Dopo il tempo del dolore, che comunque non finisce, deve venire il tempo della mobilitazione e della denuncia politica. Per non rassegnarsi allo sgomento e far sì che quanto accaduto domenica sulla spiaggia di Cutro non si ripeta. Per spiegare che il naufragio e la morte dei migranti non sono state fatalità, ma potevano essere evitate, come sempre più chiaramente sta emergendo.
L’Italia si mobilita
Molte associazioni, così, si sono raccolte in rete e già il prossimo sabato si mobiliteranno in tutta Italia, tenendo manifestazioni in moltissime città. Questi eventi saranno raccontati da Radio Ciroma, emittente cosentina che organizzerà un ponte radio per tenere in contatto le molte piazze. In Calabria l’appuntamento è a Crotone davanti alla Prefettura, per dare un segno di solidarietà alle associazioni della città che hanno dovuto affrontare in prima linea la tragedia della morte dei migranti cercando di far convogliare lì il maggior numero di persone. Tuttavia, a causa di difficoltà logistiche, a Reggio e a Vibo si svolgeranno in contemporanea manifestazioni locali.
Una manifestazione a Crotone per i morti di Cutro
A Cosenza nella sede della Base, si sono riuniti i rappresentati di alcune associazioni, Radio Ciroma, il sindacato Cobas, il Centro antiviolenza Lanzino, Emergency, l’Anpi P.Cappello, il Filo di Sophia e Gaia, fino all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. L’intento è quello di compiere gli sforzi necessari ovunque ci si trovi per concretizzare l’idea che sta maturando, cioè di realizzare una manifestazione nazionale da tenere sabato 11, proprio a Crotone.
La scelta della città calabrese non è solo legata, come è ovvio, al drammatico naufragio. Simbolicamente vuole rappresentare anche il luogo di partenza di una protesta non solo contro questo governo, ma pure per rivendicare attenzioni verso la Calabria, che come è stato detto «non vuole essere la tomba degli ultimi, né luogo di disperazione».
Difficile, ma non impossibile
I promotori sono consapevoli delle difficoltà organizzative che pesano sull’ipotesi di un incontro nazionale a Crotone, dove è difficile giungere da qualunque punto della regione, figuriamoci dal resto del Paese. Ma già sabato, nel corso delle manifestazioni che si terranno in tutta Italia, si misurerà la volontà di affrontare queste difficoltà, costruendo in rete un percorso che arrivi fino alla prefettura di Crotone.
Nel PalaMilone ci riscopriamo fragili e impotenti. Una dimensione collettiva e allo stesso tempo intima. La riscoperta agghiacciante dell’umano in una vicenda tutta disumana. È come se il pellegrinaggio continuo, i fiori, gli orsacchiotti lasciati lungo le grate esterne, i silenzi volessero restituire un senso di giustizia a ciò che è accaduto a Steccato di Cutro, alle parole fuori posto, a ciò che forse non riusciremo mai a scoprire di quella notte.
Non è pietismo, non è un lavarsi la coscienza davanti alla morte. Sembra più una inconscia riscoperta di fratellanza e solidarietà. Una ritrovata identità mediterranea, un’appartenenza a un mare che unisce e rende sorelle e fratelli. Quello stesso mare che abbiamo reso una muraglia con le nostre politiche identitarie.
Si percepiscono lontani gli slogan di questi giorni: «sono troppi», «perché partono», «non possiamo accoglierli tutti».
Cutro e il PalaMilone come Sarajevo o Kabul
È il tempo del silenzio, della mancanza di parola, della riflessione. Si entra con delle certezze, si esce svuotati alla vista di quelle bare poste sul campo da gioco del palazzetto. È lo stesso contrasto che si afferra a Sarajevo, a Buenos Aires, a Kabul. Campi di calcio trasformati in luoghi di martirio. Gli spalti vuoti di fronte restituiscono quel senso assordante di silenzio e tristezza. Si dovrebbe esultare su quei seggiolini, oggi si rabbrividisce davanti a tutta la scena.
La bara di una delle bambine morte
Si fa in tempo anche a scorgere qualche familiare che arriva accompagnato dai volontari della Croce Rossa. È una donna avvolta nel velo e si muove alla ricerca di un nome posto sul legno. Per altri invece c’è solo un numero, un identificativo. Altri parenti arrivati da Londra e dal Nord Europa attendono le ricerche, la restituzione di un corpo. Non è una speranza di vita ma una restituzione di dignità. Una piccola particella di giustizia in un mare di ingiustizia.
In quelle bare ci siamo noi, annegati tra le onde della disumanità. Vittime e complici di un sistema alla deriva dove l’egoismo si incarna nella difesa dei confini, nella separazione tra ciò che è di qua e da quel che c’è di là. È la fortezza Europa che si sgretola giorno dopo giorno. Sabato notte l’abbiamo vista sgretolarsi impietosa sulle nostre coste, sulle sconosciute spiagge di Steccato di Cutro, tra soccorsi mai arrivati, nella desolazione e la solitudine di una rotta che da Est taglia verso Ovest, nel frastuono del sabato italiano.
