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  • La Calabria e la stampa “che conta”: storia di un pregiudizio

    La Calabria e la stampa “che conta”: storia di un pregiudizio

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    La Calabria una e trina. Trina, soprattutto, grazie al racconto delle grandi firme della stampa “che conta”. La prima Calabria, la più vecchia, è quella dei pregiudizi, che grazie all’appeal di grandissimi, come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, ha fatto scuola. Terra terribile e irredimibile. L’epigono, forse suo malgrado, di questa tradizione è Corrado Augias, che commentò, nell’immediato indomani dell’inchiesta Terre perdute, coordinata da Gratteri in persona, in maniera a dir poco dura: «Io ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile».

    https://www.facebook.com/watch/?v=463919521659331

    La seconda Calabria rievoca la Sindrome di Stoccolma: terra ostaggio delle sue classi dirigenti. Questa narrazione, forse la più recente, ha il suo capofila in Michele Santoro, che puntò le antenne di Annozero sulla classe dirigente calabrese a partire dal delitto Fortugno e ce le tenne ben dritte anche dopo, in occasione delle inchieste Why Not? e Poseidone di Luigi de Magistris.

    La terza Calabria, più simile alla seconda che alla prima, è la terra degli scandali un tanto al chilo, su cui si è esercitato negli ultimi anni Massimo Giletti, che ha allacciato una singolare sinergia col giornalismo locale, a cui ha fatto da grancassa: l’assessore corrotto, il mafioso corruttore e protervo, il pasticciaccio brutto della Sanità si trovano sempre…

    Stampa vs Calabria: in principio fu Indro

    A dirla tutta, Montanelli non si esercitò troppo sul Sud, perché la sua linea giornalistica aveva un gran successo sotto Roma, dove quella borghesia conservatrice (e a volte un po’ retriva) che amava la grande penna toscana era particolarmente consistente.
    Il mitico Indro, a cui si attribuisce tutto l’antimeridionalismo dell’universo, in realtà si teneva piuttosto abbottonato, con un cerchiobottismo simile a quello della Dc, che aveva votato a più riprese “turandosi il naso”.
    Sì, il Sud era arretrato e un po’ canaglia. Ma era anche la Patria di alcuni miti montanelliani, tra cui Giustino Fortunato: «Finché il Mezzogiorno genererà uomini così», rispose il grande giornalista a un lettore, «vale la pena di spendersi».

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    Indro Montanelli

    E la Calabria? Troppo marginale per interessare davvero qualcuno, era la terra ideale per intingere il pennino nella sostanza che il fondatore de Il Giornale prediligeva: il curaro.
    Tralasciamo alcune polemiche degli anni ’60, riportate in Calabria grande e amara (1964), il classicone di Leonida Repaci, e concentriamoci su un passaggio de L’Italia dell’Asse (1980) in cui Montanelli esprime il suo pensiero sulla Calabria mentre parla d’altro, cioè della conquista dell’Albania e del suo leader, re Zog.

    Ecco cosa scrive il giornalista toscano: «Il re Ahmed Zog, come si usa dire, “non nasceva”. Apparteneva a una dinastia di capimafia del Mathi, che sarebbe un po’ la Calabria dell’Albania, e il suo vero nome era Ahmed Zogolli». Inutile ricordare che l’Albania del ’38, uscita da poco meno di vent’anni dal dominio turco, era la zona più arretrata dei Balcani…

    La Calabria cambia, la stampa cambia

    Giusto un’avvertenza: i rapporti tra grande stampa e Calabria (e viceversa) iniziano a cambiare non appena si consolida una rete consistente di informazione regionale. Non più (e non solo) inviati e corrispondenti di testate nazionali e non più (e non solo) redazioni locali di testate che avevano fuori regione testa e cassaforte.

    Ma giornali regionali solidi, basati su reti di cronisti ramificate e consolidate sul territorio. E perciò capaci di creare continuità nell’informazione, dal livello strettamente locale al nazionale, e, a volte, di dialogare da pari con i big del giornalismo.
    Con un po’ di malignità, si può aggiungere che la crisi dell’editoria ha spinto le testate più importanti a non tralasciare nulla, Calabria inclusa, pur di fare i numeri. Soprattutto nell’era del web.

    Il perfido Bocca

    Giorgio Bocca, l’altro alfiere del pregiudizio antimeridionale, appartiene al “prima” dell’evoluzione massmediale. E, c’è da dire, ci va giù pesante.
    Le tracce del suo feeling antiterronico (e anticalabrese) si trovano in almeno tre libri. Il primo è L’Inferno. Profondo Sud, male oscuro (1992), un reportage choc che sbancò in libreria e diede filo da torcere al best seller Fatherland di Robert Harris.
    Il secondo è Il provinciale, l’autobiografia del grande giornalista piemontese, uscita sempre nel ’92. Il terzo è Aspra Calabria, ancora del ’92, in cui Bocca salva solo il procuratore Agostino Cordova.

    Giorgio Bocca

    Il Sud è male, la Calabria peggio

    Il Bocca-pensiero sulla Calabria procede per cerchi concentrici. Quello più esterno esprime un concetto: il Sud è male. Quello più interno, lo specifica: la Calabria è peggio.
    Ne Il provinciale, ad esempio, i passaggi sul Mezzogiorno sono pesantissimi.
    Eccone uno: «Passo per antimeridionale e lo sono nel senso che sono troppo vecchio per essere un’altra cosa. Il meridionalismo, la rinascita del Sud li lascio in eredità ai miei figli, ma temo che li passeranno ai nipoti. Sono quarant’anni e passa che ascolto le lagne del meridionalismo e ho capito che in quel che mi resta da vivere saranno sempre le stesse ».

    Eccone un altro: «In questi quarant’anni tutti gli altri meridioni del mondo industriale si sono tirati su le brache (…) e nessuno di questi Sud è afflitto dalla malavita organizzata che si è diffusa nel nostro, a metastasi».
    E infine: «La Mafia sarà potente, abile, invisibile, impunita, ma possibile che a nessuno o a pochissimi nel Sud sia venuta la voglia di spararle contro, di dirle basta?».
    La condanna di Bocca diventa senza appello sulla cultura. Per il grande giornalista alpino, i meridionali «se stanno giù non si liberano della retorica umanistica che non posso certo descrivere qui in due parole, ma che si riconosce come un odore di stantio, come qualcosa fuori dal mondo». Roba da far fischiare le orecchie ai vari Franco Cassano e ai loro pensieri più o meno “meridiani”…

    Giornalismo alla calabrese

    Sempre ne Il provinciale Bocca si sofferma sulla Calabria. In particolare, parla del suo incontro con l’avvocato di Saro Mammoliti: «La Mafia è come un cavallo nero, su cui salgono le zecche, i pidocchi, legulei, magistrati o avvocati che siano. Arrivo a Locri, terra di Mafia, e vado a parlare con l’avvocato Jovine, difensore di Saro Mammoliti, della grande famiglia mafiosa di Gioia Tauro, che vedo uscire dal suo ufficio».

