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  • La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    Veniva da Cirò, ma durante gli anni ’30 per i giornali negli Usa Salvatore Caridi era il Mussolini americano. La sua famiglia, in realtà, era originaria di Gallico (RC), poi si era trasferita in quel paese oggi del Crotonese e all’epoca ancora in provincia di Catanzaro. Salvatore era nato lì nel 1891 e proprio tra Cirò e Crotone aveva fatto le scuole prima di dirigersi verso Roma per laurearsi in medicina. Nella capitale, però, Caridi aveva sviluppato presto anche altre passioni: quelle per la guerra e la politica.

    Salvatore Caridi, un soldato da medaglia

    E così a 20 anni si era arruolato nella Legione garibaldina. Sotto la guida di Ricciotti Garibaldi, insieme ad un altro paio di centinaia di volontari desiderava combattere per la liberazione dell’Albania dai turchi, nonostante il niet in tal senso del governo italiano. E volontario, Salvatore Caridi, era partito anche per la Grande Guerra. Era già medico a quel punto e gli toccò svolgere la professione in prima linea. Da tenente, riportò più di una ferita mentre prestava i suoi soccorsi ai soldati, conseguendo per questo numerose decorazioni al valore militare. Poi, con la pace, tornò a fare il medico in Calabria. Ma durò poco.

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    1941, milizie fasciste e membri della Legione garibaldina in piazza Venezia a Roma

    Da Cirò agli States

    Guerre laggiù non poteva combatterne, ma la passione per la politica lo portò fino alla poltrona di vice sindaco. In quel ruolo, si dedicò soprattutto alla toponomastica cittadina dando sfogo all’amore per i conflitti con l’intitolazione di molte strade a martiri del Risorgimento e luoghi di battaglie delle guerre d’Indipendenza. Poi – sarà perché, diceva Churchill, gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra – importò nella sua Cirò quel football arrivato da Oltremanica e destinato a conquistare il mondo.
    Ma a Salvatore Caridi la Calabria e i tornei di pallone in paese andavano stretti. Perciò, fresco di specializzazione in ginecologia, si imbarcò nel 1921 alla volta di New York per stabilirsi a Union City. E occupare le cronache nella doppia veste di filantropo e di leader fascista.

    Salvatore Caridi, il “Mussolini americano”

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    Salvatore Caridi durante un raduno nazifascista in America

    Caridi, infatti, non divenne soltanto un punto di riferimento per tante donne italoamericane che dovevano affrontare un parto. Iniziò a creare circoli culturali dove celebrare l’amore per la patria. E di lì a poco le camicie nere, che già infestavano il Bel Paese, fecero la loro prima apparizione pure negli States. Da presidente del North Hudson Chapter of the Italian War Veterans il medico calabrese riuscì ad arruolare in queste pseudosquadracce a stelle e strisce centinaia di ex combattenti della Grande Guerra filofascisti emigrati come lui negli States. E così, insieme a Giuseppe Santi e la sua newyorkese Lictor Association, divenne punto di riferimento dei mussoliniani d’America.

    I nazisti del New Jersey

    Da quelle parti, d’altronde, l’anticomunismo che animava Salvatore Caridi ha sempre fatto proseliti, oggi come allora, così come l’ultradestra. Prova ne è il momento di “massima gloria” politica del ginecologo cirotano. Siamo nel 1937 e nel suo New Jersey si svolge un grande raduno. In un’area di circa 100 acri si ritrovano i nazisti del German American Bund sotto la guida di Fritz Kuhn. Si passeggia in Adolf Hitler Strasse, i bimbi si godono i giochi per junge e mädel. Sfilano uomini in camicia bruna e svastica d’ordinanza, circondati da migliaia di braccia tese.

    Cotanto parterre de rois ammira sul palco, oltre a Kuhn, anche esponenti del Ku Klux Klan e lo stesso Salvatore Caridi. È lì accompagnato da 5-800 camicie nere. Imita la postura del suo idolo, saluta «gli amici nazisti» e invita tutti i presenti a «tirare un pugno sul naso a chi offende Mussolini o Hitler». Sogna un fronte nero-bruno comune anche su questa sponda dell’Atlantico.

    Salvatore Caridi, un Mussolini tra gli enemy aliens

    Il nazifascismo oltreoceano cresce ancora per un po’. Kuhn riempirà il Madison Square Garden nel 1939 con un altro maxi raduno in cui celebrerà George Washington come «il primo fascista della storia americana». In sala i «Free America» si mescolano ai «Sieg Heil», fuori 1.700 agenti di polizia tengono a bada la folla. Poi però con l’entrata in guerra degli Yankees cambia tutto. Fossimo stati in un romanzo di Philip K. Dick, Caridi e Kuhn di lì a poco sarebbero finiti alla Casa Bianca o giù di lì. In un film di Landis, al contrario, a bagno nell’acqua.

    Nella realtà il führer degli States finisce a Sing Sing e viene invece rispedito in Germania di lì a breve, dove morirà nel 1951. Al Mussolini americano toccano in sorte la reclusione nei campi destinati agli enemy aliens, i nemici stranieri, un po’ come succedeva in Australia anche a chi magari fascista non era e l’addio alla cittadinanza. Suo figlio Nino, nel frattempo, combatte i pupilli del padre nella US Army 10th Mountain Division.

    Cose buone

    Una volta libero a guerra conclusa, Salvatore Caridi è tornato spesso in Calabria da New York, dove si è spento quasi novantenne nel 1980. Come nella vulgata sul dittatore di Predappio, il ginecologo calabrese nel suo paese come oltreoceano ha fatto anche cose buone. Niente treni in orario per lui o creazioni di istituti previdenziali già esistenti, però. Caridi in New Jersey è stato protagonista di numerose iniziative nel sociale a tutela degli immigrati italoamericani. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno nella fondazione di un convalescenziario a Jersey City per i meno abbienti. C’è anche il suo nome tra quelli che la comunità italiana ha inciso sul basamento della statua di Cristoforo Colombo nella Hudson Bay, riporta l’Icsaic.
    La camicia era nerissima, l’anima forse no.

  • Malamerica, l’emigrazione del sogno infranto

    Malamerica, l’emigrazione del sogno infranto

    L’America delle sliding doors, la soglia del tutto è possibile. E poi l’America che regala e toglie, del sogno infranto, della calce nelle unghie, della fatica bagnata di Coca Cola.
    È la Malamerica. Si intitola così la pièce messa in scena dall’attore e regista Ernesto Orrico, un artista che trasforma in materia teatrale vicende e personaggi calabresi. L’autrice è Vincenza Costantino ed è una produzione Rossosimona.
    Orrico è in scena con Mariasilvia Greco. Entrambi interpretano più personaggi, diverse figure sceniche, pregne di storie personali, che danno il senso dell’infinita epopea del viaggio nella terra straniera.

