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  • Reggio e la lezione di Resistenza di Napoli e Loy

    Reggio e la lezione di Resistenza di Napoli e Loy

    QUESTO FILM È DEDICATO ALLA MEMORIA DEL DODICENNE, MEDAGLIA D’ORO, GENNARO CAPUOZZO, AL VALOROSO POPOLO NAPOLETANO ED A TUTTI GLI ITALIANI CHE HANNO COMBATTUTO PER LA LIBERTÀ.

    Con questa scritta, coi caratteri proprio in maiuscolo, si chiude il film Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, prima proiezione del ciclo “Resistenza e Resistenze” organizzato dalla sezione ANPI C. Smuraglia di Reggio Calabria e dal circolo Arci Samarcanda, in collaborazione con il circolo Zavattini. «Quattro proiezioni – secondo la presidentessa del circolo ANPI Giuliana Mangiola – per riflettere sulla Resistenza come opposizione ad ogni azione tesa a calpestare i diritti della persona, i valori della libertà e della democrazia. Una rassegna che vuole denunciare quelle forme di sopraffazione con le quali l’altro non è più il prossimo ma il mezzo, lo strumento utile per ottenere potere e affermazione».

    Le Quattro giornate di Napoli: la resistenza si allarga

    Del film, e del suo grande valore artistico, abbiamo parlato col presidente del circolo Zavattini, Tonino De Pace, e ne riferiremo più avanti. Prima vogliamo invece analizzare l’oggetto dell’opera, l’episodio dal punto di vista storico. E chiederci anche il motivo per il quale esso non abbia avuto la rilevanza che avrebbe certo meritato.

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    Un momento delle Quattro giornate di Napoli

    Nel suo manuale di Storia contemporanea il reggino Rosario Villari riporta così le Quattro giornate di Napoli: «A Napoli, intanto – una città che aveva subito nel modo più tragico le conseguenze della guerra, dei bombardamenti aerei, della penuria alimentare e dello sconvolgimento della vita civile – la popolazione, esasperata dalle violenze e dalle angherie delle truppe tedesche, insorgeva battendosi valorosamente e vittoriosamente nelle strade per quattro giorni (27-30 settembre 1943). Era uno dei primi episodi della Resistenza italiana, che coincideva con una diffusa presa di coscienza antifascista in tutto il paese e con la trasformazione dell’antifascismo da atteggiamento di gruppi relativamente ristretti in un vasto movimento di massa».

    La città liberata senza aiuti esterni

    Nel Dizionario di Storia de Il Saggiatore alla voce “Quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1° ottobre 1943)” troviamo questa descrizione: «Episodio di resistenza armata contro l’occupazione tedesca, alla vigilia dell’arrivo delle truppe anglo-americane. L’insurrezione non fu organizzata da un centro militare e politico ma fu la somma di molte iniziative individuali o di gruppo, anche di giovanissimi; vi morirono sessantasei cittadini, tra cui undici donne». Non è poco.
    Villari segnala che l’episodio è uno dei primi della Resistenza italiana. Dà anche conto di un suo tratto peculiare, la spontaneità, e sottolinea il valore dei napoletani che vi aderirono. Nel Dizionario, le Quattro giornate di Napoli sono traslate di un giorno, ma nel complesso, per lo spazio loro destinato, si deve tener conto che esso contiene 12.000 voci relative a tutta la storia del mondo intero.

    Rimane un dato, incontestabile. Come abbiamo già scritto, il popolo italiano sa poco o nulla di una delle pagine più belle della lotta degli Italiani per la libertà. Dal 27 al 30 settembre del 1943, Napoli diede dimostrazione, con scarsissimi mezzi e altrettanto scarsa o nulla organizzazione, che era possibile scacciare i nazifascisti dalla città, tanto da presentarsi il giorno dopo, all’arrivo delle truppe alleate, già liberata. E tanto da meritarsi due medaglie d’oro al valor militare, una conferita alla città e una alla memoria di un ragazzino di neanche 12 anni, Gennaro Capuozzo.

    Gennarino Capuozzo e le Quattro giornate di Napoli

    Gennarino era nato nel 1932 in una delle case tipiche del centro storico di Napoli, nella quale abitava con i suoi cinque familiari. Suo padre era stato mandato in guerra nel 1941 e lui dovette darsi da fare per il sostentamento suo, della madre e dei tre fratelli. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, con il Re e Badoglio al sicuro a Brindisi, il Regio Esercito è abbandonato a se stesso, non sa più chi sono i nemici da combattere. I nazisti occupano Napoli e, giorno dopo giorno, aumentano la pressione sulla popolazione con angherie e soprusi di ogni genere. Gli alleati sono sbarcati a Salerno, ma la città non può aspettare perché il comandante cittadino dei nazisti assume il 12 settembre i pieni poteri, ordinando alla popolazione di consegnare le armi.

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    Lo sgombero della fascia costiera da parte dei nazisti

    Il 22 i nazisti istituiscono un servizio di lavoro obbligatorio per i cittadini dai 15 ai 30 anni e impongono lo sgombero della fascia costiera. Il 27 i Napoletani iniziano ad attaccare i tedeschi con armi di ogni genere, ad alzare barricate, ad assalire i mezzi che trasportano prigionieri italiani. Tra gli insorti ci sono donne e bambini. Il giorno seguente i carri armati tedeschi, mandati dal comandante a fronteggiare la popolazione, sono fermati a a Capodimonte dai partenopei coi cannoni sottratti in precedenza agli occupanti. Messi alle strette, i tedeschi si arrendono e il 30 lasciano Napoli. Nella prima mattinata del 1° ottobre gli alleati entrano nella città, la prima a liberarsi da sola, senza l’aiuto di nessuno se non della dignità messa sotto i loro stivaloni dai nazisti.

    Due medaglie al valore

    Nella Storia collettiva, quella individuale ed eroica di Gennarino Cappuozzo. È il 28 settembre quando Gennarino si aggrega a un gruppo di ragazzi scappati dal carcere minorile che combatte contro i nazisti. Il 29 Gennarino Capuozzo e i suoi compagni decidono che la morte di 10 persone, uccise in un quartiere poco lontano, va vendicata. Avvistano un mezzo tedesco e lo attaccano. Il camion prova a scappare, ma Gennarino gli si avvicina e getta una bomba a mano contro il mezzo militare. Si avvicina e intima ai tre occupanti di scendere. E li fa prigionieri! Gennarino si sposta in un’altra zona della città. Qui, armato di mitragliatore e bombe a mano, si scaglia contro un carro armato. Una granata, a questo punto, mette a tacere per sempre il suo ardimento. Lo raccolgono col volto devastato e una bomba ancora stretta nel pugno.

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    Gennarino Capuozzo

    La medaglia d’oro verrà consegnata alla madre, con una pergamena dove si legge: «Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo». L’altra medaglia verrà attribuita alla città di Napoli, che «col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria».
    Questi i fatti che dovrebbero essere conosciuti, al pari di tutti gli eventi che hanno restituito la libertà e consegnato una vera democrazia all’Italia.

    I dimenticati: Nanni Loy e le Quattro giornate di Napoli

    Nanni Loy ha il merito di averli rappresentati magistralmente nella sua opera del 1962, che si segue dal primo all’ultimo fotogramma col fiato sospeso. «Nanni Loy – ci dice Tonino De Pace – è uno dei tanti registi che dopo la scomparsa l’Italia e il suo cinema hanno dimenticato abbastanza in fretta. È stato un regista molto attento alle regole dello spettacolo, ma al contempo anche un geniale innovatore. Il suo Specchio segreto, con l’allora sconosciuta (in Italia) candid camera, ha contribuito a rivoluzionare il mondo della televisione».

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    Una locandina del film di Nanni Loy

    «Il film – afferma il presidente del circolo Zavattini – è uno dei pochi che raccontano la Resistenza al Sud e ha contribuito a rendere vivo il ricordo dell’insurrezione napoletana. Con la sua coralità reinterpreta lo spirito solidale della Resistenza. Protagonista del racconto è la città stessa con i suoi popolani, con le microstorie che compongono il quadro di un racconto drammatico che prende le mosse dal soggetto di Vasco Pratolini e dal libro, edito nel ’56, del giornalista Aldo De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli. Napoli e il suo popolo di scugnizzi ed eroici combattenti sono al centro della scena, con i loro volti e i loro drammi personali che si sommano a quelli della guerra».

    «Nanni Loy – continua De Pace – ha realizzato un film avvincente, dal ritmo sostenuto, sorretto da una schiera di attori di primo piano: Gian Maria Volontè e Lea Massari, Jean Sorel e Aldo Giuffrè, e ancora le grandi Pupella Maggio e Regina Bianchi, un giovane Enzo Cannavale e Carlo Taranto. Un film che, a dispetto del suo valore culturale e cinematografico, critica e istituzioni hanno ingiustamente dimenticato quando, invece, riveste un ruolo centrale nella storia del nostro cinema proprio per essere uno dei pochi che racconta la Resistenza del Sud, ignorata o quasi, a sua volta, al pari del film di Loy, che la valorizza e la tramanda».
    Insomma, un film da vedere, per il suo valore artistico e per avere una lettura e una conoscenza più complete della Resistenza italiana al nazifascismo.

  • Soldi, record e propaganda: quel Ponte da Strabone a Wired

    Soldi, record e propaganda: quel Ponte da Strabone a Wired

    Il ponte sullo Stretto: se ne scrive persino negli Stati Uniti (lo vedremo più avanti), ed è al centro del dibattito politico domestico. In Parlamento e anche a Reggio Calabria, dove, nell’ambito del Festival dell’economia, sviluppo e sostenibilità, ideato da Maurizio Insardà, si è tenuto un dibattito dal titolo “Infrastrutture di trasporto e sviluppo del Mezzogiorno” moderato dalla giornalista di Rai 2 Marzia Roncacci. Vi hanno partecipato il capo dipartimento del Ministero delle Infrastrutture e trasporti Enrico Maria Pujia, il docente di Economia politica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Domenico Marino, il vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente della Camera di commercio di Messina Ivo Blandina, il responsabile dell’organizzazione aziendale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro Rocco Reina e l’assessore ai Trasporti del Comune di Reggio Calabria Domenico Battaglia.

    I relatori sono stati concordi nel sottolineare che non sono le risorse il problema della Calabria, ma piuttosto l’incapacità di spesa degli attori in campo, in primis la Regione. Un problema certamente non di oggi. Ogni anno i finanziamenti stanziati tramite i diversi fondi europei vengono utilizzati solo in minima parte. Ciò, secondo Marino, soprattutto per la sovrabbondanza di progetti e bandi, mentre si dovrebbe puntare su 4 o 5 progetti strategici e realizzabili. Altre criticità rilevate dai relatori, in particolare da Pujia e Reina, quelle relative alla carenza di risorse umane adeguate e alle procedure farraginose. Sarebbero necessari investimenti corposi nella formazione, per avere personale in grado di seguire efficacemente l’iter procedimentale fissato dalle norme.

