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  • Cosenza globale: il quartiere multietnico a due passi dal centro

    Cosenza globale: il quartiere multietnico a due passi dal centro

    Kasbah, borgo, villaggio: il quartiere dell’autostazione è un mondo a sé rispetto al resto di Cosenza. Contenitore di storie e di vite, migranti e stanziali. All’alba, nel silenzio della città che ancora dorme, il quartiere si sveglia prima degli altri tra i rumori dello scarico della merce, le saracinesche che si alzano e il furtivo guardarsi intorno di chi ha trascorso la notte sulle panchine e sa che deve dileguarsi prima che arrivi il primo autobus carico di pendolari.

    Il buongiorno multietnico dell’autostazione di Cosenza

    Una pattuglia della polizia è all’ennesimo giro di controllo e avanza lenta tra le corsie ancora deserte. Nel Buongiorno si intrecciano le lingue. Ognuno ringrazia il suo dio. Il bar sforna cornetti, prepara i primi caffè e comincia svogliatamente a popolarsi. Davanti al money transfer prende forma la mesta processione di chi è in attesa di un aiuto economico da familiari lontanissimi e chi conta i soldi che oggi invierà a casa.

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    Crocevia di storie e persone: l’autostazione di Cosenza

    Il cinese Chang diventa Ciccio 

    In una città in cui i pochi turisti restano incompresi e ci si affida ai gesti per comunicare, il paradosso è che qui i negozianti, anche i più anziani, si sono assicurati un repertorio di frasi per interagire in inglese con clienti di tutte le nazionalità. Nella dimensione comunitaria del borgo i nomi, quelli impronunciabili, si reinventano in chiave cosentina. E così Kaunadodo, che arriva dal Mali, per qualche bizzarra associazione diventa Tonino, mentre Chang che è cinese, per tutti è Ciccio. Il tempo è scandito da arrivi e partenze. I ragazzi nordafricani con i dreadlock, belli come statue, si mischiano agli studenti che a partire dalle sette scendono dai bus in arrivo dai paesi della provincia, incrociano le badanti col velo che tornano a casa dalle notti trascorse ad accudire gli anziani.

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    Mamma africana con il suo bambino tra le corsie dell’autostazione di Cosenza

    Degrado o luogo come un altro?

    I viaggiatori di passaggio vanno ad acquistare nei bazar gestititi dai cinesi, la comunità araba mangia il kebab dall’egiziano e fa la spesa nelle macellerie halal e nei supermercati che vendono prodotti internazionali. Le ragazze nigeriane si sistemano le treccine con i cosmetici acquistati all’african shop. Qui acquistano prodotti specifici per la loro pelle e trucchi che valorizzano l’incarnato. Ci sono sguardi indignati e sguardi indulgenti. Per alcuni questa babele è causa di degrado e criminalità, per altri è un luogo come un altro.

    I cosentini non si sentono al sicuro

    Il dato di fatto è che i residenti non si sentono al sicuro. Nei condomini quasi tutti hanno potenziato sistemi di allarme e telecamere. «Guardi qui», Anna mostra il suo cellulare, «24 ore su 24 controllo dal mio telefono cosa accade davanti alla porta di casa. Se c’è qualcuno un beep mi avverte. Viviamo così, con la paura costante di rientrare nel portone o nel parcheggio e trovare qualche malintenzionato». I palazzoni che fanno da cintura intorno all’autostazione sono edifici eleganti con appartamenti di metrature smisurate rispetto agli standard attuali. Ogni amministrazione comunale che si è succeduta ha promesso il trasloco delle corsie dei bus con il loro pesante carico di inquinamento atmosferico. «Argomenti buoni solo in campagna elettorale – sbotta una signora davanti al supermercato – ormai abbiamo smesso di crederci. Questo era un quartiere di famiglie, professionisti, negozi. Adesso abbiamo spazzatura, traffico, degrado, prostitute, ubriaconi e risse».

    Autostazione Cosenza: l’amicizia possibile e il compare cinese

    I nomi sui citofoni, cancellati e sovrascritti, dicono qualcosa della geografia di questi condomini multietnici in cui al profumo del soffritto preparato dalla vecchietta del primo piano si mescola l’odore dell’aglio dell’adobo filippino. Arriva su, fino al quinto piano, dove incontrerà le note speziate del pollo in padella affondato nel riso basmati della tradizione pakistana. È tutto un dualismo, un alternarsi, passato e presente, nuovo e antico, prossimità e lontananze. Molti negozi storici resistono, convivono muro e muro con i negozi che aprono come funghi per assecondare le esigenze della popolazione multietnica che gravita intorno all’autostazione. Certe volte i rapporti si trasformano in amicizia, un commerciante cinese ha dato al figlio il nome di un collega italiano e gli ha chiesto di battezzarlo. Certo non è sempre così, ci sono situazioni di conflitto sempre sul punto di esplodere. Bande rivali che ogni tanto seminano il panico.

    «Sono i ragazzi cosentini a darmi fastidio»

    «Questo è un porto – dice un esercente che non vuole esporsi e chiede di restare anonimo – e nei porti si sa, arriva di tutto: la gente per bene e i disperati. Ma se vuole saperlo a me danno più fastidio gli italiani, i cosentini, i ragazzi che ho visto crescere nel mio quartiere e che oggi sono diventati degli sbandati. Mi presentano la tessera del reddito di cittadinanza e pretendono non la spesa ma i soldi. È una continua richiesta, snervante, ossessiva. Gli rispondo: ma c’è scritto banca sull’insegna? Che rabbia. Certe volte sono costretto a chiudere prima, è l’unico modo che ho per sfuggire. A questo siamo arrivati».

    Nel “porto” cosentino c’è tutto un flusso di migranti in partenza e in arrivo, che segue le rotte del lavoro o della sua ricerca, dalla raccolta nei campi alla vendita ambulante. E c’è un indotto cospicuo, di cibo e servizi, dalle ricariche telefoniche al trasferimento di denaro, dal parrucchiere specializzato nelle acconciature afro al disbrigo pratiche burocratiche e interpretariato.

    La vecchia trattoria si trasforma in supermercato multietnico

    «Quando ho aperto, i miei colleghi mi guardavano male. Mi accusavano di aver reso questo posto più pericoloso perché frequentato dagli stranieri. Oggi devono riconoscere che sono stato un imprenditore lungimirante. Avevo visto lungo«. Massimo De Luca ci è cresciuto tra le corsie dell’autostazione, dove gestisce un supermercato di prodotti internazionali “I cinque continenti”. Oggi vende tapioca e aringhe essiccate negli stessi spazi in cui suo padre, negli anni ’60 serviva ai tavoli della sua trattoria i viaggiatori che arrivavano a Cosenza con la littorina, quella col portapacchi sul tettuccio. «C’erano diverse trattorie in questa zona ed erano una tappa obbligatoria per i pendolari. Venire a Cosenza significava godere della gioia di mangiare un piatto caldo prima di ripartire».

