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  • Selfie ergo sum: se l’ego social batte la morte

    Selfie ergo sum: se l’ego social batte la morte

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    Per fare pazientemente la fila al funerale di un personaggio famoso per farsi un selfie con la vedova ancora più famosa e magari aver pure sorriso, si deve aver attraversato tutto il cavo teso tra l’umano e il disumano. E soprattutto non si deve aver mancato l’appuntamento nemmeno con una puntata di Uomini e donne e di C’è posta per te.
    Si deve aver perso il senso del pudore, la misura del limite e perfino della morte. Si deve aver interiorizzato l’idea che lo spettacolo deve continuare, anzi che lo spettacolo sia la vita stessa, che gli attori siamo noi. E si deve essere, smarrito il senso del mostruoso, del tutto immersi nell’idea che si esiste se ci si mostra.

    Il selfie funerario

    «È la televisione, bellezza e non puoi farci niente», si potrebbe dire parafrasando Hutcheson – Bogart. In realtà le cose sono più complesse. Si tratta di una forma pervasiva ed efficace di egemonia culturale, non esattamente gramsciana. Essa si fonda sull’inconsapevolezza, sulla distrazione, sulla ricerca effimera di una manciata di secondi di celebrità da eternare con una foto sui social.
    Il selfie funerario celebra il connubio tra televisione e social: mi fotografo con l’incarnazione della Tv per poi spammare l’immagine su un canale condiviso.

    Cattiva maestra televisione

    Dietro questo gesto c’è il ripudio di ogni forma di riservatezza, di garbato rispetto. C’è il trionfo dell’ostentazione, dell’esporsi come forma vitalistica, come senso dell’esistenza. Chi dovesse pensare che oggi il controllo sociale passa attraverso i social dovrà ricredersi: la televisione non ha ancora ceduto il proprio dominio nel forgiare le menti e anzi ha compiuto per intero la sua missione, farci credere che quel accade lì dentro sia tutto vero, mentre è arte e finzione.

    Selfie col vivo al capezzale del morto

    Per questo sono stati in tanti ad aspettare il proprio turno, non per salutare una persona morta, ma per fotografarsi con una persona viva e lanciarsi nella caccia «dell’Amen della devozione digitale che è il like», come scrive Byung Chul Han.
    Per consentire questo il mondo della televisione esce dagli schermi e si consegna al proprio popolo, si fa toccare – cosa inconcepibile in una monarchia vera, dove i re sono intangibili – si fa fotografare. Alla fine resta l’emozione del selfie che nel capitalismo emozionale è solo una delle merci da pagare con le condivisioni.

  • Burioni e la pitta ‘mpigliata: un rapporto erotico

    Burioni e la pitta ‘mpigliata: un rapporto erotico

    Forse la Calabria non è messa così male. parola di Roberto Burioni, secondo cui i Finlandesi starebbero peggio di noi. Anzi, la pitta ’mpigliata ci salva alla grande.
    Lo scienziato superstar ha commentato a modo suo i risultati di un report sulla qualità della vita, in cui ai primi posti figurano la Finlandia Occidentale e le Isole Åland, provincia autonoma della Finlandia.
    La Calabria, invece, è nei posti medio-bassi della classifica, davanti solo a varie zone dell’ex mondo comunista.
    Burioni ha sparato un’arguzia su Twitter: «Qualcuno dovrebbe spiegarmi perché nella giojosissima Finlandia, pur percependo una qualità di vita così fantastica, si suicidano 14 persone all’anno (su 100.000 abitanti), mentre nella disagevole Calabria meno di 6. Sarà merito della pitta ’mpigliata?».

    Il tweet pro pitta di Roberto Burioni

    Roberto Burioni: la pitta è un rimedio erotico

    Burioni non si ferma qui. Nei commenti al suo tweet specifica: «Se non sapete cosa è la pitta ’mpigliata non sapete cosa vi siete persi fino a ora».
    E poi, risponde a un’amica: «È un equivalente erotico».
    Dove non arrivano le statistiche, supplisce la gola. Noi calabresi non ci vogliamo bene. Ma forse certi sapori ci aiutano a resistere.
    E contagiano gli altri. Che miele, noci e pasta frolla siano un antidepressivo?

  • Vincenzo Morello, il giornalista senatore

    Vincenzo Morello, il giornalista senatore

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    Nella Bagnara del 1860, splendida come poteva essere allora, nasce Vincenzo Morello, unico maschio in una ricca famiglia di commercianti. Rampollo baciato già solo per questo dalla fortuna, non evita tuttavia gli studi. Finisce così dapprima al Collegio Donati di Messina, poi – percorso classico per quei tempi – a Napoli per laurearsi in Giurisprudenza. In verità, però, a Morello – avvocato tanto a Napoli quanto in Calabria – il diritto interessa ben poco, mentre è molto più attratto dal giornalismo.

    Rastignac, D’Annunzio e signora

    Nel 1881 fonda a Pisa la rivista Il Marchese Colombi e nel 1887 diventa collaboratore fisso del quotidiano La Tribuna. È tra queste colonne che incomincia ad utilizzare lo pseudonimo Rastignac, ispirato all’Eugène de Rastignac ideato dalla penna di Balzac.
    Lo definiscono «articolista principe del giornalismo italiano» e il suo nome comincia a svettare: è amico di Gabriele D’Annunzio e con lui condivide un profondo scetticismo nei riguardi della politica giolittiana e del parlamentarismo, inteso come «grande scuola di delinquenza nazionale». A dire il vero, con D’Annunzio condivide anche altro, ovvero l’amore per la stessa donna: quella Maria Hardouin di Gallese, moglie del Vate, la quale si toglierà la vita nel 1890.

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    Maria Hardouin di Gallese, moglie di D’Annunzio e amante di Morello

    Vincenzo Morello e il giornalismo

    Morello si lancia totalmente nel giornalismo e diventa redattore del Piccolo, su invito del direttore Rocco de Zerbi, dove intraprende una polemica contro il repubblicano Giovanni Bovio. È così feroce da procurargli in realtà una collaborazione ancora più prestigiosa, ovvero quella con Il Corriere di Roma, guidato all’epoca dalla vulcanica coppia Matilde SeraoEdoardo Scarfoglio, che di Morello fu in qualche modo il mentore.
    Sulle orme della vecchia Tribuna, nel 1890 fonda – assieme a Giulio Aristide Sartorio – la più celebre e popolare Tribuna Illustrata, il primo periodico illustrato italiano.
    Infine, nel 1894 (stesso anno in cui pubblica il volume Politica e bancarotta) fonda Il Giornale, assieme a Bobbi e Bellodi, posizionandolo politicamente intorno alle figure di Zanardelli e Crispi.