    Meri, Joe e la Malamerica

    Le storie si incrociano nel luogo di transito per eccellenza: una boarding house newyorkese, gestita da Meri, strappata a un Sud d’Italia e agli abbracci della madre, per seguire il destino americano del padre. È lei il crocevia delle vite. Quelle che hanno costruito i grattacieli, che volevano essere Gene Kelly o Marlene Dietrich e che hanno vissuto gli States dai tuguri. E poi c’è Joe, l’emigrato tipo o anche la voce di tutti, come un coro drammatico ma anche comico.
    «Mi interessava parlare di emigrazione in maniera diversa, raccontare quella fallita, andata male. L’emigrazione italiana è spesso narrata – spiega Vincenza Costantino,- attraverso storie di successo. E allora mi sono chiesta: ma chi parla degli altri? Di tutti quelli che non ce l’hanno fatta?».

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    Mariasilvia Greco (foto Pietro Scarcello)

    Le figure femminili sono interpretate da Mariasilvia Greco, capace di trasformarsi in emigrata polacca e subito dopo in donna del boss, semplicemente cambiando una giacca, legando i capelli, indossando un cappello. Anche Orrico “scivola” da un personaggio a un altro a vista del pubblico. «Non amo un teatro troppo costruito e artefatto -spiega il regista-. Il gioco del travestimento, dello svelamento in scena, mi sembra un modo per poter arrivare subito allo spettatore, per coinvolgerlo in maniera diretta nel gioco teatrale».

    Garritano come un jazzista newyorkese

    La musica lega i destini, disegna il percorso. Gli attori escono dalla scenografia, scarna ed evocativa, e vestiti di lustrini, con un microfono in mano e una luce rossa come un semaforo al contrario, cantano schegge di vita dei migranti di tutti i tempi. Sono i momenti delle song. Sul palcoscenico, con loro, il musicista e compositore Massimo Garritano. Ancora una volta in felice tandem con Orrico, ha creato le musiche originali, cariche di sonorità elettriche. È vestito come un jazzista del Birdland, con un grande fiore bianco sulla giacca. Riesce a smuovere emozioni, sia quando omaggia lo swing americano, sia quando esegue la sua personale interpretazione del tema.

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    Greco, Orrico e Garritano in un momento dello spettacolo (foto Pietro Scarcello)

    Malamerica ci racconta che il teatro è più che vitale tra i sette colli cosentini, ed è un teatro emozionante, che racconta storie universali, con impegno e infinito amore.
    Ciò che è meno vitale è la galassia scenica. Due teatri comunali chiusi, il presidio dell’avanguardia, l’Acquario, smantellato, in sofferenza quasi irreversibile molti piccoli spazi di associazioni e minicompagnie attive in città. I cartelloni del Rendano e del Garden hanno fatto il sold out, soprattutto con i nomi noti in tv e al cinema, ma sono la sperimentazione e le piccole produzioni a soffrire.
    Quest’ultimo lavoro di Orrico-Costantino, marito e moglie e partner artistici, ha debuttato al Gambaro di San Fili, che con la rassegna Tutti a teatro, viaggio nei diversi generi, ha riempito una parte del vuoto, offrendo un’alternativa. Malamerica non è classificabile come genere, è una pièce che ha multiformi radici nello studio dell’emigrazione italiana.
    La fucina di personaggi germoglia, infatti, da storie reali.

    Gli indesiderati: il caso Mike Salerno

    C’è anche un riferimento alla parabola di Michele Salerno da Castiglione Cosentino, vicedirettore di Paese Sera dagli anni Cinquanta al 1964. Salerno, diventato Mike a New York, viveva nel Bronx, giornalista antifascista e anche sarto al bisogno, fu rispedito in Italia dopo ventotto anni, sulla nave Saturnia, 379 passeggeri. La sua complessa e coerente esistenza è narrata nel Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea, curato da un maestro del giornalismo calabrese, Pantaleone Sergi, sul sito dell’Icsaic (l’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, diretto da Vittorio Cappelli).

    «L’anticomunismo americano – si legge, – stava montando e dopo ben ventotto anni di residenza negli Stati Uniti durante i quali si era sempre battuto contro capitalismo e imperialismo, fu vittima del Procuratore generale Tom Clark e della legge McCarran del 1950 e fu deportato in Italia…».

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    Vincenza Costantino

    Da anni Vincenza Costantino studia l’emigrazione. Malamerica, nato prima che il covid bloccasse il mondo, è stato finalista, nel 2017, al premio made in Usa Mario Fratti, dedicato agli inediti italiani ed è l’ultima tappa di una trilogia (Jennu brigannu del 2005, L’emigrazione è puttana, 2008). Una valida fonte è stata Trovare l’America, storia illustrata degli italoamericani nella collezione della Library of Congress (la Biblioteca nazionale degli Stati Uniti che custodisce oltre 158 milioni di documenti), di Linda Barrett Osborne e Paolo Battaglia.

    Il teatro è la vera America, parola di autrice

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    Rocco Perri e Bessie Starkman

    Ma Malamerica è anche un omaggio al teatro stesso. «È il mio omaggio a Pirandello e a De Filippo, per me i più grandi, gli autori che amo di più. Il teatro è il luogo in cui i fantasmi possono vivere, impossessarsi di corpi e raccontare storie diverse. È il teatro la mia America».
    Tra i fantasmi evocati da Meri e Joe c’è Rocco Perri. Partito da Platì a 16 anni e diventato il re dell’alcool proibito in Canada, ricco e potente, in affari con Al Capone, gestiva i suoi affari illeciti con la compagna Bessie Starkman. La sua storia è stata scritta dal giornalista ed esperto di criminalità organizzata Antonio Nicaso (Il piccolo Gatsby, Pellegrini editore).
    Nella galleria di figure, c’è poi il giovane Gene (Eugenio), il più sognatore di tutti. «È un personaggio che ho amato da subito. Cerca la sua strada e al padre che lo esorta a fare il muratore e gli dice “faremo questa città tutta nuova”, lui risponde “io voglio il mio sogno”. Il suo sogno – racconta Ernesto Orrico – è il cinema».

    Malamerica e i fantasmi di Foster Wallace

    È il desiderio a tirare i fili di questi fantasmi. Sono le vicende della gente che veramente ha investito sull’America e lo ha fatto in maniera totalizzante – conclude Vincenza Costantino – pagando il prezzo più alto in assoluto».
    La disillusa Meri e l’emigrato narratore Joe cantano: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi». È una frase di David Foster Wallace, lo scrittore che alcuni lettori trovano noioso, altri venerano come un genio. Sotto i fantasmi di Malamerica crepita il suo pensiero.
    «Può piacere o meno, ma non può essere ignorato. Negli ultimi anni ha segnato la letteratura più di ogni altro. Credo che Infinite Jest sia importante come l’Ulisse di Joyce».
    Malamerica ha iniziato il suo viaggio, verso nuove stagioni e nuovi cartelloni, proprio come i suoi emigranti. Con un occhio alle odissee e alle tragedie che si consumano nei nostri mari.

  • Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Si parla tanto dell’intelligenza artificiale, forse troppo poco della stupidità umana. Già, perché si può edulcorare il concetto o ingentilirlo, definirlo cecità o mancanza di lungimiranza, ma la sostanza è quella. In questo caso, mi riferisco alla stupidità–cecità-mancanza di lungimiranza dei razzisti in generale. In particolare, di quelli al governo in Italia.
    Per dimostrare il teorema mettiamo insieme una serie di informazioni e di dati. Come nelle scienze esatte, dobbiamo prendere in considerazione solo quelli oggettivi.
    La Lega fa una battaglia per “quota 41”, cioè la possibilità di accedere alla pensione dopo 41 anni di contributi. Un vessillo alzato in campagna elettorale e repentinamente calato davanti alle difficoltà di bilancio soprattutto in prospettiva, dato che la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione certamente non aiutano a far quadrare i conti.

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    Quota 41 e l’Italia che invecchia

    Secondo l’Istat, nel 2070 in Italia ci saranno 47,2 milioni di abitanti, 12 milioni in meno rispetto ad oggi. La popolazione italiana, se proseguirà il trend attuale, e quindi senza interventi correttivi di cui allo stato non si vede traccia, fino al 2040 calerà annualmente del 0,2-0,3%; tra il 2040 e il 2050 tra lo 0,3 e lo 0,5%; fino al 2070 più dello 0,6%.
    Nel 2020, l’età media italiana era di 46,2 anni, nel 2021 di 45,9 anni. Meno di vent’anni fa era di 41,9 anni. I dati indicano che nel 1950, in Italia, i bambini e ragazzi tra gli 0 e i 19 anni rappresentavano il 35,4% della popolazione; oggi il 17,5.
    Il forte calo è avvenuto tra il 1980 e il 1995, quando gli under 19 sono passati dal 30 al 21%. Le persone tra i 20 e i 30 anni sono invece scese dal 35 al 21%, con un più rapido calo dal 1995. La fascia tra i 40 e i 59 anni era il 22% nel 1950, ora è il 31. I residenti di età compresa tra i 60 e i 79 anni erano meno del 23% nel 1950, ora il 31, con un aumento continuo nel tempo. Lo stesso per gli over 80, che nel 1950 erano l’1% della popolazione e ora sono il 7,5.

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    Crisi demografica e forza lavoro

    Andiamo adesso a esaminare altri dati, altrettanto significativi e importanti per la riflessione che stiamo facendo.
    In Italia (sempre dati Istat), nel 2019, quasi il 30% delle abitazioni censite, 10,7 su 36 milioni, non era occupato. Il loro numero proseguirà l’ascesa nei prossimi anni anche a causa della crisi demografica. Sud e Isole guidano questa classifica, con quasi il 36% delle abitazioni vuote.
 Nel Centro il dato scende al 24,8%, con 1,7 milioni di case inabitate su 6,8; nel Nord-Est è del 25,6% su 6,7 milioni di abitazioni. Nel Nord-Ovest è del 28,2% su circa 10 milioni di case.
    Nelle province calabresi, abbiamo Reggio al 42,3%, Vibo al 49,3, Catanzaro al 45,2, Crotone al 44,9 e Cosenza al 44,6.

    Altro dato oggettivo: gli imprenditori e i sindacati italiani, singolarmente e tramite le loro organizzazioni di categoria, da tempo reclamano un aumento consistente dei flussi di lavoratori da inserire nel tessuto produttivo nei settori primario, secondario e terziario. L’ultimo decreto prevede alcune centinaia di migliaia di ingressi, reputati assolutamente insufficienti. Ai confini del nostro Paese, nel contempo, premono per entrare altre centinaia di migliaia di persone, spinte a lasciare i Paesi d’origine per sfuggire alle guerre, alle discriminazioni razziali e di genere, alla povertà, alla siccità.

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    Controcorrente

    A questo punto, abbiamo una serie di elementi (o dati e metadati, se vogliamo utilizzare un linguaggio al passo coi tempi):

    • il desiderio, e la necessità, di abbassare l’età pensionistica;
    • la difficoltà a reperire le risorse necessarie;
    • la crisi demografica, data dalla diminuzione in termini assoluti della popolazione e dall’invecchiamento della stessa;
    • un patrimonio abitativo di gran lunga superiore alle necessità dei residenti;
    • milioni di esseri umani, in età da lavoro, in cerca di uno sbocco di vita dignitoso e stabile, tale da accrescere in maniera esponenziale i contributi per il fondo pensionistico.

    Se inserissimo tutte queste informazioni in un apposito programma di intelligenza artificiale, certamente avremmo la soluzione a portata di mano. Al contrario, le stesse informazioni date in mano al Governo in carica (a tutto il Governo, e non solo alla Lega, che secondo la vulgata corrente è la forza politica che spinge in questa direzione) partoriscono l’ennesima stretta all’immigrazione, sotto forma della cancellazione della protezione speciale – incentiverebbe l’immigrazione – e della dichiarazione dello stato d’emergenza.

    Quota 41 vs la difesa della patria

    E qui entrano in gioco la stupidità, l’irrazionalità, il ragionamento di pancia. Il razzismo, perché di questo, alla fine, si tratta. Il razzismo che fa comportare questi signori come il marito che per fare dispetto alla moglie si evira. Voglio quota 41, o 40, o quello che sia. Ma siccome dare corpo a questa solenne promessa elettorale porterebbe alla sostituzione etnica – è già successo in America Latina, diciamo noi, dove la popolazione di alcuni Stati è composta per il 30-40% di italiani immigrati e non di nativi – vi rinuncio, con conseguenze disastrose per la Patria della quale “difendo i confini” dai barchini affollati di poveracci armati solo della loro disperazione.
    Questo è il paradosso tragico. Una situazione da win–win (mi scuso per il “forestierismo”, e meno male che ancora non ci sono le multe) si trasforma in una lose–lose (mi scuso ancora) nella quale tutti perdono a causa della stupidità umana. O del razzismo, nient’altro che un sinonimo di quella.

  • Bianca, donna, cristiana: ma è Giorgia oppure la migrazione?

    Bianca, donna, cristiana: ma è Giorgia oppure la migrazione?

