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  • Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

    Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

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    Radio e cinema avevano occupato un posto importante nella vita dei calabresi. Ma, verso la fine degli anni ’50, la televisione sconvolse il loro modo di vivere e pensare. I primi apparecchi furono acquistati da famiglie benestanti e, per attrarre i clienti, da proprietari di botteghe e caffetterie.

    Quel sogno chiamato televisione

    I televisori erano un sogno e molti ricordano che alcuni si fermavano davanti alle vetrine che li esponevano per guardare il segnale video. La gente amava la televisione e preferiva i telequiz come Lascia o raddoppia e Il Musichiere agli altri programmi, perché proponevano un’atmosfera festiva che, seppur fittizia, favoriva l’identificazione tra spettatore e giocatore.

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    Mario Riva e Totò in una puntata de “Il Musichiere”

    I telespettatori, a differenza di quanto accadeva con radio e cinema, avevano la sensazione di entrare nel piccolo schermo e dialogare alla pari con i personaggi. I concorrenti del “popolo” che vincevano grosse somme erano, inoltre, un esempio di riscatto sociale. Già: rispondendo ad alcune domande potevano cambiare le proprie esistenze.

    La prima tv star calabrese

    Nel 1959 la maestra cosentina Lya Celebre partecipo a Il Musichiere. In città vi fu un grande entusiasmo: la notizia si diffuse in un batter d’occhio da via Piave alle Paparelle e da Portapiana a Panebianco.
    La Celebre non vinse ma diventò per qualche tempo una celebrità.
    In una lettera a un giornale locale dichiarò di aver vissuto un’esperienza straordinaria: aveva sorvolato la capitale a bordo di un moderno aereo, ricevuto dalle mani di Mario Riva i due gettoni e il musichiere e vissuto per alcuni giorni in quel mondo meraviglioso di cameraman, luci, giraffe e telecamere.

    La magia dello schermo

    La Tv era un prodotto della modernità e della tecnologia più avanzata ma riproponeva un sistema mitico, simbolico e rituale già in parte conosciuto.
    Le immagini televisive, osservava Jean Cazeneuve, in virtù del loro potere di suggestione e fascinazione, penetrano nella vita degli uomini con la stessa semplicità di alcuni apparati magico-rituali presenti nelle comunità.
    Il televisore stesso, in fondo, era un apparecchio magico. Nessuno riusciva a spiegare in maniera convincente perché sul vetro di quella scatola di legno che conteneva marchingegni collegati con un filo ad un bizzarro albero metallico, si potessero vedere luoghi e persone distanti anche migliaia di chilometri.

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    Visione di gruppo della tv al bar negli anni ’50

    Varie persone mi hanno raccontato che c’era chi, vedendo per la prima volta le immagini, andava dietro all’apparecchio per adocchiare se ci fosse nascosto qualcuno, mentre altri rispondevano al saluto dell’annunciatrice quando presentava i programmi della serata.

    Pregiudizi medici: la televisione fa male

    Negli anni in cui la televisione si affermava, non si percepivano i cambiamenti che essa avrebbe provocato. Tuttavia, c’era già chi mostrava una certa contrarietà.
    Qualcuno sosteneva che gli apparecchi sprigionassero “raggi radioattivi” e “onde sonore” pericolosi per l’udito e la vista e, non a caso, i rivenditori consigliavano di guardare lo schermo a una certa distanza e di porvi sopra una fonte luminosa.
    Altri addirittura attribuivano alla Tv la responsabilità di tante bronchiti, specialmente dei bambini che guardavano i programmi seduti sul pavimento e in locali poco riscaldati.

    Pregiudizi di sinistra: la tv è democristiana

    L’ostilità nei confronti della televisione era comunque dettata soprattutto da ragioni politiche. Molti militanti della sinistra calabrese consideravano la Rai al servizio dei partiti di governo e della Democrazia Cristiana. A parte alcuni programmi di carattere culturale e d’informazione, il resto aveva lo scopo di addormentare le coscienze e distrarre il pubblico dai problemi della quotidianità.

    Le gemelle Kessler

    Pregiudizi cattolici: la tv è libertina

    Anche numerosi cattolici osteggiarono la televisione perché erano preoccupati che il piccolo schermo potesse veicolare una cultura consumistica e libertina.
    Alcuni parroci si fecero promotori di proteste contro il carattere licenzioso di trasmissioni come quella in cui le gemelle Kessler con le gambe scoperte ballavano il Dadaumpa.

    La giornalista cosentina: tv scema e conservatrice

    Molti, invece, lamentavano che la Tv proponeva ideali e valori conservatori. Nel 1957 la Baronessa scalza, curatrice cosentina della rubrica Schermi e teleschermi, trovava ridicolo il balletto La belle époque, trasmesso in televisione.

    Cino Tortorella nei panni del Mago Zurlì

    Le danzatrici indossavano gonne e mutandoni lunghi e facevano inchini e mossette in modo da apparire più delle collegiali che ballerine del celebre locale parigino.
    L’acuta e ironica giornalista, inoltre, criticava alcuni programmi televisivi dedicati ai bambini come C’era una volta, in cui Laura Solari narrava noiosissime e banali favolette e quelli in cui l’attore Cino Tortorella, pagliaccescamente travestito da mago, presentava un anacronistico programma di indovinelli a premio.

    Anni’60: la televisione conquista le masse

    Nei primi anni Sessanta, ogni perplessità nei confronti della televisione era svanita e anche le persone più ostili o incredule ne erano conquistate.
    Con la Tv le famiglie non trascorrevano più le serate in casa ma uscivano per riunirsi nei bar, parrocchie, sezioni dei partiti e nelle case di chi possedeva un apparecchio per assistere a telequiz, commedie e programmi d’intrattenimento.
    Guardare la televisione era un’occasione di svago e di socializzazione anche al di là del contenuto delle trasmissioni.
    La semplicità e l’immediatezza delle immagini televisive sembravano inoltre conformarsi alla mentalità di gran parte della popolazione. A differenza della radio e del cinema, la televisione proponeva un universo dove la realtà si convertiva in magia e la magia in realtà.

    La tv entra nelle case 

    Come osserva Cazeneuve, i telespettatori, in fondo, percepivano tale distorsione del reale, ma, simili ai personaggi del mito della caverna di Platone, finivano per amare quel teatrino d’ombre, perché in tal modo evitavano la dura quotidianità, filtrandola e convertendola in spettacolo.

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    Una televisione “domestica” degli anni ’50

    Col passare del tempo il televisore entrò in tutte le case. Possedere un apparecchio televisivo costituiva motivo di orgoglio e prestigio sociale. A chi lo acquistava, amici e parenti portavano la “stimanza” in segno di augurio: di solito una bottiglia di liquore, un pacco di zucchero o caffè.
    Il televisore era considerato parte integrante dell’arredamento ed era posizionato nel luogo più bello e spazioso. Le donne, addirittura, confezionavano un apposito «vestito» che serviva per proteggerlo dalla polvere.
    Con il diffondersi degli apparecchi televisivi scomparvero i gruppi d’ascolto nei locali pubblici e nelle sedi politiche che avevano caratterizzato gli esordi. Ogni famiglia aveva il proprio apparecchio e i programmi Rai sempre più dettavano i ritmi della giornata e del tempo libero.

    A ciascuno il suo programma

    Le donne seguivano assiduamente gli sceneggiati, eredi diretti dei fotoromanzi, ancora diffusi e apprezzati dal pubblico femminile.
    Gli anziani, invece, amavano soprattutto le trasmissioni come di padre Mariano, del professore Cutolo e del maestro Alberto Manzi.
    I bambini, infine, vedevano la Tv dei ragazzi e soprattutto telefilm come Rin Tin Tin, il cane lupo simpatico e intelligente amico di Rusty, un orfanello accolto dal Settimo cavalleggeri di stanza a Fort Apache.

    Ma Carosello conquista tutti

    La trasmissione che conquistava tutte le generazioni era Carosello.
    Preceduti dal suono di trombe e mandolini, gli sketch di Carosello, della durata di un paio di minuti, erano piccoli film girati da noti registi e interpretati da attori famosi. Quelle celebri scenette in bianco e nero aiutavano a dimenticare gli anni della guerra e condensavano sogni e speranze della povera gente.