Al di là del mare
È contrasto anche qui. Le urla delle mamme alla ricerca dei figli dispersi si mischia alle ultime note dei locali della movida delle nostre città. L’ora è la stessa. Quella stessa ora in cui forte è la consapevolezza dell’essere nati dalla parte fortunata del mare. E allora perché sprecare parole sulla necessità di partire? Di cercarsi un futuro migliore? Perché non tacere?
L’uscita dal PalaMilone è solo la necessità di un abbraccio. La consapevolezza che girarsi dall’altra parte non può diventare un imperativo, anzi il contrario. «Non si può andare avanti così», dice qualcuno. È il momento della denuncia. È il momento delle responsabilità altrimenti ci rimarrà un’altra strage da ricordare tra le occasioni perdute in cui avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.
Non sono stato al PalaMilonedove c’è tutta la fila di bare. Dovevo tornare a Cosenza e poi, lo ammetto, mi ha frenato una sorta di pudore. Forse sabato ci andrò. A Crotone ho partecipato ad un’assemblea affollata e costruttiva alla sede dell’Associazione Sabir. Due ragazzi superstiti della tragedia hanno ascoltato ciò che dicevamo. Due afghani che hanno perso due nipoti nel mare di Cutro.
Frenetica indifferenza
È una tragedia immane che in qualche modo si materializza nei racconti dal vivo di chi l’ha vissuta e di chi sulla spiaggia ha raccolto i corpi di tutte le età. In quei corpi straziati c’è tutta la disumanità di chi li ritiene “carichi residuali”, ma anche tutte le colpe della nostra frenetica indifferenza. Può essere frenetica l’indifferenza? Si, lo è.
Perché di quelle persone non sappiamo niente e niente vogliamo sapere. I mezzi per conoscere ciò che succede in Afghanistan li abbiamo. Internet ci informa di tutto. Ma soprassediamo. Potremmo sapere ma preferiamo non esporci a queste informazioni che potrebbero turbare la quiete delle nostre giornate. Ci interessa più la copertina di Vogue con un presidente in guerra in posa con la moglie.
Bare bianche
Le donne afghane non possono posare per nessuna copertina. Le donne afghane non hanno diritti, nemmeno uno. E vogliono scappare portandosi le proprie bambine per strapparle alla barbarie di una vita nascosta. Si tenta di andare via dalle guerre, dalla povertà, dall’oppressione della tirannia.
Ci sono bimbi siriani, in quelle bare. Sono nati in guerra e in guerra muoiono. O sotto le bombe o sotto l’acqua. Per un ministro della Repubblica Italiana quelle mamme e quei bimbi sono colpevoli di partire. Un modo elegante per sostenere che se la sono cercata.
Porterò dei peluche, fra tre giorni a Crotone. Li darò ad una bara bianca. Vittima della barbarie degli uomini e della mia frenetica indifferenza.
Proprio oggi a Roma è in programma un convegno dal titolo:”Per una primavera demografica. Quali politiche per la natalità”. Conclude i lavori Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia e la natalità. Dobbiamo far nascere più bambini autoctoni, bianchi, cattolici, italiani. Quelli che arrivano e muoiono con la bocca e gli occhi pieni di sabbia di mare non vanno bene. Sono neri. Musulmani forse. O neri e musulmani insieme. Prodotti difettosi, quindi. Da scartare facendoli morire, se riescono ad arrivare. Facendoli schiattare di fame, di guerra, di siccità – che noi colonizzatori abbiamo provocato – pur di tenerli lontani dal sacro suolo patrio.
Il relitto visto dall’alto a Cutro
Noi, campioni di fascismo
Noi che siamo morti sui bastimenti per le Americhe. Che siamo stati ispezionati come bestiame ad Ellis Island, e in molti casi rimandati indietro, difettosi pure noi. Noi che abbiamo esportato made in Italy insieme a mafia, camorra e ‘ndrangheta. E fascismo. Noi, italiani brava gente, che eravamo buoni fino a quando non abbiamo cominciato a seguire il pazzo tedesco. Prima non eravamo razzisti, ma proprio per niente. I gas in Etiopia non li abbiamo gettati noi italiani, non abbiamo preso le bambine nere per fare i nostri comodi. Al tempo l’espressione fake news non esisteva: le chiamavano bugie, ma di quello si trattava.
