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  • San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    Alla “nuova” tendopoli di San Ferdinando ci si arriva attraversando il deserto della seconda zona industriale, alle spalle del porto di Gioia. La presenza sempre più ingombrante di immondizia stanziale indica la vicinanza al nuovo ghetto. È sorto in risposta allo sgombro della vecchia baraccopoli.

    La “nuova” tendopoli di San Ferdinando

    Sul piazzale di quello che una volta era l’ingresso ufficiale del campo (e che ora è solo uno dei tanti varchi d’accesso all’area) i medici dell’Asp e i mediatori culturali sono in campo. Si occupano della somministrazione delle seconde dosi di vaccino per i “residenti”. Chi deve completare il percorso vaccinale, chi ha già contratto il covid durante la “zona rossa” e deve fare la prima dose, chi è in attesa del green pass che ancora non è arrivato. Tutti, più o meno, sono ordinatamente in fila davanti al campo che c’è ma che allo stesso tempo non esiste.

    L’approccio emergenziale ha fallito

    Una sorta di paradosso quantico-burocratico di stampo calabrese per cui – dopo l’inevitabile resa del sindaco di San Ferdinando e l’infinito rimpallarsi di responsabilità di Regione, Città metropolitana e ministero dell’Interno, che continuano ad approcciarsi al fenomeno solo sotto l’aspetto emergenziale – la tendopoli è, da mesi, in fase di smantellamento e quindi non riceve più servizi ufficiali (mensa, raccolta della spazzatura, controllo degli accessi e dei residenti, manutenzione) ma continua paradossalmente a essere accettata, anche se i problemi sono aumentati negli ultimi mesi, come residenza per gli stranieri “regolari” che la utilizzano per i loro documenti e che lì, in condizioni subumane, ci vivono.

    Una bomba sociale pronta ad esplodere

    Una sorta di non luogo che, come gli esempi che lo hanno preceduto, si sta trasformando nell’ennesima bomba sociale pronta ad esplodere. E come nella storiella del calabrone che vola pur non essendo adatto a farlo, la tendopoli che non esiste, continua ad attirare lavoratori migranti, con nuove tende che vengono allestite ai margini del campo e baracche di legno e cartone costruite dove capita.

    Storie di ordinario degrado nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Il ghetto

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione e telecamere è andato distrutto durante la sommossa scoppiata durante la prima fase della pandemia, in seguito all’istituzione della zona rossa che blindava all’interno tutti i migranti. Da quando le istituzioni hanno alzato bandiera bianca nessuno si occupa più di censire i residenti. Anche il presidio fisso di polizia è stato smantellato, con le volanti che nei giorni “normali” si limitano ad una ronda discreta. Con lo stop ai progetti (e quindi ai fondi ad essi legati) il campo vive in una sorta di autogestione traballante.

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione
    Restano i volontari di Emergency

    Sono rimasti solo sindacato e associazioni di volontariato. Danno una mano e garantiscono una serie di servizi essenziali, dall’assistenza legale a quella sanitaria fino alle consulenze di carattere amministrativo. I medici del presidio di Emergency vengono sul posto due volte al giorno. Curano l’aspetto sanitario quotidiano. Ma i malati cronici vanno incontro a mille difficoltà.

    «Amed ha un grosso problema cardiaco, finalmente dopo mille telefonate siamo riusciti ad ottenere una visita specialistica a Polistena. Lo portiamo noi, a spese nostre». Ferdinando e Fabio sono due volontari della Caritas, in passato inseriti in uno dei progetti di gestione del campo.

    Quando i soldi sono finiti, non hanno smesso di occuparsi della tendopoli e nel nuovo ghetto alle porte di San Ferdinando, continuano a venirci almeno tre volte la settimana: «Ci occupiamo di aiutarli con i documenti, distribuiamo cibo e vestiti, ma è sempre più difficile, sono spariti quasi tutti».

    Botte e morti non sono mancati

    Attualmente nel campo ci sono circa 250 residenti, di una quindicina di nazionalità diverse. Le tensioni sono all’ordine del giorno e in passato numerosi sono stati gli episodi di violenza esplosi tra residenti, e i morti non sono mancati. Tutti uomini con età media attorno ai 30 anni, vivono in quello che resta delle tende piazzate dal Ministero. Ma i numeri sono destinati a crescere.

    Tra un paio di settimane si aspetta la prima ondata dei raccoglitori di kiwi e quando anche la stagione delle clementine entrerà nel vivo, in quella sorta di universo parallelo che cresce alle spalle del porto, la popolazione potrebbe sfiorare le mille unità. E infatti, in ogni pezzettino di terra disponibile, spuntano nuove capanne improvvisate mentre in quelle vecchie si stendono i tappeti con funzione isolante. Ma escamotage e piccoli interventi non cambiano la sostanza delle cose e le condizioni di vita restano agghiaccianti.

    Capanne costruite con materiali improvvisati
    La bottega dell’acqua calda

    Inizialmente erano state predisposte delle centraline elettriche, ognuna in grado di garantire luce e riscaldamento per sei tende. Ma quando le cose hanno iniziato a precipitare nessuno ha più curato la manutenzione, cosa che ha favorito il moltiplicarsi degli allacci abusivi alle centraline superstiti che, a cascata, provoca continui blackout mandando a farsi strabenedire ogni proposito di sicurezza.

    Stesso discorso per l’acqua. Quella calda ormai è un miraggio, tanto che tra le baracche di nuova costruzione ne è spuntata una in cui “lavora” Keità, un gigante del Senegal di poco meno di 30 anni. Ogni giorno si occupa di tenere acceso il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi: la vende a secchi, 50 centesimi ciascuno. I migranti la usano per lavarsi dopo una giornata di lavoro.

    Keità, il gigante del Senegal nella bottega dell’acqua calda

     

    Issa viene dal Gambia e ripara bici

    La bottega dell’acqua calda non è però l’unica operativa all’interno della tendopoli. Issa viene dal Gambia e nella tendopoli ci vive da anni. In quella sgombrata prima e in questa che non esiste adesso. Ripara biciclette (la quasi totalità dei migranti africani si muove sulle bici, e in passato non sono mancati gli incidenti mortali lungo le strade che collegano le città del porto) «ma solo quando non mi faccio la giornata di raccolta delle arance, qui non si guadagna molto. In questo momento non siamo tanti e il lavoro di meccanico è ridotto, ma quando comincia la stagione della raccolta arrivo a riparare anche 15 bici al giorno».

    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Cronaca di un fallimento
    Dai capannoni fatiscenti della Rognetta in cui covò la rivolta del 2010, alla baraccopoli dell’orrore costruita dietro il capannone sequestrato ai Pesce e sgombrata a favore di telecamera dall’allora ministro Salvini, fino alla nuova tendopoli, allestita 500 metri più in là della vecchia che, se ufficialmente risulta in via di smantellamento da mesi, brulica invece di umanità e si prepara ad accogliere la nuova ondata di stagionali: la storia dei ghetti per neri della piana di Rosarno racconta di un fallimento lungo più di 10 anni, con favelas più o meno autorizzate spuntate un po’ ovunque tra i casolari diroccati delle campagne e gli spiazzi abbandonati della semi deserta zona industriale alle spalle del porto.