    «Ogni migrazione è un fenomeno che richiede risorse economiche, sociali e culturali, pertanto non tutti possono partire». Le parole di Maria Francesca D’Agostino, sociologa Unical che si occupa di migrazioni e cittadinanza globale, costringono a rivolgere uno sguardo più attento verso il fenomeno migratorio. Uno sforzo ancor più necessario adesso che il clamore mediatico ed emotivo riguardo la tragedia di Cutro si sta spegnendo, malgrado il mare continui a restituire corpi dei migranti naufragati.

    Una piccolissima parte di umanità

    «Chi riesce a partire – spiega Maria Francesca D’Agostino – rappresenta una piccolissima parte di quella umanità che avrebbe motivo di scappare». La domanda che l’Occidente e l’Italia devono porsi non deve riguardare il come gestire questi flussi. Ma, paradossalmente, perché siano così pochi quelli che arrivano, considerata la diffusione su scala globale di conflitti nuovi e vecchi e ingiustizia sociale.

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    Maria Francesca D’Agostino (Unical)

    «Se guardiamo le situazioni di conflitto – prosegue la studiosa – vediamo come questi non generino esodi, ma sfollamenti all’interno del paese in guerra. A poter scappare da luoghi di insicurezza sono generalmente appartenenti ai ceti medi, mentre i flussi migratori causati dalla povertà, spingono per esempio i contadini verso i margini delle megalopoli».

    La migrazione è una scommessa

    Va da sé che per scappare in quel modo si deve essere disperati. Tuttavia anche in questo emerge una sorta di stratificazione che marca le disuguaglianze.
    Per poter provare a sottrarsi all’orrore occorre avere le risorse necessarie, nel caso dei migranti di Cutro migliaia di euro.
    Perché mai attraversare il Mediterraneo affrontando tanti pericoli pur disponendo di adeguate risorse economiche allora? La risposta è da cercarsi nelle severe normative che sostanzialmente negano canali legali d’ingresso nel nostro Paese. La partenza è una crudele scommessa dove ci si gioca tutto quel che si ha, compresa la vita stessa, per provare a fuggire dal luogo dove non si può più stare.

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    Fiori sulla spiaggia della tragedia a Steccato di Cutro (foto Gianfranco Donadio)

    Migranti economici e rifugiati politici

    Ma da dove ha origine la chiusura sistematica che l’Occidente ha praticato verso i flussi migratori? Essenzialmente dalla distinzione, spesso arbitraria, tra migranti economici e rifugiati politici. L’ingresso dei primi ingresso era legato alle esigenze produttive dell’Europa; gli altri erano tutelati dalla Convenzione di Ginevra, che prevedeva l’obbligo di accoglierli.

     

    Conclusa la Guerra fredda, si è scelto di tenere lontani anche i richiedenti asilo. Che così sono finiti confinati in campi profughi nei pressi dei luoghi di conflitto, con l’alibi di dare priorità al loro teorico rimpatrio a conclusione dei conflitti. «In realtà non si è quasi mai stati capaci di garantire loro il ritorno a casa per via del perdurare di conflitti. Ci si è limitati a parcheggiare enormi numeri di persone in luoghi di confinamento umanitario e periferizzazione sociale in aree di degrado totale», racconta Maria Francesca D’Agostino.

    Il grande inganno: la migrazione bianca, donna e cristiana

    Attorno al fenomeno complesso delle migrazioni è stato costruito con meticolosa pazienza e notevole efficacia un grande inganno. La convergenza di diversi interessi ha dato vita a una sorta di distorsione cognitiva collettiva. E così si è generalmente persuasi che la fortezza Europa e la trincea Italia siano sotto assedio e minacciati da un imponente esodo proveniente dall’Africa sub sahariana. «Se guardiamo i flussi migratori – spiega D’Agostino –  scopriamo che solo una piccola parte è rappresentata da rifugiati politici provenienti a Paesi dilaniati da conflitti. La maggioranza viene dall’Est Europa».

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    Donne dell’Est in cerca di un impiego

    Insomma: la migrazione che guarda all’Italia è bianca, cristiana e femminile. Dovrebbe essere maggiormente rassicurante, rispetto allo spauracchio costruito attorno all’uomo nero. Invece le dinamiche di respingimento, pregiudizio e razzismo restano intatte. È sempre la sociologa dell’Unical a spiegare che si tratta di donne provenienti dall’Ucraina, dalla Romania, dalla Bulgaria. Devono affrontare situazioni analoghe ad altre forme di migrazioni, cioè sfruttamento lavorativo, disagio abitativo, impoverimento e marginalizzazione.

    Alla Piana dell’Est

    Condizioni che pure noi meridionali abbiamo conosciuto quando ad emigrare eravamo noi, «perché siamo tutti vittime di processi di sviluppo che producono disuguaglianze sociali. Anche sulle donne dell’Est Europa si riversa l’effetto delle politiche criminalizzanti che generano effetti di violenza razzista».

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    La Piana di Sant’Eufemia vista da Sud

    In Calabria, nella Piana di Sant’Eufemia per esempio, l’intero settore agricolo si basa sulla presenza delle donne dell’Est. Non basta loro avere un documento di soggiorno in regola, oppure essere cittadine europee per non essere trattate come minoranze non nazionali e dunque per scampare a forme di razzismo. Perché agli occhi di troppi italiani lo straniero resta un invasore e un abusivo.

  • Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    La citazione è lunga, e la chiosa ne riporta una seconda davvero illuminante. Ma per il suo contenuto, il suo autore, l’anno in cui è stata partorita, vale la pena di leggerla fino in fondo.

    Le parole di Joseph Roth

    «Se fossi papa, vivrei ad Avignone. Sarei felice di vedere ciò che è riuscito a realizzare il cattolicesimo europeo, quale grandiosa mescolanza di razze, quale miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali. Sarei felice di constatare che nonostante questo rimescolio il risultato non è una tediosa uniformità. Ogni persona porta nel proprio sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ogni individuo è un mondo che ha origine in cinque diversi continenti. Ognuno capisce tutti gli altri, e la comunità è libera, non costringe nessuno a comportarsi in un determinato modo. Ecco qual è il grado più alto di assimilazione: ognuno resti com’è, diverso dagli altri, straniero rispetto ad essi, se qui vuole sentirsi a casa propria. Un giorno il mondo avrà l’aspetto di Avignone? Che timore ridicolo hanno le nazioni, e perfino le nazioni in cui si vanta una mentalità europea, se credono che questa o quella “peculiarità” possa andar perduta e che dalla colorita varietà degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini infatti non sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza! Quanto più numerosi sono gli incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità! Io non riuscirò a vedere quel mondo meraviglioso in cui ogni singolo rappresenterà l’intero, ma già oggi intuisco un simile futuro quando siedo nella piazza dell’Orologio di Avignone e vedo rifulgere tutte le razze della terra nel viso di un poliziotto, di un mendicante, di un cameriere. È questo il grado più alto di quella che viene chiamata “umanità”. E l’umanità è l’essenza della cultura provenzale: il grande poeta Mistral, alla domanda di un dotto che gli chiedeva quali razze vivessero in questa parte del paese, rispose stupito: “Razze? Ma se di sole ce n’è uno solo!“.

