La Calabria rappresentava un luogo giusto per le personali indagini e riflessioni antropologiche di Pier Paolo Pasolini. Una regione che, insieme a tutti i sud del mondo, incarnava la memoria e l’identità collettiva. Non una collocazione strettamente geografica, ma una precisa connotazione storica che identifica il tempo della pre-storia, in contrapposizione con il tempo della dopo-storia, colpevole di una profonda crisi della cultura iniziata negli anni ‘50 del ‘900, in un momento storico in cui l’Italia si avviava verso quel processo di mutazione antropologica capace, secondo Pasolini, di trasfigurare completamente la realtà.
Pasolini in Calabria: dal reportage ai Comizi d’amore
Il viaggio di Pasolini in Calabria inizia già nel 1959, quando per la rivista Successo, attraversando le spiagge di tutta la penisola, realizza un lungo reportage per raccontare l’Italia del cambiamento e della tradizione, divisa tra borghesia e classe operaia. Ritornerà nuovamente tra marzo e novembre 1963 per il film documentario Comizi d’amore. Attraverso una serie di interviste si raccontavano i pregiudizi su temi scottanti come la sessualità, l’aborto e il divorzio. Sulla vicenda giudiziaria, successiva all’affermazione di Pasolini che definì Cutro come una terra capace d’impressionarlo, con i suoi banditi come si vede nei film western, molto è già stato scritto, ma tanto resta ancora da dire sugli incontri di Pasolini in Calabria.
De Martino e Pasolini: la Calabria del Premio Crotone
Nel 1959, in occasione del Premio Crotone, un concorso letterario istituito nel 1952, su delibera dell’amministrazione comunale guidata dal PCI di Silvio Messinetti che, a sua volta, aveva ricevuto indicazioni dal segretario regionale Mario Alicata, Pasolini era a Crotone per ritirare il prestigioso Premio. Proprio lì Pasolini incontra l’antropologo Ernesto De Martino, con il quale condivideva la visione di una fine del mondo, vista come disgregazione, annientamento dell’unità e delle strutture sociali e culturali, intesa secondo una forte matrice marxista non teorica o etica, ma esclusivamente di radice umanistica.
Pasolini premiato in Calabria per Una vita violenta
Se è vero che La fine del mondo di De Martino fu pubblicato postumo nel 1977, Pasolini ebbe modo di coglierne appieno le suggestioni, attraverso un articolo che ne anticipava le tesi: Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1964, di cui Pasolini era condirettore insieme ad Alberto Moravia.
Nel ‘59 la giuria del Premio Crotone era composta da personaggi come Ungaretti, Gadda, Mondadori, Sciascia, Bompiani, Repaci, Bassani e Moravia.
Sud, magia e vite violente
Al culmine di numerose polemiche dovute all’omosessualità di Pasolini, della quale non fece mai mistero, la giuria premiò il suo romanzo Una vita violenta a pari merito con il saggio antropologico Sud e Magia di De Martino, destinato a raccontare il ruolo della magia nelle società primitive, quindi in un Sud ancora legato a una certa ritualità. Da questo possiamo comprendere, quanto il confronto culturale tra i due era concentrato sui temi di cultura popolare.
Ernesto De Martino
E, indubbiamente, le teorie di Pasolini e De Martino sono rintracciabili, con le dovute differenze tra prospettive simboliche e potere distruttivo del capitale, in un’unica visione legata alla cultura popolare. Pasolini nel ricevere il premio dichiarò alla giuria che i protagonisti del suo romanzo, sebbene fosse ambientato nella capitale, facevano parte del Mezzogiorno d’Italia. Per questo motivo era giusto che a Crotone, i protagonisti, trovassero la giusta comprensione e accoglimento.
Mario Gallo e il mago
La rilevanza simbolica di una cultura radicata in un universo contadino si concretizza anche attraverso la realizzazione di alcuni cortometraggi improntati sui richiami della cultura contadina del Salento e della Calabria. Fin dal 1958 collabora con il documentarista, giornalista, produttore cinematografico, critico e regista calabrese, Mario Gallo. Insieme realizzeranno un cortometraggio della durata di circa dieci minuti, dal titolo Il Mago.