    Mommo Piromalli
    Don Mommo Piromalli

    Più interessanti, i passaggi su Giuseppe Parrella, giornalista di Palmi, che Bocca definisce anche «di mafia». Parrella, racconta Bocca, si barcamena come può, tra carabinieri, mammasantissima e loro parenti. In particolare i Piromalli, che allora erano la ’ndrina del potentissimo don Mommo. Il ritratto è ironico, a tratti ammirato e pieno di comprensione. Parrella, per avere notizie, non esita a fare gli auguri a una Piromalli, che ha appena avuto un figlio, il quale ha ricevuto un assegno da un milione di lire da uno zio latitante. Roba inconcepibile nell’antimafia militante di oggi. Ma sicuramente comprensibile nel giornalismo degli anni ’80, molto più difficile da praticare in periferia.

    Una “normale” terra martoriata

    Dopo che Michele Santoro ha rotto il tabù, la Calabria va tranquillamente in prima serata, purché produca scandali.
    Lo sa bene Massimo Giletti, che si è divertito sadicamente a raccontare le malefatte della Sanità e della Regione. Ma a Giletti si può dare una piccola attenuante: almeno ha dato voce ai giornalisti calabresi che hanno prodotto le notizie. Non altrettanto ha fatto Mario Giordano nel suo Profugopoli (2016), in cui racconta della vicenda del centro migranti di Aprigliano riconducibile alla famiglia Morrone senza menzionare la fonte originaria…

    Mario Giordano

    A proposito di Michele Serra

    Ma ci sono giornalisti che guardano alla Calabria con pacatezza e con disincanto. È il caso di Michele Serra, che nel suo Tutti al mare (1985), racconta la speculazione sulle coste calabresi, da Scalea in giù con garbata ironia.

    Feltri, basta la (mala)parola

    Doverosa la citazione di Vittorio Feltri, non foss’altro perché si è fatto quasi radiare dall’albo (si è cancellato da sé prima) per averle sparate grosse sul Sud.
    L’ex direttore responsabile di Libero ha capitalizzato la libertà della terza età ed è andato giù duro sulla Calabria, di cui ha estremizzato i luoghi comuni negativi fino al paradosso: «Se fossi in Conte mi rivolgerei a un boss della ’ndrangheta», ha dichiarato il giornalista lumbard mentre la pandemia faceva ancora strage.
    Non serve altro. O forse sì: i politici calabresi la smettano di prenderlo sul serio e cerchino di non dargli ragione coi loro comportamenti.

    Vittorio Feltri
    Vittorio Feltri

    Scalfari non pervenuto

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    Eugenio Scalfari

    Eugenio Scalfari, originario di Vibo, di Calabria ha parlato poco. E quel poco l’ha delegato alle firme dei suoi giornali. C’è da capirlo: uno che commentava le elezioni del Papa o le crisi di governo mica poteva soffermarsi su “semplici” storie di mafia e di malaffare… Restano solo i ricordi delle estati nella terra natia. Innocui e sognanti come tutte le memorie d’infanzia.

    E domani?

    Di Calabria il web oggi parla tantissimo e i nostri governatori hanno guadagnato il diritto di essere bastonati e irrisi come tutti gli altri. Lo sa bene Agazio Loiero a cui Marco Travaglio dedicò un titolo mitico: Agazio che strazio.
    Ma la palla passa ai giornalisti calabresi, a cui tocca l’onere di passare un racconto ben fatto, degno di essere amplificato e ripetuto. In fin dei conti, il medium è sempre il messaggio…

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    Marco Travaglio
  • Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

    Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

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    «Benvenuti a Montalto Uffugo, il paese di Ruggiero Leoncavallo». Recitava così un enorme cartellone stradale visibile dal 2002 all’ingresso di quello che ora è lo smantellato e fatiscente ipermercato Emmezeta, appena fuori dallo svincolo Rose-Montalto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Curioso invito alla sosta tra luoghi-non luoghi collegati alla genesi artistica e alla vicenda di uno dei più famosi e popolari melodrammi del teatro lirico italiano. Eppure il palinsesto originario di Pagliacci riconduce a un territorio estraneo e distante dalla soglia mobile ed effimera di questi santuari provvisori del consumismo planetario. A un mondo “altro”, lontano anni luce dalle finzioni glamour e dalla spettacolarizzazione a cui ci ha abituato oggi la cultura di massa.

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    Montalto Uffugo, il museo dedicato a Leoncavallo

    Il piccolo Leoncavallo e la vera storia di Pagliacci

    Il più famoso melodramma di Leoncavallo (autore peraltro molto prolifico) nasce intorno al 1890. Enfatizza gli echi più tragici e coinvolgenti scaturiti da un episodio registrato dalle cronache e dal folclore locale. L’opera si ispira a un delitto realmente accaduto a Montalto Uffugo, quando il compositore era bambino. In seguito, il padre di Ruggiero Leoncavallo, Vincenzo, un magistrato napoletano destinato a quel mandamento giudiziario, ebbe il compito di istruire il processo che portò alla condanna dei colpevoli.

    Ecco in breve come andarono realmente le cose. Per una carambola del caso il piccolo e irrequieto Ruggiero venne affidato dalla famiglia alla sorveglianza di un domestico, il ventenne Gaetano Scavello. Siamo nel 1865, Leoncavallo (che prendeva lezioni di musica da quando aveva 5 anni) all’epoca dei fatti ne aveva appena 8.

    La cronaca nera stava per entrare nella sua vita turbando anche la pigra tranquillità di Montalto Uffugo. Proprio Scavello, giovane factutum di casa Leoncavallo, si era preso una sbandata per una bella e forse non del tutto “illibata” (ma quella era la morale paesana di quei tempi) ragazza del paese, che risultava comunque promessa al calzolaio Luigi D’Alessandro.

    La morte del factotum di casa

    Un giorno di marzo il giovane Scavello vide entrare furtivamente la ragazza in una casa colonica. Era insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, tale Pasquale Esposito. Pretendendo maggiori spiegazioni, Scavello fermò Esposito, ma il suo rifiuto di rivelare il motivo dell’incontro con la ragazza lo fece infuriare al punto di ferire l’avversario alle gambe con un bastone. La ragione dello scontro venne subito riferita allo stesso Luigi D’Alessandro e al fratello di questi, Giovanni.

    La sera successiva i due feriti nell’onore minacciarono più volte Scavello. E al culmine di un alterco, approfittando della confusione e del parapiglia promiscuo che si era creato all’uscita di uno spettacolo di varietà messo in scena da una compagnia di sciantose e guitti ambulanti che visitava il paese, accoltellarono il giovane a morte tendendogli un agguato in un sopportico. L’istruttoria e il successivo processo per l’omicidio dello Scavello, celebrati da Vincenzo Leoncavallo, si conclusero con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.

    Troppo verista per Ricordi

    Difficile che il piccolo Leoncavallo possa aver assistito direttamente al fatto di sangue, mentre è certo il legame di familiarità stabilito all’epoca dei fatti con la vittima. La traduzione dei fatti originari è quindi piuttosto diversa da quella che segnerà poi lo sviluppo successivo della scrittura dell’opera lirica. Anche la trama e la scrittura del libretto per Leoncavallo non furono cosa semplice e non mancarono scoraggianti contrarietà e rifiuti. Il compositore sottopose il lavoro all’editore Ricordi, che rimase turbato dalla modernità del libretto e dal prologo eccessivamente verista in cui Leoncavallo, tramutando quella tragedia paesana di sangue e di coltello consumata dal vero, aveva tratto ispirazione e materia creando un ardito cortocircuito tra scena comica e vicenda tragica.