    Questo brano è tratto dal libro Le città bianche di Joseph Roth. Nel 1925, il grande scrittore mittleuropeo fu inviato dal Frankfurter Zeitung nelle località della Provenza – tra le altre, Avignone, Lione, Marsiglia, Vienna, Tarascona – caratterizzate, appunto, dal loro colore dominante.

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    Lo scrittore Joseph Roth

    Cinema al Circolo Zavattini

    Queste magnifiche corrispondenze si trovano in un libro che ho letto nello stesso periodo in cui il Circolo Zavattini di Reggio propone una rassegna che comprende alcuni film francesi, l’ultimo dei quali è stato L’anno che verrà, del 2019, per la regia di Mehdi Idir e Grand Corps Malade. La storia narra di una scuola media in cui dai primi anni si concentrano in classi di sostegno gli allievi che non esprimono opzioni su materie come il latino, lingue straniere o musica. La vice preside appena arrivata, Samia, francese di seconda generazione, prende a cuore le sorti di alcuni alunni di origine maghrebina e sub sahariana, con un contesto familiare segnato da difficoltà di vario genere. Al di là della bella trama dell’opera, m’interessa prendere in considerazione un altro aspetto, legato a quanto esplicitato da Joseph Roth.

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    Il regista francese Mehdi Idir

    Il cinema d’Oltralpe, in questa e in tante altre occasioni, ha tratto enorme vantaggio dalle “linfe vitali” delle quali scrive Roth. È l’ennesima dimostrazione, nota a chi sa leggere l’evoluzione umana senza pregiudizi e preconcetti ideologici, del contributo fondamentale che può venire a ogni Paese dall’iniezione nel suo corpo sociale, economico, politico, di forze fresche, di idee e punti di vista e conoscenze e culture differenti.

    Nello scritto di Roth vi sono altre riflessioni. Quello che oggi chiameremmo melting pot sarebbe il frutto dell’azione del cattolicesimo europeo, che ha realizzato una «grandiosa mescolanza di razze, (un) miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali». Inoltre, il “rimescolio” non produce “una tediosa uniformità”, ma persone che portano in sé le proprie caratteristiche (di razza: allora il termine era di uso corrente) perché nessuno è “costretto a comportarsi in un determinato modo”.

    Il mondo che immagina Joseph Roth

    Nel mondo futuro che Roth immagina, consapevole che non avrà il tempo per ammirarlo, dalla commistione scaturisce non una “poltiglia grigiastra”, ma una società nella quale ognuno manterrà la propria identità, nel rispetto di quella altrui.
    Una vera lezione, quella di Joseph Roth, che dovrebberoe mandare a memoria soprattutto i governanti e i cittadini di quelle nazioni affette dal “timore ridicolo” di subire chissà quali stravolgimenti, chissà quali “sostituzioni etniche”, addirittura programmate da menti diaboliche.
    Capita abbastanza spesso di rilevare in qualche grande del passato un pensiero attuale, perfettamente adattabile alla realtà dei nostri giorni. Credo che questo sia un caso emblematico di pensiero eterno, di analisi e conclusioni sempre valide, dai tempi dei cacciatori – raccoglitori fino ai nostri giorni. Un dubbio, tuttavia, rimane, instillato nella nostra mente dalla stretta attualità: se il mondo vaticinato da Joseph Roth lo vedremo noi o i nostri posteri, o nessuno mai.

  • Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Pare che non ci sia fine alle ingiustizie per le vittime del naufragio di Steccato di Cutro.
    In tanti hanno denunciato gravi carenze istituzionali. Soprattutto riguardo i ritardi nel soccorso in mare (su cui si attende che la Procura faccia presto chiarezza) e l’assenza di risposte per molti giorni sul trasferimento delle salme. Ne è nata una protesta e l’occupazione della strada da parte dei familiari dei naufraghi. La situazione si è sbloccata solo, mercoledì scorso, 8 marzo, dopo che gli stessi hanno manifestato sedendosi in mezzo alla strada.
    A tutto ciò si aggiunge un’altra faccenda assai allarmante. Riguarda il DNA dei familiari delle vittime disperse, ancora in mare.

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    Cutro: niente prelievi del Dna ai familiari

    Più di 60 dei 74 cadaveri – ieri a poche centinaia di metri dalla spiaggia del relitto è stato ritrovato il corpicino di un bimbo di 6 anni, stamattina quello di una bimba – sono stati riconosciuti dai familiari giunti a Crotone, che hanno almeno una salma su cui piangere. Decine di corpi, ancora dispersi tra le onde, rischiano però di restare per sempre negli abissi dell’anonimato sui fondali dello Jonio crotonese.
    Questo perché – è la denuncia del Progetto Mem.Med. Memoria Mediterrneanessuno ha prelevato il DNA dai familiari che attendono e sperano nel ritrovamento dei loro cari se le correnti li restituiranno mai.

    L’istanza alla Procura di Cotrone

    Il 7 marzo, infatti, gli avvocati di Mem.Med. hanno presentato un’istanza alla Procura di Crotone sottoscritta da una decina di familiari delle vittime. Chiedevano che venissero prelevati, il prima possibile, i loro campioni salivari, fondamentali per l’identificazione dopo eventuali nuovi ritrovamenti. Ma dalla Procura, che dovrebbe dare a sua volta disposizioni alla Polizia scientifica, pare non sia arrivata alcuna risposta. «I familiari sono qui adesso a Crotone – avvertono Silvia Di Meo e Yasmine Accardo – e questa operazione necessaria doveva essere già stata fatta. Non si perda altro tempo, perché alcuni di loro sono già ripartiti. Non sappiamo se sarà offerta loro la possibilità di prelevare il DNA in un secondo momento nelle città dove risiedono».

    Un database sulle persone a bordo del caicco

    Le attiviste di Mem.Med si sono precipitate a Crotone, subito dopo la tragedia. Da lunedì, al Palamilone, stanno collaborando a stretto contatto con alcune realtà locali, come l’associazione Sabir. Provano a dare supporto legale a tutti i parenti dei morti di Steccato di Cutro.
    Un lavoro fondamentale perché, prestando ascolto ai superstiti e ai familiari delle vittime sono riuscite a creare un database con la maggior parte dei dati delle persone che erano a bordo della Summer Love. Ogni volta che il mare restituisce un altro corpo, le procedure di identificazioni risultano così meno complesse. Anche ieri erano sulla spiaggia di Steccato di Cutro a confrontarsi con i soccorritori e la Polizia Scientifica al momento del ritrovamento del corpo, ormai esanime, del bambino di 6 anni. 