     

    È un problema politico, non burocratico
    Un fallimento costruito sulle spalle dei lavoratori migranti, quasi tutti regolari, e su quelle degli abitanti dei paesi della zona che quei ghetti li hanno subiti a loro volta. Un fallimento da cui le istituzioni hanno pensato di uscire con la stipula di un documento (storia di una manciata di settimane fa) tra Regione, città metropolitana, Prefettura e comuni interessati «per il superamento della situazione emergenziale – recitava la nota ufficiale – che caratterizza le condizioni dei lavoratori stranieri presenti della piana di Gioia Tauro».
    Le difficili condizioni in cui vivono i lavoratori stagionali a San Ferdinando
    Un documento che lascia molte questioni in sospeso e che lo stesso sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, guarda con disincanto. «Fino a quando continueranno ad affrontare un evento epocale come quello migratorio con un approccio unicamente di tipo emergenziale e caritativo non andiamo da nessuna parte. Questo tipo di interventi finisce sempre col determinare tensioni che finiscono per scaricarsi sulla società che, a sua volta, reagisce con la pancia. Qui bisogna affrontare l’intera vicenda dal punto di vista politico e smetterla di riversare tutte le responsabilità sulle amministrazioni comunali che non sono neanche preparate ad affrontare questo tipo di situazioni».
    La dignità a 50 centesimi
    E mentre a Riace, sul versante jonico della provincia, l’accoglienza dal basso immaginata da Lucano nelle case abbandonate dagli emigrati locali è costata 13 anni e rotti di carcere, nello slum della piana di Rosarno, la dignità umana si vende a secchi. Cinquanta centesimi ciascuno.
  • Lucano torna a Riace: «Non mi pento di nulla»

    Lucano torna a Riace: «Non mi pento di nulla»

    «Non mi pento di niente di quello che ho fatto. Bisogna rimanere per continuare a sognare». Dopo lo sconforto di ieri in seguito alla pesantissima condanna rimediata nel processo Xenia, il ritorno a Riace dell’ex sindaco Mimmo Lucano si apre sotto una luce diversa. Tanta la solidarietà piovuta su Mimmo “il curdo” e sul suo progetto di accoglienza che, negli anni, aveva sottratto Riace all’azzeramento culturale ed economico a cui sembrava destinata.

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    Un esercito a Riace

    Solidarietà che si è materializzata nel paese dei Bronzi con centinaia di persone che, nel pomeriggio del day after, hanno accolto tra gli applausi l’ex sindaco. Sui gradoni dell’anfiteatro coi colori della pace, un esercito di attivisti, amministratori, candidati, rappresentanti delle Ong che pattugliano il Mediterraneo: tutti stretti all’ideatore di un modello d’accoglienza che, tra difficoltà, errori e tanto entusiasmo ha proposto un punto di vista alternativo, finendo per diventare un caso internazionale.

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    E così, tra “vecchi compagni” e giovani attivisti – e col consueto corollario di giornalisti, italiani e stranieri, che hanno assediato il piccolo centro jonico dalle prime ore del mattino – Lucano ha provato a raccontare il suo punto di vista su una vicenda processuale che, in primo grado, ha seppellito il “modello Riace” sotto 80 anni di carcere e risarcimenti milionari.

    Quando la Prefettura chiamava

    «Se hanno condannato me, allora avrebbero dovuto condannare anche la Prefettura, che mi chiamava San Lucano quando mi implorava di accettare nuovi arrivi» racconta Lucano tra gli applausi di una platea che si irrobustisce con il passare dei minuti. Arriva Peppino Lavorato, l’ex sindaco che negli anni ’90 fu splendido e coraggioso protagonista della “primavera rosarnese”, e Abaubakar Soumahoro, il sindacalista di origine ivoriana diventato icona della lotta al caporalato. Seduto nel pubblico c’è pure Sisi Napoli, l’anestesista che, schivando la baraonda mediatica, a Riace ha aperto un ambulatorio medico che si prende cura, gratis, di chiunque si presenti alla porta, immigrato o italiano che sia.

    Carte d’identità

    «Mi hanno condannato per avere rilasciato la carta d’identità ad un bambino di quattro mesi che senza quel documento non avrebbe potuto accedere alle cure del servizio sanitario nazionale – dice Lucano – Una cosa che rifarei altre mille volte e mi chiedo, allora perché non mi hanno imputato la carta d’identità che ho rilasciato a Becky Moses (la ragazza nigeriana costretta ad abbandonare Riace dalla burocrazia che le negava il permesso di soggiorno, e arsa viva, una manciata di giorni dopo avere lasciato Riace, nella vergognosa baraccopoli di Rosarno, ndr)? Forse perché responsabile di quel campo dove è morta quella ragazza era la Prefettura?».

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    Un modello polverizzato

    E poi i messaggi della mamma di Carlo Giuliani e di Roberto Saviano, oltre alle testimonianze dei rappresentanti del Baobab di Roma e della Mediterranea, la Ong che si occupa tra una montagna di polemiche di prestare soccorso alle carrette del mare alla deriva, in un abbraccio colorato e festoso che non cancella però i 13 anni e rotti di carcere con cui il Tribunale di Locri ha polverizzato l’intero modello.

  • Diavolo o santo? La politica prende posizione su Lucano

    Diavolo o santo? La politica prende posizione su Lucano

    C’è stato un tempo – neanche troppo lontano, tra il 2014 e il 2015 – in cui Nino Spirlì scriveva corsivi per un giornale ormai chiuso ma dal nome inequivocabile: Le cronache del Garantista. Com’è facile intuire, su quelle pagine si predicava un principio cardine della giustizia italiana: fino a sentenza definitiva, la presunzione di innocenza vale per tutti. La memoria, si sa, può giocare brutti scherzi. E il nostro ff pare aver dimenticato quei suoi trascorsi, così come non aver notato che la condanna a Lucano è in primo grado e altri due ne serviranno per stabilire la sua eventuale colpevolezza.

    Spirlì e la fiction nel cesso

    Dal momento in cui il verdetto avverso all’ex sindaco di Riace è diventato di dominio pubblico, gli uomini di via Bellerio hanno dato fondo a tutto il loro entusiasmo nel festeggiare la sentenza contro l’odiato accoglitore di migranti. Spirlì non ha esitato a definire Lucano «un truffatore», aggiungendo che sia il riacese che de Magistris (nelle cui liste l’ex primo cittadino è candidato) ora dovrebbero ritirarsi dalle elezioni del 3 e 4 ottobre. Poi, con eleganza oxoniana, l’erede pro tempore di Jole Santelli ha aggiunto che la Rai «di sinistra» ora ha del «materiale da buttare nel cesso», in riferimento alla mai trasmessa fiction prodotta dalla televisione di Stato sul modello Riace.