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    Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao

    Trombato alle elezioni

    Allora come oggi, raggiunte le vette del giornalismo niente è più semplice che fare anche politica. Nel 1895 Morello si candida alle elezioni per la XIX legislatura nel collegio di Bagnara, ma lo sconfigge il notabile locale Antonino De Leo. Questi – dicono le biografie – «alla forza delle idee aveva anteposto il potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo: accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che scavò una distanza insanabile con la sua città natale».

    L’Ora… di tornare al Sud

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    Torna dunque al giornalismo, pur continuando a sostenere Crispi e a opporre Giolitti. Stavolta nelle vesti di primo direttore del nuovo quotidiano palermitano L’Ora, che si presenta come giornale di opposizione al regime autoritario del generale Pelloux. A chiamarlo per tale ruolo, nel 1900, è l’industriale Ignazio Florio in persona. Qui Morello fa confluire le più note penne del giornalismo italiano e riesce a far diventare L’Ora un giornale moderno, capace di competere con i più grandi quotidiani nazionali.

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    Ignazio Florio junior

    Il ritorno in politica di Vincenzo Morello

    Ma Morello fu anche poeta, drammaturgo e critico teatrale. Se nel 1881 aveva pubblicato a Napoli le sue Strofe, più avanti dava alle stampe anche i volumi Leggendo (1886), Nell’arte e nella vita (1900), L’albero del male (1914), Il roveto ardente (1926), Dante, Farinata, Cavalcanti: lettura nella Casa di Dante in Roma (1927) e Germinal, in quel 1909 in cui comincia a dirigere le Cronache letterarie di Firenze.

    E poi ritenta la via politica: si avvicina così alle prime posizioni fasciste e nel 1923 viene nominato senatore nella XXVI legislatura del Regno, per la 20ª categoria: coloro che con servizi o meriti illustrano la Patria. Nel caso specifico, come «solenne riconoscimento delle singolarissime qualità dello scrittore e, più ancora, dell’opera da lui svolta, durante trent’anni di strenua attività nella stampa quotidiana, per la rivendicazione delle più alte idealità italiane».

    Troppo laico per la camicia nera

    Molto vicino al Duce, nella cui politica vede realizzate le proprie aspettative, Morello scrive sul mussoliniano Gerarchia. Il 16 dicembre 1925 lo nominano commissario della Società Italiana degli Autori ed Editori, di cui diventa presidente per il biennio 1928-1929. Dal 1926 è direttore del quotidiano milanese Il Secolo.

    Benché avesse osteggiato per una vita intera il parlamentarismo e benché fosse stato anche ben poco partecipe in Senato, Vincenzo Morello era ispirato da forti sentimenti patriottici. Intorno alla questione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica pubblica nel 1932 il volume Il Conflitto dopo la Conciliazione, nel quale condanna le concessioni concordatarie alla politica ecclesiale. Coerentemente al proprio spirito anticlericale e ai propri trascorsi massonici, aveva infatti dato le dimissioni dal Partito Nazionale Fascista già nel 1930, proprio all’indomani del Concordato e delle scelte del regime in materia di istruzione, matrimonio e proprietà.

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    Benito Mussolini, e il cardinale Pietro Gasparri al momento della firma del Concordato

    Essendo egli scettico in merito alla propria eventuale iscrizione all’Unione nazionale Fascista del Senato, i senatori De Vecchi e Vicini, per conto del Direttorio, lo invitavano ancora nel 1932 a partecipare alla successiva seduta di Palazzo Madama con la camicia nera d’ordinanza. Invano.

     

  • Il cielo sopra Mammola è l’utopia di Nik Spatari

    Il cielo sopra Mammola è l’utopia di Nik Spatari

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    Tutto sommato è facile raggiungere Mammola. Puoi arrivarci da una statale che taglia l’Aspromonte, oppure da sotto, lasciando la 106 Jonica a Marina di Gioiosa. E ci vai essenzialmente per due motivi. Uno per tenere a bada lo stomaco mangiando stocco in una delle due capitali calabresi (l’altra è Cittanova) del predetto prelibato; oppure per nutrire l’anima fermandoti al MuSaBa di Hiske Maas e Nik Spatari, artista di fama internazionale, amico di gente come Pablo Picasso e morto nel 2020.

    Un documentario diretto da Luigi Simone Veneziano ha raccolto il testamento poetico di questo personaggio fuori dal comune. Il lungo lockdown ha frenato la distribuzione dell’audiovisivo prodotto dall’associazione Le sei Sorelle. Da alcuni mesi è tornato ad emozionare il pubblico. In Calabria soprattutto nei cinema storici come il Santa Chiara a Rende.

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    Una veduta aerea del MuSaBa (foto sito www.musaba.org)

    Nik Spatari: un doc per Il sogno di Jacob

    Appena vedi uno come Veneziano, capisci subito che ha buone storie da raccontare. Con Il sogno di Jacob ha riannodato un pezzo di Calabria capace di produrre meraviglia. Regia attenta, fotografia accurata, recitazione appropriata e musiche al passo con la narrazione. E una sceneggiatura affidata alle sapienti mani di Alessia Principe, scrittrice e giornalista de LaC. Con un’incursione-cameo di Gioacchino Criaco, autore di libri come Anime nere e Le Maligredi. Criaco dialoga con Spatari, due sensibilità stregate dalla luce accecante dell’Aspromonte. Una luce in grado di riprodurre la gamma di colori utilizzata da Michelangelo, spiega Nik in una sequenza dell’intervista.

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    Lo scrittore Gioacchino Criaco intervista Nik Spatari e Hiske Maas al Musaba

    Nei manuali si dice metacinema. In realtà la parola è entrata nel vocabolario dei giornali e degli appassionati da tempo memorabile. Veneziano porta sul grande schermo un regista impegnato a realizzare un lavoro per la tv su Spatari e sul Musaba. Sarà un motivo per riflettere su se stesso insieme alla troupe.