    La spiaggia di Cutro e le indagini

    Ed è proprio su quel tratto di litorale, dove Mem.Med accompagna spesso i familiari dei defunti e dei dispersi a cercare oggetti dei propri cari, c’è un altro problema serio. Denuncia Accardo: «Quella spiaggia della morte è alla mercé di chiunque, non è stata ancora sequestrata dall’autorità giudiziaria. Si tratta di un luogo sensibile e di vitale importanza. Tutto ciò che giace lì in mezzo alla sabbia appartiene a persone morte e disperse dopo un grave incidente, oggetti e che potrebbero essere anche utili alle indagini in corso». 

     

  • I sommersi e i salvati di Steccato di Cutro

    I sommersi e i salvati di Steccato di Cutro

    Il 26 febbraio un’imbarcazione di migranti si è spezzata in mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, nel crotonese, in Calabria. Sono 72 i morti accertati, tra loro donne e bambini, e il bilancio non è ancora definitivo. Il numero di naufraghi dispersi è imprecisato. Alcuni scafisti sono stati arrestati e sono in corso le indagini per accertare la verità su quanto è accaduto. Soprattutto si cerca di appurare cosa non abbia funzionato nella catena dei soccorsi. Il 2 marzo il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, si è recato alla camera ardente per commemorare le vittime e all’ospedale per confortare alcuni superstiti.

    Steccato di Cutro e l’opinione pubblica

    La tragedia di Steccato di Cutro ha generato un’ondata di emozioni collettive contrastanti. Le accese discussioni sull’insuccesso dei soccorsi, le polemiche per le esternazioni del Ministro degli Interni Matteo Piantedosi e, per converso, la generosità degli abitanti del posto intervenuti in aiuto dei superstiti, hanno attirato l’attenzione di testate giornalistiche, dei social media e delle televisioni nazionali e internazionali. La commozione per la sequenza di piccole bare bianche, a ricordare la morte di bambini e bambine innocenti, continua ad alimentare la sofferenza e l’indignazione nell’opinione pubblica italiana, moltiplicando le domande e gli interrogativi sulle eventuali responsabilità giudiziarie.

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    La bara di una delle bambine morte

    Affinché queste tragedie non si ripetano è necessario comprendere che il fenomeno migratorio non riguarda una massa indistinta di flussi, ma persone in carne ed ossa, con le loro storie, sofferenze, paure, con i loro progetti di vita, le loro aspirazioni per una condizione di vita migliore. Serve cioè uno sguardo capace di comprendere la complessità sociologica della migrazione, dove le storie personali si intrecciano a vari livelli con i grandi fenomeni storici.

    Gli studi sulle migrazioni

    L’AIS come associazione scientifica di sociologi e sociologhe crede che solo uno studio rigoroso e scientifico del fenomeno possa aiutare la sua gestione e il suo governo. Molti colleghi e colleghe sociologhe studiano da decenni questi movimenti di popolazione e sono nella condizione di mettere a disposizione del nostro paese e dei suoi cittadini le competenze tratte dallo studio scientifico dei problemi interni ed internazionali collegati ai fenomeni migratori, presenti non solo nel Mediterraneo ma in tante altre parti del mondo.

    Molti hanno, ad esempio, indagato sul cammino doloroso che precede gli sbarchi (contrassegnato da una lunga odissea fatta di viaggi, privazioni, sfruttamento, violenze di ogni genere, a partire da quelle subite dai mercanti di esseri umani). Altri hanno studiato i meccanismi dell’accoglienza, i loro elementi positivi ed i loro limiti; altri ancora, su scala più vasta, hanno analizzato le politiche di integrazione sociale, politica e lavorativa dei migranti, documentando più volte le tante discriminazioni a cui essi vanno incontro, unitamente ai pregiudizi culturali o razziali che spesso tendono a stigmatizzare la loro presenza.ndrangheta-migranti-il-traffico-in-casa-che-taglia-fuori-le-ndrine

    Diversi sociologhe e sociologi hanno messo in luce le difficoltà che non pochi migranti incontrano a livello etico e politico-culturale, per la fatica del cambiamento richiesto dall’accettazione e condivisione delle regole e dei modelli di vita e di relazione propri di una democrazia, cioè da un contesto di vita e di relazione tanto lontano dalle loro precedenti esperienze socio-politiche. O ancora, hanno dedicato la loro attenzione all’analisi dei costi economici e dei vantaggi che l’arrivo e l’integrazione dei migranti comportano per paesi di accoglienza, il loro impatto sulle relazioni tra paesi di provenienza e di arrivo, così come tra i paesi dell’UE: in breve, si può dire che una gestione appropriata, non ideologica, ma attenta alle specificità del fenomeno migratorio riguarda il nostro futuro prossimo, insieme alla qualità della democrazia in Italia e in Europa.

    Steccato di Cutro e il momento della responsabilità

    Da tutte queste ricerche un altro aspetto appare evidente: la questione migratoria è così estesa da dover essere necessariamente affrontata in una prospettiva europea, superando la logica dell’emergenza e mostrando capacità di ascolto, memoria storica e lungimiranza culturale e politica. La solidarietà a favore di chi versa in condizioni di estremo bisogno, sebbene non disgiunta dalla fermezza verso ogni forma di illegalità o devianza, non può essere in nessuno caso un elemento di divisione interna dell’Italia.
    Viceversa, c’è bisogno, da parte di tutti e in primo luogo da parte delle classi dirigenti, di un’autentica e realistica assunzione di responsabilità, senza cedere alla paura o all’illusione di trovare soluzioni facili quanto ingannevoli.

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    Emigrati alla stazione di Milano

    Per fortuna, ad alleviare la fatica necessaria per affrontare questo fenomeno epocale, ci viene in soccorso la consapevolezza della nostra storia, visto che noi italiani siamo, fin dall’antichità, un paese di immigrati (come i greci o gli arabi nelle regioni meridionali) e di emigranti (come i veneti, i calabresi e i siciliani, che nel Novecento sono partiti verso tutto il mondo, affrontando tragedie e sacrifici enormi, analoghi a quelli dei migranti odierni). Quindi sappiamo che la grandezza dell’Italia è assai debitrice verso questa storia di migrazioni, una storia che ci ricorda che i migranti siamo stati e siamo tuttora (pensando ai giovani italiani che oggi vanno a cercare lavoro nel mondo) noi stessi, al pari di ogni essere vivente in cerca di accoglienza e soccorso nel bisogno, in una reciprocità senza fine che deve tradursi in scelte politiche conseguenti, se vogliamo davvero onorare la nostra identità.

