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  • I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

    I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

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    «Chi si firma è perduto» (sulle lusinghe del lavoro giornalistico)

    «Il successo è soltanto il passato remoto del verbo succedere»

    ALCOL

    «Sopportatemi, duro ancora poco»: la frase che Luciano Bianciardi (Grosseto, 14 dicembre 1922 – Milano, 14 novembre 1971) rivolgeva a chi gli stava vicino mentre l’autodistruzione da alcol stava per compiersi.

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    Luciano Bianciardi nel suo letto

    • AVANTI/1

    Di Bianciardi si citano sempre l’attualità, la “visione”. «Ha vissuto in un’epoca che non era la sua», come ha raccontato la figlia Luciana a Simonetta Fiori (Robinson n. 311): «Era contrario al divorzio perché prima ancora avremmo dovuto lottare per abolire il matrimonio. E nel giorno dell’allunaggio ci invitò a pensare alla luna di Leopardi, perché quella conquistata da Neil Armstrong non sarebbe servita a niente (…). Sapeva guardare molto lontano, ma non fu compreso dai suoi contemporanei. Era avanti di una cinquantina d’anni».

    • AVANTI/2

    In una lettera del 13 luglio 1970 alla figlia rivela di aver scritto «un racconto di fantasport, in cui immagino cosa sarebbe successo se l’Italia avesse vinto ai campionati mondiali» (accadrà 12 anni e 3 mondiali dopo).

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    Dino Zoff alza la coppa, L’Italia si è appena aggiudicata i Mondiali dell’82

    • AVANTI/3

    Giacomo Papi (la Repubblica, 18/11/2022) ha ricordato che in un pezzo del 28 luglio 1959 uscito sull’Avanti!, Bianciardi anticipò di due anni Umberto Eco e la sua “Fenomenologia di Mike Bongiorno” e di undici l’intuizione di Andy Warhol: ogni italiano aspetta il suo «quarto d’ora di celebrità e di fortuna» (bisogna aggiungere che, forse non per caso, “quartodorista” è un neologismo di incerta attribuzione – Gadda o Manganelli – per definire i frequentatori di case d’appuntamento).

     

    • BANCHE

    «Se vogliamo che le cose cambino, inutile occupare le università, occorre occupare le banche e far saltare le televisioni» (1968).

    • CALABRIA

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    Tropea, un particolare del monumento a Pasquale Galluppi

    Ha senza dubbio avuto meno fortuna della casalinga di Voghera di Alberto Arbasino, ma ha una sua dignità letteraria la «maestrina di Catanzaro» con cui Bianciardi identifica l’insegnante-tipo in viaggio d’istruzione in Svezia, dove “il Nostro Giovane Lettore”, protagonista di un suo articolo per il settimanale ABC, si è recato in vacanza; qualche rigo prima, il pensiero filosofico del tropeano Pasquale Galluppi è preso ad esempio come materia su cui sgobbano i «colleghi diligenti e secchioni» del giovane.

    • CALVINO

    «Son riuscito a scrivere un libro, che ritengo la mia cosa migliore. Calvino ne è entusiasta, e lo pubblicherebbe anche subito. Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare» (secondo alcuni la trama fu “rubata” da Bianciardi a un ignoto scrittore irlandese da lui stesso tradotto).

    • COMUNISMO

    Un giorno, mentre Giangiacomo Feltrinelli parlava di comunismo, si alzò e uscì, dopo avere preso dall’attaccapanni il cappotto di cammello del padrone (Papi, cit.).

    • CRITICA

    «Solitamente i critici da noi parlano poco del libro o spettacolo o dipinto che dovrebbero recensire. Più che altro parlano di sé» (da Non leggete i libri, fateveli raccontare, ed. Stampa Alternativa 2008, testo apparso in origine nel 1967 in 6 puntate su ABC).

    • DRAMMA

    «Il vero dramma di Luciano Bianciardi è di essere più commentato che letto. Ancora oggi molti conoscono La vita agra, ma ben pochi l’hanno letto davvero. (…) Conosceva bene, forse, l’origine della parola “applauso”: l’applauso era l’invenzione che gli antichi usavano per coprile le grida dei lapidati a morte. Bianciardi venne sepolto da decine di migliaia di applausi. Morì a 49 anni. Da solo. (…) Al suo funerale ci saranno soltanto quattro persone. Dimenticato da tutti. Rimosso. Anche dagli stessi che lo avevano incensato in vita» (Gian Paolo Serino, Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale, ed. Clichy, 2015).

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    Luciano Bianciardi e Ugo Tognazzi sul set del film tratto da La vita agra

    • ENDECASILLABI

    «Alcune pagine (de La vita agra, ndr) sono scritte in perfetti endecasillabi» (Luciana Bianciardi, traduttrice a sua volta, oggi editrice in ExCogita).

    • FELTRINELLI

    Dalla Feltrinelli fu licenziato «per scarso rendimento», lui commenterà: «Soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile. (…) La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso».

    • GIORNALISMO/1

    Negli anni ’60 Indro Montanelli propose a Bianciardi una collaborazione al Corriere della Sera e uno stipendio di 300mila lire (circa 5mila euro di oggi) per due pezzi al mese, lui – a differenza di quanto fece Pasolini – rifiutò perché non si sarebbe sentito abbastanza libero come su Le Ore e Playmen, Kent ed Executive, ABC e il Guerin Sportivo ai tempi della direzione di Gianni Brera; però accettò di scrivere per il Giorno: «Sto lavorando, ma per la pagnotta (…) Tutta roba che non mi piace molto, ma che altro vuoi fare? Leggo parecchio, la sera, un po’ di tutto… E facciamoci coraggio».

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    Indro Montanelli

    • GIORNALISMO/2

    Prima di Michele Masneri (estate 2015 in Audi per il Foglio) e Michele Serra (per l’Unità su una Panda 4×4, trent’anni prima), a sperimentare il format del reportage in auto furono proprio Pasolini (periplo d’Italia in 1100, nel 1959) e Bianciardi; ma l’inventore assoluto del genere fu Luigi Barzini: Parigi-Pechino su una Itala con il principe Scipione Borghese (10 agosto 1907).

    • HOTEL

    No, Bianciardi era piuttosto tipo da pensione: una di quelle in cui abitò a Milano era in via Solferino, la strada del Corsera.

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    La sede del Corriere della Sera in via Solferino a Milano

    • INCIPIT

    «Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo dall’alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della vocale interdentalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno» (La vita agra comincia in modo non proprio agevole…).

    • LIBRI/1

    Da direttore della biblioteca di Arezzo inventò il Bibliobus, un furgone con cui distribuire libri a contadini e minatori.

    • LIBRI/2

    «Proverò a scrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino».

    • MAESTRI

    «I miei maestri si chiamano così: Giovanni Verga, catanese. Seguo invano le sue tracce fin da quando avevo diciotto anni. Carlo Emilio Gadda, milanese […] tuttora insuperato. Henry Miller, detto Enrico Molinari, da New York, che ebbi la fortuna di tradurre e conoscere personalmente. Ora abita a Big Sur, e qualche volta mi manda una cartolina firmando col suo nome italiano di mia invenzione».