    Quando il bambino era bambino

    In principio era un bambino di una Reggio Calabria sotto le bombe sganciate dalle Fortezze volanti. Ai più attenti ricorderà in parte il ragazzino del cult movie The Wall, il film di Alan Parker ispirato al capolavoro musicale e concettuale dei Pink Floyd.
    Uno di quegli ordigni ruba per sempre l’udito a Nik. Da allora sentirà il mondo solo attraverso le tonalità uniche delle sue opere.

    Nel documentario una precisa scelta stilistica mescola il bianco e nero con il colore. Come fa Wenders ne Il Cielo sopra Berlino. Veneziano dice di essersi ispirato espressamente alla cifra narrativa del regista tedesco approdato, non molti anni fa, proprio in Calabria a pochi chilometri da Mammola. A Riace ha girato un film-documentario sul paese dell’accoglienza e la forza del messaggio di Mimmo Lucano.

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    Particolare de “Il sogno di Jacob” di Nik Spatari (foto sito www.musaba.org)

    L’utopia di Nik Spatari

    Nik non dimenticherà mai la bibbia a puntate sulla rivista religiosa letta dalla madre. Le illustrazioni di Gustave Doré e il messaggio universale di quelle storie. Il sogno di Jacob nasce da lontano per poi diventare un’opera d’arte lunga 14 metri. Fogli di legno e colori «alla Spatari» direbbe Hiske Maas per il racconto di Giobbe abbandonato da Dio e dagli uomini.

    Lucano, Spatari e Tommaso Campanella. Tre utopie che si mescolano, si inseguono, percorrono strade poco battute. Non è un caso se un capitolo del documentario del regista cosentino si chiama: “La città del sole”. E Stilo non è lontana da Mammola.

    Il regista Luigi Simone Veneziano e l’artista Hiske Maas al MuSaBa di Mammola durante le riprese de “Il sogno di Jacob”

    Il furto di Jean Cocteau

    Nik Spatari espone a Parigi negli anni Sessanta quando il grande Jean Cocteau gli ruba una tela. Il fatto non sfugge alla stampa della capitale francese. L’episodio è raccontato dal filmaker calabrese nel documentario. Con la sua compagna, l’artista Hiske Maas, alla fine di quel decennio Nik decide di tornare a Sud. Stregati dai ruderi del complesso monastico di Santa Barbara e da un paesaggio ammaliante, mettono radici alle pendici dell’Aspromonte.
    Trasformeranno questo posto in un museo-laboratorio unico. Qualcuno, più di uno, cerca di mettere il bastone tra le ruote a questa coppia di visionari. Tanti ostacoli superati; compresa la superstrada che doveva passare a pochi metri dal MuSaBa. L’ostinazione di Iske contiene pure un messaggio per chi non crede in un futuro quaggiù: «Ci sarebbero mille cose da fare in questa Calabria».

  • Solo tre operai nei dirigenti del PD al Sud: c’è il calabrese Wladimiro Parise

    Solo tre operai nei dirigenti del PD al Sud: c’è il calabrese Wladimiro Parise

    Wladimiro Parise è uno dei tre operai che fanno parte della classe dirigente del Partito democratico al Sud. Eugenio Marino (di Crotone), responsabile organizzazione dei democratici per il Sud e le isole lo ha scoperto dopo aver condotto uno studio in merito alla classe dirigente delle regioni meridionali.
    La notizia è a apparsa oggi sulla home page di Repubblica.it in un articolo a firma di Concetto Vecchio.
    Wladimiro Parise è stato segretario del Pd a Casali del Manco, più di diecimila persone a pochi chilometri da Cosenza. E, soprattutto, luogo simbolo della sinistra calabrese. Un territorio che ha espresso nomi del calibro di Fausto Gullo, costituente e “ministro dei contadini”. Qui il partigiano Cesare Curcio ha nascosto Pietro Ingrao e Rita Pisano è stata mai dimenticata sindaca comunista. Oggi anche questa ex roccaforte rossa è un po’ in crisi di identità.
    Si chiama Wladimiro perché il padre volle il nome di Lenin. Altri tempi, altre storie, altra politica. Quando le sezioni erano una scuola di partito per tutti: dalla classe operaia ai contadini, passando per gli intellettuali. Parise è uno di quelli che rompe la statistica di un partito che la geografia del voto individua nelle Ztl e composto in larga parte dal mondo delle professioni, avvocati in primis.
    Parise ha 50 anni, fa parte dell’assemblea regionale dei Dem ed è tra i membri della segreteria a Casali del manco. Uno che ha mangiato «pane e politica», dice a Repubblica.it.

  • Da Arpanet al Web: Internet fa quarant’anni

    Da Arpanet al Web: Internet fa quarant’anni

    Il web fa quarant’anni. Non proprio quello che conosciamo, ma quello, pionieristico, senza il quale non vivremmo le attuali possibilità della rete.
    Se ne è discusso nel dibattito Interconnessione planetaria: dall’alba di Internet alla comunicazione globale, che ha inaugurato, il 25 gennaio, il calendario 2023 degli avvenimenti organizzati a Villa Rendano dalla Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”.

    Dai protocolli ai containers: i segreti della connessione

    Protagonisti dell’incontro, due big dell’informatica (non solo) calabrese: Domenico Talia, professore di Sistemi di elaborazione delle informazioni, e Antonio Palmiro Volpentesta, professore di Marketing per ingegneria gestionale, entrambi presso l’Unical.
    Allora: qual è stato il percorso da Arpanet, la prima rete specialistica a internet? «Un percorso in continua espansione», ha spiegato Talia, «sviluppatosi grazie ai protocolli». Cioè quelle sigle che tutti gli utenti incrociano nella navigazione quotidiana: ip, http, https, ecc.
    Questi protocolli, ha specificato Volpentesta, «possono essere paragonati ai containers per il trasporto delle merci», cioè sono mezzi standard per far viaggiare le informazioni.
    Coincidenze della storia: non è un caso che protocolli informatici e containers siano stati messi a punto negli anni ’80.

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    Villa Rendano

    Internet tra tecnica e consenso

    La strada che porta alla connessione globale è fatta di due cose: tecnica e consenso. Del primo aspetto si è occupato Talia, che ha raccontato l’evoluzione della rete, dai primi esperimenti pionieristici finanziati dal Pentagono all’odierna diffusione di massa.
    Sul secondo aspetto si è soffermato Volpentesta, che ha invece spiegato i motivi per cui Internet ha avuto successo.
    Secondo i suoi calcoli, entro il 2040 è previsto il “pareggio”: tanti esseri umani, altrettante connessioni. Ma, attenzione: esistono, infatti, sette miliardi di device su otto miliardi di abitanti del pianeta. Quindi il “break even” potrebbe verificarsi prima.