    Tutti d’accordo, ma…

    Per quanto concerne il ponte sullo Stretto, totale adesione al progetto, peraltro scontata, del rappresentante del Ministero, ma anche da parte degli altri intervenuti. Con l’eccezione significativa dell’assessore Battaglia, secondo il quale lo sviluppo della Città metropolitana di Reggio va inserito nello scenario più ampio dell’ Area integrata dello Stretto, rilanciando l’aeroporto e i porti ricompresi nell’Autorità di Sistema, al fine di fare uscire dalla marginalità un comprensorio ad altissima vocazione storico/culturale e quindi turistica. La posizione baricentrica nel bacino del Mediterraneo, a suo avviso, pone lo Stretto quale ideale testa di ponte per i Paesi emergenti del Nord Africa.

    Aeroporto Minniti, la cenerentola degli scali calabresi
    Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti

    La sinergia necessaria tra i diversi enti coinvolti ha la sua base normativa nella l. r. del 2015 istitutiva della Conferenza interregionale per le politiche dell’Area dello Stretto. Sulla questione ponte Battaglia chiede innanzitutto chiarezza al Governo, rilevando inoltre che non è pensabile rispolverare un progetto vecchio di 12 anni, non sottoposto alla valutazione di impatto ambientale, del tutto inadeguato all’attuale sistema dei trasporti: «Ci sono sul tavolo delle amministrazioni comunali e metropolitane una serie di opere già finanziate che rischiano di essere inutili se dovesse realizzarsi il Ponte. Per questo come istituzioni del territorio reclamiamo un maggiore coinvolgimento».

    Il ponte sullo Stretto e i soldi per la comunicazione

    In Parlamento, intanto, la maggioranza non mostra titubanze di sorta.
    La Commissione Ambiente e Trasporti della Camera approva un emendamento al decreto legge in discussione – da licenziare in Aula entro il 31 maggio – proposto da Lega e FI, che elargisce 8 milioni di euro ai Comuni di Villa San Giovanni e Messina per una campagna di comunicazione, verrebbe da chiedersi per comunicare cosa.
    Ancora, mentre non si conosce la posizione della UE sull’affidamento al consorzio Eurolink, guidato dal Gruppo Salini, vincitore della gara del 2010, un altro emendamento
    in commissione Trasporti prevede un secondo adeguamento nei prezzi di realizzazione dell’opera, ulteriore rispetto a quello già previsto nei contratti stipulati anni fa e finiti nel nulla con la messa in liquidazione della Stretto di Messina.

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    La Camera dei deputati

    Misteri contabili

    Secondo i tecnici della Camera dei Deputati un secondo criterio, per un secondo aumento che si «otterrebbe sottraendo l’indice Istat a una media calcolata sul valore dei primi quattro progetti infrastrutturali per importo banditi da Rfi e Anas nel 2022». Al che chiedono al governo chiarimenti, considerando «che questi adeguamenti aggiuntivi dovrebbero avvenire senza maggiori oneri a carico dello Stato» come prevede il decreto legge. In sostanza: come si fa ad aumentare il costo dell’opera (che arriverebbe complessivamente a circa 15 miliardi e mezzo), senza intaccare le casse dello Stato?

    L’Autorità di Cannizzaro

    E mentre rimangono fumose le intenzioni del Governo e del ministro alle infrastrutture sull’alta velocità da Salerno a Reggio e sulla statale 106, un emendamento approvato in Commissione Bilancio della Camera attribuisce all’Autorità di Sistema portuale dello Stretto il compito di individuare «i progetti prioritari necessari all’adeguamento delle infrastrutture locali, avviando un percorso di rifunzionalizzazione, anche al fine di renderle più coerenti e funzionali con la nuova configurazione che sarà determinata dalla costruzione del Ponte», secondo quanto dichiarato dal deputato Francesco Cannizzaro che lo ha proposto.

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    Ciccio “Profumo” Cannizzaro

    Alla stessa Autorità «il compito di sviluppare ed eseguire anche progetti di miglioramento dei Porti di Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Messina con interventi che potranno essere identificati come d’interesse nazionale prioritario e strategico e quindi beneficiare di appositi finanziamenti e procedure di semplificazione» per esempio per lo spostamento del porto traghetti di Villa San Giovanni a sud degli invasi. Fin qui le vicende nostrane.

    Il Ponte sullo Stretto da Strabone a Wired

    Ma il Ponte sullo Stretto di Messina suscita interesse anche oltre oceano. La rivista USA Wired lo ha identificato come il «ponte sospeso più lungo al mondo». È di pochi giorni fa la pubblicazione di un lungo articolo che ripercorre la storia concernente l’attraversamento stabile del tratto di mare tra Calabria e Sicilia. Si parte addirittura, citando lo storico greco Strabone, dai Romani, che nel 250 a.C. provarono a trasportare 100 elefanti catturati in battaglia da Palermo a Roma. Secondo Strabone, usarono barili vuoti e assi di legno per costruire un ponte provvisorio. I pachidermi arrivarono effettivamente nella capitale del futuro Impero, ma non si sa con certezza come.

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    “Hannibal traverse le Rhône”, Henri Motte, 1878

    Aurelio Angelini, professore di sociologia all’Università di Palermo, autore de Il mitico ponte sullo stretto di Messina, ha dichiarato alla rivista che l’idea del Ponte è stata a lungo contrastata dalla gente del posto di entrambe le parti, per motivi politici, economici e ambientali, ma anche per la resistenza al cambiamento. «Siciliani e calabresi sono divisi, ma la maggioranza è contraria al ponte. La forte politicizzazione del progetto potrebbe anche essere un caso di “populismo infrastrutturale”. La retorica intorno al ponte trasuda nazionalismo», dice, «e l’idea è vista come un simbolo della grandezza dell’Italia, o della capacità di costruire un ponte più lungo di quanto chiunque altro abbia mai fatto».

    Lobbies, record e diversivi

    Wired sottolinea che il progetto è sostenuto da Matteo Salvini, «vice primo ministro e leader del partito populista della Lega, con il sostegno di Berlusconi, ora 86enne, che ha scritto, alla firma del decreto: “Non ci fermeranno questa volta”».
    Nicola Chielotti, docente di diplomazia e governance internazionale alla Loughborough University di Londra, sostiene che uno dei motivi per cui l’idea continua a riprendere vita è che ci sono tante persone che traggono profitto dal lavoro di progettazione: «Spendono costantemente soldi anche se non si materializzerà mai, e ci sono alcuni gruppi di interesse che sono felici di catturare quei soldi». Un’altra questione, aggiunge Chielotti, è che il progetto è un’utile pedina politica per un governo che finora ha taciuto su alcune promesse elettorali chiave, come la riforma fiscale e una posizione aggressiva nei confronti della finanza internazionale.ponte-sullo-stretto

    Wired fa il confronto con altre opere del genere già costruite per cogliere le difficoltà di realizzazione del progetto, che prevede un  ponte sospeso a campata unica con una lunghezza di 3.300 metri: «È il 60 percento più lungo del  ponte Çanakkale in Turchia, attualmente il ponte sospeso più lungo del mondo, che si estende per 2.023 metri. Con piloni di 380 metri di altezza, sarebbe anche il più alto del mondo, più del viadotto di Millau in Francia, 342 metri».

    Il ponte sullo Stretto e la sostenibilità

    La rivista riporta puntualmente alcune obiezioni autorevoli e fondate, di carattere ambientale e di sostenibilità finanziaria dell’opera.
    «Siamo ancora in una fase in cui non ci sono prove che (il ponte) sia fattibile dal punto di vista economico, tecnico e ambientale», afferma Dante Caserta, vicepresidente della sezione italiana del World Wildlife Fund. «Lo Stretto di Messina si trova anche in due zone protette cruciali per i movimenti migratori di uccelli e mammiferi marini». E, per quanto concerne la sostenibilità economica: «Per 30 anni abbiamo fatto elaborazioni concettuali che sono  costate ai contribuenti italiani 312 milioni di euro. Inoltre, la stima complessiva del costo di  8,5 miliardi di euro dal 2011 è destinata a salire a causa dell’aumento dei prezzi dei materiali e inflazione». E infatti siamo arrivati, come abbiamo scritto sopra, a un costo complessivo di 15,5 miliardi circa.

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    Auto sul traghetto tra Villa San Giovanni e Messina

    Caserta dice anche che non è chiaro se l’economia sostenga il costo. «Non ci sarebbe abbastanza traffico per pagare il progetto attraverso i pedaggi, perché oltre il 75 per cento delle persone che attraversano lo stretto lo fa senza auto, quindi fare tutto questo solo per risparmiare 15 minuti non ha senso, soprattutto perché collega due aree con gravi problemi infrastrutturali».
    Il professore Angelini segnala anche la mancanza di un progetto esecutivo. E aggiunge: «Il ponte non ha alcun legame reale con gli interessi sociali ed economici del Paese, e le persone e le merci si stanno già muovendo con altri mezzi». La chiosa è tranchante: «Penso che le possibilità di vederlo mai costruito siano scarse».

    L’unica certezza

    Abbiamo quindi dato conto di quanto accade in Italia, a livello di dibattito e di decisioni politiche. Abbiamo voluto anche dare conto di quanto pubblicato negli Stati Uniti. Il quadro complessivo sembra confermare l’impressione che il ponte sullo Stretto di Messina sia di prossima e certa realizzazione. Sulla carta. Il dato sicuro è che costerà ai contribuenti “della Nazione” ancora molto denaro.
    Lo scetticismo è d’obbligo, così come la perplessità per scelte che privilegiano un disegno astratto rispetto ad altre realizzazioni (alta velocità ferroviaria, statale 106, potenziamento del trasporto marittimo e aereo per l’intera Area dello Stretto) che potrebbero dare un contributo decisivo per fare uscire dalla marginalità questo lembo di terra.

  • Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Un pezzettino di Calabria vola al Cannes World Film Festival. Il regista cosentino Francesco Gallo ha trionfato nella categoria “Miglior film sportivo” con il documentario Le dee di Olimpia, un lavoro dedicato alle lotte di emancipazione femminile nei Giochi olimpici.

    Incuriosita dal tema, non potevo esimermi dal cercare Francesco per conoscere più a fondo la sua opera. Prima, però, avevo bisogno di conoscere meglio l’artista che si cela dietro il documentario. L’intervista, quindi, parte con una domanda banale: chi è Francesco Gallo?

    «Io sono uno storico dello sport, membro della SISS (Società italiana di Storia dello Sport). Ho studiato Cinema a Cinecittà e poi Storia all’università. E così cerco di unire tre passioni: la storia, lo sport ed il cinema. Tutti i miei documentari sono sportivi, ma sono un pretesto per far avvicinare le persone alla storia in maniera più esaltante. Le storie di sport esaltano gli spettatori e alcuni argomenti passano più facilmente al cuore e alla mente delle persone se c’è lo sport di mezzo.
    Poi c’è la passione della scrittura, perché sono principalmente uno sceneggiatore. Scrivo tutti i testi dei documentari e nella struttura narrativa che utilizzo non ci sono interviste perché racconto per lo più storie internazionali. Quello che mi interessa è raccontare le storie degli ultimi, le storie di chi ha bisogno di luce sulle proprie lotte che spesso sono dimenticate».