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    Ruggiero Leoncavallo

    Leoncavallo provò infine con Sonzogno, che imponendo qualche revisione, gli consentì di portare finalmente a teatro il lavoro che aveva così a lungo e accanitamente immaginato, scritto e musicato. Il suo lavoro mette per la prima volta a contatto figure e costrutti della tradizione e della culturale locale calabrese con i linguaggi della modernità.
    L’opera lirica fu perciò ambientata dal compositore napoletano proprio nella «sua» Montalto Uffugo, il piccolo paese della provincia di Cosenza dove si consumò l’episodio di cronaca che lo condusse a scrivere a 35 anni Pagliacci.

    Toscanini e il primo clamoroso successo

    L’opera ha nell’aria Vesti la giubba e nella definizione del Prologo, espressione di teatro nel teatro che già anticipa la drammaturgia novecentesca, i suoi passaggi librettistici e musicali più conosciuti. Leoncavallo non fu infatti solo musicista ma anche un buon letterato, fu allievo di Carducci a Bologna, visse e lavorò a Parigi – dove conobbe Zola e Hugo – viaggiò dall’Egitto agli USA, in Francia, in Svizzera e in Sudamerica.

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    Arturo Toscanini

    Partita in sordina, considerata opera di un autore minore, con un libretto di argomento rozzo e «barbaramente verista», aggravato dalla remota ambientazione locale e per giunta rurale, sin dalla prima recita messa in scena il 21 maggio 1892 al teatro Dal Verme di Milano, direttore un giovane Toscanini, Pagliacci si rivelò invece inaspettatamente un clamoroso successo, proseguito e riaffermato poi nei teatri lirici di tutto il mondo.

    Anche meglio di Verdi

    Con Pagliacci Leoncavallo e il suo editore Sonzogno, non molto tempo dopo, riusciranno a superare persino gli incassi delle opere di Verdi. A distanza di un secolo Pagliacci resta nei fatti un unicum. Un esempio di sintesi culturale tra i più autentici e riusciti in mezzo ai capolavori del verismo musicale italiano. Sulla scena è protagonista un povero guitto deriso e fatto becco da una Circe da fiera di paese che sceglie il suo ultimo amante tra uno dei ganzi che le ronzano intorno nella confusione della folla eccitata e stordita di un afoso paesino in cui si celebra tra libagioni omeriche e danze contadine la festa di mezza estate.

    La commedia degli attori girovaghi si tiene sotto un tendone lacero e improvvisato. Ma l’attrazione sta nei carrozzoni colorati da cui occhieggiano zingare compiacenti e sciantose imbellettate, il cui fascino profano gareggia con le immagini pie delle madonne barcollanti portate in processione nella controra. Siamo nella Calabria del 1870, ma due elementi danno una credibilità e uno spessore antropologico universale (e beninteso, teatrale) al melodramma: il paesaggio e l’ambiente sociale, emblema di tutti i Sud che si affacciano per le ultime recite sul bordo del vecchio mondo contadino che già declina verso il Novecento, con l’incipiente mondo contemporaneo che vedrà la globalizzazione dei costumi. C’è poi il dramma «classico» e luttuoso che grava sulla figura tragica di Canio.

    Il melodramma più rappresentato in giro per il mondo

    Il verismo di Pagliacci non è solo rappresentato nei costumi, nelle invocazioni gergali, nell’ampio coinvolgimento scenografico di figure popolari –tratte come le scene dal vero della prima rappresentazione teatrale, dai dipinti del pittore calabrese Rocco Ferrari –, ma anche soprattutto nel dramma dell’onore, nelle figure di Canio e Nedda, nell’apoteosi brutale del duplice omicidio finale.

    Ed è forse per questo che l’opera di Leoncavallo, scritta pensando alla Calabria e al suo mondo segregato e distante, ritrova ancora oggi i contrasti tragici della sua radice più classica e insuperata nella congiuntura culturale, che nonostante il secolo trascorso ne mantiene intatto il successo anche in ambito contemporaneo. Pagliacci è infatti ancora oggi il melodramma italiano più frequentemente portato in scena e cantato, persino più volte delle opere di Verdi e Puccini. Ogni anno in giro per il mondo, nei teatri di tutti i continenti, si contano più di 400 rappresentazioni dell’opera.

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    Pagliacci alla Scala di Milano

    Leoncavallo, Pagliacci e l’industria culturale

    Anche l’industria culturale e il cinema ne hanno attinto a piene mani. Le note delle arie più famose di Pagliacci risuonano ne la trilogia de Il padrino di Coppola e una delle scene clou de Gli intoccabili di De Palma, sino alle più recenti versioni melò dell’opera di Leoncavallo firmate in Italia da Zeffirelli (1983), Liliana Cavani (1998) e Marco Bellocchio (2016). Uno dei marchi delle global company più conosciute nel mondo, la Coca Cola, già più qualche anno fa aveva pensato bene di utilizzare per la pubblicità della sua così poco mediterranea bevanda, proprio la traccia musicale di una delle arie più sentimentali e patetiche che danno lustro universale alla vicenda di questo melodramma.

    Leoncavallo fu in grado di operare così una “traduzione” culturale di realtà marginali nelle forme e nei linguaggi più moderni e comunicativi disponibili all’arte popolare di quel periodo: il melodramma verista, e poi la musica popolare delle arie e delle romanze stampate e diffuse ovunque per la prima volta su disco, e particolarmente diffuse grazie questo primo veicolo tra le comunità di emigrati italiani all’estero e soprattutto nelle due Americhe.

    Un tesoro per gli americani

    Ne è prova il National Recording Registry, un museo di files sonori creato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In questo archivio multimediale è stata immortalata la storia culturale degli USA. Vi hanno trovato consacrazione le voci ruvide e stentoree di presidenti e generali, le icone sonore di Martin Luther King che pronuncia il suo celebre «I have a dream», la voce da crooner di Frank Sinatra e quella libertaria di un giovane Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind.

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    La biblioteca del Congresso a Washington

    In mezzo a questo campionario di voci memorabili è possibile ascoltare i maestri del jazz e della musica classica, i poeti e gli artisti del rock, pezzi di storia popolare come la prima trasmissione radiofonica americana, il primo disco di jazz, il primo album in stereo e altro ancora. In tutto le registrazioni da consegnare ai posteri per ora sono solo cinquanta, selezionate da un gruppo di esperti guidati da James H. Billington, responsabile della Libreria del Congresso, che le ha giudicate «culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti per importanza» per la ricostruzione della storia culturale degli USA.

    Enrico Caruso e una registrazione da record

    Al n. 7 del repertorio, c’è per ora l’unico brano in italiano: un’aria d’opera che divenne subito famosa e amata, e non solo tra gli immigrati italiani, «Vesti la giubba from Pagliacci of Ruggiero Leoncavallo. By Enrico Caruso. (1907)». Il celebre brano è preceduto da questa motivazione: «Tenor Enrico Caruso was probably the most popular recording artist of his time. His recording of this signature aria by Leoncavallo was a best-selling recording». (Il tenore Enrico Caruso fu probabilmente l’artista più popolare del suo tempo a incidere. La sua registrazione dell’aria simbolo di Leoncavallo fu tra quelle più vendute, ndr).

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    Enrico Caruso in abiti di scena

    Si trattava dunque già allora di un successo ultrapopolare del belcanto; Leoncavallo dimostrando grande fiuto per lo showbiz fu tra i primi compositori a registrare le sue musiche su disco. Successo che dura ancora oggi intatto. Merito di Caruso, merito di Leoncavallo e soprattutto di una storia di paese che raccontava al nuovo mondo l’anima degli italiani del Sud.