    Mina fa la pubblicità a Carosello

    Spettacolo nello spettacolo, televisione nella televisione, Carosello era un palcoscenico di divi che diventavano persone tra le tante e la cui fama si stemperava nella quotidianità.
    I ricordi di coloro che ho intervistato erano molto vaghi sui programmi televisivi. Ma quando si parlava di Carosello, leggevo sui volti contentezza: tutti ricordavano con sorprendente precisione prodotti pubblicizzati, musiche, attori e battute.

    Padrona televisione

    La televisione cambiava i modi di vita e le abitudini dei calabresi molto più di quanto non avessero fatto radio e cinema.
    Appena nata, pochi credevano nelle sue potenzialità, ma ben presto fu evidente che nessuno dei media esistenti aveva le sue capacità.
    Fin dalle prime trasmissioni, appariva chiaro che la Tv era un mezzo molto forte e pervasivo: non strumento in mano agli uomini, ma uomini ridotti a suo strumento.
    Gli spettatori diventavano semplici clienti che valevano non per quello che erano ma per quello che consumavano. La televisione delineava una visione del mondo in cui la merce avrebbe assunto un valore assoluto e gli oggetti pubblicizzati avrebbero dominato i desideri e l’immaginario.

  • Il giornalismo libero è un diritto, non rappresenta un lusso

    Il giornalismo libero è un diritto, non rappresenta un lusso

    Caro Franco, ho letto il tuo editoriale. Condivido in toto le posizioni espresse, che vanno ben oltre l’orizzonte dell’amata Calabria, perché le tue parole risuonano come una sorta di «SVEGLIATEVI!» Una squilla più che opportuna in tempi di conformismo pavido e becero.
    Il tema della partecipazione è cruciale per la libertà di opinione. Senza dibattito vero, l’opinione affoga tra le polemiche, impietrita dalle paure, rintronata da proclami e bufale. L’opinione cessa così di essere pubblica. Diventa privata, timida, distratta, subdola e spenta. Un’opinione libera e democratica non può essere affidata ai tecnici della manipolazione, agli specialisti delle mezze verità, ai sorveglianti delle linee editoriali.

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    La copertina del libro “Propaganda” di Edward Bernays

    E allora sì, propaganda

    La tua citazione di Solodin mi porta alla mente un libro di Edward Bernays dal titolo emblematico Propaganda, pubblicato a New York nel 1929. Bernays che di mestiere faceva il pubblicitario (anzi fu uno dei massimi teorici delle tecniche di advertising) secondo una classifica di Life magazine fu tra le 100 più influenti personalità del ‘900.
    Nel suo libro egli scrive testualmente: «La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle opinioni delle masse è un elemento importante in una società democratica. Coloro che manipolano questo meccanismo nascosto della società, costituiscono un governo invisibile che ha il vero potere di governare. Veniamo governati, le nostre menti vengono modellate, i nostri gusti influenzati, le nostre idee suggerite per la maggior parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare. Questa è la conseguenza logica del modo in cui è organizzata la nostra società democratica»

    Bernays, che era nipote di Freud, formulò le sue teorie combinando L’interpretazione dei sogni dello zio Sigmund con La psicologia delle masse di Gustave Le Bon, un libro che Mussolini conosceva a menadito. Le Bon per spiegare i comportamenti delle masse utilizzava i concetti di “contagio e suggestione” per far emergere comportamenti sopiti nell’inconscio attraverso le leve dell’emotività e dell’istintualità.

    L’ossigeno delle democrazie

    Il tuo editoriale dunque non solo è eticamente ineccepibile, ma anche attualissimo perché punta il dito su un elemento vitale per le democrazie, direi l’ossigeno della vita democratica: la verità, la pura e semplice verità dei fatti, senza secondi fini, senza scopi occulti, senza consorterie che ne valutino l’opportunità.
    Qui mi fermo perché pensando alla informazione main stream dei nostri quotidiani, c’è da vergognarsi.

    Giuliano Corti

  • Versace punta sulla Calabria: il nuovo spot a Capo Vaticano

    Versace punta sulla Calabria: il nuovo spot a Capo Vaticano

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    Versace torna a casa e adagia la sua nuova collezione sugli scogli di Capo Vaticano, baciati dalle onde e dal sole di questo caldissimo inizio d’estate. Il 15 luglio saranno 25 anni dalla morte del fondatore, l’indimenticato Gianni Versace. Ed è proprio nella sua Calabria che la maison di moda torna per la nuova campagna pubblicitaria La Vacanza lanciata oggi sui canali wordwide.
    La location scelta è la spiaggia di Grotticelle di Ricadi, una meravigliosa insenatura di sabbia bianca e acqua color cobalto circondata dalle scogliere e dominata dal promontorio di Capo Vaticano.

    Versace sceglie la Costa degli Dei

    Foulard, costumi, tacchi vertiginosi, stampe colorate che si abbinano a nuove silhouette sartoriali: gli iconici codici della casa di moda sono incastonati nella bellezza selvaggia della Costa degli Dei ripresa in pochi essenziali dettagli. In sottofondo si sente il rumore del vento e quello della risacca. “Mesmerize, Tantalize, Versace” è uno dei refrain della campagna pubblicitaria la cui testimonial è la modella 21enne Iris Law, figlia dell’attore Jude Law. È lei il volto scelto da Versace per incarnare, negli scatti di Camille Summersvalli, sensualità e passione tra le acque cristalline di Capo Vaticano.

    https://www.facebook.com/watch/?v=551034449949713&extid=NS-UNK-UNK-UNK-IOS_GK0T-GK1C&ref=sharing

    La Calabria di Versace  contro i cliché di Muccino

    Quasi un remake di quanto già fecero Dolce&Gabbana, che diedero una visibilità internazionale alla loro Sicilia. Sulla stessa scia, la scelta di campo di Versace potrebbe imporre l’immaginario calabrese all’attenzione di una smisurata platea. Dopo la sponsorizzazione di Jovanotti che nelle scorse settimane ha girato il suo nuovo video della canzone Alla salute (diretto dal regista calabrese Giacomo Triglia) tra Scilla e Gerace, la Calabria pare vivre il suo momento d’oro. E riscattarsi da campagne pubblicitarie a pagamento, come lo spot di Gabriele Muccino commissionato dalla Regione Calabria e costato un milione e mezzo. In cui, più che promuovere il territorio, venivano riesumati stereotipi e cliché.

     

     

     

     

  • Jovanotti, la Calabria ha il suo nuovo eroe del turismo

    Jovanotti, la Calabria ha il suo nuovo eroe del turismo

    E va bene. Dopo il bruciante flop di Muccino e Bova, ci voleva una ventata di novità e ottimismo, la freschezza di facce allegre e un bel ritmo pop. Adesso è il turno di Jovanotti. E anche da lui ci si aspetta l’exploit. Allora i fatti: Jovanotti dopo il successo superpopolare dei recenti happening dello Jova Beach Party la nuova Film Commission della Calabria – spericolatamente affidata non ad un esperto di cinema, ma al couturier Anton Giulio Grande – debutta con uno spottone che dovrebbe fare marketing territoriale per la collezione Calabria Spring-Summer 2022.

    Jovanotti e la Calabria meravigliosa

    Gli ingredienti, ça va sans dire, sono i soliti: bellezze da cartolina, di cui la Calabria, nonostante lo scempio ubiquitario che è sempre meglio nascondere, non è certo avara, e poi il profluvio di elogi sperticati da turista per caso, che Jovanotti dai social ha abilmente provveduto a distribuire, appunto, a casaccio: dichiarazioni di costernante banalità tipo «La Calabria è una terra meravigliosa», «Io sono un grande fan della Calabria», o ancora «Amo questo posto (Scilla, ndr)» (pur avendolo visto solo per la prima volta). In una diretta social, affacciandosi dal balcone della sua stanza sul porto di Scilla, dice: «Questo posto lascia senza fiato, è bellissimo».

    Svela il cantante toscano che sosterà ancora in Calabria, «in un altro paese meraviglioso», per continuare le riprese del video. «La Calabria è una terra bellissima – racconta – venendo in macchina dall’aeroporto di Lamezia Terme, ho visto un paesaggio bellissimo». E giù luoghi comuni à gogo: «Voglio far vedere a chi mi segue che meraviglia è questo posto, lascia senza fiato»; «Mamma mia ma è fantastico qua! Non c’ero mai stato!».