Il “carico residuale” di Cutro
Ora abbiamo la versione aggiornata, edulcorata, dell’aiutiamoli a casa loro. Annacquata fino a un certo punto, se ascoltiamo le parole di Piantedosi, ministro dell’Interno. Dalla sua bocca escono frasi quali “carico residuale”, espressione riferita a gente in carne e ossa, che spesso ricopriamo di lenzuoli bianchi sulle nostre belle spiagge meta di bagnanti gioiosi e di turisti. Che diventano bare incolonnate nei palasport dove poi torniamo a giocare, come se nulla fosse. Che diventano sigle. KR14f9: annegata a Cutro, in provincia di Crotone; n. 14; femmina; 9 anni. Rimproveri ai genitori che, guarda un po’, rischiano la vita dei loro figli per farli fuggire dall’Eden dell’Afganistan della donna retrocessa a oggetto senza voce in capitolo e senza istruzione; della Siria della guerra civile e del terremoto; del Kurdistan cui sempre noi abbiamo donato un presente e un futuro di sottomissione, tradendo più volte l’impegno assunto per la nascita di un loro Stato autonomo.
Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro
Il calo demografico dell’Italia
Ma noi non siamo cinici, non vogliamo focalizzare attenzione e ragionamenti, decisioni infine, sull’aspetto demografico e di conseguenza economico della questione. La nostra innata, tradizionale generosità e apertura al prossimo, specialmente in stato di difficoltà, non ci porta a considerare, se non il lato umanitario del fenomeno, la rilevanza dei dati Istat. Essi ci dicono che il 1° gennaio 2022 in Italia avevamo 58 milioni e 900 mila residenti, per il quinto anno sotto i 60 milioni. Che in un anno (2022 su 2021) abbiamo perso 253mila abitanti, e l’anno prima 405 mila. Dal 2009 il numero medio di figli per donna in età feconda è dell’1,25; dovrebbe essere del 2 per non produrre calo nella popolazione.
Ovviamente, ciò comporta anche un invecchiamento della popolazione: l’età media era 41,9 anni nel 2003, 45,9 nel 2021, 46,2 nel 2022. Nel 1950 bambini e ragazzi (0 – 19 anni) erano il 35,4 %, oggi il 17,5. Nello stesso periodo, le persone tra i 20 e i 30 anni sono passate dal 35 % al 21; quelle tra i 40 e i 59 anni dal 22 al 31, dai 60 ai 79 anni dal 23 al 31 %. Infine, gli Italiani ultra ottantenni erano l’1 % nel ’50, oggi sono il 7,5 %. Nel 2070, secondo l’Istat, gli Italiani saranno 12 milioni in meno: 47,2 milioni Tra essi, sempre più anziani e vecchi.
Un Sud senza figli e futuro
Ma è il Meridione che, da questo punto di vista, sta peggio. Secondo Neodemos, nel 1950 viveva in quest’area il 37,2% della popolazione italiana, nel 2022 il 33,6; nello stesso periodo, l’apporto del Mezzogiorno d’Italia al numero complessivo delle nascite è crollato dal 49,6 al 35,7%. Questo senza che vi sia stato, come per altre aree del Paese, un apporto derivante all’arrivo di stranieri. In un solo anno, dal 2020 al 2021, la popolazione in Calabria è diminuita di 5147 unità, e di 26991 nell’intero Meridione
Nel 2011 i residenti in Calabria erano più di due milioni, ma dal 2008, col numero delle nascite sempre inferiore a quello dei decessi, il saldo è in negativo, con una punta massima di – 7058 nel 2020. Il saldo negativo nascite-morti, associato al dato negativo legato all’emigrazione, ha comportato una perdita di 42.000 abitanti nella regione dal 2014 al 2021. In quest’ultimo anno, il numero di abitanti è diminuito rispetto all’anno precedente di 16.015 unità, date dalla somma di meno 9.939 – per differenza tra nascite e morti – e meno 6.076 per l’emigrazione. Questi i numeri. Che messi affianco al numero esorbitante di case disabitate, alle estese porzioni di territorio abbandonate, ad interi paesi svuotati o abitati solo da gente in età avanzata, alle coltivazioni bisognose di manodopera, suggerirebbero razionalmente un’inversione di rotta. Non per tornare umani, ma per non far morire la speranza, per non trasformare la nostra terra in un deserto.
Il coraggio dei disperati
Tuttavia, prevalgono la pancia, il complottismo, le teorie bislacche sulla sostituzione etnica, come se i luoghi di tutto il mondo non ne avessero viste innumerevoli in migliaia di anni. Niente e nessuno – muri, blocchi navali, respingimenti – potrà fermare chi è in cerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli (come chi è arrivato senza vita a Cutro), chi fonda il coraggio di partire sulla disperazione nel restare. Nessun blocco nel mezzo dell’Atlantico avrebbe potuto arrestare l’esodo dell’ultimo scorcio dell’ottocento e del primo del novecento dall’Italia alle Americhe.