    Cimitero delle tecnologie

    L’affermazione del web, cioè l’attuale configurazione della rete, non è stata facile né scontata.
    «La storia è anche un cimitero di tecnologie, spesso più valide di quelle attuali, che sono state accantonate solo perché non hanno avuto successo», hanno spiegato i due scienziati.
    E, per quel che riguarda il web, c’è l’imbarazzo della scelta: sistemi operativi promettenti superati dall’attuale duopolio Windows-Os, mezzi fisici (laserdisc o il mitico floppy) ingurgitati dalla gigantesca memoria collettiva in cui si è trasformata la rete. Ne sono un esempio i cloud, capaci di stivare quantità immense di dati.

    Domenico Talia

    Costi e benefici

    La prossimità del break even tra esseri umani e device, pone alcuni interrogativi che dividono gli specialisti in “integrati” e “apocalittici” (tra questi ultimi spicca Evgenij Morozov, duro critico dell’operato delle “big five”).
    «Tutto ha i suoi costi», ha commentato Volpentesta. Ma i benefici possono valere il prezzo dei sacrifici in termini di privacy che affrontano tutti gli utenti del web.
    Per ora, almeno…

  • Villa Rendano: un 2023 carico di appuntamenti

    Villa Rendano: un 2023 carico di appuntamenti

    Per tutto il 2023 Villa Rendano sarà teatro di un nutrito e variegato cartellone di eventi che in parte verrà realizzato in collaborazione con il comune di Cosenza
    È partita la stagione culturale della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani che quest’anno celebra il decennale della sua costituzione.

    La fondazione compie dieci anni

    «Sarà un anno ricco di iniziative, che spazieranno dal ricordo di importanti anniversari, in campo storico, politico, istituzionale, artistico e musicale, alla presentazione di libri, alla poesia, con l’ambizione di essere, ancor più di quanto non sia avvenuto in questi mesi, un punto di riferimento per il territorio, offrendo ai cittadini l’opportunità di conoscere e approfondire temi e questioni cruciali nella quotidianità del nostro tempo». Così Walter Pellegrini, il presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani”, annuncia le attività culturali del 2023, il decimo della prestigiosa Istituzione cittadina.

    L’hi tech per iniziare

    Il calendario è iniziato il 25 gennaio, alle 17,30, con i docenti dell’Università della Calabria Domenico Talia e Antonio Palmiro Volpentesta, intervenuti sul tema Interconnessione planetaria: dall’alba di Internet alla comunicazione globale, ricostruendo le tappe che hanno portato da Arpanet a Internet.
    L’interconnessione planetaria è stato il tema inaugurale di Storia in Villa, un contenitore culturale in cui troveranno spazio altri importanti anniversari che la Fondazione intende proporre all’attenzione generale.

    Storia In Villa: da Pinocchio a Zeffirelli

    Tra i tanti, i centoquarant’anni dalla prima pubblicazione di Pinocchio, gli ottocento anni dal primo presepe realizzato da San Francesco d’Assisi, il duecentocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, i cento anni dalla nascita di don Milani, i quarant’anni dall’arresto di Enzo Tortora, i sessant’anni dalla tragedia del Vajont e dalla morte di J.F. Kennedy, i trent’anni dell’Unione europea, il settantacinquesimo anniversario della nascita di Peppino Impastato, il decennale della morte di Margherita Hack e di Nelson Mandela, il centenario della nascita di Franco Zeffirelli, i cinquant’anni della storica sentenza della Corte Suprema americana sull’aborto.

    I protagonisti di Cosenza

    Nella programmazione di Storia in Villa sono previsti anche i ricordi di alcune figure prestigiose, purtroppo scomparse, che con la loro azione hanno segnato la vita culturale, artistica, sociale e civile non solo della città dei Bruzi.
    Si comincerà con un “medaglione” dedicato al giornalista Emanuele Giacoia, elemento di punta della Rai calabrese e protagonista di molte trasmissioni sportive nazionali. Si proseguirà quindi con il poeta Franco Dionesalvi, il regista Antonello Antonante, il giornalista Raffaele Nigro e lo scrittore, giornalista e commediografo Enzo Costabile.
    Altri ricordi di figure importanti saranno programmati nel corso dell’anno e proseguiranno anche durante il 2024.

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    Antonello Antonante (foto Alfonso Bombini 2020)

    Libri in Villa

    Libri in Villa verrà realizzato in collaborazione con il Comune di Cosenza e sarà lo spazio dedicato ai volumi di maggiore successo, a livello nazionale, meridionale e regionale.
    Tra i primi appuntamenti, il 2 marzo, l’incontro con Mimmo Gangemi, che presenterà il suo romanzo L’atomo inquieto, edito da Solferino.
    Il 29 marzo, invece, sarà la volta della giornalista Rai Annarosa Macrì, con il suo ultimo romanzo edito da Rubbettino.

    I venerdì e il Cineforum a Villa Rendano

    Continueranno, inoltre, I venerdì di Villa Rendano, gli approfondimenti tematici di Villa Rendano, coordinati dal giornalista Antonlivio Perfetti, che stanno riscuotendo enorme successo.
    Fiore all’occhiello della programmazione 2023 sarà anche il Cineforum, coordinato da Franco Plastina, attraverso il quale la Fondazione intende offrire ai numerosissimi amanti del cinema presenti in città un appuntamento settimanale con la proiezione di film e documentari.
    Il programma prevede anche un ricordo di Massimo Troisi, del quale quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della nascita, con la proiezione del film Il Postino.

    Un ricordo di Sergio Giuliani

    Nel 2023 ricorre anche il decennale dell’avvio delle attività della Fondazione “Giuliani”, che verrà celebrato con una giornata in ricordo del fondatore, Sergio Giuliani, e l’istituzione di alcune borse di studio, in memoria del filantropo e benefattore cosentino, destinate a studenti particolarmente meritevoli.