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    Henry Miller nel suo studio a Big Sur alla fine degli anni Quaranta

    • NATALE

    Quel giorno che regalò Il piccolo chimico al figlio Ettore e passò una notte intera a tradurre il manualetto dall’inglese (amore paterno + deformazione professionale)

    • OPERAIO

    «È comprensibile che quest’uomo, ubriaco di pagine tradotte, senta ribollire la propria vicenda attraverso parole e linguaggi altrui, come l’operaio del film di Charlot che, pur staccato dalla catena di montaggio, continua meccanicamente ad avvitare bulloni» (Michele Rago sul linguaggio de La vita agra).

    • POLITICA

    «La bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo con cui vi si mantiene».

    • QUALITÀ

    «Non rinunciava a qualità, cura, rigore. Come se nella scrittura riuscisse a trovare la misura e l’equilibrio che non trovava nella vita» (Luciana Bianciardi).

    • REPRESSIONE

    «Mi pare che la vita, purtroppo, sia fatta di esami e di processi, che son poi la stessa cosa, due facce della stessa società autoritaria e repressiva che ci siamo costruiti intorno per non so quale follia» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana).

    • STIPENDIO

    «L’aggettivo “agro” sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo» (lettera all’amico Mario Terrosi, 30/12/1962).

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    Un’altra immagine di Luciano Bianciardi

    • SUBITO

    «Il guaio di finire un libro (da tradurre, ndr) sai qual è? Che subito dopo ti tocca attaccarne un altro» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana, che ne ricorda «la disciplina ferrea» da traduttore: «Fissava un numero di cartelle al giorno, e non andava a letto prima di aver finito l’ultima pagina. Era la lezione di sua mamma, nonna Adele. […] L’eccellenza è stata per lui un obbligo»).

    • TALK

    «È stato uno dei primi critici televisivi, uno dei primi opinionisti. Fosse ancora vivo, come si dice sempre del suo coetaneo Pasolini, quel che ne pensa del mondo andrebbe a dirlo in un talk becero di Rete4, pure a “Ballando con le stelle” se pagano qualcosa» (Alberto Piccinini, il Venerdì, 2/12/2022).

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    • TELEVISIONE

    «La televisione non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, indurre ai consumi e formare opinioni. Perché l’uso della televisione è gratuito. Non si paga, però si sconta» (1965).

    • TOUR

    «Oramai sto girando come un rappresentante di commercio» (in tournée per La vita agra)

    • TORRACCHIONE/1

    Il Luciano protagonista del capolavoro assoluto di Bianciardi arriva a Milano per vendicarsi facendo saltare il «torracchione», che non è il Pirellone, come qualcuno potrebbe pensare, bensì la sede della Montecatini Edison (poi Montedison), società responsabile della tragedia raccontata da Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma; «Se si guarda Milano oggi, hanno stravinto i torracchioni» (Francesco Piccolo, prefazione a Trilogia della rabbia, Feltrinelli, 432 pp., 16 euro, un’ottima idea regalo per Natale ma non solo)

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    Luciano Bianciardi a Milano (foto Ugo Mulas)

    • TORRACCHIONE/2

    «Ma lui non voleva mettere nessuna bomba: la bomba era quel libro là, che diceva che il miracolo economico era una fregatura. Però la bomba non esplose, anzi l’autore fu corteggiato dai salotti e dalla tv, un giullare che invece di essere combattuto viene integrato dal sistema» (Luciana Bianciardi).

    • UTOPIA

    «Aveva scritto un romanzo contro la borghesia culturale milanese, ed era invitato come una star a tutti gli appuntamenti mondani. Si struggeva e beveva e si chiedeva dove aveva sbagliato; ma intanto ci andava, e chissà quanto si rendeva conto di somigliare ancora di più al protagonista del suo libro. (…) Viene accolto con clamore, e viene amato da coloro contro cui si scaglia» (Piccolo, cit.); sembra l’effetto contrario di quello ottenuto da Tom Wolfe dopo la celebre descrizione dei radical chic newyorkesi.

    • VOGUE

    Per celebrare il successo de La vita agra su Vogue America esce una sua foto accanto ai simboli della Milano del boom e dei consumi, una città che raccontò con sguardo lunghissimo attraverso i suoi cambiamenti: la moda del cibo giapponese e la mania delle diete, i calciatori dalle facce «sempre meno di braccianti e manovali, sempre più di assennati ragionieri», persino ciò che saranno i selfie, gli autoscatti sintomo di un allora incipiente esibizionismo di massa.

    • ZUPPA

    Per il racconto La solita zuppa, un mondo al rovescio nel quale s’insegna l’ora di masturbazione a scuola, nel 1965 fu denunciato per oscenità e vilipendio della religione.

  • Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

    Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

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    Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.

    Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
    Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.

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    Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”

    Bellocchio e la rivoluzione

    Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.

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    La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival

    Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. 

    Un manifesto politico con lo stile di sempre

    Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.

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    Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola

    La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.

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    Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca

    Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.

    I pedinamenti dei carabinieri

    Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.

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    Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.

    Un’occupazione in 100 minuti

    Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

    Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.

    Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.

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    Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.

    Paola, 1969

    C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.

    Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.

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    1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il Boom si è fermato ad Eboli

    Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità.
    Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.

    Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri

    Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.

    Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.  

    I poveri e l’avvocato del popolo

    La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.

    Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.

    Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice over dell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.

    Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.

    Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità

    Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.

    Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.

    Il ricordo di Bellocchio

    Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.

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    Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».

    Da comunisti a borghesi

    L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.

    I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.

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    Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.

    Un libro per capire meglio

    Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento».
    La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.

  • I Calabresi di nuovo online: ricominciamo!

    I Calabresi di nuovo online: ricominciamo!

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    Rieccoci online, con lo sguardo curioso e disincantato. Ancora qui a raccontare le dinamiche sociali, i fatti, i luoghi e i protagonisti, anche quelli dimenticati, forse soprattutto quelli.
    I Calabresi torna dopo una pausa, lunga ma necessaria. Il giornale – fondato a luglio 2021 e diretto nel primo anno di vita da Franco Pellegrini con risultati lusinghieri – ha avuto uno stop a causa della messa in liquidazione di Calavrìa Srl, società che lo editava.

    La redazione ha acquistato I Calabresi

    Oggi, invece, a editare I Calabresi è una nuova società composta dai giornalisti che ne costituivano la redazione originaria e che ne hanno rilevato la proprietà, riportando in vita la testata grazie a un contributo economico della Fondazione Giuliani a supporto della fase di start up.
    Tuttavia, i veri padroni del giornale saranno sempre e solo quelli che ci leggono. È a loro che, come e più di prima, dovremo rispondere del nostro operato.

    Il direttore de I Calabresi è Michele Giacomantonio, in questa squadra sin dall’inizio. Ma, per una consolidata e diffusa disabitudine alle gerarchie, la redazione da subito ha assunto l’aspetto di un vociante collettivo, all’interno del quale si confrontano le diverse esperienze.