    Leoncavallo e i Pagliacci globalizzati

    Con Pagliacci Leoncavallo riformulava il melodramma classico, ibridando il belcanto con i temi e gli ambienti sociali emersi dal basso. Del resto lo stesso Leoncavallo, per guadagnarsi da vivere aveva suonato nei bistrot e nei caffè-concerto malfamati di Parigi.

    Ed è forse per questo che all’epoca autore e opera (nonostante il grande successo popolare) furono ambedue così apertamente osteggiati dalla critica musicale purista e dalle posizioni più ufficiali e conservatrici dell’intellettualità nazionale. Piaceva molto invece agli emigranti italiani, e agli americani, quella musica «tumultuosa e vistosa». Era esagerata, ibrida e sporca, come come il jazz, come un musical, come un’opera rock. Pagliacci, globalizzati.

  • Oscar: statuette e nominations di Calabria nella notte delle stelle di Hollywood

    Oscar: statuette e nominations di Calabria nella notte delle stelle di Hollywood

    C’è stato un periodo, a cavallo tra 2010 e 2011, in cui era impossibile sfogliare un giornale o navigare un sito della Calabria senza beccare qualche celebrazione di Mauro Fiore, fino a quel momento ignoto ai più, balzato agli onori per aver vinto ad Hollywood il premio Oscar per la migliore fotografia in Avatar.

    Il film di James Cameron, c’è da dire, aveva fatto incetta di statuette (tre) e di nomination (nove). Ma per l’orgoglio calabro, l’Academy Award a Fiore bastava e avanzava: era la prosecuzione del sogno americano, vissuto quasi fuori tempo massimo.

    Fiore, infatti, aveva lasciato la sua Marzi (oggi poco meno di mille anime nel cuore del Savuto) nei primi anni ’70 e aveva fatto carriera a Hollywood in qualità di tecnico all’ombra di grandissimi come Steven Spielberg.

    Mentre la Calabria lo celebrava alla grande, girava qualche commento pieno d’ironia amara: se Fiore fosse rimasto qui, al massimo avrebbe potuto fotografare matrimoni. Ma poco importava: Fiore era diventato Lu Ziu ’i Lamerica.

    Se l’Oscar parla arbëreshë

    Il cinema è stato, in ordine cronologico, l’ultimo ascensore sociale per i migranti italiani in cerca di fortuna negli Usa. Di sicuro la scorciatoia più vistosa per il successo. I calabresi, va da sé, non potevano fare eccezione, minoranze linguistiche incluse.

    È il caso del musicista arbëresh Salvatore Antonio Guaragna, cioè il mitico Harry Warren, che ottenne tre Oscar (per la precisione, nel ’35, nel ’43 e nel’45) più altre otto nominations per la migliore colonna sonora.

    Il minimo, per un autore seriale come lui, che scrisse circa ottocento brani. Giusto per curiosità, le sue canzoni più famose furono quelle che non vinsero. Cioè Chattanooga Choo Choo (nomination nel ’41, che divenne la colonna sonora delle truppe Usa in Italia) e la mitica That’s Amore, l’inno della Little Italy. Tanto successo, ottenuto fuori dalla Calabria, è all’origine di una disputa sulle radici di Warren tra Cassano Jonio e Civita.

     

    Da Corso Telesio a Hollywood

    Più certe le radici di Antonio Gaudio, che nacque a Cosenza, dove il padre Raffaele faceva il fotografo a via Sertorio Quattromani e Corso Telesio. Emigrato oltreoceano con suo fratello Eugenio, sfondò in America come direttore della fotografia e regista. Anche per lui l’americanizzazione del nome fu obbligatoria, ma non fu totale: divenne Tony Gaudio ed Eugenio si trasformò in Eugene.

     

    Con questo nick si aggiudicò nel 1937 la statuetta per la migliore fotografia nel film Avorio Nero, una delle sei pellicole a cui il Nostro lavorò quell’anno. Il suo, visto che Guaragna era nato a Brooklyn, è il primo Oscar tutto italiano della storia. Ma la statuetta, alla morte di Gaudio, è andata perduta, una storia che diventerà presto un documentario.

    L’ultimo Ziu

    L’ultimo Ziu ’i Lamerica, in ordine cronologico, è Nick Vallelonga, tuttofare del cinema a stelle e strisce discendente da emigrati del Vibonese. Vallelonga, che ha esordito con una particina ne Il Padrino, ha ottenuto nel 2019 l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale per Green Book, pellicola dedicata al grande jazzista Don Shirley.

    C’è da dire che questo premio non è stato proprio al riparo delle polemiche. In particolare, quelle della famiglia di Shirley, che avrebbe accusato Vallelonga di aver lavorato un po’ troppo di fantasia. Ma non importa: a lui la Calabria, generosa nel riconoscere il successo dei suoi migranti, ha tributato la solita sfilza di onori alla ’nduja al corpulento Oscar.

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    Nick Vallelonga

    Nonni… e un cugino da Oscar

    Più magra (e carina), Marisa Tomei ha in comune con Vallelonga il fatto di avere qualche nonno calabrese. Per la Tomei, che proviene dalla middle class newyorchese, le difficoltà dei migranti forse non sono neppure un ricordo. Protagonista di una carriera lineare tra grande e piccolo schermo, la Nostra ha ottenuto l’Oscar come migliore attrice non protagonista in Mio cugino Vincenzo (1993), una statuetta su cui si è malignato per anni. L’attrice ha poi confermato il suo talento con altre due nominations per In the Bedroom (2002) e The Wrestler (2009).

    Decisamente più famoso (e magro), F. Murray Abraham vanta due nonni reggini, per la precisione di Staiti e Condofuri. È diventato celebre per aver interpretato Salieri, il cattivo di Amadeus, che gli valse l’Oscar come miglior attore protagonista (1984).

    Sempre per restare ai nonni, le radici calabre emergono anche per Stanley Tucci, vincitore della statuetta come miglior attore non protagonista nell’horror Amabili Resti (2009).
    Protagonista di una carriera densa tra cinema, televisione e teatro, Tucci discende da Stanislao Tucci, emigrato da Marzi, lo stesso paese di Mauro Fiore. Segno che il pane del Savuto porta bene. Meglio ancora se accompagnato con la ’nduja del Vibonese. Non a caso, la nonna di Tucci era originaria di Serra San Bruno.

    https://www.youtube.com/watch?v=-AmEGCNQRJo

     

    Los Angeles? Cosangeles

    Nel toto Oscar di Calabria non poteva mancare la Sila cosentina, rappresentata da Anastasia Masaro, scenografa canadese che ha ottenuto la nomination nel 2009 per il fantasy Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam: sua madre è originaria di Celico.
    Dalla Sila all’hinterland del capoluogo ci sono circa 20 km, meno comunque di quelli che separano la Masaro dallo statunitense Albert Broccoli, Premio Oscar speciale per aver prodotto il mitico James Bond. La famiglia di Broccoli ha le radici a Carolei.
    A Cosenza è nato nel 1982 anche Alfonso Sicilia, membro del team premiato con l’Oscar per gli effetti speciali nel 2014 per Gravity. Lui vive da anni all’estero, ma suo padre lavora ancora a San Pietro in Guarano, pochi km dalla città dei bruzi.