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    Tra gli scaffali di “Cinque continenti”

    Serve uno sforzo notevole per immaginare questo posto e ricostruire lo scenario completamente diverso che ruotava intorno alle corsie della stazione degli autobus: l’alimentari-trattoria Scarpelli, il deposito del pastificio Amato, Forgione Calzature, il Paradiso dei Piccoli, il Salone del lampadario. L’ultimo ad abbandonare la sua storica sede è stato Giordano il Musichiere, mentre la trattoria De Luca ha cambiato pelle e si è adeguata ai tempi. Prima Conad Margherita e poi supermercato multietnico. «Tutto è iniziato quando ho cominciato a vedere che la clientela si stava modificando – racconta De Luca – . Cinesi e filippini mi richiedevano dei prodotti, ho cominciato ad ordinarli, poi ho capito che la mia strada era proprio quella di differenziarmi, di rendermi indipendente”.

    Dopo filippini e cinesi con l’istituzione dei i centri di accoglienza legati allo Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sono arrivati i nordafricani, tantissimi. Ragazzi e ragazze, intere famiglie. Hanno un disperato desiderio dei profumi e dei sapori dei loro paesi d’origine: il cibo è il ponte che tiene saldi i legami, li ancora alle loro origini. «Qui c’è un movimento di persone incredibile – spiega De Luca – puoi averne contezza solo se lo vivi come me dall’interno». E non solo nordafricani, cinesi, filippini. «Argentini, venezuelani, brasiliani sono in forte aumento. E non dimentichiamo il flusso degli studenti Erasmus».

    Quasi tutti bravi ragazzi, poche teste calde e qualche amico

    De Luca difende la multietnicità dell’autostazione. «Sono quasi tutti bravi ragazzi, a parte qualche sporadica testa calda. Mai avuto un problema nel mio negozio: entrano, comprano, pagano. E spendono anche nei negozi intorno, non solo qui. Dobbiamo vedere la presenza dei migranti come una risorsa, non come un problema». De Luca critica però la gestione dell’area: «Per contrastare il degrado non serve togliere i servizi. È stata eliminata la sala d’attesa, hanno tolto le panchine. A cosa è servito?».

    Ciccio Caruso è diventato adulto dietro il bancone di generi alimentari che gestisce fin da quando era un ragazzo. Il suo core business sono i panini imbottiti, è riuscito a convertire alla schiacciata piccante anche i suoi amici cinesi del vicino ristorante orientale. Ma è anche amico dei ragazzi arabi che gestiscono il piccolo market halal alla sua sinistra. «Siamo tutti sulla stessa barca – scherza – alla fine andiamo oltre la nazionalità e la lingua. Siamo colleghi e in qualche caso anche amici».

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    arabo e italiano: due lingue che si mescolano all’autostazione di Cosenza

    Serve un posto di polizia permanente

    Per Caruso la questione da affrontare riguarda l’afflusso di pendolari. «Gli autobus arrivano nelle corsie dell’autostazione già vuoti, fanno scendere i viaggiatori, in particolare gli studenti prima di arrivare qui. Questo per me significa perdere la parte più cospicua dei miei potenziali clienti. Bisogna migliorare i servizi – dice – rendere quest’area più accogliente e quindi più sicura, magari con un presidio permanente delle forze dell’ordine».

    Quando gli ultimi autobus abbandonano le corsie, restano cumuli di spazzatura, gli ambulanti trascinano la merce verso casa. Si sentono le risate di un gruppo di ragazzi fermi sul muretto con una birra in mano. Il lampeggiante annuncia un nuovo stanco giro di perlustrazione. È tutto a posto. O almeno così sembra.

  • Mimmo Lucano, al via l’appello

    Mimmo Lucano, al via l’appello

    Non è in aula Mimmo Lucano quando, poco dopo le 10, prende formalmente il via il processo d’appello che lo vede coinvolto assieme ad altri 17 imputati. «Non cerco alibi ma non rinnego niente di quanto ho fatto. Credo nella giustizia, ma nella giustizia degli ultimi, in quella giustizia che una volta si chiamava giustizia proletaria»: dal palco di una manifestazione targata Cgil a Chiaravalle, l’ex sindaco di Riace continua a tirare dritto per la sua strada. Rivendica il lavoro fatto nel “laboratorio” del paese dell’accoglienza. E difende alcune scelte – come quella di non allontanare i migranti alla scadenza dei sei mesi previsti dai regolamenti dei progetti d’accoglienza – che gli sono costate, almeno in parte, la pesante condanna emessa dal Tribunale di Locri.

    Entrerà comunque nel vivo solo nell’udienza del prossimo 6 luglio il processo di secondo grado relativo all’indagine Xenia. Sarà allora che i giudici relazioneranno sulle posizioni dei presunti capi dell’associazione a delinquere che avrebbe compiuto «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità» sulle risorse che arrivavano in paese per i numerosi progetti di inclusione e accoglienza che avevano fatto di Riace un miracolo da studiare all’università.

    La condanna

    Saranno i giudici di piazza Castello a decidere se, come dicono le oltre 900 pagine di motivazioni alla sentenza del primo giudice, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano». Un’associazione che avrebbe agito alle spalle degli stessi migranti, riducendo l’intero progetto «a forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore».

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    Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena

    Motivazioni pesanti come macigni e attraverso cui, il collegio locrese ha determinato, nei confronti di Lucano, una condanna a 13 anni e rotti di carcere per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali di cui era imputato). Una condanna andata ben oltre le richieste dei pm dell’accusa, che in sede di requisitoria avevano avanzato per l’ex sindaco una richiesta a 7 anni e 10 mesi di reclusione. E che di fatto ha scritto la parola fine sull’intero progetto d’accoglienza che, scrivevano i giudici di primo grado, si era ridotto ad un “baraccone” «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo».

    Mimmo Lucano in appello

    E se durissime erano state le motivazioni redatte dal collegio locrese, altrettanto dura era stata la richiesta d’Appello presentata dai legali dell’ex primo cittadino di Riace, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che quella stesa sentenza l’avevano bollata come «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza». Ben 140 pagine di argomentazioni dettagliatissime che il collegio difensivo del “curdo” aveva utilizzato per provare a smontare pezzo per pezzo la verità venuta fuori dal primo grado di giudizio. Sia dal punto di vista del riscontro politico che da quello giudiziario.

  • Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Una ricostruzione della realtà «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza», un atteggiamento «aspro, polemico, al limite dell’insulto» e la preoccupazione di trovare Mimmo Lucano colpevole «ad ogni costo». Hanno ritmi sferzanti le argomentazioni utilizzate da Giuliano Pisapia e Andrea Daqua nelle quasi 140 pagine di richiesta d’appello alla sentenza con cui, in primo grado, il Tribunale di Locri ha “sepolto” l’ex sindaco di Riace, condannato nel settembre scorso a 13 anni e due mesi di reclusione.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Una puntigliosa ricostruzione del lungo processo a carico di Mimmo “il curdo” Lucano, che prova a smontare, pezzo per pezzo, le monumentali motivazioni (oltre 900 pagine) con cui i giudici locresi hanno messo la parola fine a quel progetto di accoglienza integrata che aveva portato il piccolo paese jonico all’attenzione dei media internazionali. Nel fascicolo presentato in Appello, i legali di Lucano ribadiscono quanto espresso in udienza, sottolineando la totale estraneità del loro assistito alle accuse che lo hanno visto condannato per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati in totale, contenuti in 10 capi d’accusa dei sedici originari.

    Pezzo per pezzo

    Sono tanti e dettagliati i punti che non tornerebbero nella sentenza di primo grado e che gli avvocati difensori sottolineano per sostenere l’innocenza di Mimmo Lucano. Punti che bollano la sentenza emessa dal giudice Fulvio Accurso come «in toto censurabile» e dalla cui lettura «matura la netta convinzione» che il giudicante «sia incorso in un palese errore prospettico che ha condizionato pesantemente il giudizio, restituendo una ricostruzione della realtà macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza».

    Incongruenze e errori che secondo Pisapia e Daqua avrebbero riguardato tutte (o quasi) le determinazioni della sentenza: dalle intercettazioni «utilizzate oltremodo» con un’interpretazione «macroscopicamente difforme dal suo autentico significato», al cambio in corsa del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata, fino all’ipotesi di associazione a delinquere dove la sentenza «appare raggiungere il massimo livello di creatività». E poi le spinte all’accoglienza dell’ex sindaco che sarebbero state dettate dalla voglia di arricchirsi e dalla necessità di mantenere gli equilibri per continuare a guidare Riace da primo cittadino: tutte, mettono nero su bianco gli avvocati difensori «letture forzate, se non surreali, dei risultati intercettivi».

    Mimmo Lucano, un caso politico

    Travolto da una copertura mediatica imponente, il processo a Mimmo Lucano si è soffermato a lungo sul ruolo politico rivestito dall’ex sindaco. Dichiaratamente disobbediente e legato agli ambienti della sinistra radicale, Lucano ha riproposto attraverso il modello Riace un’idea diversa dell’accoglienza, nella stessa terra in cui gli slums di Rosarno e San Ferdinando riempiono le pagine della cronaca. Ed è proprio analizzando il ruolo politico di Lucano – e il conseguente utilizzo dei migranti per ottenere la rielezione, come ipotizzato dal Tribunale – che gli avvocati affondano il colpo.

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    Giuliano Pisapia

    Pisapia e Daqua sottolineano «le malevoli interpretazioni, le contraddizioni, il rovesciamento di senso, le enfatiche distorsioni» di un giudizio «preoccupato, più che a valutare gli elementi probatori forniti dall’istruttoria dibattimentale, a “dipingere” e “romanzare” la figura di Lucano. Dov’è lo scambio politico? – si chiedono gli avvocati nell’istanza di appello – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento omissivo che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema integrazione?».

    Ricostruzioni fantasiose

    Una sentenza pesantissima quella emessa dal Tribunale di Locri che ha, di fatto, raddoppiato la pena avanzata dalla Procura che in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna a sette anni. Una sentenza che, scrivono ancora i difensori di Lucano si baserebbe su «ricostruzioni apodittiche e fantasiose» e che si rivolge all’imputato Lucano con «espressioni caratterizzate da una aggettivazione aspra, polemica, al limite dell’insulto», descrivendolo «coma una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio»

  • Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Ammassati nella tendopoli a San Ferdinando o nel campo di contrada Russo a Taurianova. Ospiti dell’accampamento container di Testa dell’Acqua a Rosarno o dei tanti casolari abbandonati tra gli aranceti della Piana di Gioia: dalla rivolta dei migranti del 2010 poco o niente è cambiato, con i nuovi insediamenti (più o meno) abusivi, che si sono sovrapposti ai vecchi, mutuandone le stesse dinamiche. Una situazione grave, sostanzialmente immutata nel tempo e incancrenita da inefficienze e sprechi. Una situazione che si lega, inevitabilmente, con il mercato del comparto agricolo – che della manodopera migrante, nella Piana, si serve per sopravvivere – divenuto a sua volta un vero e proprio Far West fatto di caporalato e sfruttamento, norme cervellotiche e finanziamenti a pioggia.

    La rivolta di Rosarno del 2010

    Le battaglie solo annunciate

    Sono tra sei e settemila (anche se un censimento accurato non è mai stato realizzato) i lavoratori migranti che nella stagione della raccolta convergono nelle campagne alle spalle del porto di Gioia Tauro. E se anche i numeri si sono parzialmente ridimensionati nei due anni di pandemia, sono sempre i lavoratori africani a sostenere l’intero comparto, fatto, in questo pezzo di Calabria, di una proprietà più che atomizzata, costituita da migliaia di minuscole aziende a conduzione familiare.

    Micro appezzamenti di uno, massimo due ettari di estensione, divisi tra filari di agrumi e kiweti, per aziende – circa 13 mila in totale – che non riescono a creare rete e che, in genere, sopravvivono con ricavi che somigliano a mance. Quelle delle grandi aziende di produzione di succhi, che pagano per i frutti, in molti casi raccolti direttamente a terra, meno di dieci centesimi al chilo. E quelle delle catene della grande distribuzione, che comprano attraverso aste al ribasso arance e mandarini destinate al consumo e pagate ai produttori tra i 20 e i 25 centesimi al chilo. Va un po’ meglio con i kiwi, che riescono a ritagliarsi un prezzo vicino agli 80 centesimi.

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    Frutta e verdura in esposizione all’interno di un supermercato

    Una decina di anni fa, le associazioni di categoria (Confagricoltura e Coldiretti) avevano annunciato – con tanto di convegno in grande stile e annessa sfilata di trattori – una battaglia campale su due fronti: da una parte il prezzo minimo al chilo da ottenere dalle multinazionali che si riforniscono nella Piana, dall’altra la percentuale minima di succo da inserire nelle bevande. Una rivoluzione che avrebbe fatto bene all’intero settore. Passati gli anni, di quella battaglia su cui si sarebbe dovuta riscrivere la nuova economia agricola della Piana, resta solo qualche poster ingiallito dal tempo, ma di risultati neanche a parlarne.

    Far West

    E se la parcellizzazione esasperata della proprietà agricola non aiuta, a complicare ulteriormente le cose per uno dei settori che in passato era stato la forza di questo territorio ci sono una serie di regole legate al mercato del lavoro agricolo che sembrano essere state scritte per facilitare il lavoro nero. Regole che fissano a 102 il tetto massimo per le giornate lavorative per ogni ettaro di terra che possono essere frazionate a più lavoratori e che possono essere regolarizzate nei giorni successivi all’effettiva prestazione resa.