    Il conferimento della cittadinanza onoraria a Sergio Giuliani

    Poesia e territorio

    Un evento particolarmente importante sarà anche il Festival della poesia I padri della parola, realizzato in collaborazione con la Regione Calabria e che si svolgerà a Cosenza in primavera. Vi parteciperanno alcuni tra i maggiori poeti italiani con il coinvolgimento delle scuole superiori dell’area urbana cosentina.
    Riprenderà, inoltre, il progetto I borghi, che prevede anche in questo caso il coinvolgimento degli studenti delle scuole superiori della provincia di Cosenza, chiamati a descrivere le realtà, la cultura e le tradizioni dei rispettivi territori.

    Consentia itinera: le novità del Museo di Villa Rendano

    Per quanto riguarda il Museo Consentia itinera, a partire dal mese di febbraio numerosi e interdisciplinari saranno i laboratori educativi e creativi destinati ai bambini ed alle famiglie, grazie al finanziamento dell’Agenzia per la Coesione Territoriale.

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    Una sala del museo multimediale Consentia itinera

    Tra i temi affrontati, le antiche lavorazioni artigiane trasferite ai piccoli da abili maestri (pietra, argilla e legno), la cura del patrimonio e della legalità (con visite nei luoghi degradati del centro storico e proposte di recupero), le scoperte scientifiche (con incontri ed esperimenti rivolti ai “piccoli scienziati” ma ancora laboratori creativi lungo la linea del tempo) attività sulla storia di Cosenza) e incontri di musica partecipati e interattivi.
    Nel mese di marzo 2023, infine, la Fondazione Giuliani inaugurerà, nelle sale multimediali del Museo Consentia itinera, la nuova mostra digitale sulla scienza e la tecnologia dal titolo Urania. Scienza e cultura realizzata in collaborazione con il Museo Galileo di Firenze e con il contributo economico del Mur.

  • L’uomo del cinema aspetta il secolo del Santa Chiara a Rende

    L’uomo del cinema aspetta il secolo del Santa Chiara a Rende

    C’è gente come Tullio Kezich che ha passato una vita al cinema. Altri come Orazio Garofalo non possono farne a meno. Una questione di famiglia. Il Santa Chiara a Rende non è solo il cinematografo più antico della Calabria ancora in funzione. È un luogo predestinato sin dalle origini. Regala sogni ed emozioni dal dicembre del 1925, come La Corazzata Potëmkin di Sergej M. Ėjzenštejn.

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    Orazio Garofalo davanti all’ingresso del cinema Santa Chiara a Rende (foto Alfonso Bombini)

    Il nonno d’America

    Pietro Garofalo lascia Rende per New York nel 1912. È uno tipo scaltro. Dopo le inevitabili difficoltà degli inizi, trova la sua strada. Non se la passa male, gestisce pure un biliardo nel Bronx. Il sogno americano finisce e si sveglia in Calabria nel 1924. Gli resta un bel gruzzolo da investire nell’acquisto di una parte del convento Santa Chiara. Diventerà nel 1925 il cinematografo omonimo.
    Compra un proiettore “Pio Pion”. Oltre 130 posti in sala tutti occupati. Oggi si dice sold out. Al mattino il cinema sparisce e in quel posto si producono fichi secchi.

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    Il proiettore Pio Pion in dotazione al Santa Chiara

    Il buttafuori

    Pietro Garofalo ha tre figli maschi: Italo Costantino, Francesco (che diventerà preseparo di fama) e Antonio. Lavorano col padre. L’ultimo è il buttafuori del cinema Santa Chiara: dopo la prima proiezione trova sempre qualcuno che fa il furbo e vuole restare, gratis, per la seconda. Ci pensa lui. Braccia possenti e spalle larghe. Lo racconta così suo nipote Orazio.

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    Italo Costantino Garofalo

    Il cinema sfida le bombe

    L’epopea del muto, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio segnano gli albori del Santa Chiara. In sala suona l’immancabile orchestrina. I grandi western americani, la Garbo e poi l’arrivo del sonoro sono impressi nella memoria collettiva di una comunità. La sala è talmente piena e i muri sudano dal calore e dall’umidità. Poi arriva la guerra e ferma il cinema. Mancano le pizze coi film. Italo Costantino Garofalo sfida le bombe degli Alleati, corre a Napoli e torna con le pellicole a Rende. Per certi versi sembra una storia alla Theo Angelopoulos de Lo sguardo di Ulisse.

    La tv uccide il grande schermo

    Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono già un classico del Santa Chiara. Proiettano i film di Fellini, poi quelli con la Loren e la Lollobrigida, la “bersagliera” morta da poco. La macchina dei sogni a Rende si ferma alla fine degli anni Settanta. La tv a colori ha invaso le case degli italiani. Il grande schermo comincia ad avvertire i primi contraccolpi. Il Santa Chiara chiude.

    Nuovo cinema Santa Chiara

    Arintha perde il suo storico cinema. Ma qualcosa si muove. Si moltiplicano le riunioni nel centro storico alla presenza dei Principe (Cecchino e Sandro), i due politici che hanno trasformato Rende in una città modello nella Calabria di quegli anni. Il Comune alla fine rileva la sala diventata una specie di magazzino. Resterà tale per tanto tempo.
    Intanto Italo scrive a Giuseppe Tornatore. Il regista de Il Camorrista e di Nuovo cinema Paradiso, risponde all’appello. E butta giù una lettera per Italo e suo figlio, un giovane Orazio. Li incoraggia a non mollare. È il 1996.

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    La lettera del regista Giuseppe Tornatore a Italo Costantino Garofalo

    Bisogna aspettare il 2015 per la riapertura del Santa Chiara. A tagliare il nastro è il sindaco Marcello Manna. La palla passa ad Orazio. Che mette a disposizione la sua competenza e il suo tempo a titolo interamente gratuito.
    Sono circa 235 i film proiettati negli ultimi 7 anni. Cinema d’autore quanto basta. E in attesa dell’inizio delle pellicole Orazio proietta la sua videoarte: un vero maestro nella tecnica del found foutage.

    I giovedì al cinema Santa Chiara

    La passione di Orazio ha inizio con i giovedì del Santa Chiara. Quando Italo prova ad aprire le pizze e prova le pellicole che poi allieteranno le serate del pubblico pagante. Qualcuna è spezzata, rovinata. Cosa fare? Italo non si dà per vinto. Taglia e cuce come un montatore. «I film non perdono coerenza e non hanno interruzioni. Quanta abilità mio padre». Orazio Garofalo ricorda il suo genitore e mentore. Non dimenticherà mai i ritagli delle pellicole, il proiettore 35 mm a manovella e quel fazzoletto di stoffa aperto sul quale si materializzano le immagini in movimento: così nasce l’amore per il cinema.