    Scilla, Gerace e i borghi

    E, ancora, una sequela di post con immagini patinate e molto instagrammabili da diverse “località iconiche della nostra amata regione”. Mentre, sottolineano i social in tripudio, “cresce, intanto, la curiosità per vederlo online”. Un attimo dopo, come un sol uomo, anche le testate televisive, insieme ai giornali di carta e i media digitali diffusi in Calabria, rimarcano “la scoperta della grande bellezza calabrese” testé fatta della famosa pop star: “Jovanotti ha raccontato attraverso i suoi profili social Scilla e Gerace, le coste e la granita, il mare e i borghi(borghi, non paesi).

    Lui stesso spiega perché ha scelto la Calabria: «Il video aveva bisogno di un’ambientazione festosa perché la canzone è un brindisi e un augurio, sono in Calabria a girare il video di Alla Salute, una canzone che è un augurio e una festa. Stamattina abbiamo girato a Scilla #chianalea un posto bellissimo, un gioiello. L’affetto di tutti mi sorprende sempre, grazie #scilla. Ora ci siamo spostati a Gerace per altre scene. Luoghi incredibilmente belli. Sono un fan della Calabria, verrà un bel video, il regista è Giacomo Triglia, calabrese (l’ho “rubato” a Dario Brunori, altro calabrese doc). Ringrazio moltissimo tutti qui, per il supporto che ci state dando e per l’accoglienza generosa e piena di affetto. Grazie! avanti tutta!».

    La Calabria Film Commission e Jovanotti

    Dopo un po’ gli fa eco la suadente dichiarazione resa in occasione dalla conferenza stampa della Calabria Film Commission del suo nuovo presidente fresco di nomina, lo stilista di moda Grande: «Dove sorge il bello c’è la Calabria, la musica, il cinema, così il videoclip di Jovanotti è il primo importante passo del nostro progetto e del nostro percorso. Scegliamo la sua musica per promuovere le nostre location, così da creare interesse e veicolare immagini cult dei nostri spazi migliori».

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    Orsomarso, Jovanotti e Grande durante la conferenza stampa

    Dal couturier delle dive non ci si poteva certo aspettare La corazzata Potëmkin. Così debutta ufficialmente l’idea che i paesaggi “animati” di questa regione possano funzionare da spazi di posa («i nostri spazi migliori»). E fungere così da fondali ideali per la messa in scena di una eterna e festosa rappresentazione folklorica della vita quotidiana dei suoi abitanti, astoricamente chiamati a vestire i panni di figuranti di una specie di carnevale dei buoni sentimenti in cui tutto è felice, ospitale, autentico, in cui è facile e facilitato riprodurre “il bello, la musica, il cinema, i videoclip”, e ogni zuccherosa riduzione turistica della realtà, appunto ridotta a spazio, a cosa esteticamente fungibile per scopi convenevoli. Più chiaro di così.

    Uno spot per la Regione

    Personalmente non ho proprio niente contro il mondo dello spettacolo, beninteso. Cinema, musica, pubblicità, marketing territoriale, turismo possono essere tutti strumenti utili, nella giusta misura. Quello che trovo invece abnorme è l’enfasi falsificatrice, l’abborracciata visione prospettica della realtà, la deformazione prognostica del futuro in cui tutto deve fare spettacolo e trasformarsi in finzione, attrattiva da villaggio turistico en plein air, per poter essere considerata “utile”. Una regione-trovarobato, fondale, proscenio, con paesi e comunità locali trasformate in “borghi” attrezzati come teatrini di posa di cartapesta, paesaggi buoni per essere trasformati in location pittoresche e a buon mercato per video clip, fiction improbabili, spettacoli e ricostruzioni di genere.

    Non è irrilevante che l’operazione d’immagine che ha per protagonista Jovanotti abbia ricevuto, anche in questo caso, l’approvazione preventiva dei vertici regionali. E che il video della canzone di Jovanotti sia stato sponsorizzato e finanziato anche con il denaro pubblico dei cittadini calabresi. Non ha mancato di dichiararlo lo stesso presidente Occhiuto: «Ringraziamo Jovanotti per il suo affetto, e gli auguriamo il meglio per questo suo ultimo lavoro. Da presidente della Regione, ringrazio anche la Calabria Film Commission e il suo presidente Grande che hanno seguito passo passo l’evento, sostenendo finanziariamente l’organizzazione di questa due giorni. Jovanotti in Calabria è uno straordinario spot per la nostra regione».

    Eroi e turismo

    Non so voi, ma io quando sento echeggiare sinistramente parole chiave del lessico reclamistico-creativo come “location”, “evento”, “spot” e cose come “immagini cult”, se non fosse che mi ripugnano le armi, metterei volentieri mano alla fondina. Iscrivetemi pure d’ufficio al partito della deprecata categoria (ormai usata come una clava contro ogni garbata critica al conformismo neofolk e agli eccessi imperanti del neoidentitarismo sudista) degli scoraggiatori militanti. Ma poi di cosa sareste incoraggiatori voi? Non milito da nessuna parte, e non pratico il benaltrismo, cerco solo di capire. E a me di Jovanotti, con tutto il rispetto, frega comunque molto poco, in termini relativi e assoluti.

    Piuttosto, quello che sempre mi stupisce di questo genere di trionfalistiche quanto deludenti campagne d’immagine basate su facce televisive conosciute, testimonial d’occasione, vipperia modaiola, artistoidi o personaggi veri o presunti, tutti lautamente compensati per portarsi a rimorchio l’immagine di una regione intera, è proprio l’investitura eroica, il ricorrente mito di fondazione che ogni volta si rinnova come un rito. Uno sproposito. Di chiunque si tratti, sono tutti sempre convocati con la sciamanica aspettativa che forniscano loro il sesamo giusto a riscattare l’immagine appannata della regione (appannata sì, ma da chi?). E tutti sono a turno vanaglioriosamente investiti della missione salvifica di “far decollare il turismo”.

    Il problema della Calabria non sono Jovanotti e Gregoraci

    Già, il Turismo. In una regione con l’economia perennemente sotto i tacchi, una società paralizzata dalle clientele e dal peso dei poteri criminali, l’ossessiva remissione alla monocultura turistica è l’autentico totem di tutti i clan politici e amministrativi, di ogni risma e colore, che in assenza di qualsiasi idea di futuro, in nome della palingenesi turistica della Calabria si avvicendano alla guida di questa regione sempre in cerca di autore. Sono loro il problema, i decisori politici di questa regione a corto di idee, non gli allegri Jovanotti e le allegre Gregoraci, chiamati a riverginare cosmeticamente l’immagine calabra per incrementare miracolosamente i flussi dei vacanzieri. I testimonial, i vip che saltano fuori a turno dal goffo cilindro creativo delle ricorrenze calabre, tutti più o meno incongruamente prescelti per rivestire il ruolo in commedia dei facilitatori dell’irrilevante marketing territorial-turistico calabro, passano e passeranno. Le immagini scorrono, cambiano i figuranti.

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    Elisabetta Gregoraci e Roberto Occhiuto alla Bit di Milano

    La Calabria vera invece somiglia ad una giostra a perdere, che tra riflussi, abbandoni e ripartenze, appare ormai come un edificio più fragile e malfermo di un castello di carte. Le maggioranze silenziose, i gruppi d’affari che mettono le mani sui soldi veri, e che dispongono delle risorse e del futuro dei calabresi, no. Loro restano saldi e granitici, non cambiano se non cambiamo noi. Mentre capita sempre più spesso che tutto quello che distrae e fa scena viene sempre preso così enormemente sul serio. Persino una canzoncina di Jovanotti, che gira un videoclip ruffiano dalle parti di Scilla.

  • Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
    La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Mancini lascia la segreteria del Psi

    Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
    Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.

    Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
    Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
    Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.

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    Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini

    Il Candido: storia di un giornale “contro”

    Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.

    Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.

    Giacomo Mancini: il superministro calabrese

    Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
    I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.

    Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.

    Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista

    Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
    Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
    Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.

    Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behind italiana.
    Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.

    Il fascista e i servizi segreti

    Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
    Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.

    Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».

    Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.

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    Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido

    La campagna stampa di Pisanò contro Mancini

    L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
    L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.

    Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
    La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.

    Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista

    Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
    Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
    Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».

    Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
    Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».

    I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.

    In galera

    Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
    Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).

    Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
    La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
    Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.

    Pisanò anticipa Tangentopoli

    Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
    Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
    L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
    Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.

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    Eugenio Cefis

    Gli utilizzatori

    In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
    Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.

    Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.

    Compagni coltelli

    Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
    Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.

    Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candido andò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
    Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    Fine della storia

    L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
    L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…

  • MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

    MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

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    Alzi la mano chi non conosce la storia di Maria Serraino. Mamma Eroina è stata una di quelle donne che hanno sbaragliato il mito della donna di ‘ndrangheta che può solo essere vittima. Maria Serraino era carnefice, se vogliamo dirla tutta. Ai vertici di una delle famiglie di ‘ndrangheta più influenti del reggino, nella sua propaggine milanese, La Signora ha dominato il mercato dello spaccio di eroina e di hashish in Lombardia negli anni ’80.

    Come spesso accade per le donne al potere, la sua è una figura ambigua, ambivalente. Ricordata come “madre amorevole” eppure condannata per aver guidato “un’organizzazione criminale che ricorreva all’eliminazione fisica dei concorrenti”, Mamma Eroina, originaria di Cardeto (RC), è stata donna di vertice nella ‘ndrangheta in un periodo di enorme cambiamento per l’organizzazione criminale, in Calabria, in Italia e nel mondo. È morta nel 2017, agli arresti domiciliari.

    La fiction sulla nipote di “Mamma Eroina”

    Chi non dovesse conoscerla, Maria Serraino, può vederla in versione fiction su Amazon Prime, nella nuova serie Bang Bang Baby. Interpretata da Dora Romano, il personaggio di Donna Lina è Mamma Eroina, o meglio, Nonna Eroina in questo caso, come tra l’altro è conosciuta in inglese (Granny Heroin). La serie TV, infatti, non è inspirata alla storia di Maria Serraino, quanto a quella di Marisa Merico, sua nipote.

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    Maria Serraino in un singolare ritratto di famiglia

    Figlia di Emilio Di Giovine, primo di 12 figli di Rosario Di Giovine e Maria Serraino, Marisa non è una rampolla di ‘ndrangheta come tutte le altre. A renderla diversa è sua madre, Patricia Riley, inglese, che incontrò e sposò Emilio a Milano e che, quando la situazione familiare diventò insostenibile (cioè spararono a Emilio, anche se non fatalmente, in un ristorante milanese) decise di andarsene, con Marisa, a Blackpool, in Inghilterra.

    La storia di Marisa non è nuova, è stata raccontata in un documentario del 2015, Lady ‘Ndrangheta. E soprattutto l’ha raccontata lei stessa nel 2010 nella sua autobiografia Mafia Princess, pubblicata da Harper Collins, come si legge sul suo sito web. Giornali, riviste, true-crime podcast, e interviste hanno raccontato del rapporto di Marisa con la famiglia milanese/calabrese, con la nonna Maria che – nonostante la vita a Blackpool – Marisa continuò a vedere nelle estati della sua adolescenza.

    Marisa Merico e la scalata al clan

    Si è raccontato del rapporto di Marisa con suo padre, della ‘scalata’ nei primi anni 90 ai vertici della famiglia Serraino di una Marisa appena ventenne e sposata con Bruno Merico, fedelissimo della nonna e del padre, prima come ‘banchiera’ della famiglia e poi come emissaria della famiglia anche all’estero. In seguito al pentimento di sua zia Rita Di Giovine, nel 1993, che ha inflitto un colpo quasi mortale a tutto il clan, Marisa scappa in Inghilterra e nel 1994 viene arrestata con l’accusa di riciclaggio (1.9 milioni di sterline in un conto in Svizzera usati per l’acquisto di un’abitazione). Marisa sconterà tre anni a Durham in carcere tra altre donne ‘pericolose’, tenute a regime carcerario particolarmente duro.

    La piccola Marisa Merico in braccio a suo padre Emilio Di Giovine

    La seconda vita in Inghilterra

    La seconda vita di Marisa inizia qui. Uscita dal carcere, completerà una laurea triennale in criminologia all’università di Lancaster, è intanto diventata madre due volte.

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    Marisa Merico il giorno della sua laurea

    In Italy vs Merico, il tribunale amministrativo inglese, che nel 2011 decise di non concedere l’estradizione di Marisa all’Italia per il completamento della sua sentenza di condanna, non menziona mai né la parola mafia, né la parola ‘ndrangheta. E conclude che Marisa è «nonostante il suo passato criminale, una madre responsabile e una figlia devota». Marisa ha svoltato. Oggi utilizza la sua particolare esperienza di vita per spiegare cosa, per lei, sono crimine organizzato ed esperienza carceraria. E come si passa da essere principessa di ‘ndrangheta, il suo brand, a donna ‘normale’, laureata in criminologia, quasi attivista, a Blackpool.

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    Maria Merico con sua nonna Maria Serraino

    Nonna Maria e mamma Patricia

    Ora che Bang Bang Baby è disponibile su Amazon Prime, e la storia di Marisa è nuovamente alla ribalta, è forse necessario provare a riallineare qualche elemento di questa storia. C’è infatti un lato dimenticato nella narrazione che se ne fa. E cioè la dimensione inglese dell’identità di Marisa, e di sua madre Pat.

    La prima cosa che incuriosisce è come i giornali inglesi raccontano di questa storia. E soprattutto quali giornali inglesi. Si tratta per lo più di tabloid, giornali che cercano il sensazionalismo con molte foto e con titoli risonanti, dal The Sun al Mirror al Daily Star. La storia è considerata una storia di costume, chiaramente schiacciata sulla dimensione criminale mafiosa. Che però non è né compresa, né tantomeno raccontata criticamente.

    Tanta Italia, poca Inghilterra

    Il Daily Mail parla di una “Milan ‘Ndrangheta Gang”; il The Sun compara la nonna Maria Serraino al Padrino. Si legge chiaramente in queste storie che a fare notizia è l’influenza che la mafia ha avuto su questa ragazza prima-donna oggi di Blackpool. Non si chiede mai il contrario, e cioè l’influenza che essere cresciuta a Blackpool – una tipica cittadina balneare inglese spesso raccontata (in modo eccessivo e stereotipato) come uno dei posti peggiori, e uno dei più violenti, in cui vivere in Inghilterra – possa avere avuto su una Marisa ragazzina che andava e veniva da Milano e dalla ‘ndrangheta.

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    Il lungomare di Blackpool

    Cos’è che non “tornava”, cos’è che appariva strano o diverso o anche uguale e familiare della calabresità milanese della ‘ndrangheta di famiglia a questa donna che per devozione al padre e alla nonna ha scelto vie criminali? E, ovviamente, non si chiede poi mai nulla su Pat, la donna inglese che si era trovata a cercare di capire cosa volesse dire entrare nella famiglia Serraino a Milano con una figlia destinata a far parte della ‘ndrangheta. Sicuramente avrebbe avuto molto da dire Pat, prima della sua morte nel 2012.

    Tabloid e pregiudizi

    Per i tabloid inglesi la storia di Marisa Merico, suo padre Emilio, sua nonna Maria e tutti gli altri personaggi, è interessante perché permette di consolidare sia i pregiudizi che si hanno sulla mafia – esterna – diversa – ‘fenomeno-che-non-ci-riguarda’ – seppur condita di un ingrediente in più, Blackpool, sia i pregiudizi sulle donne che commettono crimini e finiscono in carcere per questo.

    Per dirla diversamente, l’esperienza di Marisa come esperienza di donna, e madre, di Blackpool, che uscita dal carcere ha studiato e, sicuramente non senza fatica, ha provato a tenere insieme tante diverse identità, passate e presenti, e (tramite i suoi figli) anche future, passa in secondo piano rispetto alla sua esperienza come donna di ‘ndrangheta, come principessa di mafia, come detenuta speciale.

    Le donne appiattite

    E non solo; l’immagine di Marisa come “scolaretta” di Blackpool (“schoolgirl” nel titolo del Daily Mail) catturata nelle trame sinistre di un “sindacato criminale”, o come “un’ordinaria casalinga di Blackpool che si è trovata a gestire l’impero criminale di famiglia” (sul Mirror) ancora una volta appiattisce la realtà della criminalità al femminile su un’immagine della donna come vittima degli eventi e in balia di scelte che non comprende o che sono più grandi di lei.