    Un meccanismo controverso che, anche a causa della antica carenza di ispettori del lavoro, favorisce la mancata contrattualizzazione dei raccoglitori che, quando va bene, riescono a farsi mettere in regola solo per poche giornate al mese. Il resto, raccontano le innumerevoli operazioni della Procura, finisce sul “mercato” delle attestazioni lavorative false. Un mercato illegale così esteso (sfruttato principalmente per ottenere benefici pensionistici) che diventa difficile anche solo provare a quantificarlo. A pagarne il prezzo, ovviamente, i migranti, che di questa Babele sono l’anello più debole. La mancata o, nel caso migliore, la parziale contrattualizzazione, favorisce infatti il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in nero, con i braccianti africani costretti per bisogno ad accontentarsi di salari più che dimezzati rispetto alla norma.

    In strada per salari decenti

    Una deriva che, sul campo, è contrastata dalle associazioni di volontariato e dal cosiddetto “sindacato di strada” che la Flai Cgil mette in campo da anni nel tentativo di informare i lavoratori di San Ferdinando e dintorni rispetto ai loro diritti. Tra le complanari di campagna alla ricerca dei braccianti che attendono il “caporale” di turno o all’esterno delle aziende agricole, durante le poche pause dal lavoro, Rocco Borgese e i suoi colleghi del sindacato, passano le giornate a tentare di convincere i lavoratori a non piegarsi ai salari da fame che gli vengono proposti.

    Un servizio su base volontaria (a cui si aggiunge quello di assistenza legale e sanitaria) portato avanti anche da due lavoratori africani che si perpetua tre volte a settimana e che è riuscito anche a raccogliere i primi frutti. Ma che rappresenta, purtroppo, solo una goccia nel mare in un’emergenza lavorativa che si ripercuote anche sulla possibilità di affittare una normale abitazione. Fatta salva una consistente sacca di razzismo e diffidenza infatti, molti dei migranti non riescono ad affittare un alloggio decente proprio a causa della precarietà del loro lavoro. Nessuno (o quasi) è disposto ad affittare loro un casa vera e, di conseguenza, insediamenti abusivi e baraccopoli più o meno regolarizzate sono spuntate come funghi in tutti i comuni della Piana.

    Nuova chiusura per San Ferdinando

    Sorto qualche giorno dopo e a distanza di poche centinaia di metri dalla baraccopoli sgomberata dopo un blitz dell’ex ministro dell’interno Salvini, l’accampamento nato nel retroporto continua ad essere uno dei punti di riferimento per la forza lavoro africana che nelle stagioni della raccolta si concentra sul territorio da tutta Italia. Ufficialmente dismessa dall’estate del 2021 (ma ancora popolata da circa 500 persone che ci vivono in condizioni subumane), la tendopoli di San Ferdinando dovrebbe avere i giorni contati. Nelle settimane passate infatti il Prefetto di Reggio ha annunciato la futura chiusura del sito: chiusura che però resta condizionata all’intervento della Regione, che dovrebbe dare il via alla riconversione in foresteria di una delle tante strutture industriali abbandonate presenti in zona.

    In seguito ad un vertice tra i sindaci di Gioia e San Ferdinando (Rosarno è guidata da una terna prefettizia in seguito all’arresto del sindaco Idà) e i funzionari regionali, la scelta è caduta sui capannoni dell’ex Opera Sila, lo stabilimento per la trasformazione delle olive da anni in rovina e già utilizzato dai lavoratori africani come rifugio improvvisato, prima dello scoppio della rivolta. L’area, di proprietà della Regione, necessita però di un radicale intervento di bonifica e trasformazione e i tempi di realizzazione del progetto non saranno brevi. Così, in attesa della riconversione dell’opificio regionale si naviga a vista, con progetti in corso d’opera che, per tamponare l’emergenza, ripropongono l’uso di moduli abitativi temporanei (leggi container) o si appoggiano a fondi di garanzia di matrice assistenzialistica che finora non hanno riscosso risultati apprezzabili.

    Le case fantasma da tre milioni di euro

    Sullo sfondo, rimangono le palazzine nuovissime costruite alla periferia di Rosarno grazie ai quasi 3 milioni di euro di fondi per l’emergenza migranti e ancora in attesa di assegnazione. Restano disabitate, in contrada Torricelle, ennesimo monumento incompiuto all’inefficienza amministrativa calabrese. Sostanzialmente completate da tre anni, le palazzine (4 padiglioni in tutto capaci di ospitare comodamente 250 persone) avrebbero bisogno degli ultimi lavori di rifinitura e del collettamento alla rete fognaria cittadina. Un progetto nato tra le polemiche e che sembra essersi smarrito a un passo dal traguardo, soffocato da vecchie e nuove baraccopoli.

  • Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Il frantoio e le carte d’identità, le case dell’albergo diffuso e quelle dei migranti, gli ammanchi di denaro e le gare di solidarietà: ci sono tre anni di “progetto Riace” dentro il monumentale faldone della sentenza Xenia. Migliaia di intercettazioni, decine di controlli, cinque diverse relazioni prefettizie e due anni di dibattimento serrato con (più) di un occhio alla forte pressione mediatica che l’indagine ha sollevato sin dalle prime battute. Una mole di materiale imponente che i giudici del Tribunale di Locri sgranano con puntigliosità per costruire le basi di una sentenza pesantissima su un sistema d’accoglienza che si sarebbe trasformato in un mezzo «solo per trarre profitto» e senza «nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante».

    Un sistema collaudato

    Una ricostruzione durissima che, basandosi sulla gestione economica dei vari progetti (Sprar, Cas e Msna), demolisce l’idea stessa dell’intero “sistema Riace”, o almeno di quello degli ultimi tre anni. Altro non sarebbe stato che «un sistema che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva». Ed è proprio sulla figura dell’ex sindaco, e sui suoi comportamenti anche durante il dibattimento, che il presidente Fulvio Accursio punta l’indice. Secondo il giudizio di primo grado infatti, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano».

    Modello o illusione?

    Secondo la ricostruzione dei giudici, il gruppo avrebbe attirato verso Riace buona parte dei disperati che arrivavano in Italia, solo per tornaconto personale. Da una parte lo stesso Lucano, che avrebbe agito oltre che per interesse, anche «a beneficio della sua immagine pubblica». Dall’altra i suoi sodali che lo avrebbero aiutato a mettere in piedi “l’illusione Riace”, per poter saccheggiare i fondi dei progetti d’accoglienza. L’equazione tracciata dal tribunale di Locri è semplice: più migranti ci sono in paese, più soldi arrivano. E più i numeri possono confondersi, più il gruppo ne può approfittare.

    Il contesto ignorato

    Un’equazione da cui però manca la variabile umana, il contesto dentro cui si è sviluppata l’intera vicenda: nessun accenno all’emergenza che inondava di richiedenti asilo e varia umanità disgraziata, il piccolo centro jonico; nessun riferimento alle decine di persone ospitate oltre i numeri consentiti, in abitazioni vere, proprio per soddisfare le richieste di Prefettura e ministero dell’Interno né ai tanti risultati raggiunti nel rilancio del paesino abbandonato dai suoi stessi abitanti.