Imbarcazione che trasportava migranti arenata sulla spiaggia di Siderno
Si tratta di processi irreversibili, cui neanche il Governo della cattiveria può porre argine. Un percorso che va governato con lungimiranza, non con provvedimenti di polizia ma con senso di umanità e anche con pragmatismo, evitando di volgere lo sguardo dall’altra parte, ché tanto non serve a nulla. I governi, di destra e anche, sebbene in misura minore, di sinistra, del nostro e degli altri Paese dell’Occidente avanzato, devono occuparsene seriamente. Per evitare che uomini donne bambini si tramutino in sigle su lenzuoli bianchi, in cadaveri in fondo al mare come quelli di Cutro, in centinaia di bestie che rischiano di soffocare accatastate l’una sull’altra dentro stive di pochi metri quadri. Non c’è altro modo per salvare questi poveri esseri derelitti. Non c’è altro modo per salvare le nostre anime.
Una manovra sbagliata e poi lo schianto. Il mare non perdona, specie quando è molto agitato. A forza 7, come abbiamo appreso dai primi lanci di agenzia, subito rimbalzati sui tg. Foce è una spiaggia di Steccato, a sua volta frazione di Cutro, poco meno di 10mila anime in provincia di Crotone. Uno di quei luoghi che qualcuno ogni tanto ricorda come meta turistica e qualcun altro associa a un campione di scacchi del XVI secolo.
Ma dal terribile 26 febbraio questa zona sarà ricordata anche come teatro di una strage di migranti. Di cui emergono alcuni dettagli inquietanti: sessantaquattro persone sono morte non per un incidente, ma per “presunta” colpa degli scafisti. E, ciò che è peggio, vicino a quella meta pagata cara: ottomila euro per migrante.
Soccorritori e forze dell’ordine in azione
Strage di Cutro: gli indagati
Tre turchi, due pakistani di cui un minorenne, e un siriano: sarebbero loro gli scafisti responsabili del viaggio della speranza finito in tragedia.
E questa tragedia sarebbe dovuta al panico scatenato non dalla tempesta ma da alcune luci a riva: pensavano che fosse la polizia e avrebbero tentato una folle inversione di rotta. Proprio questa manovra avrebbe causato l’incidente.
Usiamo i condizionali per mero garantismo. E per lo stesso garantismo non facciamo nomi: queste cose spettano all’autorità giudiziaria.
Ma quattro superstiti, interrogati dalla polizia il 27 febbraio, non hanno dubbi. Identificano gli scafisti e ricostruiscono nel dettaglio quei minuti concitati.
Strage di Cutro: il caicco marcio
I primi testimoni sono tre stranieri: due bielorussi e un romeno. Pescatori che si trovavano sulla spiaggia alle 4 del mattino e hanno visto tutto: gli sos lanciati con le luci dei cellulari, la barca che si rovescia e si spacca e le persone che finiscono in mare.
Nel gergo nautico si chiama caicco: è un’imbarcazione di medie dimensioni, nata come peschereccio e poi usata per le crociere.
Ma il caicco, piuttosto comodo per un numero di passeggeri ridotto, può diventare una trappola quando a bordo ci sono dalle 140 alle 180 persone, a seconda delle ricostruzioni. Ed è pericoloso quando è in pessime condizioni. E quello naufragato a Crotone era addirittura marcio, come ha riportato qualche media.
Il relitto visto dall’alto
Strage di Cutro: la partenza
Non si scappa solo dai drammi epocali, come le guerre. Ma anche dai drammi quotidiani, come la miseria e la mancanza di prospettive. Le storie di questi migranti sono simili: partenza dal paese di origine. Arrivo e permanenza in Turchia con un solo desiderio: raggiungere l’Italia, il primo approdo in quell’Europa considerata da molti la salvezza. Uno di loro è rimasto a Teheran un anno. Vi ha lavorato alla meno peggio e poi ha tentato la sorte in Turchia. La prima volta gli va male: le autorità lo arrestano e lo costringono a restare in un campo. Poi, dopo il terremoto, i controlli saltano, lui riesce a scappare e si imbarca. Un altro proviene dall’Afghanistan, altro teatro tragico. Resta in Turchia un anno, dove lavora come può. Poi si imbarca.
I soldi del “biglietto” sono versati, di solito, a qualche agenzia compiacente che attiva l’organizzazione.
Una tutina da neonato: l’immagine simbolo della tragedia
La parte finale dell’imbarco è uguale per tutti: permanenza in una “safe house”, un covo lontano da occhi indiscreti, in questo caso nei pressi di Istanbul. Poi un viaggio via terra a bordo di pick up e finalmente l’imbarco a Cesme: è il 22 febbraio.
Strage di Cutro: il contrattempo
La nave, racconta uno dei testimoni, sembra bella: è rivestita di vetroresina di color bianco. E sarebbe persino confortevole.
Peccato solo che il motore sia andato. Infatti, dopo poche ore, gli scafisti sono costretti a chiedere aiuto. Arriva la seconda imbarcazione, il caicco, su cui salgono lo scafista siriano e i migranti. E il viaggio riprende, da una bagnarola all’altra.
Ma queste bagnarole sono preziose, per gli scafisti e per chi li manovra. Infatti, racconta un testimone, i quattro accompagnatori si sarebbero impegnati solo a “sbarcare in sicurezza” i migranti. Quindi non a chiedere soccorso se le cose si fossero messe male.