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    Marisa Merico (foto Chloe Dewe Matthews per il Sunday Times)

    In Bang Bang Baby, forse si fa un passo in più in questo senso, cioè si rimette al centro la storia di una donna complessa, mai totalmente condannabile ma nemmeno totalmente assolvibile. Però, il problema di narrare l’inglesità della protagonista è qualcosa che anche la serie italiana non sa recepire.

    Le mille identità scomparse di Marisa Merico

    La serie che racconta della teenager Alice (cioè Marisa) e delle sue esperienze criminali milanesi dal punto di vista fluido-pop della mente adolescente della sua protagonista, racconta la ‘ndrangheta ancora con tanti stereotipi (alcuni anche borderline razzisti sui calabresi a Milano, ma questa è un’altra storia…) e senza la dimensione inglese della sua protagonista, che invece viene fatta ‘partire’ dall’hinterland milanese. Sicuramente la storia di Marisa Merico, una storia che tenga insieme tutte le identità di questa donna, il suo accento inglese e il suo sangue calabrese, il suo essere figlia, madre, mafiosa, detenuta, studentessa universitaria, attivista, narratrice, non è stata ancora del tutto raccontata.

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    Il cast di Bang Bang Baby
  • Umberto De Rose, il volto grigio del potere

    Umberto De Rose, il volto grigio del potere

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    Oggi è difficile dire che fine farà Umberto De Rose, il tipografo passato alla storia per la vicenda del Cinghiale.
    Non ha più giornali da stampare, anche perché l’informazione su carta stampata è morta. Inoltre, gli equilibri di potere del vecchio centrodestra, che ne avevano propiziato l’ascesa, non esistono più.

    Un colore esprime la sua parabola: il grigio. È il colore dei notabili di seconda fila, che fanno carriera a prescindere dalla loro modestia e grazie alle cordate di cui fanno parte.
    Ogni cosa ha un prezzo e De Rose, con le gaffe per conto terzi e le rogne giudiziarie, ha pagato il suo.

    Il tabloid come destino

    «De Rose non è un editore ma stampa il giornale che leggi», recitava un paginone autocelebrativo apparso più volte fino al 2010 su tutti i giornali usciti dalle sue rotative e poi ripetuto da mega manifesti affissi nelle zone principali della regione.
    Umberto De Rose ha stampato praticamente tutti i giornali della Calabria tranne due: La Gazzetta del Sud e Il domani della Calabria. E tutti i giornali stampati da lui avevano una caratteristica: il formato tabloid, che, come sanno gli addetti ai lavori, era il formato tipico dei giornali scandalistici, a partire dal Sun.

    Nel caso di De Rose questo formato era obbligato perché il suo stabilimento di Montalto Uffugo non era attrezzato per produrre il “lenzuolo”, cioè lo standard dei giornali “seri”.
    La famiglia Dodaro si è sottratta al monopolio di De Rose e, dal 2004, ha stampato Il Quotidiano della Calabria (poi del Sud), con mezzi propri. Tutti gli altri, invece, hanno avuto a che fare con lui. E sono falliti tutti, uno dopo l’altro.

    La strage di carta

    Delle due l’una: o Umberto De Rose è cattivo oppure porta sfiga. Probabilmente nessuna delle due: è solo un tipografo che ha continuato a stampare, a caro prezzo, nel momento storico in cui i nuovi media minacciavano l’informazione cartacea, già declinata da un pezzo.
    Fatto sta che tutti i giornali stampati da lui hanno chiuso grazie ai debiti vantati dal tipografo.

    Un’eccezione vistosa al diritto fallimentare, secondo il quale i crediti dei lavoratori dovrebbero precedere quelli dei fornitori. In Calabria non è così: le maestranze dell’editoria periodica, numerose e malpagate, sono venute dopo le esigenze di una stamperia che, secondo i canoni industriali, è un’azienda di medie dimensioni. Ciononostante, De Rose, è diventato prima presidente regionale di Confindustria poi di Fincalabra.

    Umberto De Rose e il Cinghiale

    Umberto De Rose non è stato condannato, ma il suo numero telefonico notturno con Alfredo Citrigno resta un esempio di trash da manuale.
    A partire dal linguaggio colorito, per finire con le argomentazioni, in apparenza minacciose. E poi la perla di comicità involontaria e amara: il nomignolo appiccicato quasi per caso a Tonino Gentile (e per estensione a tutta la famiglia): il Cinghiale.
    In realtà, De Rose usava la metafora del cinghiale («’u cinghiale quann’è feritu mina ad ammazza’»), ogni tre per due.

    Sul punto possiamo essere garantisti, anche più dei magistrati che hanno assolto lo stampatore dall’accusa di violenza privata nei confronti di Citrigno jr, all’epoca editore de L’Ora della Calabria. Le sue metafore, in apparenza sinistre, le sue esortazioni tamarre («L’ha cacciata ’sta cazz’i notizia?») erano un’espressione genuina di antropologia calabrese del potere.
    De Rose, amico della famiglia Citrigno, ma anche dei Gentile, è un uomo a cavallo di più ambienti e mondi. Vive dei loro equilibri e cerca di mantenerli, perché ne teme i contraccolpi.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    In principio fu la Provincia

    Nel resto d’Italia, la carta stampata perde colpi dall’inizio del millennio, quando l’informazione inizia a spostarsi sulla rete. In Calabria, escono giornali su giornali, che si contendono circa 40mila lettori.
    Ma i giornali significano potere e comunicazione per i notabili. E per De Rose che, stampandoli, mette a disposizione delle piattaforme.
    È il caso della Provincia Cosentina, fondata da Piero Citrigno nel ’99, poi ceduta al costruttore Rolando Manna a inizio millennio, infine collassata nel 2008 tra le mani di una società di giornalisti. Il colpo finale è stato il grosso debito col tipografo.

    Piero Citrigno

    Calabria Ora e figli

    Storia simile per Calabria Ora, fondata sempre da Citrigno assieme all’imprenditore Fausto Aquino. Questo giornale, se possibile ha avuto una storia più travagliata: cinque direttori in otto anni di vita, due cambi di società e una tragedia (il suicidio di Alessandro Bozzo). Infine lo scandalo delle rotative bloccate per non far uscire la “cazz’i notizia”, relativa alla presunta inchiesta su Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino.

    Alla fine della giostra, Citrigno è rimasto col cerino in mano: una condanna per bancarotta fraudolenta e una per violenza privata. Alla maggior parte dei giornalisti, rimasti a spasso, sono rimaste le vertenze e le querele. Il motivo della chiusura? Gli 800mila euro di debiti nei confronti di De Rose.

    Morto un giornale se ne stampano altri due

    A questo punto, lo stampatore dovrebbe essere fuori gioco. Invece no: dalle ceneri de L’Ora della Calabria nascono Il Garantista e La Provincia di Cosenza.
    Il primo, fondato da Piero Sansonetti, ex direttore dell’Ora, dura 18 mesi, grazie anche ai contributi statali per l’editoria. Inizialmente non è un tabloid perché è stampato fuori regione da un tipografo meno caro ma più preciso. Poi arriva la crisi e finisce nelle rotative di Umberto De Rose. Il quale mette benzina: circa 300mila euro che servono a pagare la previdenza. Ma si rifà alla grande: ne incassa 500mila, tolti dal finanziamento pubblico. Poi il giornale chiude e ai giornalisti restano solo gli ammortizzatori.

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    Piero Sansonetti

    Peggio ancora per La Provincia di Cosenza, fondata da un gruppo di ex redattori dell’Ora e poi passata di mano in mano e da una redazione all’altra. Fino alla chiusura, in cui hanno avuto un ruolo principale i crediti di De Rose.
    Non finisce qui: nel frattempo (2016) dalle ceneri de Il Garantista nasce Cronache di Calabria, affidato a una vecchia gloria come Paolo Guzzanti. Inutile dire che il destino è il medesimo. I tramiti di queste iniziative sono due pubblicitari, Francesco Armentano e Ivan Greco, già sodali di Citrigno e uomini di fiducia di De Rose. A loro si deve il paradosso curioso per cui, mentre altrove i giornali, anche gloriosi, chiudono i battenti in Calabria le rotative continuano a girare alla grande.