    La filosofia di Finuzzu

    Il Santa Chiara di Orazio «non è d’essai ma nickelodeon», espressione nata negli Stati Uniti per indicare il carattere economico e proletario della Settima arte a 5 centesimi di dollaro all’ingresso. Il Santa Chiara procede in qualche modo insieme a un altro simbolo della cultura rendese: il Finuzzu film festival. Sulla terrazza di Serafino, presidente del circolo Reduci e combattenti morto lo scorso anno, la nuova commedia all’italiana ha divertito gli abitanti del centro storico insieme ad anguria, dolci e bibite. Perché il cinema, prima di essere legittima masturbazione mentale degli intellettuali (o presunti tali), è soprattutto arte popolare.

  • Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

    Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

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    Il fiuto per i film su cui puntare si è sviluppato in anni di lavoro sul campo, ma è nato probabilmente sulle colline di Arcavacata. Era nella prima generazione di studenti del progetto pilota di un Dams a Sud, tra i cubi dell’Università della Calabria, dove si è laureato con una tesi su Stanley Kubrick.
    Paolo Orlando oggi è il direttore della distribuzione di Medusa film e in questa fine anno ha buoni motivi per gioire. Guarda i successi in sala, è continuamente collegato con i report di Cinetel.

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    Paolo Orlando

    È un “grande giorno” per il cinema italiano. Il film con Aldo, Giovanni e Giacomo, diretto da Massimo Venier, ha festeggiato un magnifico Natale, con un incasso di oltre un milione e 100mila euro nel giorno di Santo Stefano. A firmare la colonna sonora della commedia ambientata sul lago di Como, è il cantautore calabrese Dario Brunori, che già aveva collaborato con il trio in Odio l’estate.
    Il box office è da record. Se la partenza è questa, si spera anche in un grande anno del ritorno del pubblico in sala nella post pandemia. Il terreno è già tastato da diversi titoli di questa fine 2022. L’omaggio al teatro di Roberto Andò con il suo La stranezza, la commedia piccante Vicini di casa, il family Il ragazzo e la tigre.

    Da Reggio al grande schermo

    Paolo Orlando, 52 anni, reggino, nella grande fabbrica italiana del cinema, che ha il suo quartier generale a Roma, lavora dal 2001. Oggi fa parte della rosa ristretta dei manager. Dal 2019 insieme con il vice-presidente e amministratore delegato Giampaolo Letta, condivide scelte e strategie. Visiona quintali di pellicole ed è presente a tanti festival, da quelli più importanti ai cosiddetti minori, le vetrine del cinema che verrà. Da Cannes, Venezia e Berlino a Giffoni e Saturnia.

    Anche all’invito del Reggio Calabria film festival ha risposto volentieri. Un buon motivo per tornare a respirare l’aria del mare dello Stretto e per fare visita ai suoi genitori.
    Nella città brutia è stato nel febbraio scorso, in occasione dell’anteprima nazionale di un film a lui caro, “Una femmina” del regista cosentino Francesco Costabile, la storia di Rosa la ribelle, l’attrice cariatese Lina Siciliano, che non accetta il clima e la brutalità mafiosa in cui è costretta a crescere.
    Ciò che colpisce dei titoli Medusa è la perfetta osmosi tra il cinema più impegnato e i prodotti che possono piacere a un grande pubblico.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Come si sceglie un film?

    «Le scelte nascono da un’idea condivisa, a partire dall’amministratore delegato, fino a coinvolgere tutte le varie funzioni aziendali. Medusa ha sempre avuto la costante coesistenza di titoli dall’alto potenziale commerciale, quindi trasversalmente nazionalpopolari, e di tutto ciò che aveva a che fare con un mondo più art house che passava sia per gli esordi del cinema italiano, sia per il consolidamento di grandi autori. Le congiunture degli ultimi dieci anni hanno modificato l’approccio, anche perché il pubblico ha manifestato un’attenzione particolare al prodotto di qualità».

    Cosa è cambiato? E come si sceglie un listino Medusa?

    «Abbiamo provato a far coesistere quello che più naturalmente ci viene bene, cioè la commedia popolare, con un cinema più ricercato, più impegnato. L’esigenza è, quindi, quella di comporre un listino che sia il più eterogeneo possibile e che vada a intercettare al meglio le tipologie di pubblico È in quest’ottica che nascono film come Perfetti sconosciuti, 2016, oppure film family, un sottogenere della commedia che il cinema italiano non frequentava e che è stato rianimato con Dieci giorni senza mamma (di Alessandro Genovesi, con Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, ndr).
    Gli esempi più recenti sono la distribuzione di Un altro giro diretto da Thomas Vinterber, Oscar come miglior film straniero, e Nostalgia di Mario Martone con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno e un bravissimo Francesco Di Leva».

    Un decennio di risultati, insomma, prima che il covid fermasse tanti progetti. Un esempio per tutti: La grande bellezza e l’Oscar per il miglior film straniero riconquistato dal cinema italiano.

    «Sì, tutta la produzione di Sorrentino fino a Youth è passata da noi. Ma penso anche a Tornatore, a Virzì, a Pupi Avati e ad altri nomi illustri del cinema italiano».

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    Paolo Sorrentino con l’Oscar vinto con il suo La grande bellezza

    Il tuo primo incontro con il cinema è stato in Calabria. Sei stato allievo di Marcello Walter Bruno, semiologo e critico di “Segno cinema”, uno che con i suoi studenti amava discutere di tutte le forme d’arte. È scomparso lo scorso luglio, ed è stato un dolore per chiunque l’abbia conosciuto, ascoltato, letto. È inevitabile chiederti se il tuo intuito abbia a che fare con questo background.

    «L’intuito o sensibilità, io preferisco questa definizione, sicuramente trae le sue origini dal mio percorso di studi ad Arcavacata.
    Con Marcello Walter Bruno fu un incontro folgorante. Lui e un altro docente in particolare, Roberto De Gaetano, sono stati gli attizzatori di questa fiamma. Marcello ha avuto il grande merito di proporre un metodo che utilizzo tuttora: il modo che io ho per approcciare un progetto, a partire dalla sua sceneggiatura, è quello di scomporlo. Ed esattamente era questa la maniera di procedere nello studio dei grandi autori italiani come Visconti o del cinema americano, da Coppola fino ad arrivare a Kubrick. Quando l’ho scelto come relatore, lui stava lavorando proprio al suo libro sul regista (un volume cult uscito qualche mese dopo la morte di Kubrick, per la Gremese n.d.r.).