    Epurazioni in Rai

    Più sintetico – su twitter è d’obbligo – Matteo Salvini, che se l’è sbrigata con un «La Calabria non merita truffatori e amici dei clandestini». D’altra parte, a detta di Massimiliano Romeo (capogruppo della Lega in Senato), Salvini è «l’unico contro la mangiatoia della finta accoglienza», mentre l’ex sindaco di Riace è «uno che fa soldi sulla pelle altrui».
    Tornando alla Rai, il solerte forzista Maurizio Gasparri ha già annunciato che chiederà in Commissione Vigilanza l’epurazione degli ideatori della serie tv su Lucano. Mentre Massimiliano Capitanio – membro di quella stessa Commissione, ma in quota Lega – ha tuonato contro il direttore del Tg1 per non aver inserito tra i titoli di testa dell’edizione delle 13.30 la sentenza di condanna pronunciata a Locri.

    Due pesi e due misure

    L’unico nel centrodestra a cui pare davvero fregar poco della questione pare Roberto Occhiuto, che mentre i commenti sulla vicenda impazzavano metteva video su facebook in cui disserta dei suoi trascorsi giovanili e di aiuti alle imprese. Un altro big leghista, Roberto Calderoli, giusto all’indomani dell’esplosione del caso Morisi – quasi derubricato a una ragazzata dai suoi, contrariamente a quando episodi simili coinvolgevano persone qualunque – sale invece sul pulpito per accusare la sinistra di usare «due pesi e due misure» quando le condanne la riguardano. Tesi anche valida, se non si comportasse nel medesimo modo pure la sua parte politica.

    Uno scandalo per la sinistra

    A sinistra (o quasi), in effetti, è tutto un gridare allo scandalo per quanto deciso dai giudici a Locri. La sentenza sarebbe «abnorme» per Matteo Orfini e Laura Boldrini (Pd), così come per Gennaro Migliore (Iv); «incredibile» secondo Nicola Fratoianni (Sinistra italiana); «inaudita» per Loredana De Petris (Leu). L’Anpi si dice «sconvolto», l’Arci parla di «sentenza vergognosa», mentre +Europa la reputa «sproporzionata». Il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, la definisce invece «inaudita».

    De Magistris, Oliverio e Bruni

    E in Calabria, dove Lucano corre nelle liste di de Magistris? Il primo a pronunciarsi è stato ovviamente il sindaco di Napoli. Che ha promesso di raggiungere Mimmo “il curdo” già domani a Riace perché per lui è «un uomo che è l’antitesi del crimine, un simbolo di umanità e di fratellanza universale». Sarà, alla peggio, il classico “compagno che sbaglia”: «Non è certo un cultore del diritto amministrativo, avrà pure commesso delle irregolarità ed illegittimità, ma sono convinto – scrive Dema – che alla fine del suo calvario verrà assolto perché ha agito per il bene e mai per il male».

    Vicino all’ex primo cittadino di Riace anche Mario Oliverio, che ha affidato a una nota stampa – e una telefonata in privato – la sua solidarietà e stima per quel Lucano che a suo avviso uscirà immacolato dai successivi gradi di giudizio. Campionessa di sintesi, invece, Amalia Bruni. Che ha liquidato l’evento del giorno con 17 parole in totale: «Le sentenze non si commentano, si rispettano. Dispiaciuta dal punto di vista umano, non smetta di combattere».

  • Mimmo Lucano, se questo è un fuorilegge

    Mimmo Lucano, se questo è un fuorilegge

    Finisce sepolto sotto 13 anni e due mesi di reclusione il sogno di Mimmo “il curdo” Lucano. Un sogno fatto di integrazione reale, di solidarietà dal basso, di ricerca della pari dignità tra uomini di terre diverse. Un sogno che si infrange su una sentenza piombata come un asteroide in una terra di frontiera come la Locride, dove gli sbarchi dei disperati in fuga da guerra e fame si susseguono al ritmo di uno ogni due giorni.

    Una condanna pesantissima – praticamente il doppio della richiesta avanzata dai Pm durante la requisitoria – arrivata in coda ad un processo dai tratti vagamente surreali e che, in poco meno di due anni, potrebbe avere posto una pietra tombale su un modello di accoglienza unico nel panorama europeo. Un modello, nato a due passi e in contrapposizione agli slum per immigrati di Rosarno, che era riuscito nel doppio intento di tendere la mano ai migranti e di ripopolare un paese, Riace, che aveva visto i propri abitanti originari, emigrare alla ricerca di lavoro e stabilità. Una sorta di sistema di vasi comunicanti interrotti dall’indagine che ha portato alle condanne di oggi.

    La tarantella in Prefettura

    Alla genesi dell’indagine della Guardia di finanza ci sono una serie di relazioni della Prefettura che, a leggerle, raccontano realtà completamente diverse: tra gennaio e giugno del 2017, sono cinque le ispezioni che si susseguono a Riace inviate dall’allora prefetto Michele Di Bari, il funzionario che durante il suo mandato in riva allo Stretto si fece notare per il numero di comuni commissariati e che, con nomina del governo Conte 1 e in seguito alla inarrestabile chiusura dei progetti Sprar in provincia di Reggio, fu promosso nel 2019 a capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione al ministero dell’Interno, all’epoca sotto la gestione di Matteo Salvini.

    Ed è in quelle relazioni così diverse tra loro che emergono le differenze più marcate sul modello finito sul banco degli imputati. Nella prima relazione consegnata dai funzionari sbarcati a Riace, con gelido linguaggio burocratico, si evidenziano numerose criticità legate ai residenti “a lungo termine”, sulla condizione delle case e sulla gestione del denaro. Una relazione che, nella sostanza, sembra guardare solo all’aspetto burocratico dell’integrazione senza accorgersi della quotidianità “diversa” di Riace e che tra i suoi estensori vedeva anche la presenza di un funzionario, Salvatore Del Giglio, finito invischiato pochi mesi dopo, ironia della sorte, in un’indagine della Procura di Palmi che lo accusava di avere steso una relazione falsa sul progetto Sprar operativo a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. Sarà questo il documento che darà il via all’inchiesta.

    E se la prima relazione aveva “smontato” il modello Riace, nel maggio del 2017 arrivano nel piccolo borgo jonico altri tre funzionari della Prefettura di Reggio che di quel piccolo paese, tracciano un quadro che sembra venire da un’altra dimensione rispetto a quello precedentemente redatto dalla Prefettura. I funzionari ministeriali girano per il paese, ne respirano il profumo e raccontano di una scuola riaperta che grazie alla nuova linfa dei bambini venuti dal mare era diventata «un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine» perché, annotano «una scuola senza bambini è la conclusione ingloriosa di un mondo, un universo senza futuro. Riace ora ha la sua scuola, degli insegnanti, dei ragazzi che apprendono».