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    Francesco Gallo

    Prima di realizzare questo documentario, hai scritto un libro dedicato alle battaglie delle donne nella storia dei Giochi. Come ti sei avvicinato a questo tema?

    «L’idea del libro era uscita in occasione delle Olimpiadi del 2016 di Rio de Janeiro. Ero al telefono con l’editrice e le dissi “se pensi a tutte le storie delle donne, ci viene fuori un libro a parte”. Lei mi fa: “Ecco, scrivi quello”. È nata così, quasi come una sfida. Ho dovuto iniziare a studiare da capo e andare a cercare solo fonti che riguardassero le atlete. In realtà, è quasi più corposo il documentario del libro».

    Ma esattamente cosa racconta Le dee di Olimpia?

    «Inizia alla fine dell’Ottocento con le prime Olimpiadi di Atene, dove le donne non ci sono. Proprio in quegli anni c’erano le lotte per ottenere il diritto al voto e queste lotte si sono riversate anche nei giochi. Le donne hanno detto: “non solo vogliamo votare, vogliamo anche gareggiare”. Non tutte le donne potevano accedere allo sport perché era vietato. In epoca vittoriana c’erano degli studi, ai tempi considerati scientifici, che dicevano che le donne non potevano andare in bicicletta perché rischiavano infezioni agli organi genitali, potevano addirittura approfittarne per onanismo e quindi non bisognava dare alle donne le biciclette. Da una parte, quindi, la scienza diceva assolutamente no e dall’altra parte, a livello sociale e culturale, per alcune donne di ricche famiglie era sconveniente. Ma erano proprio, in maniera ambivalente, le donne di ricche famiglie a potersi permettere di essere un po’ più ribelli e di accedere ad alcuni sport. La vela, ad esempio, o l’equitazione, il golf e il tennis sono sport di alta estrazione sociale, soprattutto all’inizio del Novecento e sono queste donne a essere le prime ad andare alle Olimpiadi».

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    Charlotte Cooper, oro olimpico a Parigi nel 1900

    E poi cosa succede?

    «Da qui arriviamo agli anni Venti. C’è questo grande buco che è la Prima guerra mondiale in cui alle donne hanno detto “uscite dalle case o dalle piste di atletica e andate a sostituire gli uomini, che sono al fronte, nelle fabbriche o nei campi”. Sembrava uno stop ma, invece, è stato un grande salto in avanti: gli uomini, tornati dal fronte, si sono trovati queste donne con le gonne più corte, perché dovevano stare nelle fabbriche e serviva facilità di movimento, voglia di libertà, che ovviamente non volevano perdere. Proprio nel decennio tra gli anni Venti e gli anni Trenta c’è stato un grande salto simboleggiato dalla nascita delle Olimpiadi femminili. La dirigente francese Alice Milliat, contro le parole di Pierre de Coubertin che continuava a sostenere che le donne non devono assolutamente partecipare ai Giochi, dice di organizzare delle Olimpiadi per sole donne. Non solo c’erano migliaia e migliaia di spettatori, ma davano a tantissime donne la possibilità di partecipare».

    Numeri paragonabili a quelli degli uomini?

    «Nel documentario, anno dopo anno, ho evidenziato il numero di atleti uomini e di atlete donne. È andato via via aumentando fino a Tokyo 20-21, in cui siamo più o meno in parità.
    Nel periodo in cui il fascismo e il nazismo volevano che le donne tornassero ad essere angeli del focolare, proprio l’Italia con Ondina Valla vince la prima medaglia d’oro. Poi abbiamo questo salto della Seconda guerra mondiale, perché la guerra è drammatica ma molto spesso è una molla per l’avanzamento sociale e culturale».

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    Trebisonda “Ondina” Valla (seconda atleta da sinistra) e le ragazze della squadra italiana alle Olimpiadi del ’36

    Cosa cambia per le donne?

    «Le donne, dopo aver dato il proprio fondamentale contributo nella Resistenza europea, negli anni ’50 iniziano una salita infinita, che culmina con le istanze politiche e sociali degli anni ’60. Vediamo le donne che iniziano a vincere sempre di più nelle piste, ma anche nelle piazze con le lotte per l’aborto, per l’utilizzo della pillola, o della minigonna perché nel documentario c’è anche il costume. Mentre dall’America ancora tentavano di imporre modelli come la Barbie o le pin-up, l’Europa era più avanti. Era scoppiata anche la Guerra fredda e il modello occidentale si contrappone a quello sovietico».

    E questo cosa comportava per le sportive?

    «Nel ’52 Stalin dice “dobbiamo affrontare questa sfida anche in pista” e le donne sovietiche, quasi più degli uomini, accumulano medaglie edizione dopo edizione. Finché gli americani si chiedono perché le comuniste trionfino così tanto e come possa la piccola Germania dell’Est vincere quasi quanto gli Stati Uniti. Si dopano? Effettivamente, purtroppo, la risposta spesso era sì. Ed era un doping di Stato. Per questioni di propaganda politica dovevano per forza vincere, il numero di medaglie serviva a dimostrare che il modello sovietico era, anche dal punto di vista sportivo, superiore a quello dell’Occidente. Ragazze e ragazzine, per la maggior parte minorenni, erano costrette ad assumere anabolizzanti».

    Con quali conseguenze?

    «Molte di loro, una volta cresciute, hanno deciso di cambiare sesso, stavano praticamente diventando a tutti gli effetti degli uomini. C’è il famoso caso di Irina e Tamara Press, che la stampa americana sarcasticamente chiamava i fratelli Press perché sembravano davvero due uomini per la stazza e la muscolatura. Poi abbiamo il crollo del muro di Berlino, che cambia tutto.
    Da allora c’è stata un’evoluzione tuttora in corso perché, malgrado ci sia una parità numerica in pista adesso la sfida è fuori dagli stadi. È nei palazzi del potere e della politica sportiva dove si decidono le leggi e i regolamenti sportivi».

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    Tamara e Irina Press

    Quali sono le sfide dello sport oggi? E in che modo il genere e la razza interagiscono e diventano un limite per le atlete?

    «Il discorso che ho fatto finora vale più che altro per noi, per l’Occidente. Se andiamo nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, l’accesso allo sport è paragonabile a cento anni fa. Questo avviene per questioni sociali, culturali e religiose. L’Arabia saudita, per esempio, o la Siria e l’Iran non permettono alle donne di gareggiare perché le divise sportive non aderiscono ai precetti islamici. Ci sono stati casi, come l’alzatrice di pesi Amna Al Haddad, che ha deciso di gareggiare comunque col velo e ovviamente non è facile. Oggi, come abbiamo visto nell’edizione 20-21, le donne hanno capito che possono usare il palcoscenico olimpico per varie forme di protesta, come quella sull’abbigliamento».

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    Amna Al Haddad

    Qualche esempio?

    «Le ginnaste tedesche stanno protestando contro le tutine striminzite che sessualizzano il corpo delle atlete e a Tokyo hanno indossato delle tute che non lasciavano nulla da vedere. Anche nel beach volley ci sono ancora questi pantaloncini davvero minuscoli. Mi vengono in mente le tenniste che devono, per l’etichetta ottocentesca di Wimbledon, giocare vestendo sempre di bianco, così come gli uomini. Ma le tenniste dicono “come facciamo durante il ciclo? È una cosa che ci mette a disagio e condiziona anche le nostre partite”».

    Poi c’è la questione delle violenze, che ha sollevato un polverone anche in Italia negli ultimi tempi…

    «Molte atlete stanno protestando perché sono spesso vittime di abusi piscologici e sessuali o talvolta entrambi. Queste ragazze hanno pressioni psicologiche talvolta ingestibili e persino delle professioniste, come Naomi Osaka nel tennis o la ginnasta Simone Biles, hanno deciso di ritirarsi dalle ultime Olimpiadi perché non riuscivano a gestire questo carico di pressioni, che sono sia sportive che mediatiche. Poi non possiamo parlare delle Olimpiadi e della condizione delle donne in vista di Parigi 2024, senza pensare alla situazione in corso in Ucraina. La guerra sarà un elemento fondamentale che sposterà gli equilibri.

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    La ginnasta Simone Biles con uno dei suoi quattro ori olimpici

    Esiste davvero una correlazione così forte tra politica e sport?

    «Questo accade ed è sempre accaduto, fin dalla nascita delle Olimpiadi. Nell’antica Grecia chi vinceva le Olimpiadi diventava cittadino di Atene. Molto spesso si gareggiava sia per la gloria sportiva che per quella sociale. Perché essere cittadino ateniese era il massimo del vanto che si poteva avere nell’antichità»

    Torniamo al presente e affrontiamo la polemica sulle atlete trans nelle gare sportive…

    «Cambiano le modalità, ma il cuore della questione rimane sempre lo stesso. Da cento anni c’è il problema del test sessuale nelle Olimpiadi. Lo racconto anche nel documentario: tantissime donne travestite da uomini, o viceversa, come il caso tedesco di Heinrich Ratjen che si travestì da donna e gareggiò col nome di Dora Ratjen. Poi c’è stato il caso, come dicevo prima, di medicinali utilizzati per stravolgere le donne e farle diventare più forti e muscolose. Dalla fine degli anni Sessanta è stato introdotto il sex test per non far gareggiare chi si professava di un sesso invece di un altro. In questo caso le donne trans, che volessero partecipare ai giochi, dovrebbero avere la possibilità di partecipare ai giochi nel sesso in cui più si sentono di appartenere. Poi c’è tutta la storia dei regolamenti: un uomo che gareggia contro una donna, o viceversa, può essere più o meno svantaggiato ma, quando c’è una scelta personale, si deve dare alle persone la libertà di scegliere. È una scelta che va oltre la possibilità di vincere più medaglie».

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    Heinrich/Dora Ratjen

    Non ci addentriamo oltre nei contenuti del documentario di Gallo e lasciamo a chi legge la possibilità di godersi la visione di Le dee di Olimpia.
    Con una consapevolezza in più: anche lo sport è politica e lotta.

    Francesca Pignataro

  • Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Nei sotterranei della Oglethorpe University in Georgia (USA) c’è una camera a tenuta stagna. Sulla porta c’è scritto «Non aprire prima del 28 maggio 8113». È la prima – e più grande finora – capsula del tempo mai realizzata e custodisce per i posteri testimonianze significative di ciò che l’umanità ha prodotto (ed è stata) fino agli anni ’40 del secolo scorso.
    Quando, tra circa sei millenni, la porta si aprirà, gli uomini del futuro – o chi per loro – si troveranno di fronte un po’ di tutto. Dalle voci registrate di Hitler, Stalin, Mussolini alla sceneggiatura di Via col vento, passando per microfilm con dentro la Bibbia e la Divina Commedia, un portasigarette, un rasoio elettrico e dei bigodini.
    Nella stanza ci sono pure la statuetta di un uomo e un foglio. La prima raffigura in scala 1:8 Angelo Siciliano, calabrese di Acri emigrato negli States ai primi del ‘900. Il secondo riporta le misure del paisà: altezza, peso, circonferenza del torace e dei suoi muscoli. Sul foglio c’è anche la foto di Angelo, ma il nome che si legge sotto è un altro: Charles Atlas.