    Condanna raddoppiata

    Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali in cui era stato coinvolto) alla base della condanna dell’ex primo cittadino che è invece stato assolto dalle ipotesi di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dieci capi d’accusa divisi in due, differenti, ordini di reati che sono alla base della condanna per Lucano. Due ordini di reati la cui «sommatoria dei segmenti di pena comporta la condanna alla pena complessiva di anni 13 e mesi 2».

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    Secondo i calcoli del collegio locrese quindi, da una parte si deve considerare l’associazione a delinquere con tutti i delitti individuati durante il processo e che sono da considerarsi in continuità, dall’altra gli altri reati legati agli abusi d’ufficio e alla falsità ideologica, anche questi da considerarsi in continuità. Ed è sommando questi due distinti «disegni criminosi» che il presidente Fulvio Accursio dispone la condanna a 13 anni e due mesi, praticamente il doppio di quanto richiesto dall’accusa che quelle stesse ipotesi di reato, le aveva invece considerate come un unico insieme.

    Nessuna attenuante

    Una condanna a cui, scrive ancora il tribunale nelle motivazioni della sentenza, per due ordini di motivi, non vanno conteggiate neanche le attenuanti generiche. Da una parte il fatto che Lucano si è sottratto ad interrogatorio durante il dibattimento limitandosi a due dichiarazioni spontanee, e dall’altra, nonostante si parli di un imputato incensurato, non «vi è alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso… che le finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti».

    Lucano: «Rifarei tutto»

    Un giudizio impietoso che ha provocato l’immediata reazione dello stesso Lucano che, in trasferta in Emilia Romagna, ha rilanciato la sua battaglia. «Rifarei tutto, anche più forte di prima – ha dichiarato Lucano a margine di una manifestazione organizzata in suo sostegno – ci sono tante contraddizioni e il giudice mi ha condannato dicendo che pensavo al futuro, ma sono cose non vere. Il modello Riace è stato un modello di libertà e di rispetto dei diritti umani».

    La battaglia continua

    Dello stesso tenore anche le dichiarazioni dei difensori dell’ex sindaco, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua: «Dopo la lettura approfondita delle motivazioni, siamo ancora più convinti dell’innocenza di Mimmo Lucano. Queste infatti contrastano con le evidenze processuali emerse in un dibattimento durato oltre due anni. I giudici poi – dicono ancora gli avvocati – in contrasto anche con una sentenza delle sezioni unite di Cassazione sull’uso delle intercettazioni telefoniche, negano la verità sullo stato di povertà dell’ex sindaco, confermata invece da tutti i testimoni e le acquisizioni documentali. Contrasteremo nel merito i singoli capi d’imputazione e le argomentazioni dell’accusa e del Tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione a delinquere e peculato».

  • Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    «Lenti deformanti», «visioni» del processo «da lontano», «fughe in avanti»: sono numerose le pagine che i giudici del Tribunale di Locri dedicano alle tesi difensive che gli avvocati di Mimmo Lucano (e le migliaia di persone che hanno manifestato in tutta Italia all’indomani della condanna) hanno sostenuto durante il processo che ha visto l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione e ad una serie di risarcimenti record nell’ambito del processo Xenia.

    Persecuzione politica? No, «arrembaggio»

    Tesi che sostenevano «una presunta persecuzione di natura politica» che di fatto, scrivono i giudici nelle 904 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado, «si dimostrerà essere del tutto inesistente». Nella sostanza, il modello Riace sarebbe stato solo fumo negli occhi per nascondere «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità».

    Virtù e vizi

    Usano parole pesantissime i togati locresi che, pur ammettendo «l’integrazione virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio, ove si era riusciti mirabilmente a dare dignità e calore a uomini e donne venuti da terre remote» puntano l’indice «sulla sottrazione sistematica di risorse statuali e della Ue» che avrebbe messo in secondo piano l’accoglienza stessa, rimasta «in forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcun a forma di pudore».

    E alla guida di questo gruppo – sono 27 in tutto gli imputati – ci sarebbe Mimmo Lucano che avrebbe costruito «un sistema clientelare che gli ruotava attorno» e che «lo sosteneva politicamente, con fedeltà assoluta, ben sapendo che quell’appoggio che essi gli fornivano – di cui egli aveva spasmodica necessità e che, peraltro, costituiva l’unico criterio tramite il quale essi erano stati prescelti – era ampiamente ricambiato da forti ritorni di natura economica».

    Senza un soldo

    Parole durissime che rappresentano una pietra tombale su un progetto durato più di venti anni e che aveva portato Riace fuori dall’immobilismo in cui versava, impoverita e abbandonata dai suoi stessi abitanti. E poco importa, se di soldi a Lucano non ne sono stati trovati in tre anni di indagini. Per i giudici di Locri si tratta di «un falso mito».

    L’ex sindaco, scrivono, «è stato molto accorto nell’allontanare da sé i sospetti dell’essere stato autore del sistematico accaparramento di risorse pubbliche» e quindi «nulla importa che l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

    Modello o menzogna?

    In sostanza, mette nero su bianco il presidente Fulvio Accurso, l’intero modello Riace si sarebbe trasformato in una grossa menzogna: menzogna era l’integrazione, menzogne erano i bimbi nella scuola riaperta e le case abbandonate nuovamente vissute. Menzogne create da Lucano «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo». Menzogne, annota il giudice sgambettando l’onda popolare da mesi schierata in sostegno dell’imputato Lucano, condivise «da tanta gente che non ha voluto vedere quanto sussisteva a suo carico nel processo»

  • Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

    Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

    È durato poco più di due anni e mezzo l’interregno di Michele Di Bari al comando del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni, organo che si occupa di gestire tutti, o quasi, i migranti nel nostro Paese. L’ex Prefetto di Reggio e Vibo ha presentato alla ministra Lamorgese le proprie dimissioni. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia dell’indagine costata a Rosalba Livrerio Bisceglia – moglie di Di Bari – un provvedimento di obbligo di dimora e l’obbligo di firma alla Pg.

    Il tribunale di Foggia
    Il tribunale di Foggia

    Secondo le accuse della procura di Foggia la donna, proprietaria di un’azienda agricola in Puglia, si sarebbe rivolta ad un uomo di origine gambiana per il reclutamento di alcuni operai, risultati poco più che schiavi e vittime di quel sistema di caporalato e sfruttamento del lavoro che accomuna il nord della Puglia al sud della Calabria. «Sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie – ha dichiarato Di Bari comunicando il suo passo indietro – insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati, confidando che presto la misura dell’obbligo di dimora sarà revocata».