    Un mondo al contrario

    Scuola che, in seguito alla serrata dei progetti d’accoglienza, ha mestamente richiuso i battenti, costringendo i pochissimi bimbi rimasti in paese a raggiungere l’istituto della Marina, dieci chilometri a valle. E poi le case «umili ma pulite e confortevoli» e le botteghe e le cooperative per la raccolta rifiuti a dorso di mulo, per una realtà che rappresenta «un microcosmo strano e composito che ha inventato un modo di accogliere e investire sul proprio futuro e che ha ricominciato a fare tante cose» per un’esperienza «che è segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione».

    Una relazione che, superando l’aspetto burocratico, raccontava di un paesino minuscolo che splendeva di luce propria, nel deserto sociale ed economico della Locride, finendo per incuriosire intellettuali e artisti, da anni in pellegrinaggio sulle colline dello Jonio reggino per toccare con mano quel mondo al contrario creato nella Calabria degli ultimi. Wim Wenders, per dirne uno, a Riace ci ha girato anche un film. Una relazione che, a leggere il dispositivo della sentenza e in attesa delle motivazioni, sembra non avere rivestito nessun ruolo.

    Il valzer dei processi

    E poi i vari giudizi così diversi che, nel tempo, sono arrivati dai magistrati che si sono occupati dell’affaire Riace. Dai pm di Locri che ipotizzavano l’associazione che «mitizzava l’accoglienza sulle spalle dei migranti», al Giudice per le indagini preliminari che, in prima istanza, disponendo gli arresti domiciliari per Lucano, ridimensionava fortissimamente le accuse, dispensando bordate sulla fragilità delle indagini, passando per il Gup Monteleone, che quelle accuse di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, concussione e malversazione le aveva resuscitate rinviando Lucano e altri 26 a giudizio, finendo al Presidente Accursio che, nel disporre il giudizio, raddoppia di fatto, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura.

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    E mentre la parola fine, almeno in primo grado, chiude il discorso sul modello Riace, nei 13 anni inflitti a Lucano, finisce anche la carta d’identità che l’ex sindaco rilasciò a un bambino di una manciata di mesi e alla sua mamma: documento senza il quale il bambino non avrebbe potuto accedere alle cure mediche di cui necessitava (cure garantite dalla Costituzione) che per Lucano rappresenta una bandiera, ma che per la giustizia italiana invece, resta solo un illecito amministrativo.

  • Lucano a sentenza: quale finale per il modello Riace?

    Lucano a sentenza: quale finale per il modello Riace?

    Dalla copertina di Fortune ad un’aula del tribunale di Locri, dalle continue richieste d’aiuto arrivate dalla Prefettura durante la crisi di Lampedusa, all’accusa di «ricerca e di mantenimento a tutti i costi del potere politico»: è prevista per giovedì la sentenza su Mimmo Lucano, l’ex sindaco ideatore del “modello Riace”, trascinato in giudizio con accuse pesantissime (rischia una condanna a 7 anni e 11 mesi di reclusione) e protagonista di quella che da più di venti anni è bollata come “emergenza” immigrazione.

    E così, ad una manciata di ore dal silenzio elettorale – Lucano è capolista alle regionali tra le fila del candidato presidente Luigi de Magistris – arriverà la parola fine, almeno in primo grado, per un processo «che non è e non vuole essere – disse il Procuratore capo di Locri D’Alessio in fase di requisitoria – un processo politico» ma che, per usare le parole dell’ex primo cittadino di Milano e avvocato difensore di Mimmo “il curdo” Lucano, Giuliano Pisapia, certamente assomiglia «a un caso di accanimento non terapeutico» nei confronti di un modello di integrazione, operativo dal 1998 e studiato, per la sua unicità, nelle università di mezzo pianeta.

    Le accuse

    Sono 27 gli imputati del procedimento Xenia, considerati, a vario titolo, come cardini di un sistema nato per caso con l’arrivo sulle coste di Riace, nell’autunno del 1998, di un barcone carico di disperati curdi, e cresciuto negli anni fino a diventare un “caso” internazionale. Lucano viene arrestato dalla Guardia di finanza all’inizio di ottobre del 2018 con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento del servizio di raccolta della spazzatura, nell’ambito di un’inchiesta più vasta che uscì fortemente ridimensionata dal vaglio del giudice per le indagini preliminari.

    Il Gip infatti rigettò le accuse più pesanti ipotizzate dai magistrati locresi (associazione a delinquere, concussione, truffa ai danni dello Stato e malversazione) definendo la gestione del denaro arrivato a Riace come «disordinata ma senza illeciti». Un giudizio severo (e correlato di numerose critiche sulla superficialità delle indagini) a cui nel tempo si sono aggiunte le sentenze del tribunale del Riesame, della corte di Cassazione e della corte dei Conti che hanno ulteriormente smontato buona parte dell’ipotesi accusatoria. Pronunciamenti che però non convinsero il Gup Monteleone che, disponendo il giudizio, dopo 7 ore di camera di consiglio e 4 udienze preliminari, resuscitò le accuse più pesanti, a partire dall’ipotesi di associazione a delinquere e abuso d’ufficio.

    A giudizio un modello

    Ora, a distanza di tre anni da quell’arresto salutato con soddisfazione dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, sarà la Corte guidata dal neo presidente del Tribunale Fulvio Accursio a decidere sulla sorte degli imputati e, di conseguenza, sul modello Riace. Un modello rappresentato dai Pm come «l’opposto dello spirito dell’accoglienza; un sistema che ha attirato congrui finanziamenti e che è caratterizzato da una “mala gestio” che vede come parte lesa i migranti stessi».

    Non aveva usato mezzi termini il Procuratore D’Alessio, nel descrivere l’ipotesi dell’accusa: da una parte la difesa del procedimento «che non ha nulla di politico, né nella sua genesi, né nel sul sviluppo successivo ma che ha avuto una eco mediatica molto difficile da sostenere», e dall’altra la “demolizione” di ciò che aveva portato il piccolo centro jonico al centro dell’attenzione mondiale per il suo modello di integrazione “controcorrente”. «Qui l’accoglienza è stata mitizzata. Il denaro arrivava cospicuo, ma ai migranti finivano solo le briciole perché tutto veniva gestito mirando al consenso personale per coltivare le proprie clientele elettorali – diceva ancora D’Alessio – personalmente auspico che Riace possa tornare al centro dell’attenzione del mondo intero per l’accoglienza, ma non sulle spalle di tutte queste persone “portate dal vento”».

    La difesa

    «È un santo o un diavolo? Io credo che sia solo un uomo che ha messo la sua vita a disposizione dell’umanità. Un uomo senza un soldo, che viveva con l’aiuto economico del padre e che ha rinunciato a candidature sicure al Parlamento italiano e a quello europeo per restare fedele ai suoi ideali». Si potrebbe compendiare in queste poche parole il senso dell’arringa di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e avvocato di Lucano che più volte, difendendo l’ex sindaco ha posto l’accento sul senso stesso del sistema Riace.