Di più: gli scafisti avrebbero dovuto portare indietro la barca. Questi dettagli, se confermati, spiegherebbero tanto. Troppo, forse.
Strage di Cutro: vietato comunicare
Gli scafisti, per fortuna, non sono violenti. Ma rigidi sì: vietato fare filmati a bordo. Vietato, soprattutto, comunicare finché non si arriva a destinazione.
Per precauzione, l’equipaggio della bagnarola utilizza uno Jammer, un disturbatore di frequenze che blocca i segnali dei cellulari.
I migranti potranno telefonare solo per dire che tutto è andato bene e, quindi, per sbloccare le somme che finiranno nelle casse dell’organizzazione.
È successo anche questo, a cento metri dalle coste di Cutro: vocali lanciati dai migranti poco prima del naufragio. Una beffa nella beffa: la costa vicina ma impossibile da raggiungere e il messaggio rassicurante (ai parenti rimasti in patria e all’organizzazione) e, pochi minuti dopo, il disastro.
Un momento dei soccorsi
Strage di Cutro: il linciaggio
Sono le prime ore del mattino del 26 febbraio. Impossibile sbarcare in sicurezza. Ma impossibile anche restare in mare.
I passeggeri vedono la costa e protestano. Gli scafisti hanno paura e tentano di tornare al largo. Poi, quando si accorgono che la bagnarola imbarca acqua, gonfiano un gommone e mollano i migranti alla loro tragedia.
I carabinieri del Nucleo radiomobile arrivano alle 4,30, soccorrono i primi superstiti e portano a riva i primi cadaveri.
Un migrante li avvicina e identifica uno degli scafisti: un turco, che è il principale indiziato. Occhio agli orari: una pattuglia di terra della Guardia Costiera arriva alle 5,30, circa un’ora dopo. Giusto in tempo per consentire ai militari di sottrarre lo scafista al linciaggio dei superstiti.
Siamo garantisti, d’accordo: ma si può pretendere altrettanto da chi ha visto annegare i propri cari a pochi metri dalla costa? E cosa si può provare nei confronti di chi non ha lanciato l’allarme perché una bagnarola è più importante della vita dei passeggeri?
I detriti del caicco in spiaggia
Strage di Cutro: gli interrogatori
Tutti i testimoni concordano su quel che è avvenuto in quelle ore terribili. E tutti riconoscono gli scafisti dalle foto.
Già: i migranti non potevano scattare foto a bordo. Ma loro, gli scafisti, si riprendevano con la massima tranquillità.
Ancora: i carabinieri hanno trovato addosso al primo indiziato – quello sottratto al linciaggio – passaporto, carta d’identità, patente, cinquecento dollari in banconote e quattro carte di credito. Bastano a distinguerlo dal resto dei passeggeri?
Per tre persone gli inquirenti hanno emesso il fermo. Gli altri sono ricercati. E il resto è cronaca e polemica. E lacrime.
«Potete respingere, non rimandare indietro», scrive Erri De Luca in Sola andata. Respingere sì, anche far morire, ma indietro non è possibile perché si scappa da un inferno che nel calduccio delle nostre case, nell’opulenza della nostra società, non possiamo nemmeno immaginare. Si muore in mare a poca distanza dalle nostre coste, come avvenuto poche ore fa. E la notizia giunge nel mezzo del pranzo domenicale, magari appena rientrati da una bella messa, commentando com’è stato bravo il parroco nell’omelia.
Ma la morte a un passo non scuote più a sufficienza e la distrazione cui siamo precipitati consente a chi ci governa di dire che il problema sono le partenze. Meloni e Piantedosi hanno trovato la soluzione: restino a casa loro. È il mantra della destra da sempre, che ha trovato spazio nell’ipocrisia anche dei governi che di destra non volevano essere, ma che avevano ripudiato la solidarietà e messo in tasca gli affari con i governi tagliagole dei paesi da cui questa umanità sofferente prova a scappare.
Bufale e aridità
Non importa che la percentuale di migranti ospitati nel nostro Paese sia molto più bassa di quella presente nel resto d’Europa, né che spesso l’Italia sia soprattutto un luogo di transito. Quel che conta è costruire abilmente un racconto che accechi gli animi prima che gli occhi, consegnandoci un’orda pericolosa che spinge alla porta sbarrata della fortezza Italia per espugnarla, contaminarla di culture che sono diverse. Ed ecco la bufala dei presepi in pericolo, della cristianità da proteggere come in una rinnovata battaglia di Lepanto, del lavoro da tutelare. Mentre il crudele mondo della realtà ci sbatte in faccia storie didisgraziati schiantati dal lavoro nei campi del meridione d’Italia, tornati indietro ai tempi del caporalato, sfruttati per una manciata di euro. Morti di fatica, morti di freddo, morti bruciati per scampare al freddo.