    Fedeli alla linea

    La nuova edizione de I Calabresi non sarà differente dall’originaria. Uguale sarà il sentiero che intendiamo seguire: una certa allergia all’urgenza della cronaca e l’interesse, invece, per l’approfondimento. Il digitale e il web sono sinonimi di velocità. invece noi riprenderemo ad andare controcorrente. Quelli bravi lo chiamerebbero slow journalism, noi pensiamo al passo lento dell’analisi, allo sguardo ampio dell’inchiesta, al respiro lungo del racconto che mette al centro le persone, i posti, le promesse. Quelle mantenute e quelle tradite, che sono di più.

    Parleremo di cultura, imprese, territori, beni comuni, giustizia, ambiente. E parleremo della politica, che da noi resta la sola forma di economia che non conosce crisi. La lentezza con la quale guarderemo questi universi non è una scusa, ma un metodo per trovare risposte senza farci distrarre dalla fretta, formulare domande senza farle precedere dalle risposte e dai pregiudizi.

    Una buona notizia

    Attorno alla redazione ci saranno molti degli autori, giornalisti e non, che hanno rappresentato l’ossatura della passata edizione e che proseguiranno a dare fiato al nuovo corso. Altri si sono aggiunti e altri ancora speriamo si aggiungano presto. A tutti loro va il nostro ringraziamento e ai lettori la nostra promessa di impegnarci al massimo, con la convinzione che non sempre la sola notizia meritevole di attenzione sia quella cattiva. Certe volte anche quella buona è una notizia. E che I Calabresi torni ai suoi lettori è una bella notizia.

    Michele Giacomantonio
    Alfonso Bombini
    Camillo Giuliani
    Saverio Paletta

  • I Calabresi: pubblicazione sospesa, ma la soluzione c’è

    I Calabresi: pubblicazione sospesa, ma la soluzione c’è

    Si comunica che la Calavria Editrice Unipersonale S.r.l. è stata posta in liquidazione ai sensi dell‘art. 2484 c.c., comma 1, n. 4.
    Pertanto, la pubblicazione del giornale online I Calabresi è sospesa in attesa delle determinazioni del liquidatore.
    I redattori hanno avanzato la proposta di rilevare la testata ed è in corso una interlocuzione con la Calavria Editrice Unipersonale S.r.l. in liquidazione affinché le pubblicazioni possano riprendere appena possibile.

    Calavria Editrice Unipersonale S.r.l. in liquidazione
    Il liquidatore

  • Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Scalfari è morto: viva Scalfari.
    Quando se ne va l’ultimo illustre vegliardo del giornalismo italiano, l’estremo saluto dev’essere all’altezza. In questo caso, deve ricordare la formula funebre dell’Ancien Régime.
    Già: come tutti i direttori di giornale che si rispettino, Scalfari fu un monarca. E lo fu in maniera assoluta. Aggressivo nella sostanza ed elegante nelle forme, l’ex direttore e fondatore di Repubblica (e prima ancora de l’Espresso), aggiungeva ai difetti del giornalista una matrice particolare: la calabresità.

    Scalfari calabrese di ritorno…

    In Calabria, Scalfari visse pochino: giusto gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. E di sicuro non per sua volontà.
    L’occupazione angloamericana a Sud aveva senz’altro dato sollievo alle popolazioni. Ma aveva pure scatenato una crisi economica enorme. La cosiddetta “Am-Lire”, cioè la cartamoneta stampata a profusione dal governo militare alleato, aveva innescato un’inflazione spaventosa e bruciato tutti i risparmi. Specie quelli investiti in titoli di Stato.
    Come quelli di papà Pietro, originario di Vibo.

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    Il giovane Eugenio Scalfari

    La famiglia Scalfari fu quindi costretta a riparare in Calabria per sbarcare il lunario. Lo stesso giornalista rievoca quest’esperienza in Breve storia di un padre, un racconto biografico pubblicato su l’Espresso nel 2017.

    Scalfari fascista ma non troppo

    Gli Scalfari erano la classica famiglia “perbene” o, se si preferisce, notabile.
    Il nonno Eugenio fu professore al ginnasio e, guarda un po’, a sua volta giornalista. Il bisnonno Pietro Paolo fu una personalità di spicco del Risorgimento (aprì le porte della città a Garibaldi).
    Papà Pietro era un personaggissimo: eroe della Grande Guerra e poi legionario con D’Annunzio a Fiume, si barcamenò come direttore di Casinò.
    Ma era anche coltissimo e trasmise al figlio l’amore per i libri e la scrittura.
    Come tutti i giovani promettenti, Scalfari si iscrisse al Pnf e proprio negli organi di partito iniziò la gavetta giornalistica.
    Questa scelta, comune a tanti grandissimi giornalisti (Montanelli e Bocca su tutti) non deve meravigliare. Il fascismo, rispetto agli altri regimi autoritari, ebbe una sua particolarità: fu fondato da un giornalista. E, pur censurandola a botte di veline, mantenne una certa sensibilità verso la carta stampata, più per esigenze di propaganda che per (improbabile) amor di libertà.

    Giulio De Benedetti, direttore de La Stampa e suocero di Scalfari

    Eugenio liberale e poi radicale

    Finita la guerra e trasferitosi a Roma, il giovane Eugenio entrò in banca. Ma, tra un deposito e un assegno, scriveva. Eccome, complice anche il matrimonio azzeccato con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, celebre direttore de La Stampa.
    Aderì prima al Pli e poi partecipò alla fondazione del Partito radicale. Ma per lui la politica era soprattutto una questione di comunicazione. Infatti, la fece sui giornali che diresse, a partire da l’Espresso.

    Scalfari e i golpisti

    Con l’Espresso, Scalfari ebbe la sua prima medaglia: una condanna a quattordici mesi per aver diffamato il generale Giovanni de Lorenzo. La condanna resta tuttora controversa, visto che fu emessa a dispetto della richiesta di assoluzione avanzata dal pm, il celebre Vittorio Occorsio.
    Ci riferiamo, va da sé, al dossierone sul Sifar e sul Piano Solo, un mega sputtanamento confezionato da Lino Jannuzzi.

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    Il generale Giovanni de Lorenzo

    Allora la galera i giornalisti la facevano per davvero (ne sapevano qualcosa Giovannino Guareschi e Giorgio Pisanò). Ma a favore di Scalfari e Jannuzzi intervenne il Psi, che portò i due in Parlamento, dotandoli dell’immunità.

    Repubblica

    La Repubblica di Scalfari è una delle più geniali intuizioni del giornalismo italiano. Fondato nel 1976, fu il primo grande quotidiano della sinistra.
    In questo caso, si parla di quotidiano indipendente, cioè non subordinato al Pci e ai suoi satelliti. Fu una botta di fortuna, propiziata anche dal grande fiuto del fondatore.
    Scalfari, infatti, capì che mancava un organo a una fetta vasta di opinione pubblica, di sicuro sinistrorsa ma non disposta a prendere l’Unità per Vangelo.

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    Eugenio Scalfari negli anni d’oro di Repubblica

    Complice una grande squadra di cronisti giudiziari e di notisti politici, il nuovo quotidiano prese il volo. La formula era semplice ma efficace: Scalfari e i suoi riprendevano le inchieste dei giornali d’assalto (Paese Sera e L’Ora di Palermo, per capirci) ma senza l’ombra del comitato centrale comunista.
    Repubblica dialogò con un pubblico enorme, che andava dalla sinistra liberale a quell’area filocomunista che considerava Berlinguer un messia. E sfondò.