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    Giuliano Pisapia

    «Un sistema che durante il mio mandato di sindaco – ha detto ancora Pisapia – portò Riace ad accogliere 100 immigrati sbarcati a Lampedusa negli stessi giorni in cui la mia città, Milano, ne accoglieva solo 20, perché un conto è parlare di leggi, codici e opportunità, e un conto è dare una risposta nel momento del massimo bisogno per evitare il disastro. Era la Prefettura a dare a Lucano le liste con i migranti da accogliere. E ora si imputa a Lucano di non averli allontanati, ma chi può davvero pensare che Mimmo potesse cacciarli dal paese? Loro non volevano andarsene e Mimmo non voleva cacciarli. La Prefettura era a conoscenza di questa situazione».

    Un finale da scrivere

    Nelle parole di Pisapia e Daqua – arrivate in aula mentre sulle coste della Locride si vive l’ennesima emergenza sbarchi con migliaia di disperati arrivati negli ultimi due mesi – rivive il progetto che trasformò Riace da borgo in fin di vita a centro di integrazione, capace di ripopolare la scuola e le strade di un paese che si era negli anni desertificato. Un progetto creato da Lucano «perché credeva in quell’idea che sta scritta nella nostra Costituzione e non per la ricerca del potere» ha detto ancora Pisapia che, citando Calamandrei, ha ricordato alla Corte che «un giudice è anche uno storico, nel senso che scrive la storia». Una storia che, in un modo o in un altro, troverà conclusione giovedì.

  • Barricate ad Arghillà, cosa resta dopo la rivolta

    Barricate ad Arghillà, cosa resta dopo la rivolta

    «Scusate, sapete quando riaprono la strada? L’autobus mi ha lasciata alla chiesa ed è tornato indietro, dice che non si passa. Sono dovuta venire a piedi». Più che una vera risposta, la signora con passo affannato che si affaccia a parlare con un volontario della protezione civile al lavoro nella ex scuola di Arghillà cerca una sponda con cui lamentarsi, dopo la scarpinata in salita che si è dovuta sorbire di ritorno dalla città. Lo stradone che taglia in due questa estrema periferia di Reggio Calabria è ancora in parte bloccato dalle macerie lasciate ieri dalla protesta volante contro l’arrivo dei migranti sbarcati al porto qualche ora prima e gli autobus hanno smesso di fare il giro completo del quartiere, in attesa che qualcuno sgombri la carreggiata.

    Arrivano i migranti

    La targa all’ingresso recita “Istituto comprensivo Radice – Alighieri”, ma è stata una scuola solo per una manciata d’anni, giusto il tempo di rimettere in sesto lo stabile di Catona che era stato dichiarato inagibile. Poi i lavori nella scuola a valle sono terminati e i bambini del comprensorio, così come erano arrivati ad Arghillà, sono tornati via e la struttura, che in passato ha anche ospitato gli uffici dell’ottava circoscrizione e un presidio della polizia, è tornata ad essere sprangata e assediata dalle erbacce.

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    Almeno fino a martedì pomeriggio quando il Comune, “sorpreso” dall’arrivo in porto dell’ennesima carretta del mare carica di disperati, ha scelto proprio quel palazzone della periferia nord per sistemare temporaneamente il nuovo carico di migranti. Ad Arghillà – palazzoni occupati, strade invase da montagne di spazzatura e capannoni sventrati dal tempo su una terrazza magica affacciata sulla Sicilia – non hanno preso per niente bene la decisione, tanto che all’arrivo dei primi autobus con a bordo i migranti – tra loro anche famiglie con bambini – in tanti sono scesi in strada.

    Fuoco alla barricata

    La protesta è degenerata con la costruzione di una barricata di rifiuti a cui è stato successivamente dato fuoco. Si è rimasti sull’orlo di una crisi di nervi per diverse ore, con le forze dell’ordine a mantenere calmi gli animi. Infine, la decisione salomonica dell’amministrazione reggina: confermata la presenza dei 72 migranti già nella scuola, rinculato il resto del gruppo (80 persone) verso lo “scatolone”, il palazzetto a due passi dal Granillo.

    Dal canto loro, i migranti stanno bene, e dopo gli iniziali momenti di tensione hanno trascorso una notte tranquilla. Su di loro, oltre alle auto di carabinieri e polizia che presidiano la struttura, vegliano i volontari della protezione civile che hanno provveduto a portare i beni di prima necessità, giocattoli compresi, alle famiglie venute dal mare.

    Lo slalom verso il carcere

    Un po’ rivolta contro l’arrivo dei migranti, un po’ grido d’allarme su una periferia abbandonata che ricorda degradi pasoliniani, il giorno dopo la protesta di Arghillà quello che resta è una striscia indefinita di vecchi mobili e sacchi d’immondizia bruciati che ancora bloccano a metà la strada principale del quartiere e attraverso cui sono costretti a fare manovra anche i mezzi della penitenziaria e le auto di magistrati e forze dell’ordine che devono raggiungere il carcere poco più a monte.

    stradone-arghillà

    «La protesta non è stata violenta ma erano tanti – dice Marco, che davanti alla montagna di rifiuti che martedì è stata data alle fiamme, gestisce un tabaccaio – e non ce l’avevano tanto con i migranti. Quelli sono solo l’ultimo dei problemi di questo quartiere. Si guardi intorno, avevano pulito dalla spazzatura un po’ di tempo fa, ora siamo di nuovo punto e a capo. Non si può vivere così». Qualche curioso si ferma a guardare la barricata che occupa metà della strada, altri allungano il collo verso la ex scuola, indicando le persone alle finestre: «Si levanu giovedì, rissiru. Virimu».

    A Roccella va peggio

    E se Reggio piange, a Roccella la situazione è sull’orlo del collasso. I continui sbarchi delle ultime settimane hanno infatti messo a dura prova la collaudata macchina dell’accoglienza. Il problema è sempre lo stesso: se i trasferimenti verso le strutture attrezzate non arrivano in tempo, i migranti finiscono per essere stipati per giorni e giorni in stabili non adeguati. In questo momento sono circa 300 le persone arrivate sulle banchine del porto delle Grazie di Roccella negli ultimi venti giorni e rimaste ancora in zona in attesa di trasferimento.

    Sono in 123 all’ex ospedaletto, alla periferia nord della cittadina jonica; altri 80 sono sistemati alla meno peggio dentro il palazzetto dello sport e altri 90 sono stati parcheggiati in una struttura di Siderno Superiore, per una situazione che sta mettendo a dura prova tutti gli attori impegnati nella prima accoglienza, dalle forze dell’ordine ai volontari della croce rossa e della protezione civile.

  • Afghani a Cosenza: adesso siamo salvi, familiari rimasti a Herat

    Afghani a Cosenza: adesso siamo salvi, familiari rimasti a Herat

    Dalla base italiana di Camp Arena ad Herat, fino a Cosenza, scappando dall’illusione di una vita di pace che minacciava di diventare un inferno. Gholam Hossain e Amir Ali, sono due interpreti del contingente italiano in Afghanistan che hanno dovuto lasciare il loro Paese con le loro famiglie, racchiudendo in pochi bagagli i frammenti di una vita che speravano fosse diversa e che invece l’arrivo tumultuoso dei talebani avrebbe cancellato del tutto.