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    L’interno della Crypt of Civilization della Oglethorpe University. La foto risale a poco prima della sua chiusura nel 1940

    Bokonon e la tensione dinamica

    Ma chi era Angelo “Charles Atlas” Siciliano e perché custodirne il ricordo per i prossimi 6.000 anni? Non pensate a roba à la Lombroso (o chi per lui). Un primo indizio si può trovare in quel gioiello della letteratura americana che è Ghiaccio-nove (in originale, Cat’s Cradle) di Kurt Vonnegut.

    Josh, il protagonista, è un giornalista che sta leggendo l’agiografia di Bokonon, immaginario santone venerato sull’altrettanto immaginaria isola caraibica di San Lorenzo su cui si trova in quel momento. È lì ospite di “Papa” Monzano, lo spietato dittatore dell’atollo, e dei figli di uno degli inventori dell’atomica, sul quale vorrebbe scrivere un libro.

    Quando vidi per la prima volta l’espressione “Tensione dinamica” nel libro di Philip Castle, feci quella che ritenevo una risata di superiorità. Era una delle espressioni preferite di Bokonon, stando al libro del giovane Castle, e io credevo di sapere una cosa che Bokonon ignorava: che quell’espressione era stata divulgata da Charles Atlas, un insegnante di culturismo per corrispondenza.
    Poco dopo, proseguendo nella lettura, appresi che Bokonon sapeva esattamente chi era Charles Atlas. Infatti Bokonon era un ex allievo della scuola di culturismo.
    Era
    ferma convinzione di Charles Atlas che i muscoli si possano costruire senza l’aiuto di pesi o attrezzi a molle, che si possano costruire semplicemente mettendo in competizione una fascia muscolare con l’altra.
    Era
    ferma convinzione di Bokonon che una società sana possa essere costruita solo mettendo in competizione il bene con il male, e mantenendo sempre elevata la tensione tra le due forze.
    E sempre
     nel libro di Castle, lessi la mia prima poesia, o Calipso, bokononista. Faceva così:

    “Papa” Monzano è veramente pessimo
    Senza di lui, però, sarei tristissimo
    Senza il “Papa” cattivo con la sua iniquità
    Funzionerebbe Bokonon
    A esempio di bontà?

    Acri-New York, solo andata

    Se la venerazione per Bokonon si limita all’atollo del romanzo di Vonnegut, quella per «l’insegnante di culturismo per corrispondenza» nella realtà si diffonde invece a macchia d’olio. Per comprenderne la ragione, però, bisogna andare a ritroso nel tempo fino a quando Angelo Siciliano non era ancora Charles Atlas.

    Tutto comincia il 30 ottobre del 1892. Ad Acri, paesone alle pendici della Sila cosentina, nasce il figlio di Nunziato Siciliano e Francesca Fiorelli, giovani contadini del posto. È il giorno della festa del Beato locale e il piccolo si chiamerà in suo onore Angelo. Qui le versioni della storia divergono.

    Secondo alcune, Nunziato undici anni dopo parte per l’America in cerca di fortuna, portando con sé Angelo e un’altra donna. Altre raccontano che Siciliano senior sia fuggito oltreoceano dopo aver ucciso un uomo, abbia trovato una seconda moglie lì e che a New York nel 1904 poi si siano trasferiti anche Francesca ed Angelo, ma a vivere a casa di uno zio.

    Il bullo in spiaggia: da Angelo Siciliano a Charles Atlas

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    Un giovanissimo Angelo Siciliano prima della “trasformazione” in Charles Atlas

    Comunque sia andata, nella Grande Mela Angelo diventa presto per tutti Charlie. È un ragazzo mingherlino che deve fare i conti con la povertà e le angherie come tanti altri emigrati dell’epoca.
    Nell’estate del 1909 convince una ragazza ad andare sulla spiaggia di Coney Island insieme a lui. L’appuntamento, però, va a rotoli.
    Un bagnino, vedendolo magro come uno spillo, inizia a prenderlo in giro e buttargli sabbia in faccia coi piedi (kick sand). Angelo è incapace di replicare al bullo e la ragazza lo molla lì, da solo a piagnucolare.

    Poco tempo dopo visita con la scuola un museo, in una sala c’è una statua di Ercole: il suo fisico è perfetto, a nessun bagnino verrebbe in mente di dar fastidio a uno con muscoli del genere. Angelo decide che si allenerà finché non avrà anche lui un corpo così. A casa Siciliano, però, soldi ne girano pochi, così deve arrangiarsi. Costruisce un bilanciere con un bastone e delle pietre, studia gli esercizi sulle riviste di ginnastica e prova a replicarli. Trova lavoro in una conceria. Ma il fisico di Ercole resta un sogno.

    Per realizzarlo servirà una nuova illuminazione, questa volta allo zoo di Brooklyn.
    Angelo osserva i leoni in gabbia mentre si stiracchiano. Sono così forti – pensa – eppure non hanno avuto bisogno di pesi o panche per diventarlo, com’è possibile? Intuisce che la risposta è proprio in quello stretching dove i muscoli, contrapponendosi l’un l’altro, si allenano a vicenda. Anche se ancora non lo sa, Angelo Siciliano ha appena inventato la Dynamic Tension che farà di Charles Atlas un mito mondiale del fitness e lo renderà milionario.

    Fachiro e modello

    Il ragazzo mette a punto un programma di esercizi che chiunque può svolgere a casa propria senza attrezzature particolari, bastano al massimo un paio di sedie. Oggi la definiremmo un mix tra ginnastica isotonica e isometrica. Si allena in continuazione e quando ritorna in spiaggia per i suoi amici è uno shock. Il Charlie di nemmeno 45 kg bullizzato poco tempo prima adesso sembra la statua di Atlante (Atlas in inglese) che sormonta un palazzo lì vicino. Tutti iniziano a chiamarlo così. E col nuovo fisico arriva anche qualche quattrino in più, che non guasta mai.

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    Il giovane Angelo Siciliano e il suo nuovo fisico

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano molla la conceria ed inizia ad esibirsi come fachiro in un circo. Guadagna 5 dollari per stare coi muscoli in tensione sdraiato sopra un letto di chiodi mentre dei volontari tra il pubblico camminano su di lui.
    Gli introiti aumentano quando comincia a posare per gli artisti. La celebre scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, animatrice dei salotti newyorkesi, lo elegge suo modello preferito, adora la sua capacità di restare immobile anche per 30 minuti di fila.
    Ora guadagna anche 100 dollari a settimana.

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    Angelo in posa nello studio di Pietro Montana

    Angelo Siciliano sta per lasciare per sempre spazio a Charles Atlas, ma da modello “assume molte altre identità” nei monumenti. Posa per Pietro Montana e la sua Dawn of Glory dell’Highland Park di Brooklyn, è Alexander Hamilton di fronte al Palazzo del Tesoro, George Washington in Washington Square Park.

    Addio Angelo Siciliano, è arrivato Charles Atlas

    L’ulteriore svolta arriva nel 1921, quando invia una sua foto per partecipare a un concorso organizzato dalla rivista Physical Culture che eleggerà “L’uomo più bello del mondo”. Trionfa. E l’anno dopo concede il bis aggiudicandosi nel Madison Square Garden gremito da migliaia di persone anche il titolo di “Uomo col fisico più perfetto del mondo”.
    Sarà l’ultima edizione del concorso: gli organizzatori decidono che con Charles Atlas in gara per gli avversari non c’è speranza di vincere.

    Il premio in palio nel 1922 è la parte da protagonista nel film The Adventures of Tarzan o, in alternativa, mille dollari. Angelo Siciliano opta per il denaro e cambia definitivamente nome. Ora è Charles Atlas anche per l’anagrafe e col premio apre una palestra per insegnare il suo metodo, che propone anche per corrispondenza in società con lo scrittore Frederick Tinley. Gli affari però non ingranano fino al 1929, quando incontra un altro Charles che cambierà definitivamente la sua vita.

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    Il premio grazie a cui iniziò la carriera imprenditoriale di Charles Atlas

    Quel gran genio di Roman

    Charles Roman è un giovane pubblicitario fresco di laurea, assunto da poco nell’agenzia che in quel momento si occupa di promuovere le attività dell’italoamericano e Tinley con scarsi risultati. Ed è un genio nel suo campo. Un giorno prende coraggio e si rivolge direttamente ad Atlas. Gli dice che se vuole vendere il suo programma di esercizi deve degli un nome più intrigante e conia Dynamic Tension. Poi si fa raccontare la storia del culturista.

    Capisce che la migliore pubblicità per la Dynamic Tension è Atlas stesso. Il ragazzo qualunque che con la sola forza di volontà ha cambiato il suo destino partendo dal nulla; l’emblema di quel sogno americano di cui gli Usa, nel pieno della Grande Depressione, hanno più bisogno che mai per risollevarsi; l’emigrato che si è trasformato in dio greco, sempre in forma e sicuro di sé, bello come un Apollo e le stelle di Hollywood sempre più idolatrate dalle masse.
    Se salutismo, forma fisica e culto dell’estetica diventeranno le nuove religioni, Roman ha già in mente chi sarà il loro profeta. Compra le quote di Tinley, lascia l’agenzia e insieme al paisà fonda la Charles Atlas Ltd.

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    Roman e Atlas nel loro ufficio a New York

    Roman, poi, disegna una striscia a fumetti: The insult that made a Man out of Mac, “L’affronto che ha fatto di Mac (alter ego di Angelo, nda) un Uomo”. Farà la storia della pubblicità americana. Sono poche vignette che ripercorrono l’appuntamento di Coney Island andato male anni prima: il bagnino che riempie di sabbia Mac, la ragazza delusa che se ne va, il mingherlino di 45 kg che torna a casa e decide di mettere su muscoli, il ritorno a Coney Island con annessa rivincita sul bullo, le altre ragazze ad acclamare il nuovo «eroe della spiaggia». Sotto i disegni, una foto dell’erculeo Charles Atlas che promette: «In soli sette giorni posso fare di te un vero uomo» e cose simili.

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    Il fumetto che ha fatto di Atlas un personaggio di culto

    Muscoli e cervello

    Le pubblicità invadono i giornali sportivi e la stampa per ragazzi. Diventano virali decenni prima che internet ci abitui ad usare questo termine. Dynamic Tension va a ruba, il culto del fisico arriva a oltre un milione di fedeli pronti a spendere 35 dollari per fare come Mac. La Charles Atlas Ltd assume decine di impiegati solo per leggere le loro lettere in cui raccontano i progressi fisici ottenuti grazie alle lezioni. L’azienda è ormai un impero internazionale.