    Il giornale chiesa

    Secondo molti, Repubblica fu un giornale-partito. Ma questa definizione è sbagliata per difetto: Scalfari, in realtà, aveva fondato una Chiesa.
    Laica, a tratti atea come si dichiarava il suo fondatore, ma pur sempre chiesa. Sulle colonne di questo giornale prese forma il sinistrese politicamente corretto, che sopravvisse a tutti i traumi della sinistra.
    Grazie a questa formula, Scalfari si prese il lusso di dichiarare prima guerra a Craxi e poi a Berlusconi, per esempio. E di vincerla sempre.
    Tangentopoli non sarebbe stata Tangentopoli se prima non ci fosse stato il lungo lavorio di Repubblica, che fece scuola anche tra molti giornalisti che a Repubblica non misero mai piede. Idem per Berlusconi, che pure riusciva a parare i colpi col suo impero editoriale.

    L’anti giornalista

    Fazioso ma non per conto terzi, autoreferenziale e un po’ arrogante, Scalfari per molti versi può essere definito un anti giornalista.
    Fanno fede, al riguardo, gli articoli lunghissimi, i periodoni un po’ manzoniani e un po’ barocchi e l’autocompiacimento, che arrivava alla scrittura in prima persona. Roba che per molto meno Montanelli avrebbe sparato.
    Eppure Scalfari, nonostante ciò, ebbe un successo smodato e divenne un riferimento. Tant’è che i lettori di giornali si possono dividere in tre categorie: quelli che riuscivano a capire Scalfari, quelli che lo leggevano comunque e quelli che lo detestavano.
    Anche in età da pensione il Nostro si tolse una soddisfazione per cui dozzine di giovani, anche più atei di lui, venderebbero l’anima: un dialogo privilegiato con papa Francesco.

    Papa Francesco, l’ultimo illustre intervistato (e un po’ vittima) di Scalfari

    Un dialogo strano, fatto di smentite vaticane e di abbracci pontifici. Scalfari veniva accusato di mettere in bocca al papa cose mai dette e ciononostante, continuava a intervistare Bergoglio come se nulla fosse.
    Scriveva come gli pareva (benissimo per un intellettuale, non troppo per un giornalista) e faceva comunque opinione. Insomma, essere Scalfari è il secondo desiderio di un giornalista ambizioso (il primo è avere un articolo 1 al Corriere della Sera).
    E allora che dire? Scalfari è vivo e lotta con noi. E tutto il resto è fuffa.

  • Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

    Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

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    Una domanda banale per iniziare: a che servono i giornalisti in Italia?
    La risposta è scontata: a fare da ufficio stampa ad alcune Procure. O dall’altro lato della barricata, ad altrettanti studi legali.
    Poi servono nelle tornate elettorali: c’è sempre qualche inchiesta che azzoppa qualcuno o un virgolettato che fa comodo.
    Ma i giornalisti servono, soprattutto, quando costano poco e quando si prestano, in maniera più o meno disinteressata, a far da carne da cannone.
    Soprattutto, a livello giudiziario. Quanto tutto questo incida sulla libertà di stampa (e sulla correlata libertà di informazione, specie in Calabria) è facile da capire.

    Informazione: Italia tra le ultime, la Calabria è peggio

    Lo ha detto più volte l’Ocse: l’Italia è piuttosto giù nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa. E va sempre peggio, perché nel 2022 siamo scesi al 58esimo posto (su un totale di 180), come denuncia l’ultimo World Press Federation Index.
    Il rapporto indica soprattutto una causa di questa situazione non brillante per un Paese occidentale: l’autocensura.

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    La libertà di stampa in Italia secondo l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere

    Ci si autocensura perché si rischia tanto, a livello legale. Poi ci si autocensura perché si è pagati troppo poco per rischiare. Oppure perché gli editori, oltre che di spendere il meno possibile, si preoccupano di non dar fastidio ai padroni del vapore (sul quale sono a bordo o contano di salire).
    In tutto questo, com’è messa la Calabria? Malissimo, va da sé. E la situazione è quasi impossibile da quantificare perché mancano dati precisi.

    L’informazione in Calabria e le querele à gogo

    Qualche mese fa l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva ribadito la necessità di tutelare i giornalisti dalle liti temerarie.
    Questa dichiarazione finì in un appello firmato da quasi tutte le testate calabresi, inclusa la nostra, e da singoli giornalisti.
    L’emergenza c’è. Anche se mancano i numeri per definirla. Qualcosa la si apprende dalla Polizia postale, che in seguito all’esplosione del giornalismo online, è diventata il terminal delle querele.

    Queste, in Calabria, si aggirano grosso modo attorno al centinaio l’anno. Tantissimo, se si considera il totale degli iscritti all’albo e lo si proietta sulla popolazione regionale.
    Altra domanda: che fine fanno queste querele? Una statistica giudiziaria è impossibile.
    Tuttavia, non ci si allontana dalla realtà se si ipotizza che circa il 60% finisce in niente. In pratica, non arriva neppure all’avviso di garanzia.
    Di quel che resta, una parte maggioritaria va a dibattimento. Più limitato il numero delle condanne (in pratica, il 15% del totale). Ma questi, ripetiamo, sono dati molto informali, da prendere con le pinze.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho

    Quando le querele imbavagliano

    Se molte finiscono in niente, perché le querele imbavagliano? Innanzitutto, per i costi legali, che ci sono anche per i prosciolti.
    Poi, ovviamente, per motivi di serenità. Peggio ancora con le richieste di risarcimento danni, che obbligano comunque a difendersi e non offrono le garanzie del procedimento penale.

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    Una rotativa in funzione

    Qualche domanda a Cafiero

    Il problema è semplice: querelare è facile. Ed è facile non perché le normative che regolano l’editoria e la professione sono in buona parte obsolete.
    La facilità con cui si querela è dovuta alla giurisprudenza, che ha aumentato a dismisura le possibilità di far condannare i giornalisti.
    E allora: Cafiero sa che si querela molto perché una buona fetta dei suoi colleghi magistrati ha aumentato la “querelabilità” a botte di sentenze? Inoltre, lui o qualche altro big in toga hanno mai pensato di far dibattere al Csm questo problema?

    Redazioni a macchia di leopardo

    Gli editori (parliamo di editoria periodica) si dividono in tre categorie: quelli che pagano, quasi inesistente, quelli che pagano male, i più, quelli che non pagano affatto.
    Concentriamoci sulla seconda.
    Pagare male, in questo caso, significa pagare il minimo indispensabile. Ovvero, contrattualizzare decentemente solo i pochi redattori che servono per ottenere i finanziamenti pubblici e gli sgravi. Il resto, pazienza: si accontenterà di paghe da fame ottenute attraverso contratti borderline.

    D’altronde, quanti part time, verticali od orizzontali, o co.co.pro coprono prestazioni professionali da tempo pieno e indeterminato?
    Ciò comporta che più o meno tutte le redazioni siano a macchia di leopardo. Cioè che gli articoli uno condividano pc e scrivanie con part time che fanno il loro stesso lavoro.
    Gli esempi abbondano: tra questi la vecchia Provincia Cosentina (che chiuse i battenti nel 2008) e Calabria Ora/L’Ora della Calabria, che non esiste più dal 2014.