     

    Catanzaro (quasi) da Academy Awards

    Credevate che la provincia del capoluogo fosse priva di glorie? Sbagliate di grosso. Originario di Girifalco è Mark Ruffalo, volto più che noto del cinema che ha ottenuto tre nominations come miglior attore non protagonista, rispettivamente per The Kids are all right (2009), Foxcatcher (2015) e Il caso Spotlight (2016). Siamo sicuri che, prima o poi, la mitica Statuetta d’oro la becca, visto che lavora tantissimo. Nel frattempo, si consola coi risultati al botteghino.

    Lo scrittore Nicholas Pileggi, nomination assieme a Martin Scorsese per la miglior sceneggiatura non originale in Quei bravi ragazzi (1991) ha radici a Maida, segno che il morseddu lega bene con la celluloide.
    Più noto al pubblico italiano come erede del cinema impegnato degli anni ’70, Gianni Amelio, nativo di Magisano, ha ricevuto nel 1991 la nomination per il miglior film straniero grazie al suo Porte Aperte, ispirato all’omonimo romanzo del grande Leonardo Sciascia.

    Reggio Calabria, Hollywood e gli Oscar

    Una volta tanto, la musica non è sinonimo di tarantella. Il compositore John Corigliano, figlio di John Paul, primo violino della New York Philarmonic, ha radici ben piantate a Villa San Giovanni. Ha vinto, oltre a un Pulitzer e tre Grammy, l’Oscar per Violino Rosso (1999).

    Inoltre, le foto dei reggini possono non essere così “solari”. È il caso di Nicholas Musuraca, che lasciò Riace nel lontano 1907 e fece carriera nella Rko. Ottenne una nomination per la migliore fotografia nel film Mamma ti ricordo, un melò di George Stevens (1948). Ma, a prescindere dagli Oscar, il suo nome resta legato a capolavori del noir o dell’horror come Il bacio della pantera e Le catene della colpa di Jacques Tourneur, La scala a chiocciola di Robert Siodmak o Gardenia Blu di Fritz Lang.

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    Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti ricevono l’Oscar per Sweeney Todd nel 2008

    Nata a Roma, ma originaria di Taurianova, la scenografa Francesca Lo Schiavo ha ottenuto sei nominations e tre Oscar. Precisamente per The Aviator di Martin Scorsese (2005), Sweeney Todd di Tim Burton (2008), Hugo Cabret, sempre di Scorsese (2012).

    Menzioni d’onore

    Non era calabrese, ma ha sposato una calabrese e, soprattutto, ha amato la Calabria, in particolare Lamezia Terme, dove ha trascorso gli ultimi dieci anni di vita.
    Parliamo del grande Carlo Rambaldi, il mitico effettista del cinema mondiale. Suoi, gli effettacci grandguignoleschi di Profondo Rosso, il capolavoro di Dario Argento. Sue le efferatezze iperrealistiche del giallo all’italiana, in particolare dei film di Lucio Fulci. Suo il sangue che schizzava a profusione nei western di Sergio Leone e nei primi due Padrini di Francis Ford Coppola.

     

    Vinse tre Oscar per i migliori effetti speciali grazie a King Kong di John Guillermin (1976), ad Alien di Ridley Scott (1979), per il quale collaborò con l’artista svizzero Hans Ruedi Giger, ed E.T., di Steven Spielberg (1982).

    Sfiorarono la nomination per la colonna sonora di Dune di David Lynch (1984) i Toto e Brian Eno. Eno con la Calabria non c’entra. Invece, c’entrano tantissimo i Toto perché i tre fondatori, i fratelli Jeff, Steve e Mike Porcaro, sono i nipoti di Giuseppe Porcaro, percussionista originario di San Luca d’Aspromonte.

    https://www.youtube.com/watch?v=p_4aTbJ0SCQ

     

    Per sperare

    In attesa di un Oscar a un calabrese che vive in Calabria per un film realizzato in Calabria, c’è di che soddisfare il campanilismo di una regione in cui solo migrando si ha il successo vero. Per gli attuali cinematografari di successo, ogni ritorno in patria è occasione di celebrazioni e retorica a più non posso.
    Chissà che qualcuno si ricordi di loro quando c’è da spendere qualcosa per celebrare il Sud profondo. Magari costerebbero meno dei vari Muccino e solleverebbero meno polemiche…

  • Antonio Vaglica, 18enne di Mirto Crosia vince Italia’s got talent 12

    Antonio Vaglica, 18enne di Mirto Crosia vince Italia’s got talent 12

    Si chiama Antonio Vaglica, ha 18 anni, è originario di Mirto Crosia – piccolo centro del Cosentino – e grazie alla sua voce è il nuovo vincitore di Italia’s got talent 12. Il giovanissimo calabrese si è imposto ieri sera nell’ultima puntata dello show in onda su Sky, superando altri 11 concorrenti e aggiudicandosi così la finalissima. Antonio Vaglica ha saputo convincere i giudici Federica Pellegrini, Mara Maionchi, Frank Matano e, soprattutto, Elio. È stato proprio il cantante milanese a puntare più di tutti su di lui, consegnandogli il successo in questa dodicesima edizione del programma.

    Antonio Vaglica batte tutti: Italia’s got talent 12 va a lui

    Dopo aver superato le audizioni grazie a una cover di Sos d’un terrien en détresse di Dimash, Antonio Vaglica si è fatto strada di puntata in puntata. E così è arrivato alla finale live dagli studios di Cinecittà World a Roma. All’appuntamento decisivo – che ha visto come ospiti in studio anche Pierfrancesco Favino, Miriam Leone, Valerio Lundini, Edoardo Ferrario e Guido Meda – Antonio Vaglica ha sbaragliato la concorrenza con la sua interpretazione di I Have Nothing di Whitney Houston. È nata una stella?

  • Lamezia, l’aeroporto diventa porno

    Lamezia, l’aeroporto diventa porno

    All’aeroporto di Lamezia per il porno. È la nuova idea di qualche buontempone con ottime conoscenze informatiche, che si è preso la briga di hackerare il sito dello scalo principale della Calabria per aggiungere qualche informazione nuova. E chissà che non attragga più turisti di quelli arrivati grazie allo spot girato da Muccino.

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    Non solo spiagge, parchi o arte in Calabria: l’importanza di avere un aeroporto internazionale

    Stando alla nuova versione della pagina web, infatti, Lamezia «ha molti luoghi di interesse e attrazione turistica». E infatti si è dotata «di un aeroporto internazionale che faciliti l’arrivo di porno turisti da qualsiasi parte del mondo». Mica possiamo lasciare l’intero mercato alla Thailandia o qualche stato del Centro o Sud America. Poi non è detto che da un’altra parte si riescano a trovare «chioschi, freeshop e negozi di articoli da regalo youporn per acquistare quei prodotti o dettagli che hai dimenticato». La memoria a volte gioca brutti scherzi, meglio non rischiare, no?

    Senza contare che ci sono i servizi – o, forse, i servizietti a questo punto – aggiuntivi. La pagina modificata del sito dell’aeroporto di Lamezia spiega che a disposizione dei viaggiatori ci sono «telefoni pubblici, posta, punti informazioni». Ma, soprattutto, «sale pornhub VIP», che per ingannare il tempo prima della partenza potrebbero rivelarsi più attrattive dei soliti bar e negozietti di souvenir.