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    1969, Charles Atlas, alle soglie degli 80 anni, in uno scatto di Diane Arbus

    I due Charles si dividono i compiti: Atlas ci mette i muscoli, che continuerà a curare ogni giorno finché campa; Roman il cervello, ideando sempre nuove dimostrazioni di forza del suo socio per accrescerne la fama. Se il primo ha “inventato” il fitness per tutti, il secondo è il padre del marketing applicato.
    Atlas in pubblico trascina locomotive per decine di metri, solleva auto e gruppi di ballerine, strappa elenchi telefonici a mani nude. Una volta si esibisce in uno dei penitenziari più famosi d’America. Roman detta il titolo ai cinegiornali: «Un uomo piega una sbarra di ferro a Sing-Sing: i prigionieri esultano, nessuno scappa».

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    1939, Charles Atlas solleva le Rockettes sul tetto del Radio City Hall

    E chi sei, Charles Atlas?

    Ormai negli States quando qualcuno compie o dice di aver compiuto qualcosa di eccezionale è facile che gli rispondano: «E chi sei, Charles Atlas?». L’emigrato di Acri che le prendeva dai bagnini adesso partecipa al compleanno del presidente Roosevelt.
    Anche i “giornaloni” sono pazzi di lui: Forbes lo mette tra i venti migliori venditori della storia; Life gli dedica un servizio fotografico; il New Yorker lo fa intervistare da Robert Lewis Taylor, un Pulitzer. Lui gli racconta di aver perfino dato dei consigli gratuiti a Gandhi: «L’ho visto tutto pelle e ossa».

    Pazienza se il Mahatma, dopo averlo saputo, liquiderà la storia con un sorriso e una battuta sulla tendenza degli americani, «Mr Atlas in particolare», a spararle grosse per farsi belli. Il programma di esercizi funziona lo stesso se hai costanza – ancora di più se il Dna ti dà una mano – ed è quello che conta. E se poi l’ex ragazzino di 45 kg trasformatosi in Atlante non bastasse come testimonial di se stesso, non mancano altri esempi di successo tra i suoi allievi.

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    Il grande Joe Louis, The Brown Bomber, dà una controllata ai bicipiti di Charles Atlas

    Sei fissato col body building? Thomas Manfre è diventato Mister Mondo nel 1953 dando retta a Charles. Sogni di poter stendere con un pugno qualcuno che ti ha maltrattato? Grazie a Dynamic Tension pugili come Max Baer e l’immenso Joe Louis sono saliti sul ring per il titolo mondiale dei pesi massimi. Vuoi conquistare la donna dei tuoi sogni? Anche il mito Joe DiMaggio ha forgiato i suoi muscoli seguendo Atlas. E chi ha sposato poi? Marilyn Monroe. Se poi vuoi far paura a qualcuno… beh, dietro la maschera di quel cattivone di Darth Vader nella trilogia originale di Guerre Stellari c’è un altro atlasiano doc come David Prowse.

    Culturisti di culto

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano, insomma, non è stato solo un culturista. È parte della cultura popolare americana (e non solo). La sabbia in faccia, per esempio, è un’espressione entrata nel vocabolario comune. La trovi in We are the Champions dei Queen come nei testi di Roger Waters (Sunset Strip) e Bob Dylan (She’s Your Lover Now).
    Gli Who hanno inserito una pubblicità di Charles all’inizio di I can’t reach you, nel disco The Who Sell Out in cui il bassista John Entwistle appare in copertina travestito proprio da Atlas in versione Tarzan.

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    John Entwistle prende in giro Atlas sul retro di The Who Sell Out

    Robin Williams ne L’attimo fuggente si paragona al Mac/Angelo indifeso della spiaggia quando racconta agli studenti i suoi primi approcci alla poesia. Tim Burton lo cita nel suo film d’esordio Pee-wee’s Big Adventure, Terry Gilliam nel Monty Python’s Flying Circus.
    La parodia del fumetto su Mac è finita in una puntata di Futurama e su National Lampoon: qui un topolino bullizzato in spiaggia da un carnivoro più grosso di lui manda una lettera a Charles Darwin, Isole Galapagos, «e dopo pochi milioni di anni di esercizi evolutivi» si ripresenta con ali e artigli per vendicarsi azzannando il rivale mentre tutte le femmine intorno inneggiano al nuovo «eroe dell’habitat».

    Tensione dinamica

    L’elenco (parziale) dei riferimenti al culturista calabrese comprende anche i videogame: il Little Mac del classico della giapponese Nintendo Mike Tyson’s Punch-Out è un chiaro omaggio al mingherlino di 97 libbre (97-pound weakling) del fumetto di Roman. E nella prima versione del cult The Secret of Monkey Island c’era una statua che secondo il protagonista «sembrava la versione deperita di Charles Atlas».

    Il principale (e più irriverente) omaggio al bambino arrivato a Ellis Island dalle montagne di Acri, però, resta quello del Rocky Horror Picture Show. Nel musical più libertino della storia lo scienziato pazzo alieno Frank’N’Furter dà vita alla sua creatura, l’amante perfetto dal corpo scolpito, intonando la Charles Atlas’ Song/I can make you a man. E se la porta a letto poco dopo, spiegando in I can make you a man (Reprise) che quei muscoli gli fanno venire voglia di prendere per mano Charles Atlas e di “tensione dinamica”.

    Nemo propheta in patria

    Angelo Siciliano non ha mai ascoltato le due canzoni. Il RHPS è uscito a teatro nel 1973 e al cinema nel ’75, lui è morto di infarto la vigilia di Natale del ’72. Nei successivi 50 anni e mezzo ad Acri pare non gli abbiano ancora dedicato una piazza, una strada, un vicoletto. Nemmeno una targa o una palestra qualsiasi.
    Sarà perché non ci è mai tornato. Sarà perché in Calabria dimenticano i campioni olimpici, figuriamoci un culturista. O, forse, aspettano anche lì il 28 maggio 8113.

  • Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    «Non è un Festival sulla legalità astratta, ma un evento letterario e culturale calato nel mondo in cui viviamo: quest’anno ci occupiamo di democrazia». Inizia così la conversazione con Antonio Salvati, magistrato napoletano e palmese adottato, alle 8.30 del venerdì mattina seguente alla conferenza stampa di presentazione del X Festival Nazionale di Diritto e Letteratura della Città di Palmi (20-22 aprile 2023).

    CLICCA QUI PER SCARICARE IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL

    Siamo al tribunale di Reggio: ho redistribuito i miei impegni per riuscire a vederlo. «Sono contento che siamo riusciti a incontrarci. Mi ha colpito, nella nostra chiacchierata telefonica, che lei abbia insistito per vederci. Oggi si fa prima con lo scambio di comunicati stampa?».

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    Il tiktoker Usso96
    Sarà anche vero – ribatto -, ma è la conseguenza del depauperamento della professione. Se per tirar su uno stipendio decente bisogna scrivere duecento pezzi al mese, capirà che la forchetta tempo/approfondimento si assottiglia fino quasi a sparire. Peccato perché il giornalismo è una delle gambe della democrazia.

    «Pensi, quest’anno, per il nostro decennale, all’aula Scopelliti del Tribunale di Palmi processeremo i social network! Intendiamoci: si tratta di un processo atecnico, fittizio, di uno spunto di riflessione, per approfondire il legame tra forma di governo, contesto socio-economico e innovazione tecnologica. Il pubblico Ministero sarà Dario Vergassola, la difesa verrà rappresentata dal tiktoker Usso96 e il giudice sarò io. Partiamo dal presupposto che la globalizzazione abbia innescato due processi: il rafforzamento del potere esecutivo e il crollo dei corpi intermedi mentre noi siamo stati parcellzzati. Tutto deve essere veloce e ad immediata portata di mano».

    Mi torna: ogni cambio di paradigma porta crolli e nuove regole di organizzazione. Sono i temi che tratto a scuola con i miei studenti: il digitale, le piazze virtuali, i tribunali del popolo versione social network, l’epoca del click, i processi mediatici sommari, l’individualizzazione, la partecipazione.

    «Quando nel 2015 chiesi al professor D’Alessandro dell’Alta Scuola di Giustizia Penale di Milano se credesse che portare un festival sugli studi di Diritto e Letteratura fuori dalle aule universitarie e verso il mondo della scuola fosse un punto di debolezza, mi risposte che no, che anzi rappresentava la forza dell’iniziativa. Eravamo alla seconda edizione e l’idea che con i ragazzi si dovesse lavorare attraverso le dimensioni di semplicità e curiosità è stata vincente. Avvicinare la scuola al mondo del diritto è più facile attraverso la letteratura».

    In che senso?

    «Cerchiamo di mostrare come il diritto non sia semplicemente appannaggio delle aule di un tribunale, ma riguardi la convivenza di tutti noi. La letteratura e la finzione sono i nostri attrezzi del mestiere. Lavorando con attori, scrittori, tiktoker, come quest’anno, svestiamo le toga e cerchiamo di avvicinarci alla generazione Z. Non mi ritrovo nell’assunto di Montesquieu che i magistrati siano la bocca della legge».

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    Piero Calamandrei
    Però la magistratura è percepita come una delle caste di questo Paese. La voce del popolo pensa che siate intoccabili, per restare nel solco di un dibattito allargato sulla democrazia.

    «Sicuramente c’è qualcuno che vorrebbe far proprio questo modello. Io la penso diversamente. Prenda l’esempio del periculum in mora, il possibile danno in cui potrebbe incorrere il diritto soggettivo: la valutazione su questo periculum non si può fare se non si resta essere umano, con la propria esperienza di vita: cosa che nessuna intelligenza artificiale o algoritmo potrà mai fare. Per Calamandrei, prima di giudicare, un magistrato avrebbe dovuto sperimentare quindici giorni di carcere. In altre parole, per fare bene il suo lavoro, un giudice ha necessità di un gap esperienziale che gli permetta di operare coerentemente con il contesto, consapevole di essere persona tra persone. L’idea di smettere di essere persona per diventare un asettico braccio della legge non mi rappresenta».

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    Lo scrittore portoghese Josè Saramago
    Ecco, non c’è democrazia senza rappresentanza e non c’è rappresentanza senza partecipazione. Un po’ ovunque, per lo meno in Europa, i dati sull’affluenza raccontano di una disaffezione. Chi elegge è una minoranza della maggioranza. E più in generale la partecipazione alla vita pubblica si affievolisce…

    «Jose Saramago in Saggio sulla lucidità racconta di un Paese in cui ad un tratto votano scheda bianca, con le conseguenze che ne derivano. É un esempio di cosa è e come si muove il Festival: contattiamo le scuole, chiediamo di aderire. Diamo il tema, Consigliamo di leggere il testo di riferimento che scegliamo per parlarne assieme. Tutto si tiene. Allargando il discorso questo modello, che è un po una metodologia, mira a fare uscire il diritto fuori dai suoi tecnicismi per divulgarlo, calandolo nella realtà di tutti noi. Il Festival è stato in alcune circostanze evento di formazione nazionale della Scuola Superiore della Magistratura, proprio perché il modo in cui affronta le tematiche che tratta contribuisce all’abbattimento dei bias cognitivi, ossia di quelle forme di pre-giudizio da cui un magistrato può essere influenzato, ma che occorre scongiurare per evitare prima stereotipi e poi errori. In seguito quello che era nato come strumento di formazione per giuristi si è trasformato ed è stato allargato alla scuola».