    La vera minaccia alla libertà

    La contrattualizzazione a macchia di leopardo non è solo colpa degli editori “taccagni. In buona parte, invece, è dovuta alla fragilità del mercato, che non consente l’editoria “pura”, che resiste, spesso male solo in alcune nicchie (inesistenti in Calabria).
    Gli editori calabresi sono sempre stati “impuri”, che non significa necessariamente cattivi. Sono imprenditori che hanno il core business altrove e usano i media per curare i propri interessi.

    In Calabria nel mondo dell’informazione questo principio vale quasi per tutti, con la palese eccezione de I Calabresi.
    Il resto, vuoi per mancanza di business, vuoi per prassi consolidate, segue le regole dell’aziendalistica, deformate sulle abitudini regionali: pagare poco e male, fino a ricorrere al nero.
    In fin dei conti, la minaccia per eccellenza alla libertà di stampa è questa: un cronista pagato male e tutelato peggio (quanti sono i giornalisti coperti da assicurazioni professionali?) è un cronista che lavora male.

    La bassa qualità dell’informazione in Calabria (e non solo)

    Ma la poca libertà di stampa non è solo un affare degli addetti ai lavori. Riguarda anche il pubblico, perché spesso si traduce in informazione di cattiva qualità.
    A questo punto, è scontata una domanda: perché una persona preparata e dotata delle qualità che fanno il buon giornalista dovrebbe imbarcarsi in un mestiere duro, a volte rischioso? E in cambio di cosa? Quattro spiccioli e la certezza di guai giudiziari, se va bene, o fisici, se va male?

    Il caporalato

    Altre testate sono sopravvissute attraverso due pratiche a rischio: la cooperativa di giornalisti (è il caso de Il Garantista) e l’affidamento a uno o più service (il Domani della Calabria e, più di recente, La Provincia di Cosenza).
    Le cooperative hanno una forte controindicazione: trasformano i giornalisti in imprenditori. In pratica, li costringono a fare un mestiere non loro. Questo quando funzionano. Ma, al riguardo, in Italia c’è solo il Manifesto che corrisponde ai criteri di una cooperativa vera. Per il resto, sono imprese mascherate, che scaricano sui dipendenti i rischi dell’imprenditore.

    I service, cioè le agenzie stampa che gestiscono testate intere o loro singole parti, possono essere peggio. In queste forme di gestione, infatti, si annida il caporalato, perché il titolare dell’agenzia gestisce un forfait e non è detto che lo faccia in maniera trasparente.
    Ad ogni buon conto le garanzie per i giornalisti rischiano di essere minime, visto che non sono infrequenti i casi in cui le eventuali querele sono a carico del service e non dell’editore…

    L’informazione in Calabria: chiusure e fallimenti

    Gli editori “impuri” sanno bene una cosa: che i giornali, comunque li si gestisca, sono aziende in perdita.
    Quando il costo supera gli utili “immateriali” (pubblicità alle proprie aziende, e possibili “attacchi” a concorrenti o politici ostili), di solito si chiude o si fallisce.
    È capitato alla Provincia Cosentina, ceduta dal gruppo Manna a un gruppo di giornalisti e fallita nel giro di tredici mesi. È capitato a Calabria Ora, fallito dopo vicende controverse. Più sfumata la storia del Garantista, che ha subito un cambio di gestione è poi è fallito.
    Queste tre chiusure hanno lasciato strascichi pesanti di vertenze e questioni giudiziarie irrisolte. Più una tragedia: il suicidio di Alessandro Bozzo, storica firma del giornalismo cosentino.

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    Alessandro Bozzo: la sua tragica morte fece riaccendere i riflettori sullo stato dell’informazione in Calabria

    Quanti peli ha la solidarietà?

    Di Alessandro si ricorda un funerale commovente, un processo per far chiarezza sulla morte, qualche evento pubblico e due libri dedicati a lui.
    Della chiusura di Calabria Ora/L’Ora della Calabria, invece, si ricordano le polemiche e gli scandali.
    Dei giornalisti, anche talentuosi, espulsi dalla professione non si ricorda nessuno, tolte le parole di circostanza.
    Del vecchio assetto dell’editoria periodica calabrese restano in piedi due testate: il Quotidiano del Sud (già della Calabria), e la Gazzetta del Sud, più una galassia di giornali online di diversa qualità e fattura.
    Il precariato è la norma, in questa situazione: vi si resiste solo passando da una testata all’altra, spesso in condizioni di estremo disagio.
    Che libertà e che qualità si possono assicurare per questa via? Il resto, le indignazioni passeggere e le finte solidarietà sono chiacchiere.

  • Il caso de I Calabresi arriva in Parlamento

    Il caso de I Calabresi arriva in Parlamento

    La strana vicenda de I Calabresi approda in Parlamento. Il 22 giugno scorso è stata presentata un’interrogazione parlamentare rivolta al presidente del consiglio dei ministri, Mario Draghi. Primo firmatario è stato il senatore Elio Lannutti. Gli altri, preoccupati per una possibile limitazione della libertà di stampa, sono: Nicola Morra (presidente della Commissione Antimafia), Rosa Silvana Abate, Bianca Laura Granato e Luisa Angrisani.

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    Elio Iannutti, senatore e primo firmatario della interrogazione parlamentare sul caso del giornale I Calabresi

    Nella interrogazione parlamentare si legge testualmente: «I Calabresi è un giornale on line fondato il 19 luglio 2020, edito da Calavria editrice S.r.l. di cui è socio unico la fondazione Attilio e Elena Giuliani onlus, con sede a Villa Rendano (Cosenza), e diretto da Francesco Pellegrini; il tipo di approccio cui si ispira il giornale è quello del giornalismo d’inchiesta, “con l’intento primario di non omettere o manipolare le notizie, rispondere solo ai lettori, essere svincolati dai pregiudizi di tipo politico o ideologico ed utilizzare essenzialmente fonti primarie per la raccolta delle informazioni”. Il suo obiettivo principale è quello di “dare voce a tutte le persone che vivono in Calabria e a coloro i quali sono legati a tale regione, per garantire un’informazione libera affidata a bravi giornalisti”».

    Come risulta – continua il testo dei parlamentari «da un articolo del giornale I Calabresi intitolato “Così vogliono fermare I Calabresi” a firma di Francesco Pellegrini, uscito il 20 giugno 2022, ci sono stati diversi tentativi da parte di soggetti interni alla fondazione, e non solo, di affondare il giornale e metterlo a tacere una volta per tutte».

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    Il direttore de “I Calabresi”, Franco Pellegrini

    «I fatti a cui si fa riferimento nell’articolo – scrivono i parlamentari – sono stati oggetto di apposita denuncia alle autorità competenti. In particolare, si riporta la frase pronunciata dal consigliere della fondazione Walter Pellegrini, ripresa anche da altri componenti del consiglio di amministrazione della stessa fondazione, che fa riferimenti espliciti alla linea editoriale: “Il giornale I Calabresi è dannoso per la Fondazione”. È bene ricordare che ad oggi “I Calabresi” risulta essere “letto e apprezzato da oltre 2 milioni di lettori in tutta Italia e in Europa, mentre la stima del valore patrimoniale è di 240mila euro”; il consiglio di amministrazione della fondazione tenutosi il 30 maggio 2022 è stato dichiarato, da quello che risulterebbe essere l’ex presidente del consiglio di amministrazione Francesco Pellegrini, come risulta dal verbale, “illegittimo” e contrario agli interessi della fondazione».