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    Warren Clarke, Adrienne Corri, Malcolm McDowell e Stanley Kubrick durante le riprese di Arancia meccanica, 1971

    Io ero affascinato dal rapporto di Kubrick con Max Ophüls, il meno conosciuto di tutti i registi teutonici che tra gli anni ’40 e ’50 emigrarono nel cinema americano. Marcello mi aveva suggerito un approfondimento stilistico, ma io sono andato oltre e ho portato avanti una mia tesi, secondo la quale le influenze ophulsiane non riguardavano soltanto la tecnica ma arrivavano alle tematiche. Quindi il mio lavoro aveva questo piano suicida, perché toccare un mostro sacro è da suicida, di dimostrare che Kubrick aveva pescato a piene mani nel cinema del regista tedesco. Ho lavorato per sei mesi notte e giorno ed ero pronto a laurearmi, quando Marcello mi chiese altri tre mesi di approfondimento. Io ero completamente sfinito e non accettai».

    Come andò a finire?

    «Non bene. In sede di commissione di laurea bocciò la proposta del presidente del Dams di conferirmi la lode. Lui che era il mio relatore. Ecco Marcello era preciso, netto, era trasparente. E anche queste sue qualità sono state un lascito, oltre al metodo di lavoro, a cui cerco di ispirarmi».

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    Marcello Walter Bruno

    Qual è oggi la tua visione della Calabria? Pensi anche tu che potrebbe essere un set naturale, a cielo aperto?

    «Sono nato a Reggio Calabria ma all’età di sette anni sono andato a vivere a Roma, per poi trasferirmi a Cosenza negli ultimi anni di scuola. La mia è sicuramente una visione poco campanilista che non mi impedisce di vedere le grandi potenzialità e insieme i grandissimi sprechi e anche gli scempi che vengono fatti da tutti i punti di vista. È sicuramente vero che negli ultimi tempi si è mosso qualcosa. Con la Calabria film commission sono nati progetti che hanno prodotto risultati importanti. C’è stata tutta una serie di film girati nella regione che hanno guadagnato il panorama nazionale e internazionale, partecipando a festival, riscuotendo premi, ottenendo attenzioni da parte della critica.

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    Gianni Amelio al Festival di Venezia

    Penso ad Anime nere di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco e al “mio” Una femmina del regista Francesco Costabile. C’è un nuovo rigurgito di nuovi autori che hanno trovato origine in produzioni locali e, inoltre, non dimentichiamo che uno dei più grandi autori italiani viventi, parlo di Gianni Amelio, è calabrese. Ecco, mi sembra che ci sia più di un elemento per essere fieri. Se poi è un set a cielo aperto bisognerà vedere. La cosa più importante è non disperdere ciò che sinora è stato fatto».

    Anche sotto l’ombrellone, quando arrivi in Calabria per trascorrere qualche giorno di vacanza, guardi immagini e sceneggiature. È vero che spesso coinvolgi i tuoi familiari e i tuoi amici nella visione di un trailer, di un cortometraggio divertente, della bozza di un manifesto?

    «Sì, spesso, coinvolgo persone a me vicine, ascolto i pareri di amici, familiari e anche di figure target. Per esempio, se deve uscire un film per famiglie, mi capita di mostrare il trailer a un bambino e di chiedergli cosa ne pensa».

    Un’attrice, un volto nuovo femminile del cinema, sulla quale punteresti molto?

    «Mi fa molto piacere parlare di un’attrice che secondo me ha un potenziale che adesso sta venendo fuori, anche se già da qualche anno era evidente, e che, non vorrei essere blasfemo, ma potrebbe essere una nuova Monica Vitti. È Pilar Fogliati (vista in Forever Young, in Corro da te e nella serie Netflix Odio il Natale, ndr).
    È molto giovane ed ha tantissime caratteristiche, riesce ad essere fragile, divertente, quindi comica, ma anche intensa e drammatica. È per queste sue doti che ricorda lo stile Vitti».

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    Pilar Fogliati

    Quale sarà il film italiano del nuovo anno, il film che lascerà qualcosa di importante nel pubblico, il più amato, il più visto?

    «A saperlo! Magari! Posso anticipare alcuni film su cui riponiamo speranze. Uno di questi è Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese tratto dal suo romanzo, un film con un supercast, sulla ricerca della felicità, del motivo per essere felici e che uscirà a fine gennaio. È la storia di una sorta di gestore di anime, Toni Servillo, che offre sette giorni per far ritrovare la forza di vivere a persone che stanno per suicidarsi. È una storia intrigante e interessante. Subito dopo, a febbraio, usciremo con Laggiù qualcuno mi ama, il docufilm di Mario Martone su Massimo Troisi, che proprio nel 2023 avrebbe compiuto settanta anni. È stato realizzato con documenti inediti e testimonianze di colleghi e amici e che tra l’altro vedrò per intero proprio stasera, quando finiremo questa intervista, perché sinora ho visto dei pezzi. Stasera vedrò il film finito».

    Cosa ti manca di Reggio Calabria?

    «Ciò che mi manca di più in assoluto sono i miei genitori, poi ci sono anche altri affetti, amici, che rivedo sempre volentieri. Una cosa che mi lega moltissimo a Reggio è il mare, perché è qualcosa di ancestrale, che va oltre qualunque deturpamento della realtà. Sì, è anche il mare a mancarmi molto».

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    L’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Il mare della Fata Morgana che avvicina le sponde e incanta, culla di reperti riemersi, il mare archeologico che fa venire in mente proprio la testa di Medusa, quella cara a Versace, che inchioda la sguardo, come fa un bel film con il suo pubblico.

     

     

  • La mia Cristina

    La mia Cristina

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    Era un buco assurdo il garage dove abbiamo fatto nascere, come un figlio, il primo Quotidiano, all’inizio di Cosenza, poi della Calabria (oggi Quotidiano del Sud).
    Sulla porta del bagno minuscolo un collega spiritoso, mi pare che fosse Franco Ferrara – rientrato dal nord per partecipare alla nuova impresa, – aveva scritto “chiamate internazionali”. Io e Cristina siamo diventate amiche da subito, avevamo un’intesa profonda e la prova del nostro legame l’ha data il tempo. Non si è mai affievolito. Dal 1995 a poco fa e per sempre.