    Foggia come Rosarno

    C’è dell’ironia nelle dimissioni dell’ex Prefetto di Reggio che, completamente estraneo all’indagine, è caduto per “opportunità politica” proprio a causa di un’inchiesta che affonda le radici in quel sistema di mancata integrazione e semi schiavitù che, da prefetto calabrese, lo ha visto protagonista di tante pagine della cronaca recente. Sbarcato in riva allo Stretto nel 2016 Di Bari può “vantare” un curriculum fatto di 19 commissioni d’accesso spedite in altrettanti comuni del reggino, con uno score di 18 commissariamenti per mafia ottenuti, praticamente un record.

    Ma è con i migranti che Di Bari si fa notare, guadagnandosi sul campo il posto nella cabina di regia del Viminale mantenuto fino a venerdì. I carabinieri di Manfredonia hanno individuato nella baraccopoli della “ex pista” di Borgo Mezzanotte lo slum dove i migranti vittima di caporalato protagonisti della vicenda foggiana trovavano rifugio. Uno slum praticamente identico a quello sorto alle spalle del porto di Gioia Tauro all’indomani della rivolta del 2010 e che la Prefettura guidata da Di Bari fece sgomberare in favore di telecamera durante una visita dell’allora titolare del Viminale, Matteo Salvini.

    Le tendopoli di San Ferdinando

    Uno sgombero reso necessario dalle condizioni disumane in cui erano costretti i migranti ospitati (e nel quale trovò la morte, tra gli altri, anche Becky Moses, la donna nigeriana costretta dai decreti sicurezza ad abbandonare i progetti di Riace, e arsa viva nella baracca dove aveva trovato rifugio). E che si dimostrò praticamente inutile, visto che a distanza di qualche giorno, una nuova tendopoli, autorizzata dalla stessa Prefettura, fu installata 500 metri più in là, in uno dei tanti slot vuoti del deserto post atomico della zona industriale del porto di Gioia.

    Da Riace a Roma

    E se a Rosarno era stato necessario l’utilizzo delle ruspe per radere al suolo la baraccopoli della vergogna, a Riace furono gli ispettori inviati dalla Prefettura di Di Bari, a smantellare il progetto di accoglienza ideato dall’ex sindaco Mimmo Lucano. Progetto che di quello che succedeva a Rosarno rappresentava l’esatta antitesi. Sono almeno cinque le relazioni che i funzionari reggini hanno stilato, a partire dal 2016, sul modello di integrazione e accoglienza che tra mille difficoltà aveva portato Riace, minuscolo e semi spopolato paesino dello Jonio reggino, all’attenzione di mezzo pianeta.

    mimmo_lucano
    Mimmo Lucano

    E se in una delle relazioni – sulla quale si è basata parte dell’indagine della guardia di finanza – si sottolineavano le tante criticità legate alla gestione del denaro, in un’altra – a lungo “impantanata” negli uffici della Prefettura reggina da cui è riemersa solo dopo una formale denuncia – si certificava la capacità propositiva e inclusiva di un “modello” capace di ripopolare con profughi e richiedenti asilo, un centro abbandonato dai suoi stessi abitanti a loro volta migrati lontano in cerca di maggiore stabilità. Un modello ormai sepolto dai 13 anni di condanna inflitti all’ex sindaco dal tribunale di Locri, ma che era stato già minato dalla progressiva serrata dei progetti d’accoglienza. Serrata in cui Di Bari recitò un ruolo da protagonista.

    La “maledizione di Lucano”

    Di Bari non è l’unico funzionario finito – seppure di riflesso – nel tritacarne di un’indagine sui migranti in seguito alla chiusura dei progetti di Riace. Per uno strano caso del destino infatti anche altri due funzionari sono rimasti invischiati in altrettante indagini a pochi mesi dalla chiusura del paese dell’accoglienza. Come nel caso di Salvatore Del Giglio, che di una di quelle relazioni prefettizie fu estensore e che finì indagato dalla Procura di Palmi per una presunta relazione falsa legata ai progetti d’accoglienza a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. O come nel caso di Sergio Trolio – che nel processo locrese fu uno dei testimoni dell’accusa come ex tutor dei servizi Sprar – finito indagato dalla Procura di Crotone per una serie di presunte truffe legate proprio al mondo dei migranti.

  • Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Le prime auto sono arrivate già dalla mattina. Da Napoli, da Cosenza, da Parma, da Messina: alla fine saranno un migliaio i sostenitori dell’ex sindaco Mimmo Lucano. Tutti approdati a Riace per rispondere alla “Chiamata delle arti”, la manifestazione a sostegno del “curdo” organizzata a poco più di un mese dalla sentenza del Tribunale di Locri. Lucano ha subito una condanna a 13 anni e due mesi di reclusione.

    Mimmo Lucano in piazza a Riace con Gad Lerner e padre Alex Zanotelli

    Presenti militanti, attivisti, i partigiani dell’Anpi e i giovani dei centri sociali. Non mancavano due ex candidati alla presidenza della Regione, Mario Oliverio e Luigi De Magistris. Tra i manifestanti anche l’ex sindaco movimentista di Messina, Renato Accorinti.

    Padre Alex Zanotelli e il sindaco con la falce e martello

    Spunta qualche amministratore locale della provincia – il neo rieletto sindaco di Polistena, Tripodi, munito di bandiera con falce e martello – e l’immancabile padre Alex Zanotelli che con Riace e il suo progetto di accoglienza dal basso ha un rapporto antico. Ma sono i giovani i veri protagonisti di questa giornata di festa salutata dallo scirocco. Ci sono i bambini arrivati in questo pezzetto di Calabria con le loro famiglie negli anni passati e quelli che a Riace sono nati, e ci sono i ragazzi delle scuole (una classe di un liceo di Messina ha continuato a girare lungo tutto il corteo per vendere una fanzine del loro «gruppo rivoluzionario che intende distruggere il capitalismo»).

    L’indifferenza dei ragazzi del posto

    Quelli che mancano sono i ragazzi del posto che non hanno risposto all’appello. Così come tiepida è stata la risposta dei cittadini del paesino jonico. Un gruppo di anziani gioca a carte nel bar appena fuori il “Villagio Globale”. Guardano a quella massa rumorosa di estranei con l’indolenza tipica di queste parti e non si fanno vedere nella piazza principale. Gli altri sono tutti in fila ordinata lungo la strada che dal Santuario di Cosma e Damiano conduce fino al paese. Un Santuario dove, grazie all’interessamento dell’allora vescovo Bregantini, furono ospitati i curdi del primo sbarco a Riace. Era il 1998.

    Bella Ciao con Gad Lerner e Ascanio Celestini

    Un corteo lungo e colorato di rosso che Lucano, mano nella mano con due dei bambini migranti che a Riace sono rimasti nonostante la tagliola disposta dall’allora ministro Salvini, guida tra le manifestazioni di affetto e vicinanza dei manifestanti. E ancora Gad Lerner e Ascanio Celestini per un serpentone rumoroso che avanza al ritmo di Bella Ciao fino all’anfiteatro con i colori della pace. E qui che, rispondendo alle domande dello stesso Lerner, Mimmo Lucano ha ripercorso le ultime tappe della sua vicenda. Una vicenda legata a doppio filo con la “rotta turca” che da più di venti anni continua a riversare disperati sulle spiagge della Locride.