    Muri e blocchi non funzionano

    Non possiamo nascondere l’evidenza: siamo in presenza di un fenomeno di portata globale che richiede cooperazione internazionale e che ci riguarda direttamente, in quanto la direzione dei flussi migratori provenienti da Est (Oriente) e da Sud (Africa), vista la collocazione geografia dell’Italia, rende il nostro paese un punto di attrazione privilegiato, oggi e negli anni a venire, per tanti disperati che fuggono da guerre, dittature, miseria, impoverimento e desertificazioni causate dal cambiamento climatico, o che cercano solo una vita più dignitosa per sé e i propri cari.

    Bloccare queste persone, impedendogli con la forza di partire, respingerli, rimpatriarli, è, prima ancora che una strada che si scontra con i valori fondativi della nostra convivenza civile e democratica, una soluzione irrealistica per il semplice fatto che nega la realtà: i processi storici globali non si possono fermare con i muri, bisogna lavorare per provare a regolarli, evitando che la ricerca di soluzioni velleitarie contribuisca ad avviare una catena di comportamenti che provochi altre vittime.

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    Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)

    Peraltro, lo spopolamento in atto nel nostro paese, la cui drammatica gravità ogni giorno che passa viene ricordata dagli istituti di ricerca (denatalità, squilibrio demografico e invecchiamento diffuso, problemi a catena nel mondo del lavoro e in quello pensionistico come pure nelle aule scolastiche, svuotamento di paesi, aree e intere zone dell’interno, con un trend in netto peggioramento) rende urgente l’elaborazione di adeguate e realistiche politiche di integrazione regolata.

    Una nuova politica europea dopo Steccato di Cutro

    Non possiamo accogliere tutti, alcuni vanno respinti per motivi di sicurezza, altri vanno redistribuiti in Europa (dove molti di loro vogliono andare, guardandoci solo come paese di primo transito). Altri, tanti, abbiamo il dovere e l’interesse di accogliere. In questo quadro le politiche amichevoli verso l’immigrazione, concordate in chiave europea, costituiscono l’unica via d’uscita ed è auspicabile che il Parlamento sia concorde in tale prospettiva. Nell’attesa della piena attuazione di queste innovative politiche di accoglienza e integrazione, è necessario respingere non i migranti ma le scelte perniciose che rendono più difficili, incerte e pericolose le operazioni di salvataggio in mare.
    La nostra storia, la nostra identità, la nostra democrazia, i sentimenti del nostro popolo e i risultati delle ricerche sociologiche ce lo chiedono ad alta voce.

    Il Presidente e il Direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia

  • Giorgia Meloni a Cutro: una passerella mal riuscita

    Giorgia Meloni a Cutro: una passerella mal riuscita

    A vedere le bare e incontrare le famiglie dei sommersi non c’è andata. Partiamo da questo, che alla fine è il solo dato che vale la pena di affrontare. Giorgia Meloni ha portato il suo governo in Calabria, a Cutro, per fare una passerella mal riuscita.

    Giorgia Meloni a Cutro: niente bare e qualche annuncio

    Davanti ai cronisti ha difeso il suo ministro dalle dichiarazioni disumane. Ha spiegato che non è vero che non si è voluto fare qualcosa per salvare quei disgraziati, che dunque sono morti per colpa loro. Del resto la linea è quella: fermarli lì dove si imbarcano, con ogni mezzo. Per esempio, la Meloni ha pensato di fare un poco di buona comunicazione presso quei luoghi infernali da dove partono i migranti per spiegare loro che venire qui potrebbe essere mortale. Si potrebbe andare in Siria, o in Afganistan e dire a quella gente che prendere barconi semi galleggianti è pericoloso, meglio un aereo. Magari come deterrente si potrebbe diffondere un video con quelle bare che lei non ha voluto vedere. Le stesse che volevano d’urgenza spostare per levarle l’imbarazzo di quelle tragiche presenze.

    Le novità dal Consiglio dei ministri

    Qualcosa di nuovo tuttavia c’è stato. Per esempio è stato annunciato che ci sarà una restrizione nel rilasciare i permessi di soggiorno per protezione speciale. Si tratta di permessi rilasciati a quei migranti per i quali si afferma che il loro rimpatrio rappresenterebbe un pericolo per la vita, pur senza aver riconosciuto loro lo status di rifugiato politico o religioso. Fin qui non sono stati pochi i migranti che fuggendo da luoghi di guerra o tirannie, hanno potuto fruire di questa possibilità. In futuro a quanto pare non sarà più così. Però il CdM in trasferta calabrese ha detto anche che potrebbero aumentare le quote dei migranti che possiamo ospitare e questo risultato è stato sbandierato come un gesto di straordinaria generosità. Nei giorni in cui si contano i morti che ancora il mare restituisce alla pietà dei soccorritori, mettere sul piatto della bilancia un aumento del numero dei vivi che possono entrare è sembrato un gioco col pallottoliere.

    Giorgia Meloni e la sceneggiata di Salvini a Cutro

    Solo sulla spinta delle fastidiose insistenze dei cronisti presenti, il presidente del Consiglio ha detto che incontrerà i sopravvissuti alla tragedia e i familiari delle vittime, ma non subito. Più avanti magari, insomma poi vediamo, perché certe volte quelli che sono rimasti vivi fanno più impressione dei morti. E mentre Giorgia Meloni cercava di rintuzzare, rispondere, indignarsi, spiegare, il suo collega Matteo Salvini camminava tenendo in bella vista una cartellina che illustrava il progetto del ponte sullo Stretto e lo faceva in quella parte della Calabria più arretrata, dove non atterra un aereo, non arriva un treno e dove la strada è la più pericolosa d’Italia. Della serie: come vi sfotto io nessuno.

  • Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    A Cutro alcune cose erano scontate. Ad esempio, la protesta pittoresca e ben orchestrata delle sigle autonome e delle associazioni più o meno antagoniste.
    Il lancio dei peluche contro le auto blu e i cartelli esibiti nei pressi della sala comunale che ha ospitato il Consiglio dei ministri, sono stati più che eloquenti.
    Facciamo una sintesi prima di procedere: Giorgia Meloni ha dato la sua versione, anche se con qualche “stecca” di troppo, e i giornalisti l’hanno contestata.
    Ora riavvolgiamo il nastro.

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    Una contestazione a Cutro contro il governo Meloni

    Meloni a Cutro: lancio di peluche e cartelli di protesta

    Le immagini, riportate da tutti i media che contano con perfetto tempismo, sono chiare: lancio di peluche con chiara allusione ai dettagli più struggenti della tragedia, e slogan eloquenti.
    Ne citiamo due, uno più inflazionato dell’altro: «Basta morti in mare», «Non in nostro nome». Retorica a parte, entrambi esprimono l’indignazione di chi chiede una risposta.
    Ed esprimono una parafrasi di certo Sessantotto, in questo caso più addolorato che rabbioso. E ci sta.
    Soprattutto, esprimono l’ansia di territori marginali – e perciò trascurati – che si ritrovano in primo piano solo quando capitano vicende eccezionali per la loro bruttezza.