    «Nonostante l’appunto, – continua il testo dell’interrogazione parlamentare – è stato eletto nuovo presidente della fondazione Walter Pellegrini, grazie anche al sostegno di “soggetti a lui fedeli, tra i quali vi rientra l’ex sindaco archistar di Cosenza Mario Occhiuto”, come sottolineato dal presidente uscente, una manovra, a quanto è dato capire, che sembrerebbe dunque funzionale a liberarsi de “I Calabresi”, dando l’ambiguo messaggio che “l’ordine è stato ristabilito”. Tuttavia, ad oggi (21 giugno 2022), sul sito della fondazione il nome del presidente non è stato ancora modificato».

    Considerato tutto questo, i parlamentari chiedono al presidente del consiglio dei ministri, attraverso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio, «se sia a conoscenza dei fatti esposti e se intenda tutelare, con iniziative di propria competenza, il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente, tenendo conto che la libertà di stampa è tutelata nell’articolo 21 della Costituzione».

    E chiedono altresì «se il Governo, nei limiti dei suoi poteri, intenda intervenire per tutelare la libertà d’informazione che risulta essere censurata, di fatto, nei suoi contenuti essenziali».

  • Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

    Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

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    «Mio fratello aveva vinto un viaggio-premio con la Findus, disse: vieni, mia moglie rinuncia, dobbiamo tirarci su. Andammo dunque a Rio de Janeiro: stavamo salendo verso il Cristo del Corcovado quando sentimmo alla radio la parola “Taurianova” E io mi sentii piccolo così».
    Negli anni ’90 la frase «Tanto si ammazzano fra loro» non prevedeva la presenza di innocenti.

    Il paese di don Ciccio Macrì detto Mazzetta, della sua Mercedes e dell’ospedale che sistemava tutti. Pertini che lo caccia via con un provvedimento senza precedenti, il consiglio comunale sciolto per mafia. E poi la faida, la Calabria buia, perduta, tribale. Oltre trent’anni dopo, è successo che alcuni parenti delle vittime – delle une e delle altre famiglie – hanno ideato e partecipato a un docufilm, presentato nella chiesa del Rosario. Persone da ascoltare – gente come noi, con gli occhiali, con i figli, ma bollati a vita – perché questo è un piccolo miracolo. Un segno di futuro, che va oltre la paura e il risentimento.

    Così hanno salvato i bambini delle faide 

    C’è una storia di quegli anni, rivenuta fuori da poco e raccontata anche da don Luigi Ciotti: a quel tempo, i bambini delle faide calabresi furono nascosti a casa di famiglie che si offrirono di crescerli, a rischio della vita. Quei bambini oggi sono uomini e donne salvate, magari hanno un altro nome, uno fa il musicista. Il male ha un appeal commerciale, il bene stufa: chi ha mai raccontato questa storia? Del resto viviamo in un paese in cui i libri noir sono più degli omicidi.

    Quel romanzo e la distruzione di una comunità

    Patria di Fernando Aramburu non è un noir ma una storia vera: letta, riletta, regalata. Parla del terrorismo dell’Eta nei Paesi Baschi, di innocenti ammazzati, di esistenze al buio e morti che camminano, di un sentimento che non è mai perdono, forse rimorso. Di posti chiusi, silenzi e omertà. Aramburu racconta la distruzione di una comunità, che è poi quello che accadde a Taurianova e ad altri paesi della Calabria. Con una rinascita che arriva all’ultima riga.
    Quindi, ecco il docufilm Il Venerdì nero: dopo trent’anni di silenzio che non sono passati invano. Insolita la location per la presentazione, ma girando per la Calabria, scoprirete che moltissime esperienze di riscatto, di lavoro e di resistenza partono da una molla, la fede. Non ci sono state solo processioni fermate sotto il balcone del boss, ma preti e, meno spesso, vescovi che si sono ribellati.

    Fu una faida feroce, i particolari macabri stanno dentro la letteratura della ‘ndrangheta e ne parlarono anche a Rio, come racconta il figlio e nipote di due vittime, oggi assessore. Ci furono decine di morti, fu colpita una ragazzina. La vendetta doveva arrivare ai figli dei figli, ai padri dei padri. Taurianova è più grande di Locri, ha il colore delle campagne. In certe strade senza nome ci si perde, ogni tanto il cippo di una Madonna e fiori finti, confini invisibili, e una varietà incredibile di case: esagerate, non-finite, dignitose. Ci sono tornato di recente per Agrifest, su invito di un gruppo di ragazzi conosciuti in un centro civico dove si fa formazione e accoglienza: lavorano per la buona e sostenibile agricoltura, prezzo giusto, salario giusto.
    Ma quanti anni sono passati, Taurianova? Nel ’91 per la mattanza scattò il coprifuoco.

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    L’articolo della Gazzetta del Sud sulla terribile strage di Taurianova, nota come il “Venerdì nero”

    Tutto quello che è rimosso, prima o poi riaffiora

    Il sociologo Mimmo Petullà, figlio di una vittima, dice nel film: tutto ciò che è rimosso, prima o poi riaffiora. «E non bisogna scadere nella commemorazione, lo scopo è quello di ricostruire una memoria collettiva. La ‘ndrangheta ha paura della memoria, ha bisogno di persone che non pensano». Dietro di lui, la foto del padre. I ragazzi del Pci appena diventato Pds scesero allora in piazza per dire basta, Giovanni Accardi dice: «Volevamo occupare il nostro spazio di giovani, non potevamo mettere la testa sotto la sabbia». Il Partito comunista aveva già i suoi martiri: Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti, Giannino Losardo.

    «Noi non ci vendicheremo»

    Il Venerdì Nero, un anno di lavoro, è firmato da Nadia Macrì, che è direttrice di Taurianova Talk, e dal cugino Filippo Andreacchio. Il loro nonno si chiamava Antonio Alampi e fu colpito alle spalle, nella campagna verso Polistena. «La sua storia ha segnato la nostra famiglia: era tornato a piedi a casa dalla guerra, aveva visto l’orrore. Non sopportava le armi. Due settimane dopo uccisero nello stesso luogo un’altra persona, ci è rimasta sempre in testa l’ipotesi che nonno Antonio fosse stato colpito per sbaglio». In chiesa, Vincenzo “Cecé” Alampi, suo figlio, si alzò in piedi per dire che no, loro non avrebbero reagito. «Andiamo avanti, non ci vendichiamo» disse. Poi è diventato direttore della Caritas diocesana. Oggi aggiunge: «Non siamo rimasti intrappolati dalle ragioni del passato».