    Il corteo per Mimmo Lucano sta per raggiungere il centro storico di Riace
    Le parole di Mimmo Lucano

    «Quello che proprio non riesco a sopportare di questa vicenda – ha detto l’ex sindaco – è la delegittimazione morale di quanto abbiamo fatto in tutto questo tempo. Questo non posso davvero sopportarlo. In una terra come la Locride, umiliata dal crimine organizzato e con un sistema sociale ed economico fragilissimo, noi abbiamo proposto un riscatto per il nostro territorio, occupandoci di un fenomeno epocale come quello migratorio». Il racconto del “curdo” ripercorre tutte le tappe di un “anomalia” capace di sorgere in contrapposizione agli slum spuntati, negli stessi anni, nelle campagne della piana di Gioia Tauro e il pensiero non può che andare a Beky Moses. «Una ragazza – ha ricordato ancora Lucano – a cui era stata rifiutata l’accoglienza e che era stata obbligata a lasciare Riace».  Che disse a Lucano: «Tu sei l’ultimo che può darmi una mano».

    Il giornalista Gad Lerner con Mimmo Lucano a Riace
    «La Prefettura di Reggio mi chiedeva di accogliere»

    Lucano continua: «Come potevo rifiutare? Non mi sono mai pentito di avere firmato quella carta d’identità anche se non è servito a niente visto che quello stesso documento è stato ritrovato qualche giorno dopo tra i resti del rogo che la uccise, nell’inferno di San Ferdinando». E poi la cooperativa che si occupava dei rifiuti a dorso di mulo «e che aveva rotto il monopolio dei soliti noti ma per cui sono stato comunque condannato» e le continue chiamate dalla Prefettura reggina che «mi chiamava San Lucano e mi chiedeva continuamente di accogliere altra gente perché non sapevano dove sistemarla». Quello di Mimmo è un racconto serrato e interrotto più volte dagli applausi del pubblico.

    Le parole del corteo di oggi a Riace
    Zanotelli: indagano Lucano invece di occuparsi di ‘ndrine 

    E se per Lerner la pesantissima sentenza di condanna che, in primo grado, è costata un totale di 87 anni di carcere per 15 dei 27 imputati rappresenta «un vero e proprio stupro nei confronti di Mimmo Lucano e del suo progetto di accoglienza», per il missionario comboniano Zanotelli, il vero rebus resta l’impegno della Procura di Locri «che al posto di occuparsi dei mille problemi causati dalla ‘ndrangheta in questo territorio, ha speso due anni per imbastire questa indagine contro una brava persona come Mimmo Lucano».

  • Torturato in Pakistan, clandestino per Reggio: la Cassazione dice no

    Torturato in Pakistan, clandestino per Reggio: la Cassazione dice no

    Gli uccidono il fratello durante le Comunali in Pakistan nel 2015, lui denuncia tutto ma viene rapito, torturato e “convinto” a ritrattare. Ma la notte stessa scappa e arriva poi fino in Calabria, che però gli nega asilo politico. Ora la Cassazione ha accolto il suo ricorso prospettando un lieto fine per l’odissea di questo quarantenne di origini pakistane, almeno dal punto di vista della sicurezza personale.

    Asilo politico

    L’uomo, infatti, aveva visto respingere per ben due volte la richiesta di protezione internazionale tramite l’asilo politico. In Italia è garantita a chi è riconosciuto lo status di rifugiato, ossia a colui che per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha cittadinanza (o dimora abituale – nel caso di soggetti apolidi) e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese.

    L’arrivo in Calabria

    Il 40enne era arrivato in Calabria nel 2015 dopo mille peripezie e si era subito attivato per chiedere lo status di rifugiato cercando al contempo di integrarsi, studiando italiano e lavorando ogni qual volta ne ha avuto l’occasione. Le diffidenze delle istituzioni italiane in merito sono certamente dovute non tanto all’alto numero di richieste, quanto ai numerosi tentativi di aggirare le normali procedure “inventando” storie di sana pianta per cui, purtroppo, a volte “paga il giusto per il peccatore”.

    Ma la Cassazione ha accolto il suo ricorso rinviando ad altra sezione d’Appello che ora dovrà seguire le indicazioni degli ermellini e concedere l’agognato e meritato status di rifugiato al 40enne, che è riuscito a provare la sua tragica storia, tanto assurda da sembrare quasi finta. E invece era tutto drammaticamente vero.

    Due no da Reggio

    La corte d’Appello di Reggio Calabria aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale locale aveva già respinto le domande di protezione internazionale o umanitaria del pakistano. Quest’ultimo aveva dichiarato di essere perseguitato da appartenenti a un partito politico del suo Comune di residenza nella regione del Punjab in Pakistan. L’uomo, quale sostenitore del Partito popolare, era finito nel mirino di una banda criminale che appoggiava la fazione politica opposta alla sua, ossia quella in cui militava il fratello.

    Ostaggio degli assassini del fratello

    Nelle elezioni comunali del 2015 aveva collaborato infatti alla campagna elettorale del fratello, rimasto poi ucciso in un agguato da parte di un commando armato che fiancheggiava il partito contrario al suo. A seguito di questa barbara e feroce esecuzione, il 40enne muratore pakistano aveva debitamente denunciato i tragici avvenimenti alla polizia locale e ai giudici della sua regione (come da allegata copia della denuncia, munita di traduzione e consegnata ai giudici italiani). Per questo, dopo il funerale, lo avevano rapito, imprigionato per tre giorni, minacciato di morte – con tanto di fratture a una spalla – nel tentativo di convincerlo a ritirare la denuncia.

    In fuga verso l’Italia

    E lui aveva promesso di farlo solo per conseguire la liberazione, ma in realtà voleva denunciare anche questa seconda aggressione. I suoi familiari, però, gli avevano consigliato di non farlo, continuando le pressioni degli aguzzini affinché ritirasse la denuncia. E così il 40enne aveva deciso di fuggire.

    La mattina dopo la liberazione si presenta alla polizia e ritira la denuncia. Ma la notte stessa, capendo che la sua permanenza in Pakistan sarebbe stata troppo rischiosa dopo gli avvenimenti, scappa e fa perdere le sue tracce anche ai familiari per tutelarli e “tranquillizzare” la banda che aveva ucciso il fratello su altre sue possibili denunce.

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    Osama Bin Laden, ideatore degli attentati dell’11 settembre 2001

    In Pakistan esistono forze di polizie e di giustizia che operano in zone dove le bande criminali a sfondo politico e religioso continuano ad avere il loro peso nella vita dei cittadini. Non dimentichiamo che Osama Bin Laden è stato catturato e ucciso proprio in Pakistan. Dopo mille traversie il 40enne era riuscito finalmente ad arrivare in Italia. Si sentiva finalmente al sicuro e voleva lasciarsi alle spalle questa brutta storia, convinto di aver messo al sicuro anche la sua famiglia grazie proprio alla fuga improvvisa.