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    Neanche l’aeroporto di Bangkok offre servizi aggiuntivi come quelli dello scalo lametino

    «Senza dubbio, questo aeroporto ha le caratteristiche necessarie per assistere e fornire un servizio di eccellente qualità ai viaggiatori», si legge ancora. Se la nuova Sacal a gestione pubblica sarà in grado di confermarlo non è detto. In qualsiasi caso per i viaggiatori in cerca di altri servizi c’è sempre la vecchia provinciale nei dintorni di Lamezia stessa. Lì parte delle novità previste per lo scalo dal sito sono in funzione da diversi anni ormai e in bella vista. A occuparsene, tante ragazze disperate ai bordi della strada, in abiti succinti e pose inequivocabili.

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    Se da Lamezia ci si vuol spostare verso la “vicina” Perugia…
  • Il Grande Occhio che ci vede solo  brutti e cattivi

    Il Grande Occhio che ci vede solo brutti e cattivi

    Quella sera al Circolo Arci Metrò di via Zecca c’era aria di festa e batticuore, aspettavano la Bbc. C’era la band Cuori Selvaggi che arrivava da Messina, un pubblico curioso. La celebre emittente inglese, la nave scuola del giornalismo mondiale, aveva fatto una promessa: un servizio sulle realtà alternative di una Reggio appena uscita da una sanguinosa guerra di ‘ndrangheta, a quei tempi guidata da un sindaco che si era presentato dicendo «Noi siamo scalzi», Italo Falcomatà.

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    L’ex sindaco di Reggio Calabria – e padre di quello attuale (sospeso) – Italo Falcomatà

    Era la prima estate del ’95, Roberto Calabrò, avvertito da un dirigente Arci di Catanzaro, aveva raccolto un po’ di ragazzi impegnati, una meglio gioventù mai raccontata, che facessero da cornice al servizio televisivo.

    La Bbc in Calabria e quella figuraccia mondiale

    Ma quella sera la Bbc non arrivò mai: i Cuori Selvaggi – nome sicuramente ispirato a quello splendido film di Lynch in cui Nicolas Cage canta “Love me Tender” a Laura Dern nella scena finale – a un certo punto attaccarono a suonare, e la serata andò nel solito modo, a fare tardi in via Marina, con la delusione che arriva dopo le occasioni perdute. La troupe inglese, a poche centinaia di metri dal Circolo, era stata invece fermata dai carabinieri. Secondo molti testimoni oculari, fra i quali il fotografo Silvio Mavilla, i producer avevano cercato di piazzare in bella mostra siringhe usate, rifiuti e preservativi, per rendere più credibile il servizio sulla “Beirut d’Europa”.

    Non molto furbi, avevano scelto il salotto buono della città: erano stati scoperti subito, fermati, e quasi picchiati, da comuni cittadini. Ne seguì una polemica internazionale, e fu una delle poche volte in cui Falcomatà andò su un tg nazionale senza il suo sorriso. Ne parlarono anche in Perù. Per la Bbc fu una figuraccia mondiale, e io ci penso ogni volta che quel giornalismo viene portato ad esempio.

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    La sede della Bbc

    Stanotte ho sognato uno svolgimento diverso: la troupe arriva, scopre che i Cuori Selvaggi fanno buon rock, il servizio va in onda, un impresario londinese si incuriosisce, li chiama e cambia il loro futuro. Giuseppe, il leader del gruppo è invece rimasto a Messina, fa il giornalista ed è spesso disoccupato. Roberto Calabrò si è trasferito a Colonia per lavorare, dopo un lungo girovagare in Europa, e ha messo su famiglia. Il circolo “Metrò” ha chiuso: dopo alterne vicende, i locali sono finiti a una prestigiosa pizzeria, una delle cinquanta (contate male) della città. Chissà, in quel servizio mancato della Bbc sarebbe entrato anche quell’angolo di via Marina che guarda all’Etna, l’inviata sarebbe stata inquadrata sotto un monumentale Fico Mediterraneo. Sarebbero magari arrivati dei turisti dal Galles, avrebbero incontrato il Bronzo A fiero e il Bronzo B ombroso, questa piccola storia sarebbe andata in un altro modo. Allora non c’era internet, la tv aveva un altro peso.

    L’Etna innevato visto da Reggio Calabria

    Il Grande Occhio ti cambia la vita

    Il Grande Occhio dei media può cambiarti la vita. Ci penso tutte le volte che una testata nazionale e internazionale si avvicina o viene paracadutata da queste parti. E non c’è servizio che non abbia una coda di risentimento e polemica. Una fiction, una Piazza Pulita dedicata alla sanità, l’inviato di Le Monde che va a caccia di latitanti sull’Aspromonte (foto a tre colonne in prima pagina, due settimane fa): sono prodotti che vanno giudicati caso per caso. In generale, il Grande Occhio è piuttosto pigro. Per esempio, i cartelli dei paesi sforacchiati ci sono ancora? Magari bisognerebbe controllare prima di ripubblicare una foto. L’Aspromonte è un covo di latitanti o anche un meraviglioso percorso che si chiama Il sentiero dell’Inglese?

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    Uno scorcio del Sentiero dell’Inglese

    Il Grande Occhio arriva da queste parti quando sente l’odore, o il rumore, della tragedia. Una migliore copertura dei mass media sui disastri degli ospedali calabresi pre-pandemia, per esempio, avrebbe impedito la morte per covid di quella bambina di due anni di Mesoraca? No, forse il giornalismo non ha più questa forza. Eppure un Commissario è saltato proprio per un servizio di una tv. Prima del Covid, la sanità non era un argomento sexy, almeno non quanto la ‘ndrangheta (che ha messo sempre le mani sulla sanità, peraltro). Poi a Piazza Pulita i telespettatori hanno dovuto sentire Corrado Formigli che paragonava la Calabria al Burundi, Selvaggia Lucarelli ha invece tirato fuori la foto dell’indio dell’Amazzonia che portava a spalle il padre a fare il vaccino.

    Gli eterni pregiudizi sulla Calabria

    Evitare giudizi sommari, essere meno sbrigativi nei giudizi: questa sarebbe la strada più semplice. E cercare di conoscere meglio una delle aree più povere d’Europa. Questo descrivere sempre la Calabria come legno storto del paese, isola nella penisola, “la Regione più odiata”, come da ormai vecchio ma non dimenticato sondaggio dell’Espresso, può fare molti danni. Affidereste voi i soldi del Pnrr a una Regione che nella migliore delle ipotesi, non ha saputo spendere i fondi Ue? È il leitmotiv che passa sotto traccia dalle parti di Roma.

    Capisco il pregiudizio, del resto gli stereotipi hanno una base di esperienza e vita vissuta. La mia risposta è sì, a patto che ci sia un monitoraggio serio del governo, della politica locale, dei mezzi di comunicazione. Ma abbassare la quota di finanziamento pubblico, proprio servendosi dei parametri che la fanno povera come popolazione, natalità, prospettiva, significa condannarla al declino, all’abbandono. Vale per tutto il Sud, vale soprattutto per la Calabria. Servono progetti contro la solitudine.