    «Quando gli italiani si preparavano a smantellare la loro base, hanno chiesto a quanti in questi anni avevano collaborato con loro se volevano restare o andare via – racconta Amini – per noi non c’era scelta, dovevamo andare».

    Tre motivi per scappare

    I due sono hazari, sono sciiti e sono stati collaboratori degli occidentali, tre drammatiche ragioni per scappare, perché adesso esse corrispondono a tre condanne a morte. La loro esperienza con i militari italiani comincia 13 anni fa, quando il contingente di stanza ad Herat ha bisogno di interpreti e mediatori culturali. I due, che sono laureati in economia e in informatica, parlano bene l’inglese e hanno rapidamente imparato l’italiano, presentano il curriculum e vengono assunti.

    Munizioni ed armi per il militare italiano a destra, a sinistra l’interprete afghano
    Gli interpreti in giubbotto antiproiettile

    «Le nostre giornate di lavoro cominciavano alle otto di mattina e si concludevano alle sedici», dice Gholam Hossain andando indietro con la memoria e spiegando che il loro compito era di seguire l’addestramento delle forze afghane e trasferire informazioni e ordini dagli italiani ai loro connazionali. Si trattava di mediare tra due mondi diversi e lontani, di spiegare abitudini e culture e di farlo non solo stando al sicuro dentro i confini della base italiana, ma spesso seguendo le truppe in altre aree che erano pure affidate alla gestione dei nostri soldati, ma che erano ad alto rischio.

    Uno degli interpreti afghani che indossa un giubbotto antiproiettile, alle spalle militari con un cane specializzato nel ritrovamento di mine

    «Tra i caduti ci sono stati anche molti interpreti, perché lì la guerra non è mai davvero finita e non fa la differenza tra combattenti e non», dice con voce ferma Amini, che era abituato a passare disinvoltamente dalle pratiche d’ufficio all’ indossare un giubbotto antiproiettile seguendo a bordo dei gipponi i militari che quando arrivavano presso qualche sperduto villaggio avevano bisogno di una guida.

    Fratelli e genitori rimasti in Afghanistan

    Ora sono qui, a migliaia di chilometri da dove sono sempre stati, con mogli e figli, ma senza fratelli e genitori, per i quali sono assai preoccupati e con l’amara certezza che laggiù non torneranno più. Su questo i due si fanno poche illusioni, hanno conosciuto i talebani e sanno che questi in Afghanistan resteranno a lungo. Hanno il cuore lacerato come chiunque sia stato, per qualche ragione, costretto a lasciare le proprie radici, «perché per la nostra cultura la famiglia è tutto, noi passiamo tutta la vita assieme», ma a questo dolore si aggiunge il peso di un sogno svanito. Perché loro ci avevano creduto in un progetto di pace e democrazia, perfino forse di prosperità, «ma è stato come aver tentato di costruire una casa per venti lunghi anni e poi farla distruggere in pochi giorni».

    Restare in Afghanistan significava morire

    Quando è stata prospettata la necessità di scegliere, per i due non c’è stato molto a cui pensare, la decisone era nelle cose: restare significava morire, perché a noi occidentali sembra che tutto si sia consumato in una manciata di giorni, ma evidentemente tra chi invece era sul campo, era già forte la certezza dell’arrivo inarrestabile dei talebani. «E’ stato difficile decidere, ma non c’era alternativa», dicono quasi assieme, come per darsi reciprocamente una ragione ineluttabile per l’essere fuggiti da un destino crudele. E come sempre è la nostalgia a segnare il loro tempo, forse più ancora delle difficoltà materiali di chi vive da esule. La loro mente resta sempre ancorata ai luoghi e ancor di più alle persone lasciate indietro, che sono oggettivamente a rischio.

    Personale del contingente italiano e interpreti afghani in “missione” tra i banchi,
    La Kasbah a Cosenza provvede al loro sostentamento

    Il governo italiano ha scelto la loro destinazione, disperdendo in varie località il piccolo gruppo di collaboratori afghani che avevano affiancato i militari italiani. Ora sono affidati alle cure dell’associazione La Kasbah, che provvede al loro sostentamento e che, tra le altre cose, in questi giorni dovrà anche risolvere il problema dell’iscrizione delle loro bambine presso una scuola cittadina.

    Gli italiani avevano costruito scuole e ospedali

    Ma i problemi dell’oggi, per quanto assillanti e urgenti, ancora non riescono a prevalere sui ricordi e sui rimpianti. «Gli italiani avevano fatto molto, scuole, ospedali, ora è tutto perduto», dice scuotendo la testa Amir Ali  e pensando a quanti hanno perso la vita per quel progetto, «mentre i politici hanno rovinato tutto»

    Nati e cresciuti in guerra

    Il presente reclama un nuovo impegno e rinnovato coraggio, ripartire da zero, cercando presto, quando i documenti saranno a posto, un lavoro. «Vorremmo fare qualcosa legato alla nostra formazione, ma non ci facciamo illusioni», spiegano consapevoli della difficoltà della situazione, ma probabilmente per chi è venuto via da un luogo che non conosce la pace da oltre vent’anni, questo per adesso non è il problema più grande. I loro sforzi sono finalizzati alle loro famiglie, alle bambine in particolare, «perché noi siamo nati in guerra, siamo cresciuti in guerra e moriremo esuli», ma per i figli dovrà essere tutto diverso.

  • Migranti e scafisti, destini comuni sulle rotte della povertà

    Migranti e scafisti, destini comuni sulle rotte della povertà

    Vengono dal Kirghizistan e dall’Uzbekistan, spesso dall’Ucraina o dalla Russia profonda, qualche volta dal Tagikistan col loro carico di migranti. Sono quasi sempre uomini giovani, raramente c’è qualche donna. Catapultati sulle spiagge dello Jonio calabrese, il loro viaggio inizia mesi prima nei villaggi semisperduti delle steppe dell’ex Unione Sovietica. Poi prosegue attraverso la Turchia e termina, nella maggior parte dei casi, in una cella delle carceri di Locri e di Reggio. Gli scafisti che da anni si occupano di pilotare i barchini a vela dalle coste dell’Asia Minore fino alle nostre spiagge hanno sempre profili che si somigliano.

    Sono giovani, spesso sotto i 30 anni, e arrivano da microvillaggi di Stati e staterelli poverissimi (oligarchi esclusi, ovviamente). Sono quasi sempre incensurati, non si accaniscono contro i migranti durante il viaggio. Cresciuti in regioni lontanissime dal mare, raccontano di essere stati reclutati a domicilio e trasportati sulle coste della Turchia. Lì, dopo un training di una manciata di giorni sulle regole base della navigazione, finiscono al timone dei velieri rubati nei tanti porticcioli di quel pezzo di Mediterraneo. Rappresentano l’ultimo incastro di una tratta che si perpetua identica (o quasi) da oltre venti anni.