    Nel dubbio, meglio non rischiare

    Non pensava forse di dover combattere altre battaglie, stavolta giudiziarie, per farsi riconoscere come rifugiato. Ma la Cassazione già da tempo sta fissando parametri molto rigidi ad entrambe le parti, richiedenti e tribunali. Ai primi non basta più dichiarare storie incredibili per accedere a questo tipo di benefici. I tribunali e le commissioni regionali, a loro volta, non possono respingere le richieste di asilo politico senza eseguire approfondimenti. E nel dubbio o nell’impossibilità di arrivare a fonti certe sui vari racconti il principio da seguire è sempre in direzione della tutela dei diritti e della salvaguardia della vita e della salute.

    Il ribaltone degli ermellini

    I giudici di primo e secondo grado non avevano creduto fino in fondo al racconto del pakistano e comunque ritenevano cessato il pericolo dopo il ritiro della denuncia. Di ben altro avviso la Suprema corte, che nella sentenza dei giorni scorsi ha accolto il ricorso dell’uomo sottolineando che «la motivazione della sentenza impugnata non può dirsi raggiungere quella soglia del minimo costituzionale sindacabile in sede di legittimità. Si impone quindi la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio del procedimento, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Reggio Calabria in diversa composizione». Il 40enne può tirare il meritato sospiro di sollievo e attendere con fiducia lo status di rifugiato che gli spetta dopo la pronuncia chiara e precisa degli ermellini.

    Vincenzo Brunelli

  • Roccella: sbarcano 300 migranti e l’accoglienza va in tilt

    Roccella: sbarcano 300 migranti e l’accoglienza va in tilt

    Era solo questione di tempo e alla fine, come prevedibile, il banco è saltato. L’ennesimo approdo di migranti sulle banchine del porto delle Grazie ha infatti mandato in tilt la stremata macchina dell’accoglienza di Roccella, costretta ad affrontare l’arrivo continuato di barchini e carrette del mare stipati all’inverosimile di disperati in arrivo dal Medio Oriente sulla rotta che collega la Turchia allo specchio di Jonio che va da Crotone a Reggio Calabria. Martedì, soccorsi da una vedetta della Capitaneria di porto a una decina di miglia dalla costa, sono sbarcati in 300, tra loro anche diversi minori.

    Un gruppo enorme che ha costretto, per la prima volta in quasi venti anni, il piccolo comune reggino ad alzare bandiera bianca dichiarandosi impossibilitato a fornire la prima accoglienza. Il cancello dell’Ospedaletto – la struttura semi fatiscente in cui da anni vengono veicolati i migranti arrivati dal mare prima di essere trasferiti nei centri di accoglienza o sulle navi quarantena e che fino a qualche anno fa ospitava un piccolo ambulatorio medico – era infatti sbarrato da giorni per una sanificazione straordinaria dovuta al continuo afflusso di arrivi di queste ultime settimane.

    L’interno dell’ospedaletto di Roccella Jonica
    Sotto pressione

    Unico avamposto “attrezzato” tra Crotone e Reggio, Roccella si trova al centro di una delle rotte migratorie più battute del Mediterraneo. E qui che convergono i mezzi dei soccorritori quando i barchini sono intercettati al largo delle coste. Un flusso ininterrotto di persone in fuga dal Medio Oriente che negli ultimi tempi ha registrato un notevole aumento. E se, di fatto, il numero degli sbarchi è praticamente raddoppiato – negli ultimi quattro mesi replicatisi al ritmo di uno ogni due giorni – sono invece rimaste pressoché identiche le forze che di quella marea umana si prende cura nelle primissime ore. Un esercito di volontari, dipendenti comunali, forze dell’ordine e associazioni sanitarie, stremate da un impegno costante.

    Chiuso per sanificazione

    Preceduta da una lettera inviata dal sindaco Zito al Prefetto, la serrata della struttura di prima accoglienza si era resa necessaria dopo gli sbarchi delle ultime settimane. Impossibile rimandare ancora le operazioni di pulizia straordinaria e sanificazione dei locali dopo il transito di centinaia di persone in pochi giorni. Quando le operazioni di prima verifica sanitaria sui migranti si stavano esaurendo sulle banchine del porto, poche centinaia di metri più in là, quelle di sanificazione dell’ospedaletto erano ancora in corso. E così, il gruppo di 300 migranti – schierati in tre gruppi di cento all’ombra dei relitti dei barconi degli sbarchi precedenti – approdati alle prime luci dell’alba è rimasto sulla banchina nord anche per le operazioni di identificazione da parte delle forze dell’ordine.

    L’esterno dell’ospedaletto di Roccella Jonica
    In prestito dal poligono

    E così, in mancanza di una struttura idonea, la macchina dei soccorsi – Roccella è praticamente l’unico caso italiano interessato da grossi flussi migratori in cui non esiste un hub gestito dal Ministero, e tutte le procedure d’accoglienza gravano sulle spalle dell’amministrazione comunale – si è dovuta ingegnare. Accanto al container della Croce Rossa (i cui volontari sono in campo a pieno organico da anni nelle operazioni di soccorso), i tecnici del comune hanno montato un gazebo che hanno dovuto chiedere in prestito al circolo del poligono cittadino, e le operazioni di identificazione da parte della polizia sono potute proseguire al “coperto”.

    Emergenza continua

    Il raddoppio del numero degli sbarchi di quest’ultimo anno ha messo seriamente in difficoltà la macchina dell’accoglienza, facendo emergere una serie di crepe evidenti nel sistema che accompagna il flusso migratorio che interessa la Locride. A partire dall’Ospedaletto, su cui a breve dovrebbero partire i lavori di ristrutturazione. Negli ultimi tempi all’interno degli stanzoni della struttura a nord di Roccella sono stati ospitati fino a 250 migranti per volta, ben oltre le capacità effettive che prevedono un tetto massimo di 130 ospiti. Una situazione di difficoltà straordinaria che si ripercuote sui migranti e poi, a cascata, su tutti gli operatori che in quelle condizioni si trovano ad agire.

    E quando la carretta del mare sfugge ai controlli delle forze dell’ordine, le cose, se possibile, vanno anche peggio. Quando un barchino si arena sulle spiagge della riviera dei Gelsomini infatti, i sindaci sono costretti ad individuare una struttura idonea a garantire la prima accoglienza. Con i risultati che ci si può immaginare. Palazzetti che diventano dormitori, vecchi edifici riconvertiti per poche ore in ostelli di fortuna, persino vecchie scuole riadattate all’ultimo minuto, come a Siderno Superiore o come nel caso di Arghillà, quando il traporto di una 70ina di migranti arrivati al porto di Reggio provocò una mezza insurrezione, con tanto di barricate di immondizia data alle fiamme e polizia in assetto anti sommossa.