    Umberto De Rose e Fincalabra

    Durante l’era Scopelliti, Umberto De Rose raggiunge il massimo e porta all’incasso l’impegno politico del decennio precedente, nel quale si era candidato a sindaco in quota Forza Italia (quindi Gentile) contro Eva Catizone.
    Con lo scandalo di Calabria Ora (se preferite, Oragate, o Il Cinghiale) arriva la prima gomitata seria all’immagine pubblica del Nostro. In questa vicenda c’è chi, con una certa malignità, fa brutti paragoni in famiglia. Cioè tra Umberto e suo papà Tanino, tra l’altro notabile di prima grandezza della massoneria cosentina, considerato un galantuomo vecchia maniera.
    Ma questi sono dettagli rispetto ad altre faccende, decisamente più serie.

    Una di queste è il processo per le consulenze in Fincalabra. Al riguardo, riemerge il cognome dei Gentile, associato ad Andrea e sua sorella Lory. Per i contratti di collaborazione a favore dei due, De Rose finisce nel mirino della Corte dei Conti e della magistratura penale. Mentre la posizione di Andrea viene stralciata quasi subito, Lo stampatore passa i guai per il contratto di Lory e di altre due persone: il Tribunale di Catanzaro gli infligge un anno e otto mesi nel 2017. La Corte d’Appello azzera la condanna due anni dopo.
    Resta a suo carico la responsabilità contabile per danno erariale, stabilita dalla Corte dei Conti.

    Fine della storia?

    Il grigio è definitivamente stinto nelle carte bollate e nei debiti (altrui). E la parabola di De Rose è in calo. Già, lui non è mai stato un editore. E in compenso non stampa più, perché nessuno legge quasi più i vecchi giornali.
    Tutti gli imperi si logorano e i castelli crollano. Ma quelli di carta lo fanno per primi.

  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

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    Il 21 aprile scorso, sui canali della Australian Broadcasting Corporation (ABC) per il programma Foreign Correspondent è andato in onda The Magistrate vs The Mob (Il Magistrato contro la Mafia), un documentario di 30 minuti sul maxiprocesso Rinascita-Scott. Preceduto da un articolo che ne delinea il contenuto, e con la professionalità che contraddistingue il programma e in particolare le produttrici di questo episodio, il documentario spalanca all’Australia le porte del Vibonese e della sua ‘ndrangheta ora a processo.

    Rinascita-Scott, il documentario australiano

    Con immagini mozzafiato catturate da un drone su Tropea e Capo Vaticano, per poi aggiungerci lunghe riprese su Vibo Valentia città, sulle campagne intorno a Limbadi, sui vicoli di Nicotera, l’episodio inizia dicendo «la Calabria è una terra di feroce bellezza». Il resto del documentario vede riprese a Catanzaro, con il procuratore capo Nicola Gratteri, a cui il maxiprocesso è notoriamente legato, nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per Rinascita-Scott, e sul resto del territorio per incontrare vittime di poteri e soprusi mafiosi e anche ovviamente mostrare quella resistenza civile che, seppure ancora ai primi passi, dopo Rinascita-Scott si è sicuramente formata. Il risultato sono 30 minuti godibili, con belle immagini e note emotive, e anche, prevedibilmente, una serie di commenti stereotipati sui rapporti tra mafia e territorio.

    L’equivoco iniziale e il piano B

    Sono stata invitata a fornire una consulenza per il programma nel gennaio scorso. L’interesse dell’Australia per la ‘ndrangheta non è certo cosa nuova, visto che il paese conosce il fenomeno mafioso calabrese da quasi un secolo e – a volte con più serietà, a volte con molta meno attenzione – fa i conti con una ‘ndrangheta locale dalle molte sfaccettature. Ma i produttori non mi avevano contattato per la ‘ndrangheta australiana, bensì per Rinascita-Scott. «Ci sono dei collegamenti con l’Australia?», mi chiesero. Cercavano un aggancio alla loro ‘ndrangheta, che però in questo processo non c’è – o se c’è non appare affatto chiaro.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Dopo aver precisato che questa era un’altra ‘ndrangheta – vale a dire un processo sulle dinamiche di clan mafiosi del Vibonese – che per quanto collegati alla ‘ndrangheta reggina, preponderante in Australia, non guardava precipuamente a queste connessioni – il programma è stato virato sul territorio ‘straniero’, sul processo, sul procuratore Gratteri (come rivela già il titolo), con buona pace della ‘ndrangheta australiana.

    Rinascita-Scott: Italia vs Resto del Mondo

    Questo documentario è l’ultimo di una lunga serie di articoli, video, interviste, reportage, che svariate televisioni e testate giornalistiche straniere hanno dedicato a Rinascita-Scott dal 13 gennaio 2021 quando il processo è formalmente iniziato. Decine di notiziari, in inglese, francese, tedesco, turco, spagnolo, portoghese. Anche dopo il gennaio 2021 l’interesse è rimasto alto, basti pensare al reportage di France24 titolato A trial for the history books (Un processo per i libri di storia) del gennaio 2022.rinascita-scott-fran

    Al contrario, sui giornali o sui canali di informazione italiani, a parte qualche notevolissima eccezione (pensiamo alla puntata di Presadiretta nel marzo 2021 dedicata al maxiprocesso), gli articoli si limitano primariamente alla cronaca, raramente sul nazionale, molto più spesso sul locale. Ed ecco che per alcuni l’interesse della stampa internazionale al processo è segno incontrovertibile che all’estero prendono sul serio l’antimafia e riconoscono il carattere destabilizzante di Rinascita-Scott, mentre in Italia questo non accade.

    La retorica su Gratteri

    Alcune malelingue poi mettono il carico da novanta, riconducendo il disinteresse italiano al processo (comparato all’attenzione dall’estero) a implicite prese di posizione ‘pro-Gratteri’ o ‘contro-Gratteri’. È questa una retorica di pessimo gusto, perché ovviamente non può e non deve esistere uno spazio del ‘contro-Gratteri’ in questo contesto, essendo il procuratore un bravo magistrato, al pari di tanti altri suoi colleghi, avendo egli la capacità (per alcuni il demerito) di dare alle istituzioni calabresi molta visibilità. Ma soprattutto un processo non si identifica mai con il Procuratore Capo della Procura che l’ha istruito. Specie questo processo che di procuratori, magistrati, funzionari, avvocati e, soprattutto imputati, ne ha davvero tanti.

    Quei maxiprocessi tutti italiani

    La domanda però sorge spontanea: qual è la ragione dei riflettori puntati dall’estero sul processo Rinascita-Scott, a confronto di un interesse molto più scarso in Italia? La risposta non è semplice; possiamo scomporla in quattro diverse componenti, tecniche e culturali.

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    L’aula bunker del maxi processo calabrese

    Una prima componente sono i numeri e le caratteristiche del processo. Sicuramente vedere un processo con oltre 350 imputati, dozzine di avvocati, decine di collaboratori di giustizia, al punto da dover costruire un’aula bunker ad-hoc per contenerli tutti, non è spettacolo quotidiano. E uso appositamente la parola ‘spettacolo’. Se per l’Italia questo non è il primo né l’unico processo di grandi dimensioni – anche dopo il maxiprocesso di Palermo infatti ricordiamo Crimine-Infinito, Aemilia e altri processi con oltre 100 imputati – fuori dall’Italia questi numeri sono molto inusuali, se non impossibili, in un’aula di giustizia.

    La giustizia si fa spettacolo

    La giustizia (altrui, cioè la nostra in questo caso) si fa dunque spettacolo proprio per questo profilo di straordinarietà. Non scordiamoci poi che in molte giurisdizioni non esiste l’istituto per noi costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione legale. Soprattutto nei sistemi anglosassoni il pubblico ministero va a processo quando ha una quasi certezza di vittoria dell’accusa (altrimenti si patteggia o si archivia per mancanza di prove o per assenza di ‘interesse pubblico), per questo nel 90% dei casi vince e ottiene condanne.

    La tortuosità del sistema italiano, con processi abbreviati, ordinari, appelli, controappelli, rende difficile raccontare i processi, perché appunto non si sa come andranno a finire, se l’accusa reggerà oppure no, e di solito si dovranno aspettare molti anni per saperlo. Ma in questo caso il processo si può spettacolarizzare e non solo raccontare, e questo è più facile per gli stranieri che per noi italiani.