    Gli ultimi tre in ordine di tempo li ha sorpresi una pattuglia dei carabinieri a Brancaleone nei primi giorni di luglio. Dopo avere avvicinato alla spiaggia il piccolo veliero carico di 27 persone che avevano pilotato attraverso il Mediterraneo, si erano lanciati in mare. Tentavano di raggiungere la costa e far perdere le loro tracce, li hanno ripresi a qualche centinaia di metri dal luogo dell’ennesimo sbarco. Vengono dalla Russia e dall’Ucraina, uno di loro è di nazionalità turca. Andranno a rimpolpare la colonia di connazionali che affolla il carcere di Arghillà, nella periferia reggina. Su di loro pende l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le condanne, quando arrivano, superano raramente i quattro anni e i procedimenti, sempre più spesso, si concludono con un patteggiamento.

    Carcere-di-Arghillà
    L’ingresso del carcere di Arghillà a Reggio Calabria
    Quindici metri, 69 migranti

    Farrukh Pardaboev e Fasliddin Sultanov hanno poco meno di trent’anni. Vengono da un piccolo centro dell’Uzbekistan non troppo lontano da Samarcanda, migliaia di chilometri lontani dallo specchio di mare più vicino. Un pattugliatore della Guardia di finanza li ha sorpresi a una decina di miglia dalle spiagge di Riace nel luglio dello scorso anno mentre erano alla guida del “L.A. Dancer” – uno sloop, monoalbero di 15 metri battente bandiera statunitense – con il suo carico di 69 migranti pakistani, venti dei quali minorenni.

    Gli investigatori li hanno identificati attraverso il loro passaporto. Interrogati dagli inquirenti, hanno raccontato di avere barattato il costo del biglietto per il viaggio con il loro lavoro, e di essere stati istruiti sulle tecniche di navigazione in mare aperto nei giorni immediatamente precedenti alla partenza. Storie che non possono essere verificate e che si infrangono su numeri segnati nelle rubriche telefoniche e già svaniti: Eughenia e Memet, la loro interfaccia in Turchia, che intanto hanno cambiato nome e utenza, inghiottiti da una delle piazze di transito più trafficate del pianeta.

    Un viaggio a caro prezzo

    Alexandro Voievodin di anni ne ha 24 quando si lancia in acqua a una trentina di metri dalla spiaggia di Camini. È la fine di ottobre del 2020, il mare ha la faccia placida dell’autunno calabrese, l’alba è sorta da poco, l’acqua è gelata. Sul barchino, stipati sotto coperta, ci sono 76 migranti, assieme a lui, sul ponte, c’è un suo amico d’infanzia: insieme hanno governato il piccolo monoalbero. Anche il secondo scafista si butta in acqua. Finirà inghiottito dal mare. I sommozzatori dei vigili del fuoco arrivati da Reggio ritroveranno il suo corpo solo dopo due giorni di ricerche serrate. Insieme erano partiti dal loro villaggio in Kirghizistan, paese satellite dell’ex Unione Sovietica arroccato sulle montagne dello Tien Shan, in Asia Centrale. Si erano messi alla guida del monoalbero una settimana prima, dopo un breve periodo passato sulle colline alle spalle di Smirne, in Turchia.

    A raccontare la loro storia è stato lo stesso Voievodin, durante l’interrogatorio per la convalida del suo arresto. Davanti al pm della Procura di Locri, il ragazzo, tra le lacrime, ha raccontato di quell’idea di sottrarsi alla vita che gli era capitata. Dell’infanzia trascorsa spalla a spalla con l’amico, della partenza dal suo lontano paese e dell’ultimo viaggio dopo il mini addestramento sulle spiagge al di là del Mediterraneo. Fino a quel tuffo che non ha lasciato scampo allo scafista venuto dalle montagne, ennesima vittima della tratta degli esseri umani tra la Turchia e la Calabria.

    Su quella tratta le procure territoriali indagano a braccetto con le distrettuali antimafia. A leggere nomi e nazionalità delle persone coinvolte, vien da pensare alla presenza di organizzazioni criminali internazionali in grado di tessere reti che uniscono le steppe dell’Asia centrale alle coste della Calabria jonica, in una tavola sempre imbandita. A cui, questo è il sospetto, potrebbe avere trovato comodo posto anche la ‘ndrangheta.

  • Scuola a Riace, dopo i Decreti Salvini si chiude

    Scuola a Riace, dopo i Decreti Salvini si chiude

    I Decreti Salvini hanno ammazzato anche la scuola di Riace, chiusa per mancanza di alunni. Il grande murales con il faccione imponente degli antichi guerrieri venuti dal mare mostra i segni del tempo. Da quasi tre anni i bambini non passano più sotto l’effigie dei bronzi che li attendevano ad ogni suono della campanella.  Anche i corsi di italiano per stranieri e per gli stessi riacesi sono stati sospesi, tutto spostato nel plesso della frazione a mare. Con buona pace dei progetti di rilancio del borgo che avevano portato il paesino jonico sulle prime pagine dei media di mezzo pianeta.

    A lezione solo grazie ai migranti

    Come tanti micro paesi arroccati sulle colline di questo spicchio di Meridione, il borgo dei santi Cosma e Damiano paga lo scotto di uno spopolamento inarrestabile. Tra gli effetti immediati compare la chiusura sistematica di quelle scuole che non raggiungevano il numero minimo di alunni necessari a tenere aperti i battenti. Nella scuola di Riace però le cose sono precipitate solo negli ultimi tempi. Fino a tre anni fa infatti, l’istituto comprensivo – che raccoglie asilo, scuola dell’infanzia, elementari e medie –  era riuscito a mantenere aperta la scuola del borgo grazie all’affluenza massiccia dei piccoli studenti venuti da terre lontane. Eritrei, pakistani, afghani. Gli alunni stranieri hanno rimpolpato per oltre un decennio le fila degli studenti che ogni mattina frequentavano la piccola scuola colorata nel cuore del borgo.

    La mazzata dei decreti Salvini

    Poi, con l’approvazione dei decreti Salvini varati dal primo governo Conte, i progetti Cas e Sprar sono stati via via smantellati, con le famiglie costrette ad abbandonare il paese in cerca di nuove possibilità. E così, anche le due pluriclassi – un corso per i bimbi dei primi due anni, un altro per il triennio conclusivo delle elementari – sono state chiuse e i bambini trasferiti nel plesso della marina, dove convergono anche i giovanissimi studenti di Camini. Sono poco più di una ventina i bambini rimasti a vivere nelle vecchie case addossate l’una all’altra, tra loro anche una manciata di alunni migranti che, nonostante la chiusura dei progetti, non si sono mai mossi dalle colline a due passi dal mare dei bronzi.