Migranti morti a Crotone, vittime predestinate
I migranti sono le vittime predestinate di un meccanismo che colpisce solo gli ultimi. Sopra di loro ci sono gli scafisti, ma anche loro sono pesci piccolissimi in un mare dove girano squali famelici, intoccabili, anzi nemmeno nominabili, anzi forse con cui si fanno pure buoni affari. Una piramide criminale che sta dietro al fenomeno migratorio in cui nemmeno la ‘ndrangheta vuole entrare – come ha spiegato Anna Sergi su ICalabresi –pur se quei disgraziati vengono sbarcare e certe volte a morire proprio in Calabria.
Per ogni governo e per questo in corso ancor di più, è più facile pensare a improbabili blocchi navali, magari da realizzare fornendo noi stessi le navi a quei paesi canaglia i trafficanti di uomini operano. È più facile criminalizzare la solidarietà, consegnare all’opinione pubblica le Ong come complici dei trafficanti. Il difficile è rassegnarsi al fatto che le migrazioni sono un fenomeno sociale vecchio quanto il mondo: si è sempre tentato di andare via dai luoghi dove non si poteva più vivere, per una guerra, per la fame, per una dittatura. E oggi vengono da noi, perché ci piaccia o meno, da questa pare c’è il mondo ricco.
La sala d’attesa dell’ambulatorio medico Senza confini dell’Auser inizia ad essere affollata intorno alle 15:30. Qualcuno prega, leggendo, forse recitando a voce meno che bassa le sunne del Corano in attesa del suo turno. Una signora africana con un copricapo multicolore non gradisce l’obiettivo della macchina fotografica e si allontana sorridendo. Intanto arrivano una nonna, la sua nipotina con una forte tosse e la mamma che indica al medico un dente. La tormenta da giorni. Storie dei tanti lunedì, mercoledì e venerdì pomeriggio all’Auser di Cosenza.
Dentisti volontari nell’ambulatorio dell’Auser a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Noi non denunciamo, noi curiamo i migranti in Calabria
«C’è una fascia ampia di migranti in Calabria, come del resto in tutta Italia, esclusa dal diritto di iscrizione al Servizio sanitario nazionale», spiega il presidente dell’Auser territoriale di Cosenza, Luigi Campisani. Qui trovano assistenza di base e specialistica molti degli invisibili presenti nell’area urbana. La Legge Bossi-Fini era entrata in vigore già da alcuni anni quando l’ambulatorio ha iniziato le sue attività nel 2010. «L’invito era quello di denunciare i cosiddetti clandestini – ricorda Campisani -, la missione è stata sempre quella di prendercene cura. Vuole sapere il nostro motto di allora? Eccolo: noi non denunciamo, noi curiamo».
Luigi Campisani, presidente dell’Auser Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Dal Gambia all’Ucraina
Ogni anno circa 2000 persone hanno accesso a cure completamente gratuite. Prima erano soprattutto africani, da Gambia e Mali in maggioranza. Oggi la geografia dei conflitti si ferma in queste stanze della solidarietà: curdi, afghani, siriani, iracheni e pure ucraini. Completano l’atlante filippini (vive una nutrita comunità in città), bengalesi, romeni e albanesi. Gli italiani sono in aumento. Le crisi ripetute non risparmiano nessuno. Sofferenza e povertà non hanno passaporto.
L’Auser, finanziato con il cinque per mille, è una diretta emanazione della Cgil e dello Spi Cigl. «Mamma e papà li chiamiamo noi», precisa Campisani. Garantiscono 12mila euro all’anno. Pochi rispetto alle attività svolte. E non sono destinati solo all’ambulatorio, il primo a vedere la luce in Italia. Sono utilizzati, anche se in piccolissima parte, per il centro Auser di Rende (sede della università della terza età) e per gli altri disseminati nella provincia di Cosenza.
Valerio e Raffaella Formisani, fratelli e medici dell’Ambulatorio senza confini dell’Auser (foto Alfonso Bombini 2023)
I medici dell’ambulatorio
La procedura è sempre la stessa, cambia poco o niente negli altri ambulatori di migranti in Calabria e altrove. Si va dal medico generico dell’Auser. Valuta se sono necessarie visite specialistiche e si procede. Il dottore in questione è Valerio Formisani, volto noto della sinistra in città; da anni presta il suo lavoro e le sue competenze al servizio di chi ha bisogno. Mercoledì pomeriggio è impegnato a medicare un bengalese. Subito dopo esce, saluta, sorride e scambia due parole con il dentista in servizio nella stanza accanto. È Raffaella Formisani, sua sorella.
I dottor Auser dell’ambulatorio sono odontoiatri, un cardiologo, un ginecologo, un oculista, un internista e due ecografisti. Una ragazza rumena e un’altra afghana danno una mano. Completano la squadra uno psicologo e due assistenti sociali.