    L’eroe contro l’antieroe: Gratteri e Mancuso

    Una seconda componente è la simbologia della classica contrapposizione tra l’eroe e l’antieroe, e conseguente glorificazione del primo e dannazione del secondo. Non è un caso che i media esteri si focalizzino sul procuratore Gratteri. Come non è un caso che alcuni media italiani chiamino in causa quella retorica pro-Gratteri/contro-Gratteri di cui sopra. Sicuramente il procuratore capo di Catanzaro è l’incarnazione simbolica dell’antimafia in Calabria (e oltre), anche perché il suo lavoro è sempre stato diffusamente presentato al pubblico, oltre che nella sua attività di magistrato inquirente, anche a seguito del suo intenso impegno quale autore di libri e protagonista di interventi, dibattiti pubblici, eventi. Ciò favorisce la spettacolarizzazione di un processo che ne esalta l’operato, anche nel racconto delle sue difficoltà di uomo sotto scorta da decenni e ostracizzato da varie parti.

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    Luigi “il Supremo” Mancuso

    All’eroe ecco poi affiancato l’antieroe, che in Rinascita ha un nome e un cognome, Luigi Mancuso, boss di Limbadi e della provincia, onnipresente in articoli e reportage esteri sul processo. Non è il solo boss a processo Luigi Mancuso. Non è neppure la prima volta che va a processo. Eppure spesso, parlando di lui, i media esteri danno a intendere che aver portato Mancuso, l’antieroe, a processo sia una delle vittorie dell’eroe, uno dei caratteri fondamentali di Rinascita. Le due facce, quella del magistrato e quella del boss, spesso affiancate, sono volti nuovi all’estero, meno in Italia e molto meno in Calabria, cosa che ovviamente rende più facile la narrazione giornalistica straniera.

    La ‘ndrangheta ovunque

    Una terza componente è poi la pervasività della ‘ndrangheta sul territorio come viene raccontata in Rinascita-Scott, soprattutto nei rapporti con la politica e le istituzioni. Ecco che all’estero si racconta dell’avvocato, ex-senatore, Giancarlo Pittelli, che accanto ad eroe ed antieroe rappresenta la corruttibilità del potere (e dunque aiuta anch’egli la spettacolarizzazione), e delle vittime, o famiglie delle vittime, della ‘ndrangheta sul territorio, come per esempio Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci ucciso da un’autobomba a Limbadi – vicenda per per cui alcuni membri della famiglia Mancuso sono stati ritenuti colpevoli.

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    Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori del 42enne ucciso con un’autobomba a Limbadi

    Le vittime invocano, giustificano, l’intervento dell’eroe e rendono più nitida, ancor più stilizzata, la figura dell’antieroe. Fuori dall’Italia questi sono ingredienti fondamentali per creare una storia, mentre in Italia sono tutte cose già viste (purtroppo) nei grandi processi di mafia. I rapporti tra mafia e politica, mafia e vittime, mafia e istituzioni per l’Italia sono costanti delle vicende di mafia, ci si aspetta che emergano anche nei processi; così non è all’estero, dove mafia spesso è ancora ‘solo’ crimine organizzato.

    Paradossalmente la novità di Rinascita-Scott non è il presunto o reale rapporto tra mafia e politica o la pervasività delle famiglie sul territorio, ma semmai il contrario – cioè il fatto che il processo voglia confermare come certe dinamiche siano in corso e pervasive da decenni al pari di altri territori, come il reggino, in Calabria. Su LaC News, nel programma di approfondimento ‘Rinascita-Scott’, questo emerge non appena si inizia a parlare con vari ospiti e scavare negli archivi giudiziari.

    Pietro Comito conduce una puntata della trasmissione Rinascita-Scott su LaC Tv

    Gli stereotipi sulla Calabria

    E qui si arriva alla quarta componente, che è lo stereotipo della Calabria come terra meravigliosa e maledetta. Distante, fonte di nostalgia per i tanti migranti, ma impenetrabile. E soprattutto preda di una mafia potente che ne impedisce sviluppo e progresso. Questo stereotipo, che rende possibile ma non facile relazionarsi con la Calabria per chi non la conosce, non vi è nato o non la studia, assolve tanti (politici, cittadini…) e distorce il potenziale di questo processo. Se il problema è la mafia, certo portare a processo oltre 350 ‘mafiosi’ (perché non è facile poi capire a quanti e a chi tra gli imputati sono contestati reati di mafia) dev’essere un colpo mortale, no? Soprattutto se ci si aspetta, come detto sopra, che vengano condannati.

    La realtà è più complessa

    Per questo Rinascita diventa il processo per i libri di storia. Eppure così non è, come riconoscono sia alcuni magistrati che tanti rappresentanti della società civile, perché la mafia non è il ‘cancro’ di una società altrimenti sana, e l’antimafia giudiziaria non può essere l’unica ancora di salvezza.

    Tra esigenze mediatiche di riduzione della complessità e polemiche sul cono d’ombra informativo, questo processo probabilmente non è stato ancora trattato per come sarebbe auspicabile, tanto in Italia quanto all’estero. Senza spettacolarizzazione, riconoscendo la complessità del territorio, delle sue relazioni sociali e la difficoltà di ‘resistere’. D’altronde, questo non accade spesso anche per gli altri processi di ‘ndrangheta, o di mafia in generale? C’è poco da stupirsi allora.

  • Calabria film commission: se Grande divide, Vigna resta la vera anomalia

    Calabria film commission: se Grande divide, Vigna resta la vera anomalia

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    La regola dell’amico non sbaglia mai, dicevano gli 883 negli anni ’90. Invece, il ginepraio di polemiche sorte al seguito della nomina del “vecchio amico” di Roberto Occhiuto, il lametino Antonio Grande (detto Anton Giulio per l’haute couture) è arrivata a far porre dei dubbi persino al solitamente dormiente gruppo Pd in Consiglio regionale guidato da Nicola Irto. «Un atto incomprensibile», hanno stigmatizzato pubblicamente, senza annunciare (confidiamo nell’effetto sorpresa) alcun atto politico-istituzionale-ispettivo consequenziale.

    Furgiuele plaude e si smarca

    Il concittadino del neo commissario di Calabria Film Commission, il deputato della Lega Domenico Furgiuele, ha plaudito pubblicamente alla nomina. «Da tempo – il suo commento – l’amico Anton Giulio mostra interesse e sensibilità verso i temi della ripresa culturale e della promozione dell’immagine della Calabria». Poi ha smentito di essere il “suggeritore” della nomina, come pensato nell’immediato dai più. «La nomina l’ha fatta Occhiuto. Io l’ho condivisa in pieno», ha dichiarato a ICalabresi.

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    Domenico Furgiuele

    Tre imprese, tutte chiuse

    Invece, Antonio Grande, avvistato nell’estate 2021 agli eventi di presentazione della candidatura di Roberto Occhiuto, pare quasi sia stato ripescato a seguito della cessione formale delle sue attività aziendali.
    Difatti, da quanto risulta dalla relativa Camera di Commercio e dalle Conservatorie, la società in nome collettivo “Antongiulio Grande di Giovannino Antonio Macrì & Antonio Grande”, è cessata nel 2008. «Il 18 febbraio 2008 il conservatore ha trasmesso al Giudice del registro imprese di Catanzaro la proposta di cancellazione d’ufficio dell’impresa», si legge nella visura camerale.

    Nel contempo, la Anton Giulio Grande s.r.l. con sede a Roma, nata nel febbraio 1996, è finita in liquidazione (con Antonio Grande liquidatore) e poi definitivamente cancellata il 19 luglio del 2012.
    È rimasta in piedi l’impresa artigiana “Antonio Grande”, nata subito dopo la chiusura della s.r.l. romana, nel novembre 2012. Una impresa iscritta con la qualifica di “Piccolo imprenditore” e annotata come impresa artigiana.
    Una azienda di sartoria con un solo addetto (formalmente non dipendente), la cui attività è cessata il 31 dicembre 2020, con cancellazione dal registro delle imprese nel febbraio 2021.