    La voce dei cittadini

    Direte voi, ma che c’entra il Grande Occhio? C’entra tanto, perché orienta l’opinione pubblica e condiziona le scelte. Il Grande Occhio è (o dovrebbe essere) la voce dei cittadini. Prendiamo la storia (e l’immagine) del porto di Gioia Tauro. Nel 90% dei reportage, è descritto come il porto dei sequestri di cocaina. Per il 10% (per lo più sui quotidiani economici), come il primo porto d’Italia per movimento container. Non credo che per Rotterdam o Tangeri (dove i sequestri di droga sono frequenti) le percentuali siano le stesse.

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    Container nel porto di Gioia Tauro

    Il Grande Occhio mette ovunque la famosa “mano della ‘ndrangheta” (formula e titolo abusatissimo) pure dove non c’entra nulla. E spesso in Calabria si confrontano i due estremi: siamo schiavi, il territorio è tutto controllato delle cosche (ma a questo punto, questa presenza così imponente della magistratura e di qualità, quali effetti ha?). E la corrente “garantista”, quella che dice che certe inchieste finiscono sempre con assoluzioni e proscioglimenti. I due estremi si fronteggiano sui social, in un dialogo spesso indecifrabile, la stessa antimafia è divisa. Anche qui, vedo tanta pigrizia. Io mi sento rassicurato dai magistrati che lavorano in Calabria, ma so che possono sbagliare, come sbagliamo tutti nel nostro mestiere. E allo Stato e al governo ne chiederei di più.

    La Calabria dai mille volti

    Di Calabria non ce n’è una sola: Gerhard Rohlfs, che era studioso dei dialetti, riusciva perfino, lui tedesco, a fare l’interprete fra due che arrivavano da versanti diversi della stessa montagna. Ci sono medici mafiosi e medici eroi, in ospedale troverete un reparto modello e accanto uno da cui scappare. Un paese a portata d’occhio sta a un’ora di auto. Nell’Università di Cosenza aprono start-up giapponesi, ma da quelle parti non c’è una strada decente Jonio-Tirreno e la 106 rimane la strada della morte.

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    L’ingresso dell’università dell’antimafia a Limbadi, intitolata alla studentessa Rossella Casini

    Tropea accoglie migliaia di turisti tedeschi, che mai investirebbero mezz’ora per arrivare a Limbadi, che oltre ad essere la terra del clan Mancuso, è un paesino di buona agricoltura e di larghi panorami, e sede di una meravigliosa Università intitolata a Rossella Casini, una ragazza fiorentina vittima di ‘ndrangheta, a cui sono intitolate scuole in tutta Italia. Nessuno ha mai suggerito loro questa estensione del viaggio. Studiare, distinguere, non affidarsi ai giudizi in bianco o nero: se la grande informazione lo fa, i cittadini ringraziano.

     

  • Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Si sono aggiunti tanti sostenitori alla denuncia contro l’attacco alla stampa libera che ieri I Calabresi e numerose altre testate della nostra regione hanno pubblicato. Ma non può bastare. Le adesioni delle associazioni di categoria e di numerosi politici al nostro appello contro l’abuso di querele temerarie non erano scontate come potrebbe sembrare. Neanche quelle dei lettori comuni, in un mondo che dei giornali ha un’opinione sempre più in declino. Fanno piacere, spingono ad andare avanti con ancora più impegno, ma non cancellano il retrogusto amaro del silenzio prolungato su un tema così importante che opprime la Calabria.

    Già, la Calabria, non solo i giornalisti. Perché la posta in gioco non è la tranquillità soggettiva del giornalista sotto la perenne spada di Damocle delle querele temerarie. Quella si può ottenere senza troppi problemi, volendo. Basta non scrivere cose scomode, annacquarle fino a renderle irrilevanti agli occhi del lettore. Qualcuno lo ha già fatto o ha preferito cambiare mestiere. Tanti altri, in tutti i giornali calabresi, continuano a rifiutarsi. Perché? Perché un’informazione irrilevante, prona agli interessi di poteri più o meno occulti, poco diffusa sarebbe il colpo di grazia per la Calabria. Per la sua società civile. Per la voglia dei suoi abitanti di essere parte attiva e pensante di una crescita improcrastinabile che passi dal raddrizzare le tante storture e valorizzare l’immenso patrimonio, umano e non, di questa terra.

    Ed è un problema enorme per tutti quando a vacillare è un diritto costituzionale come la libertà di stampa. Anche di quelli per cui la stampa libera è buona solo quando parla bene di loro o di chi e cosa gli piace, paladini pronti a trasformarsi in persecutori al primo articolo sgradito. Sgradito, si badi, non diffamatorio. Chiunque – i giornalisti sono i primi a saperlo e assumersene le responsabilità – può chiedere giustizia per un articolo sul suo conto se ritiene lo abbia offeso. Ma spetta ai magistrati valutare la fondatezza, la proporzione di certe richieste e lamentele. Se esse siano degne di sfociare in un processo o meno. Se, peggio, risultino invece malcelati tentativi di intimidazione. Spesso certi aspetti, niente affatto marginali, non godono della necessaria attenzione da parte della magistratura.

    È necessario dirlo, qui a sbagliare possono essere in tanti: i giornalisti quando non lavorano come dovrebbero; gli editori quando non tutelano i loro dipendenti; i politici, le associazioni e gli imprenditori quando difendono la libertà di stampa a seconda del momento; i magistrati quando costringono per leggerezza qualcuno a difendersi solo per aver fatto correttamente il proprio lavoro. A perderci, però, sono ancora di più: tutti i cittadini, privati di un fondamento della democrazia come l’informazione libera.
    E una situazione simile, diffusa in tutto il Paese, in Calabria crea ancora più danni. Non possiamo permettere che diventino irreversibili.

  • L’attacco alla libera stampa in Calabria

    L’attacco alla libera stampa in Calabria

    È inutile girarci attorno: in Calabria c’è una strana idea della stampa libera. Viene applaudita quando tocca “nemici”, secondo una classificazione tanto personale quanto sfuggente. Quando, invece, racconta interessi personali o di cordata diventa un nemico da combattere o, meglio ancora, da abbattere. Gli strumenti a disposizione non mancano: diffide, che preludono ad atti di mediazione, che aprono le porte a richieste di risarcimento che sfociano in querele, spesso temerarie.

    Gli esempi sono decine: agli imprenditori che, ritenendosi diffamati da un articolo di cronaca, arrivano a chiedere cifre a sei zeri si aggiungono quelli per i quali la richiesta di risarcimento diventa imponderabile. Politici feriti nell’orgoglio da una frase chiedono la cancellazione di un pezzo il giorno dopo la sua pubblicazione, pena una causa (milionaria anche quella?) che costringerà giornalista, direttore ed editore a girovagare per le aule dei tribunali, forse per anni. L’elenco sarebbe lunghissimo.

    Chiariamo: non si mette in dubbio il diritto di rivolgersi a un giudice qualora ci si ritenga diffamati. Il punto è che il campionario che ogni redazione può esibire mostra richieste tanto bizzarre da far sorgere il dubbio che la vera questione sia un’altra, e cioè cercare di mettere il bavaglio alla stampa. Ci si muove nel terreno che segna la distanza tra la lesione della propria onorabilità e il tentativo di intimidire cronisti, editorialisti, testate. La sensazione è che spesso si tenda a raggiungere il secondo obiettivo. Non ci stracceremo le vesti per questo, continueremo tutti a fare il nostro lavoro. A raccontare fatti, riportare opinioni, evidenziare le incongruenze di una regione in cui il grigio si allarga sempre più. E ci difenderemo dalle richieste di risarcimento e dalle querele temerarie.