    Il sindaco leghista gongola

    Troppo pochi i bambini per giustificare la riapertura della scuola. Con il municipio e la stazione dei carabinieri rappresentava l’unico presidio dello Stato sul territorio. I vicini borghi di Stignano e Placanica hanno pagato la stessa drammatica emorragia di studenti in seguito alla chiusura dei progetti d’accoglienza diffusa. Ma gli amministratori locali hanno tentato fino all’ultimo di scongiurare la partenza dei ragazzi.

    A Riace le cose hanno preso una piega diversa, con il sindaco leghista Antonio Trifoli (che ha preso il posto dell’ex primo cittadino Mimmo Lucano, indagato dalla Procura di Locri). Trifoli non rimpiange la vecchia realtà. «Se anche fosse possibile mantenere l’apertura della scuola – racconta il primo cittadino – se ci fosse un così alto numero di persone in accoglienza, io non sarei d’accordo a creare delle classi con persone che vengono solo da altri Paesi». E termina: «Io penso che la vera integrazione si faccia quando le altre persone si possono inserire studiando accanto ai bambini del posto. Questa è la vera integrazione. Creare le scuole ghetto, cioè dove ci sono solo bambini immigrati, secondo me non è una cosa buona».

  • Locride, dove le scuole si salvano solo grazie alle pluriclassi

    Locride, dove le scuole si salvano solo grazie alle pluriclassi

    Un tuffo nel passato delle scuole per ritagliarsi uno spiraglio, seppure piccolo, di futuro. Parte da un paradosso il tentativo dei piccoli centri calabresi di arginare la continua emorragia di nuove nascite che, negli anni, ha causato il progressivo e inarrestabile spopolamento di tanti centri delle aree collinari e montane. Nella galassia dei piccoli borghi che costellano le colline della Locride – 42 comuni affacciati sullo Jonio tra Monasterace e Brancaleone – quello dello spopolamento è un problema con cui si fanno i conti da decenni. E che, tra le tante conseguenze, ha finito col falcidiare l’offerta scolastica destinata ai più piccoli.

    Sono decine di scuole costrette a chiudere i battenti per la mancanza dei numeri richiesti. Una deriva che sembrava inarrestabilmente destinata a favorire il travaso definitivo degli studenti di elementari e medie dai centri interni a quelli rivieraschi, ma che, pescando a piene a mani nel passato più o meno recente, si sta provando ad invertire con la reintroduzione del sistema delle pluriclassi.

    Classi vintage per garantire un futuro

    A Martone e San Giovanni così come ad Agnana e Canolo, e ancora a Stignano e a Placanica e più a sud a Samo e Sant’Agata del Bianco, paese natale dello scrittore Saverio Strati: il problema della chiusura delle scuole riguarda tutti, o quasi, i mini paesi arroccati sulle colline a pochi chilometri dal mare di questo pezzo di Calabria. Spesso hanno meno di mille abitanti, in prevalenza anziani, e i bambini e gli adolescenti che dovrebbero popolare le aule, semplicemente, non ci sono.

    In totale sono 22 i Comuni che negli anni hanno visto ridotta la loro capacità di garantire la prima parte dell’istruzione obbligatoria. E così, per evitare di perdere le scuole elementari e le medie, nella maggior parte dei casi unici presìdi dello Stato presenti sul territorio, le amministrazioni comunali e le istituzioni scolastiche provinciali e regionali, hanno disegnato una nuova geografia didattica fatta di percorsi comuni e programmi condivisi da studenti di età diverse. Ad Agnana ad esempio, poco più di 500 anime arroccate alle pendici d’Aspromonte, il percorso della primaria è stato diviso in due: in una classe confluiscono gli alunni più piccoli dalla prima alla terza, nell’altra i più grandicelli che condividono il percorso del quarto e quinto anno.

    Medie o elementari, cambia poco

    Per le scuole medie l’unica scelta possibile, vista l’assenza di ragazzi e ragazze, è stata accorpare l’intero percorso formativo in un’unica classe, con quelli di prima che frequentano assieme ai loro compagni di seconda e di terza. A Martone, poco più di 600 abitanti pochi chilometri più a nord, la situazione non è molto diversa, con i bimbi delle elementari a dividersi due corsi pluriclassi. E così funziona anche a Samo, poco più di 800 abitanti a una decina di chilometri dal mare di Bianco. Qui le pluriclassi hanno riguardato sia le elementari che le medie, così come successo nei limitrofi borghi di Caraffa e Sant’Agata. E ancora a Staiti e San Giovanni di Gerace.

    La transumanza quotidiana dei bimbi

    Spesso però, accorpare più classi in una, non è sufficiente a raggiungere i numeri previsti per il mantenimento della scuola, e molti piccoli centri hanno dovuto rinunciare al loro personale “presidio di legalità”. Come successo a Pazzano, piccolissimo centro arroccato alle pendici delle Serre, i cui piccoli studenti, dopo la chiusura della primaria, sono costretti ad una quotidiana transumanza verso gli istituti di Stilo e di Bivongi. O come è accaduto a Canolo, comune costretto a sacrificare il plesso della frazione a valle per salvaguardare la scuola della frazione in alta quota e mantenere così il rapporto antico che lega la popolazione del piccolo centro con la sua secolare tradizione montana.

    Via i migranti, addio alle scuole

    La scuola elementare di Riace, in provincia di Reggio Calabria

    A complicare una situazione dai risvolti drammatici, negli ultimi due anni sono arrivati anche i decreti Salvini con le conseguenti chiusure ai tanti progetti di accoglienza diffusa presenti sul territorio della Locride, da almeno 20 anni al centro di una delle rotte più battute dai flussi migratori che interessano il Mediterraneo. L’allontanamento delle famiglie migranti ha infatti sancito, per mancanza di iscritti, la chiusura di numerose scuole nei paesini che avevano trovato nuova linfa dalle famiglie provenienti da Medio Oriente e Africa.

    Così è successo a Riace, costretta a chiudere la scuola del borgo, dove confluivano anche i bambini del limitrofo comune di Camini la cui primaria è stata chiusa negli anni passati per mancanza di alunni. Nell’ex paese dell’accoglienza erano proprio i bimbi migranti a garantire il numero minimo di iscritti per garantire almeno il sistema delle pluriclassi. Tutto finito e bimbi costretti a servirsi del bus per raggiungere la frazione marina.

    Una parvenza di normalità

    Lo stesso copione vissuto dai centri di Placanica e Stignano (insieme, meno di 3 mila abitanti) che erano riusciti a mantenere le scuole aperte grazie al flusso delle nuove famiglie venute dall’est. La chiusura dei centri di accoglienza ha comportato grandi cambiamenti e i due comuni, appollaiati su due cucuzzoli uno di fronte all’altro, per non perdere anche la scuola si sono inventati un percorso condiviso: in un centro la scuola media, nell’altro le elementari. Uno stratagemma che ha consentito di mantenere una parvenza di normalità ma che, nonostante tutto, non si è potuto sottrarre alla regola delle pluriclassi, che tra polemiche e difese a spada tratta, si è rivelato l’ultimo disperato tentativo di mantenere vive comunità che ogni giorno temono per la loro stessa sopravvivenza.