    Silenzi e divagazioni

    Da allora non risulta nient’altro, né Antonio Grande risulta avere altre partecipazioni societarie. Eppure nel gennaio 2022 ha presentato alla Fashion Week di Torino la sua nuova collezione di Alta Moda con 30 abiti, per poi portarla anche al Digital fashion show in Sicilia. «Noto stilista con atelier a Roma e Firenze, amato dalle signore dell’aristocrazia internazionale e dal luccicante mondo dello showbiz», lo definisce l’intro dell’intervista da lui resa a AobMagazine. Mentre lui stesso dichiara nel marzo 2022 a VelvetMag «L’alta moda dovrebbe essere concepita e recepita come un’opera d’arte, sfiorare l’ideale e quindi approdare ad un concetto di eternità». A differenza delle sue aziende che, però, risultano, come si è detto, chiuse, nonostante le presentazioni dei nuovi abiti offerte alla stampa.

    Interpellato direttamente sulla questione, Antonio Grande non ha ritenuto di rispondere alla domanda. Lo stesso deputato Domenico Furgiuele, alla domanda da noi posta se fosse opportuno nominare con un incarico di gestione apicale come risultano essere i compiti del commissario di Calabria Film Commission, una personalità che ha chiuso le sue aziende non ha risposto. Ha solo ripetuto che «La nuova Film commission si occuperà di cinema e non solo, ma di cultura e di arte. Grande è un uomo di arte e di cultura».

    Ma la Lega si smarca

    Lo pseudo sillogismo di Furgiuele – seguendo la stessa logica, perché non affidare la Film Commission a un ballerino o un pittore, visto che sempre di uomini di arte e cultura si tratta? – pare cozzare con la linea ufficiale dei suoi compagni di partito. Nel pomeriggio, infatti, Francesco Saccomanno, commissario regionale del Carroccio, si è affrettato a inviare una nota in cui precisa che eventuali suggerimenti su incarichi a nome del partito spettano solo e soltanto a lui. Che però «non ha mai avanzato nominativi non essendo neanche a conoscenza di tale possibile incarico». Un documento stringatissimo in cui balza all’occhio l’assenza di qualsivoglia apprezzamento per la scelta di Occhiuto.

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    Anton Giulio Grande al Festival di Venezia

    L’incognita compensi

    Il decreto con cui Occhiuto ha nominato Grande come commissario specifica che «il presente provvedimento non comporta oneri a carico del bilancio annuale e/o pluriennale regionale».
    Lo Statuto della Fondazione, invece, dispone che «Al presidente spetta un compenso equiparato a quello dei Dirigenti generali della Regione Calabria», ossia circa 135mila euro annui. Nel nuovo Statuto (contenuto nel burc dello scorso 1 febbraio) la somma scende a 40mila euro annui, ma non è ancora in vigore.

    Non risulta, però, che il ruolo di commissario sia legislativamente equiparato a quello di Presidente (soprattutto per quanto riguarda i compensi). Difatti, l’ex presidente Giuseppe Citrigno, dopo un triennio a titolo gratuito, nel 2019 ha avuto un compenso lordo di 44.379,11 annui. Giovanni Minoli, nella sua qualità, invece, di commissario straordinario nel 2020 e nel 2021 non ha percepito nessuna retribuzione. Difficile, quindi, arrivare a fare una “forzatura interpretativa” che non trova alcun riscontro né nell’atto di incarico, né nello Statuto della Fondazione, al fine di erogare compensi non specificamente previsti.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Doppio incarico per Vigna

    Non c’è solo la questione del Commissario, ma anche quella del direttore di Calabria Film Commission. A ricoprire l’incarico è Luciano Vigna, ex assessore comunale a Cosenza, ex responsabile amministrativo (per un mese) della presidente Jole Santelli e poi suo capo di Gabinetto fino all’1 giugno 2021.
    Proprio in quella stessa data Luciano Vigna viene individuato come Direttore della Fondazione e subito nominato con decreto del Presidente della Regione (Nino Spirlì) numero 43 del 1 giugno 2021, con un compenso annuo (previsto dall’articolo 12 dello Statuto della Fondazione) pari a quello stabilito per i Dirigenti Generali dei dipartimenti della Giunta Regionale, decurtato del 20%. In soldoni sono 129.971,21 euro lordi ogni dodici mesi.

    Vigna, però, è stato nominato con Decreto n. 217 del 24 novembre 2021 a firma di Roberto Occhiuto, nuovamente Capo di Gabinetto del presidente.
    Seppur a titolo gratuito, tale incarico comporta una rilevante gestione del potere, come cristallizzato dall’articolo 9 della legge regionale 8 del 1996. Difatti, si legge che: “L’Ufficio di Gabinetto cura la trattazione degli affari connessi con le funzioni del Presidente, secondo le direttive dallo stesso impartite, ed è d’ausilio nei rapporti con gli altri organi regionali, con gli organi statali, centrali e periferici, nonché con le formazioni sociali e le comunità locali».

    L’ex presidente facente fuzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì

    Controllore e controllato: si dimette?

    C’è da dire, però, che qualcosa deve essere sfuggito, perché nell’atto di nomina come Capo di Gabinetto, risulta che Vigna abbia dichiarato di non trovarsi in alcuna delle condizioni di incompatibilità previste dalla legge regionale 7 del 1996, né in cause di conflitto di interessi.
    Eppure nella legge regionale 16 del 2005, che modifica la citata normativa del 1996 si legge che nell’ufficio di Gabinetto non può essere utilizzato chi «sia componente di organi statutari di enti, aziende o società regionali o a rilevante partecipazione regionale».

    L’articolo 3 dello Statuto della Calabria Film Commission, invece, cristallizza che: «la Fondazione esercita la propria attività prevalente in favore del Socio fondatore Regione Calabria, nel senso che almeno l’80% delle proprie attività sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dal predetto Socio fondatore Regione Calabria». Inoltre, secondo l’articolo 16 «le cariche di Presidente e di Direttore sono incompatibili con attività, incarichi e interessi che siano in conflitto con i compiti istituzionali della Fondazione, fatte salve le altre cause di incompatibilità/inconferibilità previste dalla legislazione vigente».

    Siccome, secondo l’articolo 18 dello Statuto della Fondazione, la Regione Calabria esercita attività di vigilanza (e che la Giunta regionale sovrintende all’ordinamento ed alla gestione della Fondazione), risulta chiaro che con Vigna in entrambi i ruoli, il controllore ed il controllato corrispondono. Si dimetterà?

  • Digitale terrestre in Calabria: da martedì nuove frequenze, cosa cambia

    Digitale terrestre in Calabria: da martedì nuove frequenze, cosa cambia

    Preparatevi a risintonizzare i canali del digitale terrestre sulla vostra televisione: da martedì 12 aprile scatta anche in Calabria la riorganizzazione delle frequenze tv. È questa la data scelta per fare il via al piano del Ministero dello Sviluppo economico che sancirà il passaggio al digitale terrestre di ultima generazione (dvb-t2).

    Le nuove frequenze in automatico, ma non per tutti

    Chi in casa ha apparecchi recenti non dovrà smanettare troppo col suo telecomando: la procedura di risintonizzazione dei canali avverrà in automatico. Ma non tutti possiedono tv o decoder dotati di funzionalità simili. A chi ne è privo toccherà intervenire manualmente per garantirsi la fruizione dell’intera offerta televisiva.

    Rai, si può scegliere tra Calabria, Basilicata e Sicilia

    Che apparteniate all’una o all’altra categoria di utenti, nel corso della risintonizzazione potreste trovarvi di fronte a una scelta quando si tratterà della programmazione regionale Rai. Con le nuove frequenze del digitale terrestre, infatti, in ogni Regione, infatti, sarà possibile optare tra tre diverse programmazioni. Nel caso della Calabria le due opzioni aggiuntive per i telespettatori riguardano Rai Sicilia e Rai Basilicata. Qualora la scelta ricada su una di queste ultime, la programmazione “calabrese doc” sarà, comunque, sempre visibile sul canale 821.

    Digitale terrestre, la riorganizzazione prosegue fino al 3 maggio

    Dalla Regione fanno sapere che «in generale, le operazioni di riorganizzazione delle frequenze non comportano la necessità di cambiare l’apparato televisivo o l’antenna». Tuttavia precisano che«in caso di persistenti problemi di ricezione si consiglia di verificare il proprio impianto». I cambiamenti che interesseranno il digitale terrestre, si diceva, partiranno da martedì 12 ma la riorganizzazione «proseguirà in Calabria fino al 3 maggio e in tutte le Regioni fino al 30 giugno 2022».