    Ciò che non possiamo più fare è restare in silenzio davanti a metodi e numeri che fanno pensare a un attacco vero e proprio alle prerogative della libera stampa. È tempo di rispondere a questa aggressione. Come? Per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «dobbiamo garantire i giornalisti dalle azioni temerarie. I giornalisti sono chiamati in tante cause civili con risarcimenti dei danni stratosferici. E il giornalista così non può svolgere serenamente il proprio lavoro».

    Il magistrato, già a capo della Dda di Reggio, conosce bene la realtà calabrese. Nel suo intervento alla tavola rotonda internazionale organizzata a Siracusa dall’associazione Ossigeno per l’informazione ha proposto una soluzione: «Quali possono essere i modelli di garanzia? Quando viene chiesto il risarcimento se la querela è temeraria, il soggetto che ha citato in giudizio il giornalista se ha torto dovrebbe essere condannato al doppio del risarcimento del danno richiesto». Perché «l’informazione oggi è il cardine della democrazia». E non un accessorio da esibire a seconda della (propria) convenienza.

    Le redazioni di:

    • I Calabresi
    • Corriere della Calabria
    • Il Quotidiano del Sud
    • Zoom 24
    • La Nuova Calabria
    • Catanzaroinforma
    • Calabria7
    • Il Crotonese
    • Arcangelo Badolati – giornalista e scrittore
    • Giuseppe Soluri, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria
    • Andrea Musmeci, segretario del sindacato Giornalisti della Calabria
    • Michele Albanese, presidente dell’Unci Calabria
  • Emanuele Lecce a Masterchef: la Calabria gourmet va in scena su Sky

    Emanuele Lecce a Masterchef: la Calabria gourmet va in scena su Sky

    Non ha ancora una stella Michelin, ma la cucina di Emanuele Lecce è già pronta per conquistare l’Italia nel più celebre show sul cibo della tv italiana: Masterchef. Un traguardo che va ad aggiungersi a quello, meno popolare forse ma certo più prestigioso, raggiunto un anno e mezzo fa, quando aveva ancora soltanto 27 anni. Emanuele Lecce, infatti, nell’autunno del 2020 ha ricevuto il riconoscimento di “Miglior chef Under 30” del Paese dall’autorevole Gambero Rosso.

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    Il premio del 2020 come Miglior chef Under 30 italiano

    Emanuele Lecce a Masterchef

    Ad annunciare la sua presenza nella puntata di Masterchef in onda giovedì 17 alle 21.15 su Sky è stato lo stesso cuoco dalla sua bacheca di Facebook. Ad ospitarlo in studio, come sempre, i padroni di casa Antonino Cannavacciuolo, Bruno Barbieri e Giorgio Locatelli. I concorrenti ancora in gara dovranno riproporre un piatto di Emanuele Lecce? Probabile, ma è difficile sapere quale sia. Sul punto il giovane chef non anticipa nulla.

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    Il post con cui Emanuele Lecce ha annunciato la sua partecipazione come ospite a Masterechef

    Pietro ed Emanuele Lecce: di padre in figlio

    Emanuele Lecce è figlio d’arte, suo padre Pietro è un pioniere dell’alta ristorazione in Calabria. «Mi ha insegnato tutto, continua a seguirmi dietro le quinte e per me resta un punto fermo, una guida importante», raccontava in occasione del premio ricevuto nel 2020. Da quando ha preso le redini della cucina nel ristorante di famiglia – La Tavernetta a Camigliatello Silano, poche decine di minuti d’auto da Cosenza – però ha aggiunto ai piatti del papà l’esperienza maturata tra Piemonte e Trentino. Un mix di tradizione e innovazione che ha conquistato anche la ribalta di Masterchef.

    La Sila a Masterchef

    Nelle ricette di Emanuele Lecce a farla da padrone sono gli ingredienti del territorio, che le sue sapienti mani riescono a trasformare in un viaggio inatteso tra i sapori tradizionali. Una cucina di montagna a cui la tecnica tra i fornelli aggiunge originalità ed eleganza. Il tutto utilizzando solo materie prime tanto semplici quanto d’eccellenza. E se il premio del Gambero Rosso era stata per lui stesso «una sorpresa», per chi ha assaggiato i suoi piatti la sua presenza a Masterchef stasera non lo sarà di certo.

  • Checco Zalone, Sanremo e la Calabria degli stereotipi

    Checco Zalone, Sanremo e la Calabria degli stereotipi

    Checco Zalone lo sa bene: se si parla di Calabria al grande pubblico – tanto più a Sanremo – meglio evitare la solita solfa a base di ‘nduja/soppressata, accenti un po’ sbilenchi, luoghi comuni e optare per le lodi sperticate. Per quella c’è già (e pagato pure meglio di lui) Muccino. E poi chi non lo fa dovrà scontrarsi con l’ira funesta di quella parte di regione che sistematicamente si inviperisce – non a tutti torti molto spesso – per la narrazione a tinte cupe, quando non grottesca, di una terra che alle tante ombre alterna anche luci di accecante splendore. Pure stavolta infatti, dopo l’apparizione del comico pugliese con Amadeus sul palco dell’Ariston, è scattato l’immancabile coro d’indignazione sui social. Meno unanime del solito, ma pur sempre ben nutrito.

    La Calabria di Checco Zalone

    La caricaturale Calabria di Checco Zalone, tuttavia, sembra né più né meno lo scenario perfetto per un breve show in forma di Cenerentola piccante che mira proprio a demolire gli stereotipi. Sketch non epocale, per carità, ma fondato su un meccanismo che è un grande classico della comicità, che dagli stereotipi ha sempre tirato fuori materiale a bizzeffe: si prendono, si gonfiano all’inverosimile e poi si fanno scoppiare. Zalone a Sanremo lo ha riproposto usando quelli sulla regione stereotipata per eccellenza, la Calabria, per demolirne altri, quelli sulla sessualità, e i pregiudizi a riguardo. Quale ambientazione migliore per provare a farlo?

    De Andrè a Sanremo

    Quello che ha raccontato Checco Zalone col consueto stile prosaico riecheggia a suo modo La Città vecchia di De Andrè. A Sanremo ieri, come nei più poetici ma altrettanto beffardi versi della canzone di Faber, c’era il professore che cerca disperatamente quella che disprezza di giorno, ma che di notte stabilisce il prezzo alle sue voglie. Con un dettaglio anatomico in più, per allargare il discorso all’intera comunità LBGTQ+. Una presa per i fondelli in piena regola dell’omofobia, col più stereotipato – melius abundare quam deficere – dei luoghi comuni: l’ipocrita che schifa in pubblico chi desidera di nascosto.

    Nessuno è perfetto

    La Calabria, insomma, più che il bersaglio di Checco Zalone sembra solo l’olio per provare a far girare al meglio gli ingranaggi del meccanismo del comico. Tentativo riuscito, fallito, felice o meno, forse poco importa. In fondo basterebbe ricordare tutti – anche (se non specie) da queste parti – che coi loro pregi e difetti i calabresi non sono a priori diavoli o santi, tantomeno perfetti. Più semplicemente (come chiunque), per restare a De Andrè, «se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo». Magari un po’ più permalosi della media, però ogni tanto ci possono ridere su anche loro. Chissà che non serva a demolire qualche altro stereotipo anche quello.