Il mediatore culturale viene dal Mali. Si chiama Ibrahim Conté, da 12 anni è in Italia. Lavora alla San Pancrazio, altra realtà solidale del tessuto urbano. Michele Bochicchio, segretario dell’ambulatorio, accoglie i pazienti. Ha dato pure il suo numero personale ai migranti che lo contattano per prenotare le visite.
I soldi fermi in Regione
Come tante altre associazioni del terzo settore, anche l’ambulatorio – il direttore sanitario è Valerio Formisani – si è fermato con le restrizioni imposte dalla pandemia. Dal 2022 ha ripreso a funzionare. I locali di via Cesare Gabriele sono piccoli. Ecco perché il Comune di Cosenza ha concesso all’Auser l’utilizzo del vecchio centro anziani di via Milelli. Un locale molto grande, circa 400 metri quadrati. Dove Campisani intende aprire pure uno sportello di ascolto. L’involucro c’è. Manca la fruibilità. E servono tanti soldi per trasformarlo in ambulatorio. Denaro che pure ci sarebbe. In teoria. «Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha finanziato – sostiene Campisani – un progetto per 500mila euro nel 2019. I soldi sono stati trasferiti alla Regione Calabria. Dove sono ancora fermi, in attesa di essere erogati».
Migranti all’ingresso del centro Auser di Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Un presidente per il Mali
Un progetto di cui vanno molto fieri all’Auser di Cosenza è “Vengo anch’io” per la mobilità assistita. Un’altra tassello aggiunto grazie a un Fiat Doblò donato all’associazione dalla Fondazione Terzo Pilastro di Roma e dalla Pmg Italia Spa di Bologna. Un mezzo attrezzato che consente anche il trasporto delle persone disabili. L’autoveicolo è stato utilizzato anche per la raccolta e la consegna di coperte e vestiario in collaborazione con il Comune di Belsito.
All’Auser di Cosenza si respira un senso di comunità. Con servizi che non si limitano alle, pur essenziali, prestazioni mediche. Il progetto “Adozione in vicinanza” consente, grazie alle donazioni mensili di alcuni soci, di studiare a una serie di ragazzi stranieri di diverse età. Un giovane del Mali si è diplomato e laureato a Cosenza. Si è specializzato a Parigi in Economia politica. Adesso sogna di tornare nel Paese della mitica Timbuctu per diventare presidente.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Una fredda domenica di gennaio non scoraggia Rosellina. Dalle 7:30 è già ai fornelli della mensa dei poveri della parrocchia di San Francesco d’Assisi a Cosenza. Da 35 anni trovano qui un piatto caldo, un sorriso ad accoglierli, una coperta o un indumento della taglia giusta. Con l’arrivo del Covid 19 le regole sono un po’ cambiate: i pasti non possono essere consumati all’interno. Ma solo consegnati al di fuori della struttura.
Pino Cristiano e sua moglie Rosellina, colonne portanti della mensa dei poveri nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Rosellina e Pino
Pino Cristiano è il marito di Rosellina. Immancabili baffi e un’abilità perfezionata nel tempo: accogliere e fare del bene ai tanti che hanno bisogno. Un particolare racconta perfettamente il suo attaccamento alla causa. Nel 2020 ha subìto una delicata operazione al cuore. Con un grosso cerotto sul petto, a due mesi dall’intervento chirurgico, è tornato in cucina.
Catechista e responsabile della mensa, senza di lui tutto si era interrotto. Sorretto da una grande fede il 67enne ha deciso di andare avanti, nonostante il coronavirus potesse essere estremamente pericoloso, soprattutto nelle sue condizioni di allora. Non poteva mancare. Altrimenti tanti, troppi, non avrebbero avuto un pranzo o una cena completa almeno nel giorno del Signore. Pino e Rosellina sono due simboli di Cosenza capitale italiana del volontariato del 2023.
Elisa, Francesco e Damiano volontari nelle cucine della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Non solo a Natale si fa del bene
«Pochi ci danno una mano in cucina, siamo sempre gli stessi». Pino ne parla come un dato di fatto, senza lamentarsi, come si addice a chi si rimbocca le maniche e agisce. Comunque lui c’è. Sempre. Le uniche parrocchie a fare un turno al mese sono quella di Loreto e quella di Laurignano.
Domenica a preparare le porzioni per i bisognosi sono arrivati di buon mattino tre ragazzi: Elisa da Spezzano Albanese, Francesco e Damiano abitano a Terranova da Sibari. Erano già stati in questa mensa dei poveri di Cosenza il 24 dicembre. Hanno deciso di tornare. Non sono tanti quelli che lo fanno lontano dal Natale o dalla Pasqua. Durante le feste religiose si sente il bisogno di donare tempo agli altri. Purtroppo l’indigenza e la fame non hanno un calendario prestabilito. Le trovi puntualmente a due passi da te. O nelle case diroccate della parte vecchia della città. Dove lingue, suoni e odori si mescolano in questo grande suk della sopravvivenza.