    Nella prima parte de I tweet di Cicerone, l’autore affronta un tema cruciale per il nostro mondo, i cambiamenti causati dal passaggio dall’oralità alla scrittura. E mostra come, in ogni grande passaggio, le categorie degli apocalittici e degli integrati siano sempre esistite. Cosa possiamo fare noi, la generazione-cerniera, per dare ordine nel passaggio dall’analogico al digitale?

    «Innanzitutto dire ai ragazzi che va tutto bene, andando noi, che abbiamo le spalle più robuste, verso di loro. Spiegando che certi tempi vanno affrontati. Bisogna uscire da questa tendenza accademica, che è molto italiana, e spingere sulla divulgazione. Ce lo ha insegnato Piero Angela: c’è modo e modo di affrontare le cose e modo e modo di narrarle. L’efficacia comunicativa è scandita dal come: per affrontare con il pubblico riflessioni apparentemente pesanti su temi come il cambio di paradigma, la democrazia 4.0, la partecipazione, i valori, gli stereotipi bisogna trovare la chiave giusta».

    Piero Angela, volto noto della tv italiana per tanti anni
    É contento dei risultati raggiunti?

    «Molto contento. Ritengo il Festival di diritto e letteratura di Palmi un formidabile strumento di umanizzazione e divulgazione e le posso assicurare che siamo sicuri di una cosa: il Festival lo faremo sempre, con qualsiasi budget, sia con zero fondi, sia con risorse più importanti. Se lo avessimo presentato come un’iniziativa sulla legalità in Calabria, sicuramente avremmo avuto maggiore risonanza, ma non è quello che volevamo».

    A proposito di stereotipi… la Calabria?

    «Le dico una cosa: girando l’Italia vedo negli occhi la delusione di qualcuno quando dico che che in Calabria faccio una vita normale. Spesso si è convinti che per fare questo lavoro in Calabria si debba girare con l’elmetto. Paragonando lo stereotipo calabrese con quello napoletano, ho la sensazione che il secondo assuma venature di leggerezza, mentre per il primo sembra manchi un piano B. Eppure sono convinto che la Calabria ce la farà. Ma deve smettere di raccontarsi attraverso gli stereotipi che le hanno cucito addosso. Perché questa terra, con il suo radicamento a certi valori, può essere laboratorio di modernità al di fuori dell’omologazione».

    É fiducioso?

    «Si. Il giorno migliore della nostra vita è domani. La aspetto al Festival».

  • Vittorio De Seta: sinistra e nobiltà di un nipote di Calabria

    Vittorio De Seta: sinistra e nobiltà di un nipote di Calabria

    Sono passati 11 anni e mezzo dalla sua morte. E circa 15 da quando conversai con lui nel foyer di un albergo di Parma, dopo uno scambio epistolare che durava da un po’. Non mi pare che Vittorio De Seta, nel frattempo, sia stato sufficientemente celebrato da chi avrebbe dovuto e potuto. Del resto, cos’è “sufficiente” per un artista di quel calibro? E poi, visto che era stato poco celebrato in vita (come succede solo ai più grandi), figuriamoci una volta scomparso. Le scrivo io, due parole in suo ricordo: Vittorio De Seta era innanzitutto un gentilissimo signore, pacato e misurato, forse immerso fin troppo nel suo ideale di un mondo buono da poter recuperare, innocente testa tra le nuvole.

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    Un giovane Vittorio De Seta accanto a una cinepresa

    Sinistra e nobiltà

    Aveva natali pesanti, Vittorio De Seta. Il nonno paterno (prefetto un po’ ovunque e poi sindaco di Catanzaro a fine Ottocento) e suo fratello erano i marchesi Francesco ed Enrico, deputati, poi senatori all’inizio del Novecento, nati a Belvedere Marittimo. Il nonno materno era invece il conte piemontese Giovanni Emanuele Elia, inventore in ambito militare.

    Padre e madre? Separatisi prestissimo. Erano il marchese Giuseppe De Seta, scomparso assai prematuramente, e la ben più nota Maria Elia, meglio conosciuta come la marchesa De Seta Pignatelli, per aver sposato in seconde nozze il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Non aggiunse, invece, un terzo cognome per non aver mai sposato il suo terzo storico compagno, il quadrumviro Michele Bianchi col quale, appena poteva, fuggiva nella sua torre silana.

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    La torre della marchesa in Sila

    Ma stavamo parlando di Vittorio De Seta: bene, al maestro tutto ciò stava in realtà molto molto stretto. Uno dei suoi film – il più intimo, il più tormentato – racconta proprio del rapporto difficilissimo con una madre d’acciaio che lo ritiene solo un sognatore inetto, disumana, dura, insensibile. Con un padre impalpabile e denigrato dalla vedova. Con un fratello maggiore a lui preferito e poi scomparso anzitempo. E, soprattutto, con un milieu aristocratico che cozzava non poco con la visione antropologica sincera di un artista vicino al popolo – e non a parole –, alla semplicità e persino al sacrificio.

    La “colpa” di Vittorio De Seta

    Come conciliare il fatto di essere nato nel sontuoso e arabeggiante Palazzo Forcella, poi De Seta, alla Kalsa di Palermo, con quello di essere vicino di casa di quella cultura di sinistra più intransigente – quella degli anni ’60 del Novecento – senza scadere nella parodia da gauche caviar?
    Si concilia così: vai in analisi da Ernst Bernhard (e ci porti pure Fellini), e non perché ci stiano già andando Manganelli, Bazlen, la Campo e la Ginzburg ma perché credi di non avere altra via d’uscita.

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    Palazzo De Seta, a Palermo, dove il regista venne alla luce

    Così mi scriveva nell’autunno del 2008 e riporto fedelmente queste poche frasi ancora inedite: “C’è stato all’origine della mia esistenza (…) un evento – al quale ovviamente ero estraneo – che mi ha segnato con un marchio d’infamia e di vergogna. La mia vita, il mio lavoro, sono stati segnati dalla necessità del riscatto di questa ‘colpa’ e, nello stesso tempo, dall’identificazione con le classi umili, diseredate per eccellenza. Dal ’58 ho fatto analisi psicologica junghiana con Bernhard, fino al ’65 (…). Avevo problemi: mai visto mio padre, nessun rapporto con mia madre, famiglia ricca, aristocratica ed infine due anni di deportazione in Austria (‘43/’45) (…). Non si faceva molta cultura a casa mia (…). Ricordo che tornato dalla prigionia restai in casa mesi a leggere Benedetto Croce. Poi fui attratto dal marxismo, avevo bisogno di una fede, di un’appartenenza, uno schieramento. Ma intimamente non ero convinto, tanto che restai iscritto al partito comunista un solo anno (‘47/’48)”.

    Dieci piccoli capolavori

    La mia corrispondenza con De Seta aveva avuto inizio quando ad una finale dei Mondiali di calcio (Europei? Mai fatta troppa attenzione) preferii la proiezione al cinema dei suoi cortometraggi appena restaurati dalla Cineteca di Bologna. Si trattava dei suoi primi dieci brevissimi capolavori, girati tra il 1954 e il 1959 tra Sicilia, Calabria e Sardegna (e rieccoci con la Calabria come terza isola).
    Servirebbero pagine e pagine per commentarli a dovere tutti e dieci (uno di essi, Isole di Fuoco, vinse a Cannes nel ’55). Mi limito a segnalare i soli due girati in Calabria:

    • Lu tempu de li pisci spata

    • I dimenticati

    Il primo è girato nelle acque al largo di Scilla e documenta una battuta di pesca, appunto, al pesce spada, compiuta con metodo più che tradizionale (l’unico, del resto, ancora praticato all’epoca in quella zona).
    Il secondo racconta del giorno di festa per antonomasia nell’ultraperiferico paese di Alessandria Del Carretto, che ancora nel ’59 si poteva raggiungere solo a dorso di mulo: il giorno della paganissima festa della pita.
    Poi arrivò il cinema vero, i film ‘canonici’, i lungometraggi. E poi anche alcuni prodotti per la televisione: mirabile, e insuperata, la serie Diario di un maestro, del 1973, con l’eccezionale Bruno Cirino.

    La Calabria di Vittorio De Seta

    Ma Vittorio De Seta non dimenticò la Calabria. Anzi, svernava tutti gli anni nella sua antica masseria di Sellìa Marina, in contrada – noblesse oblige – Feudo De Seta, dove il regista chiuse poi gli occhi. Tornerà infatti a filmare la Calabria in altre due opere, ovvero nel documentario In Calabria (del 1993) e nel tardo (e più dimenticabile) Pentedattilo – Articolo 23 (2008), episodio del film Human Rights for All.
    Il secondo è una breve metafora del ripopolamento del paese, abbandonato da tempo, da parte di una comunità di migranti. Il primo è un capolavoro vero, e ne consiglio assolutamente la visione.

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    L’ingresso alla masseria di Feudo De Seta, a Sellia Marina

    È la testimonianza di una Calabria – a 360° dal Pollino a Polsi – svenduta, di una Calabria fallita, che ha barattato una sua propria identità col baratro del progresso sperato, inattuato, neppure col miraggio dell’Università, delle fabbriche abbandonate e delle cattedrali nel deserto. E con uno sguardo malinconico a chi nel 1993 allestiva ancora carbonaie, faceva la ricotta con le mani rovinate, cantava in greco antico nelle chiese di rito bizantino e si riuniva più serenamente attorno a un maiale da sublimare. Altrettanto meravigliose, per inciso, alcune tracce liturgiche inserite nella colonna sonora, ed eseguite dalla Corale greco-albanese di Lungro.

    Vittorio De Seta era un figlio, anzi, un nipote di Calabria che con i suoi occhi e con la sua sensibilità ne ha disegnato un ritratto delicato e rassegnato.
    Cosa ne resterà? E chi avrà scrupoli e talento tali, dopo di lui?

     

  • Calabria News 24: raccontare la complessità e unire le forze

    Calabria News 24: raccontare la complessità e unire le forze

    Raccontare la Calabria dei territori e delle sue eccellenze. Senza dimenticare le ombre, che ci sono in ogni dove. Non solo nella nostra regione. È questo l’obiettivo di Calabria News 24, network dei giovani editori Marco e Pierpaolo Olivito. Un impegno quotidiano, il loro, per costruire reti e migliorare una serie di servizi di comunicazione e informazione capillari.