    Nadia Macrì era bimba a quei funerali e da allora le ronza in testa quella frase di Peppino Impastato: «La mafia è una montagna di merda». Forse questo film è una forma di perdono? «Nessuno ce lo ha mai chiesto. Più che perdonare, mi viene in mente il verbo ricominciare».
    La voce della cronaca nera è di un carabiniere, il maresciallo maggiore Salvatore Barranco, che guida la caserma della cittadina. L’elenco dei morti è speculare a quello di chi è finito in carcere, di chi si è pentito. «Nessuno ci ha detto no» – commenta Nadia Macrì: «Si sono fidati tutti».
    Angela Napoli, parlamentare del centrodestra che finì sotto scorta per le sue denunce, ricorda che allora non si parlava di criminalità nelle scuole: la consapevolezza arrivò dopo le stragi del ’92. Ma Taurianova è stata più lenta di altri paesi.

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    Angela Napoli, ex parlamentare del centrodestra e membro della Commissione Antimafia

    Quel giorno mio padre doveva andare dai professori

    Massimo Grimaldi, assessore alla Legalità e allo spettacolo di una giunta in teoria leghista – per l’influenza dell’ex presidente regionale facente funzione Nino Spirlì – in pratica ormai civica, non trattiene le lacrime. «Fecero uscire mio padre e mio zio dal negozio, fu un’esecuzione. Quel giorno papà doveva andare al colloquio con i professori. Se sai che ha sbagliato, pensi: se l’è cercata. Non ho nemmeno questa consolazione».
    C’è il viceparroco di Rosarno, don Giovanni Rigoli, che ha fatto la tesi sullo scioglimento dei comuni per mafia. Ricorda l’arciprete Muscari-Tomaioli, che stampò un manifesto dirompente e coraggioso: «Fermatevi e siate maledetti da Dio. Io non vi conosco, ma con quale coraggio vi dichiarate fedeli della Madonna della Montagna, se non risparmiate nemmeno una bambina di tredici anni». La Madonna di Polsi, la devozione e “Il Crimine”, citata in mille ordinanze.

    Alla proiezione mancava il sindaco

    Alla proiezione non c’era proprio tutto il paese, ma quasi: mancava il sindaco, c’erano tutti gli assessori, maggioranza e opposizione, le associazioni, di sicuro qualcuno non è venuto perché ha già versato troppe lacrime, il vescovo ha mandato un messaggio. Ma la chiesa del Rosario era piena, Nadia è stata felice di vedere tanta gente. In molti non avranno dormito, una carrellata di facce sarebbe stata una bella scena per il film, che presto sarà disponibile su YouTube. Merita di finire in qualche Festival, non è solo la storia di Taurianova ma di anni dominati dalla paura e dal dolore, di certi nostri fantasmi. E di una nuova generazione che non ne vuole avere più.

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    La proiezione del docufilm nella chiesa del Rosario a Taurianova
  • Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

    Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

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    Negli anni Cinquanta si assiste in Calabria a un grande successo del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andavano in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piazze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un furgone, sistemavano un telone bianco sulla facciata di una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regime. Nel dopoguerra le sale cinematografiche erano sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti a stare in piedi, visionavano una pellicola anche due o tre volte.

    Il cinema sbarca in Calabria

    Nell’inverno del 1949 a San Giovanni in Fiore fu girato Il lupo della Sila e per diversi giorni gli abitanti ebbero occasione di vedere attrici e attori famosi come Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari e Jaques Sernas. La simpatia e le attenzioni dei giovani sangiovannesi era tuttavia rivolta alla bellissima Silvana Mangano, la star reduce dallo straordinario successo di Riso amaro. Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Monicelli, voleva avere una impronta realista e una sensibilità etnografica. In realtà, però, si tratta di un cupo melodramma che ripropone l’immagine del calabrese geloso e vendicativo e tradizioni popolari inventate come la gara del taglio degli alberi.

    Dalla Sila all’Apromonte

    Il lungometraggio ebbe un discreto successo e l’anno seguente Ponti e De Laurentiis producono Il brigante Musolino. Dalla Sila si passa all’Aspromonte ma i temi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessi della precedente. Il protagonista personifica i caratteri stereotipati del calabrese: forte, spietato, violento, vendicativo e sanguinario. I delitti del romantico giustiziere si susseguono, lo scenario sociale è assente e il brigante si pone al di fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chiesa. Calabresella viene cantata sia al matrimonio che durante la vendemmia.

    I calabresi come barbari

    Il lupo della Sila e Il brigante Musolino fornivano un’immagine negativa dei calabresi: genitori che per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce per paura e interesse, giovani irruenti, passionali e pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e difendere l’onore della famiglia. I film, tuttavia, non suscitarono proteste e solo alcuni cortometraggi come Calabria segreta di Vincenzo Nasso furono aspramente criticati. Giornalisti e intellettuali calabresi rimproverarono al regista di avere rappresentato una immagine falsa della regione.

    Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario prodotto dalla Rai, era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di un film di «pessimo gusto» che rivelava una spaventosa ignoranza della regione. Il regista «supercivile», con duelli feroci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari, ignorando che la Calabria non era stata patria del banditismo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e onesto, amante della famiglia, della casa e della patria. Anche la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosentino il cortometraggio definendolo una produzione cinematografica «nauseante» per aver presentato i calabresi come feroci e primitivi.

    L’altro cinema in Calabria

    Non tutti i cineasti condivisero le scelte dei grandi produttori cinematografici. Negli anni Cinquanta alcuni registi realizzarono documentari sulla realtà economica, sociale e culturale della regione. I calabresi e la Calabria si prestavano bene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazione cinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespada con tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente, fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo sangue lungo i vicoli dei paesi e donne che raccoglievano olive ai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia, erano soggetti e luoghi ideali per girare un film.

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    Roma, l’ingresso degli studios di Cinecittà

    I contadini segnati dalla fatica e ammantati con panni consumati dal tempo, apparivano più interessanti di attori del grande cinema dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati provenienti da atelier; i paesi e le case abbarbicati su luoghi aspri e inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coperte da boschi impenetrabili erano più avvincenti dei paesaggi freddi e irreali costruiti negli studios di Cinecittà.

    I documentari e la cura per le immagini

    Alcuni registi erano affascinati da quella regione che ai loro occhi appariva come un luogo mitico, dove la natura era incontaminata e dove gli uomini vivevano in maniera semplice. Erano attratti da quella terra arcaica e spesso eliminavano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il pathos della pellicola. A volte ricostruivano i rituali con attori di strada per renderli più spettacolari e drammatici. Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documentaristi, nel cortometraggio I dimenticati, per riprendere la festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese ai paesani di ricostruire alcuni momenti del rito.

    Gli autori dei documentari filmavano la Calabria che avevano già in mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitassero meraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori. Accompagnavano le sequenze con voci declamatorie. Utilizzavano colonne sonore per drammatizzare le scene. Davano al montaggio un senso di ansioso reportage. Eliminavano tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico. Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla cura della fotografia. Le immagini “dovevano parlare da sole”. In un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rappresentati cultura, passioni e lavoro di un popolo.

    La Calabria onirica al cinema corto

    Spesso finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta di volti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e selvaggi. Immagini belle sul piano filmico ma inventate e astoriche. I registi del “cinema corto” documentavano il reale ma al tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinematografica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevano a vedere solo la parte arcaica della Calabria e a ignorare quella che si stava trasformando per effetto della modernizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a disinteressarsi dei forti cambiamenti che si verificavano nelle campagne, a non tenere conto del fatto che la logica del profitto stesse annullando le diversità culturali, a sottovalutare il senso di sradicamento presente in larghi strati della popolazione, a non vedere che la cultura dei calabresi si stava trasformando.