Il francescano
Don Francesco Caloiero dal 1983 è parroco nella chiesa di San Francesco d’Assisi, tre anni fa ha superato il 50esimo di sacerdozio. Frate minimo e cappellano militare, ha partecipato a cinque missioni: Bosnia, Albania, Macedonia, Kosovo, Iraq. Non ha mai dimenticato le «colline piene di lapidi a Sarajevo». Era il 1996 e la guerra era finita da poco.
Don Francesco Caloiero, parroco della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Prima di celebrare messa a I Calabresi affida una critica perentoria e senza appello: «Ci troviamo in un quartiere senza legalità e le istituzioni sono completamente assenti». Parole sostenute dal tempo passato nel tessuto sociale più problematico della comunità. Non solo mensa dei poveri nella sua parrocchia. «Martedì e giovedì – spiega – sono due giorni di consegna dei pacchi alimentari. Grazie alle donazioni private, gli aiuti del Rotary e del Banco alimentare. Purtroppo capita sempre più spesso di finire le scorte e non poter dare un sostegno a tutti».
I poveri aumentano con il lockdown
La situazione è peggiorata con il lockdown imposto per via della pandemia. Pino Cristiano ricorda perfettamente il baratro di tante famiglie italiane e straniere: «Consegnavamo 500 pacchi alimentari due volte a settimana. Alcuni li portavo io stesso a casa di persone che non avevano mai chiesto aiuto; gente che ha sempre lavorato. Piccoli impieghi precari e a nero, ma riuscivano a far quadrare in qualche modo i conti. Il Covid ha cambiato tutto in peggio».
Mario Parise allestisce da sempre il presepe della chiesa di San Francesco a Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Zio Mario
Mario Parise è un’altra presenza quotidiana nelle attività della parrocchia. Tutti lo chiamano zio Mario. Noto in città per il suggestivo presepe che allestisce ogni anno. Si occupa della distribuzione dei pacchi alimentari. Ha stabilito un rapporto diretto con i meno abbienti, ha modi pacati e una grande sensibilità quando qualcuno bussa alla porta della solidarietà: «So che c’è imbarazzo e per questo sono io a chiedere di cosa hanno bisogno». Prima del 2020 «tanti venivano pure per fare una doccia e la barba, ne hanno tanto bisogno coloro che vivono in strada». Disposizioni, evidentemente applicate ai luoghi religiosi, impediscono di ripristinare questo servizio. Ma tra mille difficoltà la macchina del bene non si ferma mai a San Francesco d’Assisi.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Una bussola che segna il punto cardinale della salvezza di tante vite che affrontano le insidie del mare per fuggire da guerre, fame, dittature. È questo il senso della bussola di ResQ People Saving People. Ed è solo uno tra i tanti gadget natalizi acqustabili on line».
«ResQ People Saving People (persone che salvano altre persone) è una organizzazione non governativa, che nasce a Milano durante la pandemia. Prende il nome dalle operazioni di “Search and Rescue”, in inglese vuol dire “ricerca e soccorso”. Un gruppo di cittadine e cittadini, attivisti, giornalisti e sindacalisti sono riusciti, grazie al contributo di tante e tanti altri, a comprare dalla ONG tedesca Sea-Eye, la ex nave Alan Kurdi, e l’hanno trasformata nella ResQ People, appunto». È quanto si legge in un comunicato stampa diramato dalla stessa Ong.
«Finora – continua la nota stampa – ha svolto due missioni nel Mediterraneo centrale, di fronte alla zona SaR libica, e ha tratto in salvo più di 200 persone. Ma per poter operare la nave ha dei costi non indifferenti. Cifre importanti che hanno bisogno di un grande sostegno, a cui un contributo importante viene appunto dalla rete degli equipaggi di terra, che vanno da nord a sud».
«L’equipaggio di terra ResQ Calabria – riporta il comunicato stampa – è il gruppo territoriale nato, come gli altri, sia per raccogliere fondi, sia per fare opera di sensibilizzazione e divulgazione sul lavoro della nave, sulla difesa dei diritti umani, di donne, uomini e bambini in tutto il mondo. Abbiamo già organizzato delle iniziative, la prima è stata a Palmi e poi l’estate scorsa una “Tre giorni contro il naufragio dei diritti umani” tra Cosenza, San Ferdinando/Piana di Gioia Tauro e Villa San Giovanni, in collaborazione con realtà altrettanto attive sul territorio come Dambe So, Mediterranean Hope e il Centro socio-culturale “Nuvola Rossa”».
La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.
Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.
Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno
I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
Migranti in casa della ‘ndrangheta
Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.
Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale
In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.
Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi
Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.
Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.
Via dalla Calabria
Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.
Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.
Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta
Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.
Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).
Affari paralleli
Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.
La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando
Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.
Il mercato dell’asilo politico
Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.
Richiedenti asilo politico manifestano in strada
Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.
Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza
Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.
Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta
Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.
Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto
Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.
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