    Con oltre 220mila follower sui social network CalabriaNews24 rappresenta una realtà molto importante dal Pollino allo Stretto. E non solo. Sono numerosi i progetti che vedono protagonisti la squadra di giornalisti e comunicatori in giro per l’Italia.

    Tra gli obiettivi degli editori Marco e Pierpaolo Olivito spicca la costruzione di reti e collaborazioni prestigiose. Alcune già in essere, altre in cantiere. Nella consapevolezza che uniti si possa fare una informazione più attenta e approfondita. Attraverso web tv, radio, siti e un modo di fare giornalismo attento alla complessità e alle diversità.

  • Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud/ Vittorio De Seta è il titolo del libro, curato da Eugenio Attanasio, edito dalla Cineteca della Calabria nella ricorrenza del decennale della scomparsa (2011-2021). Una pubblicazione che raccoglie lettere inedite, diari, articoli, conversazioni e testimonianze ripercorrendo alcuni momenti più significativi, del regista e dell’uomo, valendosi di contributi autentici e qualificati di intellettuali, giornalisti e persone che lo hanno conosciuto realmente, nella ricorrenza del centenario della nascita, 1923/2023 alla Libreria Mondadori di Cosenza venerdì 31 marzo alle 18.

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    Il libro su De Seta a cura di Attanasio

    È un prodotto editoriale importante che giunge al termine di un lungo lavoro effettuato dalla Cineteca della Calabria sul regista, del quale la Cineteca custodisce l’opera omnia, ed iniziato vent’anni fa con la prima ristampa dei documentari 1954-59, proseguito nelle scuole con i progetti di alfabetizzazione e di divulgazione del cinema antropologico, e che oggi storicizza l’impegno della Cineteca nel tenere viva la memoria e indirizzare nuovi cammini di studio e ricerca. Non solo un percorso culturale ed una eredità intellettuale della Cineteca della Calabria ma anche una grande amicizia tra Vittorio De Seta e Eugenio Attanasio che ha incluso anche ricordi personali della figlia Francesca e della nipote Vera Dragone, attrice e cantante, esponente di una famiglia che si divideva tra il cinema del nonno Vittorio e il teatro della nonna Vera Gherarducci.

    Gli esordi in Calabria di Vittorio De Seta

    Nell’opera si racconta dei viaggi e dei lunghi ritorni nel meridione di un maestro del cinema che ha saputo raccontare cinquant’anni di società italiana con lo sguardo dell’antropologo e la sensibilità dell’artista. La sua avventura comincia nel 1954 tra Calabria e Sicilia, quando il giovane Vittorio De Seta inizia la sua prestigiosa carriera di documentarista, in trasferta da Roma dove ha lasciato la giovane moglie, Vera, alla quale racconta, in un piccolo epistolario qui raccolto, le cose che gli succedono davanti agli occhi. Incontri epocali, come quello con Alan Lomax e Diego Carpitella, che ha suscitato dibattiti tra gli etnomusicologi, per le collaborazioni e l’utilizzo delle musiche. Il regista e i due ricercatori compiono un percorso parallelo di ricerca, tra musica e documentazione antropologica, che viene citato ancora oggi per la ricchezza dei materiali.

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    Alan Lomax

    Qui gli si rivela di una realtà, quella del meridione, fatta di contadini, pastori, pescatori, minatori, affascinante, misteriosa, dove si lotta contro la natura per sopravvivere, a lui, studente di architettura che ha provato, senza restarne particolarmente coinvolto, il mondo del cinema di fiction con Jean Paul Le Chanois. Vittorio De Seta organizza riprese con le tecniche del cinema americano dell’epoca: il grande formato cinepanoramico, il cinemascope il 35 mm colore, l’assenza della voce fuori campo, laddove per il documentario si utilizzava al tempo il bianco e nero, il formato quadrato, il voice over che spesso appesantiva la visione.

    Ma soprattutto capisce con straordinaria intuizione che di lì a qualche anno quella vita ancora arcaica si sarebbe trasformata, che i pescatori dello stretto si sarebbero motorizzati per cacciare il pescespada, che nelle campagne sarebbero arrivati i trattori, anzi il deserto, perché l’industrializzazione avrebbe richiamato le masse bracciantili per farli diventare operai.

    L’altra faccia del boom economico

    Questo mutamento nella società italiana viene accuratamente studiato oggi grazie al lavoro di Vittorio De Seta e altri documentaristi che scelgono questa porzione di paese dimenticata. Il viaggio tra Sicilia, Sardegna, Calabria dura cinque anni per girare dieci preziosi documentari, autoprodotti, che segnano la carriera e lo preparano al passaggio al lungometraggio. Banditi ad Orgosolo è salutato come il ritorno del cinema neorealista nell’Italia del primo boom economico. Debutta infatti insieme a Ermanno Olmi con Il Posto e Pier Paolo Pasolini con Accattone, contrassegnando un momento felice del cinema che racconta la realtà dei primi anni ’60, l’altra faccia del boom economico. iI tre resteranno amici e sodali culturalmente per tutta la vita a dimostrazione di una visione comune della società e dei problemi legati alla crescita esponenziale del benessere economico.

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    Una scena di Accattone

    Chi era Vittorio De Seta

    Ma chi era veramente Vittorio De Seta, rampollo di una nobile e ricca famiglia del Sud, intellettuale comunista e figlio di una madre dichiaratamente e convintamente fascista con la quale avrà un rapporto conflittuale, tanto da girare un film Un uomo a metà come tentativo di autoanalisi (sarà lui stesso a presentare lo psicanalista Barnard a Fellini). Nella pubblicazione lo stesso Vittorio De Seta parla di «cinema come metodo per capire delle cose», lui che era cosi fuori dagli schemi della produzione cinematografica da vendersi un palazzo a S. Giovanni in Laterano per fare un film che spacca il mondo della cultura italiana; chi lo accusa di decadentismo, chi di individualismo, ma Moravia e Pasolini escono per difenderlo con due bellissimi pezzi.

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    La locandina di Diario di un maestro

    È questo un momento di grande crisi per Vittorio De Seta, che emigra in Francia per girare L’Invitata con Michel Piccoli e l’amico Jacques Perrin, un film su commissione ma elegante, raffinato, intimista. Il ritorno in Italia alla regia con il Diario di un maestro è prepotente (anche questo raccontato in un diario di lavorazione giornaliero). Una preparazione meticolosa, due anni di lavoro per realizzare la sua opera eterna sul mondo della scuola, dei ragazzi di borgata, sull’utopia di insegnare in una maniera nuova. Quando la Tv lo trasmette realizza un indice di ascolto fuori da ogni previsione: per la prima volta infatti una produzione televisiva di grande successo arriva nelle sale, per le quali monta una versione apposita dalle tre puntate originali.

    Il ritiro a Sellia Marina

    Infine, il suo buen retiro in Calabria, dove si dedica all’agricoltura, nell’uliveto di famiglia a Sellia Marina, rompendo completamente con la vita precedente. Vittorio De Seta vuole mettere in pratica quello che ha appreso negli anni diventando imprenditore agricolo e coltivatore diretto. Ma la sua presenza, in quel lembo di penisola, non può passare inosservata e inizia ad accogliere, alla fine degli anni ottanta, giovani cinefili desiderosi di scoprire il suo cinema, essenziale, rigoroso, intransigente. Così dopo anni di completa eclissi viene riscoperto e stimolato a ritornare al cinema, in fondo, il suo mestiere di vivere, con il documentario In Calabria e poi con il suo testamento, Lettere dal Sahara, una commovente riflessione sulle nuove immigrazioni.

    Vittorio De Seta, il faro del nuovo cinema del reale

    Vivendo in Calabria, una regione ricca di contraddizioni, povera e marginalizzata ancora oggi, ritorna l’autore ispirato, diventa il faro del nuovo cinema del reale, dei giovani che si ispirano a lui, come Agostino Ferrente, Jonas Carpignano, Paolo Pisanelli. Torna a girare per l’Italia e per tutto il mondo: famosa la sua partecipazione al Tribeca film Festival nel 2005 e gli elogi di Martin Scorsese tra Bologna e New York. C’è chi ha paragonato il suo passaggio alla cometa di Halley, chi all’avvento di un nuovo Messia per le sue visioni profetiche, Vittorio De Seta resta una figura di riferimento per il cinema e la cultura italiana del ‘900. Questo libro, a differenza di altri, porge il ritratto dell’uomo oltre che del regista, con il bagaglio di intuizioni, ricchezze, spigolosità, che lo rendevano geniale e difficile, scontroso e tenerissimo allo stesso tempo.

    Mariarosaria Donato

  • Alessandro Bozzo, un esempio da ricordare

    Alessandro Bozzo, un esempio da ricordare

    C’è un bambino di neanche sei anni che scrive la letterina a Babbo Natale e non gli chiede un fucile o i soldatini. Tutt’altro, anzi proprio il contrario: «Fai finire la guerra tra Russia e America». Alessandro Bozzo, così piccolo, aveva intercettato e assorbito i temi della guerra fredda: è stato da subito un giornalista-giornalista, come da espressione – forse abusata – mutuata dalla narrazione su Giancarlo Siani. Ha avuto il «sacro fuoco» dentro, da sempre, ha letto tutto il leggibile, giornali e libri, e con una cazzimma e un candore disarmante si proponeva alle testate locali appena aprivano: «Voglio lavorare qui», risposta: «Ma stai ancora studiando!».

    Questo è Alessandro raccontato dalla sorella Marianna agli studenti che il 15 marzo (lo stesso giorno in cui dieci anni fa il giornalista di Donnici, appena quarantenne, ha deciso di lasciare questo mondo di ingiustizie e insoddisfazioni) riempivano Villa Rendano per il secondo dei momenti dedicati a lui e più in generale a una più ampia riflessione sul precariato. Non solo nel giornalismo. Non solo in Calabria.
    «In dieci anni la situazione nei giornali e in generale nel mondo del lavoro non è migliorata e l’esempio di Alessandro Bozzo dimostra che lo sfruttamento intellettuale e la libertà di stampa sono temi, purtroppo, ancora attualissimi»: questo il refrain negli interventi incentrati sulle difficoltà di fare il cronista e sul precariato imperante non soltanto nelle redazioni.

    Dieci anni in due giorni e tre tappe

    L’anniversario della morte di Bozzo è stato un lungo e partecipato momento in tre tappe per analizzare il mondo del lavoro: il momento forse più sentito è stato proprio quello con le scuole superiori, il dialogo moderato dalla consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura, Antonietta Cozza, alla presenza dell’assessore alla Cultura di Marano Principato, Lia Molinaro, e di Lucio Luca, autore del libro Quattro centesimi a riga. Morire di giornalismo (ed. Zolfo, 2022) e giornalista de La Repubblica che da anni segue il caso Bozzo, al quale aveva già dedicato un primo libro, L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana editore, 2018).