    Un’immagine simbolo della spiaggia della tragedia

    Cutro protagonista

    Cutro è protagonista e tutta la Calabria è Cutro: quella che si indigna, ma anche quella che vuole risposte. E le chiede in maniera dura.
    Non era, va da sé, risposta quella di Matteo Piantedosi, che ha esibito un’empatia inesistente. Non sono risposte i rimpalli e i balbettii dei vertici amministrativi di chi avrebbe dovuto agire con più efficienza e velocità, magari calpestando i vincoli burocratici e legali che partono dall’Europa (in questo caso, Frontex), continuano nei corridoi dei ministeri e finiscono nei Comandi e nelle Capitanerie più periferici.
    Sono risposte quelle della premier?

    Meloni e il Cdm a Cutro

    Il Cdm di Cutro è servito a due cose: diramare le prossime decisioni sulla questione migranti e difendere il proprio operato politico. Anzi, governativo.
    Il contenuto dei primi è noto: superpene agli scafisti (trent’anni quando i migranti ci rimettono la pelle), superpoteri e superdoveri alle autorità italiane (cioè la possibilità di indagare anche in acque internazionali) e allargamento dei flussi migratori, giusto per bilanciare un po’ a sinistra cose dette a destra ma pensate altrove: cioè ai piani alti dell’Ue.
    E l’autodifesa?

    Le stecche di Giorgia 

    Una domanda di Virginia Piccolillo, tiratrice scelta del Corriere della Sera, scatena la polemica. Era una situazione di soccorso o di sicurezza?
    Il problema è tutto qui. La presidente del Consiglio dà la risposta più comoda: Frontex ha fatto una segnalazione di polizia. Cioè: il caicco non era in difficoltà, poi è rimasto fermo a quaranta metri dalla riva per ore (ma non erano cento, i metri?) perché gli scafisti non volevano farsi beccare.
    Alla fine è naufragato per colpa degli scafisti che volevano darsela a gambe.
    Meloni ha recitato come un mantra l’ordinanza del gip di Crotone e il verbale di fermo dei presunti nocchieri della morte.
    Peccato le stecche, non proprio leggere: la presidente prima dice che Frontex ha avvistato il caicco nelle acque costiere, poi si corregge, richiamata anche dal moderatore. Quaranta chilometri dalle acque costiere, il dato esatto, fa una bella differenza.

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    Il governo al completo durante la conferenza stampa

    La risposta che manca

    Ancora: ma voi credete che il governo non volesse intervenire? Chiede all’uditorio con la classica domanda difensiva. Già: solo che non riferisce quel che è successo tra la segnalazione di Frontex e le prime ore del 26 febbraio.
    Non è una lacuna piccola. Innanzitutto per la tempistica: l’avvistamento è avvenuto alle 22,40 del 25 febbraio, il naufragio tra le 3 e le 4 del mattino del 26. Più di tre ore di differenza.
    In seconda battuta, la lacuna è grossa proprio nei termini della sicurezza che sta tanto a cuore al governo: possibile che in tre ore nessuno si sia mosso di fronte all’ipotesi di uno “sbarco”, per dirla in burocratese?

    Un primo piano di Giorgia Meloni

    Una targa non basta

    Apporre sul municipio una targa commemorativa della tragedia non basta. E non basta trasformare Cutro in Capitale simbolica per poche ore.
    Andrò al PalaMilone, avrebbe promesso Giorgia alla fine della conferenza stampa. Poi la retromarcia: un invito a Palazzo Chigi ai familiari delle vittime.
    Il che tradisce qualcosa di troppo: la considerazione della Calabria come territorio marginale che, in fin dei conti, porta troppe rogne e, persino, un po’ sfiga.
    Infatti, hanno ribadito la premier e Salvini, «oggi abbiamo fatto venticinque salvataggi in mare». Solo in Calabria si muore, quindi.
    E, a proposito di considerazioni: che dire del moderatore che chiede “professionalità” ai giornalisti ma poi dice “Curto” anziché Cutro?

  • Niente salme, c’è il Governo: la protesta dei parenti delle vittime

    Niente salme, c’è il Governo: la protesta dei parenti delle vittime

    Sono talmente stremati, arrabbiati e sfiduciati i familiari dei naufraghi che, poco fa, hanno provato a bloccare un camioncino di una nota azienda di acqua davanti ai cancelli del PalaMilone. Pensavano che nel retro del mezzo ci fossero le salme dei loro cari. Ma il Governo, nello specifico il Viminale, in un primo momento, ha deciso contro la loro volontà di trasferire i corpi dei migranti nel cimitero di Borgo Panigale (Bologna) e in altre città d’Italia che si sono rese disponibili a ospitarle. Da lì poi, forse, ricomincerà eventualmente la trafila dei trasferimenti. Tuttavia la vicenda è finita in stand by, grazie alla mediazione del Prefetto e del sindaco di Crotone: nessun “trasloco” l’assenso dei familiari. Bologna accoglierà ventiquattro salme, quattordici delle quali già partite. Per altre diciassette, che dovrebbero tornare in Afghanistan, si attende il completamento delle pratiche burocratiche.

    Salme dei migranti di Cutro trasferite per l’arrivo del Governo?

    La scelta originaria, si diceva, è del ministro Piantedosi. E, proprio come le sue parole all’indomani della tragedia di Steccato di Cutro, ha alimentato da subito le polemiche. Un vero capolavoro di ipocrisia del Governo, secondo molti: soltanto una settimana fa, dopo la visita del capo dello Stato, l’Italia aveva promesso di farsi carico di costi e trasferimenti nei Paesi d’origine, in accordo tra ambasciate e familiari.

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    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone

    Invece, no, non si può più aspettare. Perché domani ci sarà il Consiglio dei ministri – dove pare che neanche il sindaco padrone di casa sia stato ammesso – e sarebbe un grande imbarazzo per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, arrivare in un luogo che sa ancora di morte e disperazione. Così come potrebbe imbarazzare il confronto con l’omaggio silenzioso del Presidente Mattarella alle vittime. Rischierebbe di evidenziare, se possibile, ancor di più il ritardo dell’Esecutivo nel far sentire la propria presenza sul luogo della tragedia. Ma, a quanto pare, sono cambiate le carte in tavola.

    La protesta dei familiari

    Molti dei parenti delle vittime chiedono, pretendono, che, dopo 13 giorni di attesa, le bare vengano riportate da Crotone il prima possibile nei Paesi di origine. Lì dove è giusto che vengano pianti dalla loro comunità e celebrati riti funebri secondo il loro credo.
    Da stamattina hanno occupato il piazzale davanti al Palazzetto e promettono di andare avanti a oltranza.

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