    Per gli altri

    Il nostro primo direttore è stato Pantaleone Sergi, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Era inebriante fare un giornale ben curato, di personalità, di bella penna e agguerrito sulla cronaca. Il primo numero uscì con uno scoop della cronista Mara Martelli, che tramortì la concorrenza: il pentimento del boss Franco Pino. Insieme con i nostri collaboratori eravamo sguinzagliati in città, all’università, nelle caserme, nei teatri ed eravamo così entusiasti che non contavano le ore di lavoro, giorno e notte. Ogni volta che scrivevamo un pezzo su un fatto che ci coinvolgeva o ci turbava particolarmente, una strage familiare, storie di miseria e efferatezza, o anche il racconto di un luogo, o un pezzo culturale, era naturale leggerci a vicenda prima di pubblicare.

    Cristina aveva il mestiere dentro, aveva fatto un corso a Roma e possedeva il sacro fuoco. Imparò subito a concepire e disegnare le pagine, lavorando accanto a Lucia Serino -già giornalista professionista e con un bel background,- tanto da diventare in breve tempo un punto di riferimento. Ha scritto troppo poco rispetto a quanto avrebbe dovuto. Tutta protesa per gli altri, impegnata nella fattura quotidiana del giornale, un lavoro immane, finiva per avere poco tempo e lei non ci stava a scrivere due righe tanto per farlo. In ogni cosa metteva qualità e soprattutto nella scrittura sarebbe stato necessario farlo.

    L’esempio della grazia

    È difficile parlare della collega Cristina Vercillo, perché innanzitutto ho perso una persona cara. Prima che la malattia la fiaccasse fino a non darle più la forza di parlare al telefono, facevamo chiacchierate lunghissime. Parlavamo di libri, dei fatti del giorno, di film, di alimentazione oncologica, di fastidiosi effetti collaterali, con la voglia di scambiarci opinioni e consigli su ogni singolo argomento, senza cambiare tono, senza scomporci. Anzi, alcuni fatti politici nazionali e internazionali riuscivamo ad indignarla assai, a farle vibrare le parole per poi tornare alla melodia vocale che la contraddistingueva, lei che prima di scegliere il giornalismo era stata pianista.

    Cristina era così. Curiosa, colta, aggiornata, dotata di spirito critico, di una visione pluriangolare delle cose, cauta, mite, coerente e disposta a sacrifici e rinunce inenarrabili pur di continuare ad essere quella che era. Parlare con lei è sempre stato come farlo con me stessa. L’unica accortezza era di non essere troppo brusca perché Cristina è l’esempio della grazia, ed è sempre ritornata in un carapace irraggiungibile dinanzi ad ogni forma di aggressività.

    Un mistero. Mantenere, da caporedattore centrale, gli equilibri di intere redazioni, che in alcune fasi sono come miniere, controllare ogni virgola del giornale, moltiplicare l’udito e lo sguardo, tamponare ogni intemperie e poi essere naturalmente una creatura delicata e sensibile. È stato duro il distacco da lei quando sono andata via dal Quotidiano, verso altre esperienze professionali. E quando sono tornata a prestare la mia collaborazione per la cura di rubriche e delle pagine culturali della Domenica, (chiamata dal direttore Ennio Simeone prima e dal direttore Matteo Cosenza e dal caporedattore Lucia Serino poi), la mia amica Cristina era felicissima.

    È stata lei ad accompagnarmi in Umbria quando mi sono sposata. Ammiravo il suo senso d’orientamento, il viaggio era un’altra cosa che aveva dentro, che amava. Io, lei, Gabriella d’Atri. Piano piano, chilometro dopo chilometro, a raccontarci, a ridere. Loro emozionate quanto me. Da quel momento in poi le noie, le delusioni, le sofferenze sul lavoro (che pur ci sono) sono diventati discorsi tra amiche più che tra colleghe. Sfoglio i vecchi album e sorrido, nelle poco foto in cui compare si copre il viso. È proprio lei, bella, una gran classe, sempre dietro le quinte.

    I suoi affetti

    Ci siamo sempre fidate ciecamente l’una dell’altra e oggi che leggo tante testimonianze sul suo eccezionale modo di essere, sulle eccelse qualità professionali, sono orgogliosa e penso a suo padre, il dottore Giuseppe Vercillo, a sua sorella Roberta, ai suoi amati nipoti Alessandro, GianMarco, Emanuela e a queste carezze dell’anima che gli sono giunte. Che possano portare loro un po’ di sollievo dinanzi a un dolore sconfinato! In ogni telefonata c’erano loro, i suoi affetti. Suo padre sempre accanto.

    La vita è beffarda. Quando ho combattuto io contro il mio alieno, Cristina c’era. Poi è toccato a lei. Ancora non posso crederci.
    I nostri alieni erano diventati amici come noi. Parlavamo di terapie, spirito di sopportazione, medicamenti con grande naturalezza. E la paura… sì, quella era onnipresente ma eravamo bravissime a lasciarla in un angolo e a confidarci un peccato di gola, alla faccia della dieta oncologica, o il desiderio di un viaggio, di una lettura, di tante cose che avremmo potuto fare…. No, non posso credere che Cristina non sia più su questa terra. Pensare alla sua forza nella sofferenza è un cortocircuito di ammirazione e dolore profondo.

    Anima bella

    Ho scritto queste righe perché so che a lei farebbe piacere leggerle, nonostante la sua proverbiale riservatezza, perché Cristina sa che arrivano da un sentimento vero e senza tempo, senza luogo. Durante la malattia era contenta di ricevere i messaggi affettuosi. Ascoltava tutti, leggeva tutti. Avrebbe apprezzato i saluti di tanti colleghi che sono piovuti sui social e sulle varie testate. Laura De Franco l’ha chiamata anima bella. E così è. Quando ho ricevuto, la sera di Santo Stefano, la notizia della sua morte dalla nostra amica Marienza, un angelo che le è stata accanto fino all’ultima fiammella, è stato come essere trafitta da una stalattite.
    In quel momento l’ho immaginata abbracciata a sua madre Flora. Strette strette.