericoloso (in inglese si chiama othering) – sia ancora la normalità per molti media esteri. Ci guardano, a noi in Calabria, come “animali in gabbia” da strumentalizzare per il proprio intrattenimento.
    Non si comprendono le radici profondamente sociali di certi fenomeni, inclusa la mafia, e soprattutto gli effetti dannosi di una narrazione centrata sull’alterità, l’abnormalità e il martirio di chi la combatte.
    Così non si informa bene sulla mafia e non si aiuta l’antimafia. Anzi, la si confonde e la si mina dal basso, alienando proprio quella gente che a San Luca e Platì guarda fuori dalle finestre quando passano le telecamere. E si chiede, forse, quando andranno via gli spettatori del circo.