    «Sento Alessandro come un amico – ha detto Luca – anche se non l’ho mai conosciuto, ed è difficile trovare una spiegazione a tutto questo. Probabilmente in lui mi rivedo in tante cose e, anche se non ci ho mai parlato, sono sicuro che mi ha insegnato molto anche professionalmente».
    Con Marianna Bozzo c’erano i giornalisti Rosamaria Aquino ed Eugenio Furia, ex colleghi che hanno ripercorso le tappe della sua carriera arricchendola di aneddoti e insegnamenti sulla professione.

    Chi era Alessandro Bozzo

    Un ragazzo che piaceva a tutti, un leader già dai tempi del liceo scientifico in via Molinella: l’amore per la musica e gli U2 prima che diventassero famosi (essere sulla notizia è anche questo…), per il tennis e il Canada, per Gianni Clerici “lo scriba” e Irvin Welsh, per gli animali fossero un orso o un cardellino.
    Il gusto di condensare una notizia nelle prime righe sarà il più grande lascito per una generazione di aspiranti cronisti che ancora lo ricordano e lo rimpiangono.

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    Alessandro Bozzo in redazione

    Alessandro era un finto burbero che dava fastidio a quelli che per semplificare chiamiamo «poteri forti»: spesso dalla sua parte politica ricevette minacce più o meno velate e querele. Nell’agone partitico e giudiziario si fortificava come il gladiatore che affrontava il “nemico” a viso aperto e muso duro. E in conferenze stampa non facili si permetteva il lusso della seconda domanda mentre attorno la claque lo indicava come il rompipalle di turno: «Ma quindi è l’ennesima congiura dei giudici?», e dall’altra parte magari c’erano amici del suo editore.

    Presenti e assenti illustri

    In platea, ad ascoltare questi aneddoti, gli studenti del liceo scientifico “Enrico Fermi” di Cosenza – lo stesso che lui frequentò negli anni 90 –, del Polo scientifico Brutium, delle scuole secondarie di Marano Principato e dell’istituto comprensivo di Cerisano.
    «Mai più quattro centesimi a riga»: questo il messaggio rilanciato da Lucio Luca e dai relatori e già fatto proprio, peraltro, dal sindacato nazionale come battaglia comune.

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    La mamma di Alessandro (in primo piano) e parte degli studenti delle scuole durante l’incontro a Villa Rendano

    C’è stato chi ha considerato l’iniziativa una passerella, oppure ha deviato il dibattito sul fatto che lo stesso Bozzo si era affrancato dalla schiavitù dei “4 centesimi a riga”, come se il demansionamento e un contratto peggiorativo offertogli dall’editore per cui lavorava non rappresentassero una umiliazione dopo vent’anni di lavoro in quel settore.

    L’omaggio di Cosenza

    Nel pomeriggio del 15, intanto, il Museo dei Brettii e degli Enotri ha ospitato un dibattito a più voci proprio su libertà di stampa e ingerenze della politica nel lavoro delle redazioni, sulle querele temerarie e sul futuro dell’informazione.
    Il sindaco di Marano Principato, Pino Salerno, e l’assessora Molinaro hanno ricevuto i saluti dell’amministrazione del capoluogo (il sindaco non ha potuto partecipare per il concomitante consiglio comunale sull’autonomia differenziata) mentre Raffaele Zunino con un accorato intervento ha aperto i lavori in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”.

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    Lucio Luca firma una copia del suo libro

    Moderati da Antonietta Cozza, accanto a Lucio Luca, Marianna Bozzo e Rosamaria Aquino sono intervenuti Francesco Graziadio, consigliere comunale e giornalista nonché ex collega di Bozzo, l’assessore comunale Veronica Buffone e la vice-sindaco Maria Pia Funaro. Hanno preso la parola anche i genitori di Alessandro, Franco Bozzo e Venere Ricca, e la zia Dora Ricca, mentre Roberto Grandinetti ha raccontato i suoi oltre vent’anni di professione facendo luce su soddisfazioni e delusioni vissute all’interno dei quotidiani locali a cavallo del nuovo millennio.
    Toccanti le parole di Graziadio, che ha raccontato di come quegli anni abbiano lasciato anche molte macerie tra i rapporti umani prima che professionali di chi ha condiviso la vita di redazione in maniera totalizzante.

    Un cunto per le scuole

    La doppia iniziativa cosentina aveva avuto una sorta di “anteprima” domenica 12 marzo a Marano Principato, luogo in cui il giornalista di Donnici si tolse la vita: alle 18 nell’auditorium del centro di aggregazione giovanile “Cesare Baccelli”, l’attore Salvo Piparo e il musicista Michele Piccione hanno messo in scena la pièce Volevo solo fare il giornalista – La storia di Alessandro Bozzo tratta da Quattro centesimi a riga.
    Il reading, che ricalca la forma del “cunto” siciliano aggiornandolo con i più riusciti esperimenti di teatro civile, era stato presentato in una versione embrionale al festival Trame di Lamezia Terme nel 2019.

    Ora il monologo – nella versione arricchita dall’apporto di un polistrumentista – assume una forma più strutturata, e vanta già repliche in tutta Italia, dal festival delle Idee di Venezia al congresso nazionale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, a Riccione. Qui il monologo dedicato ad Alessandro Bozzo è stato scelto come storia paradigmatica, nella speranza che il suo esempio «non rimanga confinato in Calabria ma diventi il simbolo del futuro sempre più a rischio dell’informazione».
    A inizio 2023 lo spettacolo è stato replicato alla Camera del Lavoro di Milano, mentre al termine della replica di domenica scorsa l’amministrazione comunale di Cosenza ha preso l’impegno di riproporlo appena possibile in uno dei teatri della città, con il coinvolgimento delle scuole che si sono già mostrate molto sensibili all’argomento.

    Alessandro Bozzo e mezzo secolo da celebrare

    Con il sostegno dell’Istituto per gli Studi Storici, del Centro turistico Giovanile di Marano Principato, del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa” e della Fondazione Attilio e Elena Giuliani oltre che della libreria Raccontami, l’iniziativa ha segnato anche un’importante sinergia istituzionale tra l’amministrazione comunale bruzia e il centro appena alle porte del capoluogo, interessato da una rinascita culturale nella quale si iscrive la recente inaugurazione della biblioteca intitolata al geo-archeologo Gioacchino Lena.

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    Alessandro Bozzo e il suo taccuino

    Marano Principato è stato, peraltro, il primo soggetto a entrare nel patto intercomunale “Città che legge” approvato l’estate scorsa dalla giunta di Cosenza.
    Le due giornate ospitate tra Cosenza e Marano Principato sono state un modo per celebrare i cinquant’anni di Alessandro Bozzo e ribadire che il suo esempio non deve essere dimenticato.

  • Dieci anni senza Alessandro Bozzo: due giornate  per non dimenticarlo

    Dieci anni senza Alessandro Bozzo: due giornate per non dimenticarlo

    Dieci anni senza Alessandro Bozzo. Cosenza ricorda il giornalista scomparso tragicamente il 15 marzo 2013: due giornate e tre momenti di riflessione sulle difficoltà di fare il cronista in Calabria (ma non solo) e, più in generale, sul precariato imperante non soltanto nelle redazioni.

    Un reading a Marano Principato

    Si parte domenica 12 marzo a Marano Principato, luogo in cui il giornalista si tolse la vita: alle 18 nell’auditorium del centro di aggregazione giovanile “Cesare Baccelli”, l’attore Salvo Piparo e il musicista Michele Piccione metteranno in scena la pièce Volevo solo fare il giornalista – La storia di Alessandro Bozzo tratta dal libro Quattro centesimi a riga (ed. Zolfo, 2022) di Lucio Luca, giornalista de La Repubblica che da anni segue il caso Bozzo, al quale aveva già dedicato un primo libro, L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana editore, 2018).

    Il reading era stato presentato in una versione embrionale al festival Trame di Lamezia Terme nel 2019: ora il monologo – nella versione arricchita dall’apporto di un polistrumentista – assume una forma più strutturata, e vanta già repliche in tutta Italia, dal Festival delle Idee di Venezia al congresso nazionale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, a Riccione: qui il monologo dedicato ad Alessandro Bozzo viene scelto come storia paradigmatica, nella speranza che il suo esempio «non rimanga confinato in Calabria ma diventi il simbolo del futuro sempre più a rischio dell’informazione».
    A inizio 2023 lo spettacolo è stato replicato alla Camera del Lavoro di Milano.

    Gli appuntamenti di Cosenza

    Mercoledì 15 marzo ci si sposterà a Cosenza per un’intera giornata che prenderà il via alle 10 a Villa Rendano con le scuole superiori cittadine, mentre alle 17 il Museo dei Brettii e degli Enotri ospiterà un dibattito a più voci sulla libertà di stampa e su temi che, dopo un decennio, restano ancora attualissimi: dal precariato alle ingerenze della politica nel lavoro delle redazioni, dalle querele temerarie al futuro dell’informazione.

    La mattina, dopo i saluti di Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Attilio e Elena Giuliani, e di Franco Mollo in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”, con l’autore Lucio Luca dialogheranno la consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura, Antonietta Cozza, e l’assessore alla Cultura di Marano Principato, Lia Molinaro: con loro Marianna Bozzo, sorella di Alessandro, e i giornalisti Rosamaria Aquino ed Eugenio Furia. In platea gli studenti del liceo scientifico “E. Fermi” di Cosenza, del Polo scientifico Brutium, delle scuole secondarie di Marano Principato e dell’istituto comprensivo di Cerisano che hanno letto e avviato una riflessione sul libro Quattro centesimi a riga (le copie sono state donate da Paolo Tucci di Gap Life srl).

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    VIlla Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani

    Nel pomeriggio, invece, il sindaco di Cosenza Franz Caruso aprirà facendo gli onori di casa, seguiranno i saluti del suo omologo principatese, Pino Salerno, e di Raffaele Zunino in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”. Moderati da Antonietta Cozza, accanto a Lucio Luca, Marianna Bozzo e Rosamaria Aquino interverranno Francesco Graziadio, consigliere comunale e giornalista, e Francesca Lena, presidente dell’Istituto Studi Storici.

    Alessandro Bozzo, un esempio da non dimenticare

    Con il sostegno dell’Istituto per gli Studi Storici, del Centro turistico Giovanile di Marano Principato, del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa” e della Fondazione Attilio e Elena Giuliani oltre che della libreria Raccontami, l’iniziativa segna anche un’importante sinergia istituzionale tra l’amministrazione comunale bruzia e il centro appena alle porte del capoluogo, interessato da una rinascita culturale nella quale si iscrive la recente inaugurazione della biblioteca intitolata al geo-archeologo Gioacchino Lena. Marano Principato è stato, peraltro, il primo soggetto a entrare nel patto intercomunale “Città che legge” approvato l’estate scorsa dalla giunta di Cosenza.
    Le due giornate ospitate tra Cosenza e Marano principato saranno un modo per celebrare i cinquant’anni di Alessandro e ribadire che il suo esempio non deve essere dimenticato.