    Qualcuno criticò tali documentari ricordando che la Calabria non era una terra semplice in cui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire, dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’erano momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, dove c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano.
    I registi di documentari e cortometraggi ebbero comunque il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed etnocentrismo con cui i colleghi del grande cinema avevano ripreso e riprendevano la Calabria.

    Antico vs Moderno

    Nelle loro pellicole non si vedono i volti felici di contadini che mietono il grano dei cinegiornali, ma visi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne ridenti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiumi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevoli paesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’incuria del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani, nei loro filmati appartengono a un mondo millenario dove l’agire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, gente anonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esistenza in una natura straordinariamente bella, ma spesso aspra e violenta, amara e ingrata.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina Facebook “Calabria Fotografia Sociale”)

    Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classi subalterne una dignità culturale che veniva denigrata da un vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismo imperante. Scarsamente attratti dalla religione del progresso, si schieravano con la gente povera del Sud che pagava più di ogni altro il processo di modernizzazione. Proponevano col loro cinema una lettura etica e umanista della Calabria e dei calabresi, una visione che si contrapponeva a quella di intellettuali e politici che pensavano ad una rinascita della regione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e retriva dei suoi abitanti.

    Pasolini e le critiche

    Nel dopoguerra tra molti calabresi si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di una parte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presentare la regione come una terra arretrata. Nel 1959, in occasione di alcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi, molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalista scriveva che avrebbe voluto «sputare» sul volto dello scrittore il più profondo rancore e risentimento per le «espressioni bassissime» da lui rivolte alla sua gente.

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    Pasolini a Crotone

    La sua «sfacciataggine» era odiosa e, più che una risposta polemica, avrebbe meritato quattro poderosi calci «con le scarpe chiodate» di quei robusti boscaioli della Sila che «stillavano sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo di pane nerissimo». Il popolo calabrese era il più educato e il più generoso dei popoli, «ma guai a chi avesse cercato di calpestargli i calli!». Un altro periodico pubblicava la lettera aperta di un lettore che accusava Pasolini di avere usato nei confronti della Calabria le solite frasi «trite e ritrite» di chi è prevenuto: gli uomini della regione erano sani e belli e le donne erano abbronzate, efebiche, belle e affascinanti! .

    Il Rally del cinema: la Calabria sulla stampa nazionale

    Nello stesso anno, un fatto accaduto a Castrovillari suscitò un vivace dibattito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno, in occasione del Rally del cinema (gara automobilistica definita Mille miglia delle stelle), il marchese Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sosta presso un distributore di benzina, infastidito dalla folla che faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere di ghiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti persone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impaurito dai giovani che avevano perso letteralmente la testa per la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercando di farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corrispondenza di Paese Sera si legge che, in ogni paesino della Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente le macchine del rally prendendo gli equipaggi «a pacche, pizzicotti e sganassoni».

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    Eleonora Ruffo in posa sul balcone della sua casa romana (foto Archivio Istituto Luce)

    Si trattava di gente analfabeta e ignorante che perdevano la ragione di fronte a bellissime bionde come Eleonora Ruffo, che per il caldo sollevava le gonne ad altezze vertiginose! In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani avevano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberg e qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro Gerini dopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e parole offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanati ma gente civile e ospitale: ragazze in costume tradizionale avevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’amministrazione comunale aveva offerto un pranzo a base di pollo arrosto e ottimo vino.

    Anita Ekberg e il processo a Castrovillari

    L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, la celebre diva del cinema «dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madreperlacea» che «camminava quasi sempre a piedi nudi e usava il reggiseno solo quando andava a cavallo», giunse in Calabria per testimoniare al processo contro Gerini. Quando scese dalla macchina davanti al tribunale di Castrovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse con un forte applauso. L’attrice, vestita elegantemente nella sua princesse nera con stola di visone selvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e giornalisti.

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    Anita Ekberg in aula nel Tribunale di Castrovillari

    In aula, alla richiesta del Presidente della Corte di dichiarare la sua età, l’attrice rispose che quella non era una domanda da rivolgere a una donna. E, nella deposizione, scagionò il marchese dichiarando che i giovani erano diventati così invadenti da sedersi sul cofano della macchina. Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcun bottone e che quel giorno era vestita come una collegiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante il processo, il presidente della corte fu costretto a far sgomberare l’aula per il clima esagitato. La deposizione della Ekberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’onorevole Migliori al ministro di Grazia e Giustizia nella quale si chiedeva se, come attestato da foto comparse su giornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e pose in contrasto col decoro delle aule giudiziarie: gambe accavallate, décolleté a vista e braccia scoperte!

  • Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Florindo Rubbettino è l’amministratore della più importante realtà editoriale del Sud.
    Fondata da suo padre Rosario nel 1973, la Rubbettino vanta un catalogo di oltre tremila titoli. Un catalogo decisamente onnivoro in cui passa di tutto purché di qualità. E, soprattutto, senza preconcetti culturali o, peggio, ideologici. Vi trova posto, ad esempio, Leonardo Sciascia, a fianco di filosofi come Dario Antiseri, Carlo Lottieri e Giuseppe Bedeschi.

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    I tipi di Rubbettino, inoltre, “macinano” politologi (Alessandro Campi, Rudolph J. Rummell), sociologi (Pino Arlacchi), storici (Christopher J. Duggan ma tantissimi altri di vaglia). E non mancano i politici, che hanno raccontato sé stessi e le loro visioni (Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Paolo Savona).
    Intenso anche lo scavo nella cultura regionale, operato con la riedizione degli autori calabresi più importanti o di grandi autori che si sono occupati della Calabria.

    Da Soveria Mannelli al Salone di Torino

    Quest’avventura continua, dopo quasi cinquant’anni, lì dov’è nata: a Soveria Mannelli, nel cuore della Sila Piccola.
    A dimostrazione che la marginalità del territorio non è sempre e necessariamente un ostacolo.
    Reduce dal Salone del Libro di Torino, Florindo Rubbettino, ha ripreso la sua polemica nei confronti della classe politica meridionale e calabrese in particolare: «Il livello, nell’ultimo ventennio, è sceso tantissimo e forse questo declino è lo specchio della società».

    Florindo Rubbettino e la politica

    La società civile deve liberarsi di certe catene, ha sostenuto l’editore. Anche se – ammette – in Calabria non è facile: «Siamo tra gli ultimi in Europa anche nella lettura, dove ci battono anche i Paesi dell’Est Europa e il nostro pubblico è soprattutto fuori regione».
    Questo primato negativo, sostiene sempre Rubbettino, si riflette anche sull’economia e sul livello della vita civile. Già: «I Paesi più ricchi sono quelli in cui si legge di più».
    Le ipotesi, ventilate in passato, di candidature alla Regione sono sfumate. E ora Florindo Rubbettino le rispedisce al mittente.
    Questo e altro nell’intervista rilasciata a I Calabresi.