Il corto racconta la storia di un mago cantastorie, lo stesso Mario Gallo ne riassume il contenuto con semplici parole: «Nella vecchia Calabria sopravvivono vecchie abitudini, vecchi canti d’amore, di lavoro, di morte, vecchie figure; tra queste il mago. Egli se ne va in giro per le campagne recitando tutto solo davanti alle famiglie di contadini vecchie storie di paladini, dame e draghi. E così si guadagna un pezzo di pane». Il mago è un saltimbanco che, recitando tutte le parti del dramma o della commedia, riusciva a far piangere o ridere i contadini strappando così loro delle provviste. Non c’erano sceneggiature o dialoghi, l’attore protagonista improvvisava. Il corto sarà poi proiettato nel 1959.
Pasolini torna in Calabria: Il Vangelo secondo Matteo
Il suo incontro con un Sud ancora arretrato lo spinse ad una visione che possiamo definire di presagio della storia degli ultimi anni. Grazie ad essa riuscì a cogliere le insidie della globalizzazione, che lo portarono a vedere il Mediterraneo come il luogo dei grandi conflitti religiosi, culturali e sociali. Nella poesia Profezia parla delle coste calabresi, descrivendo l’arrivo di migliaia di uomini pronti a sbarcare sulle coste di Crotone o di Palmi. In questo Sud Pasolini riesce a ritrovare gli elementi in grado di mescolare sacro e profano, religione e laicità, insieme all’empatia del sentire umano. Questi sono i motivi che lo spingono a girare le scene del suo Vangelo secondo Matteo nell’Italia del Sud.
PPP tra i Sassi di Matera durante le riprese del film
Effettua le riprese nella terra incontaminata e sconosciuta come la Basilicata, facendo conoscere le bellezze dei Sassi di Matera, ma arriva anche sulle spiagge della Calabria, sulla costa Ionica che conosceva fin dai primi anni ‘50. Pasolini portò Il Vangelo secondo Matteo sulla spiaggia di Le Castella, frazione di Isola Capo Rizzuto, in quei luoghi già visitati in occasione del Premio Crotone. Si tratta di un capolavoro della cinematografia italiana del 1964, giudicato dall’Osservatore Romano il miglior film su Gesù mai girato.
Un viaggio nel tempo e nella storia dell’arte
Il regista utilizza il paesaggio della costa Ionica per costruire una sorta di viaggio nel tempo, una traccia del passato, qualcosa che, con i suoi riti e i suoi miti rischia di scomparire. Pasolini colloca la Calabria in diretta relazione con le culture del passato che l’hanno attraversata, preferendola addirittura alla Palestina ritenuta ormai troppo modernizzata, inadatta ad accogliere le scene de Il Vangelo. La Madonna incinta nella scena iniziale è Margherita Caruso, una giovane quattordicenne di Crotone. Nella scena è evidente il rimando alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. Altrettanto chiari sono i richiami iconografici in tutti i fotogrammi del film.
Margherita Caruso
Non bisogna dimenticare che Pasolini fu allievo del critico d’arte Roberto Longhi e l’arte visiva resterà sempre parte integrante di tutto il cinema pasoliniano. Enrique Irazoqui, l’attore spagnolo che nel film interpretava Gesù, cammina sulla spiaggia di Le Castella, alle sue spalle la fortezza, risalente al 400 a. C., collocata su un piccolo lembo di terra in uno dei tratti più suggestivi dell’Area Marina Protetta di Capo Rizzuto.
Enrique Irazoqui
Pasolini e la Palestina in Calabria
Nella campagna di Salica, frazione del comune di Crotone, è girata la scena di Gesù che dice ai discepoli di seguirlo, ma è necessario che ognuno prenda su di sé la propria croce. Nello stesso punto era girata la scena di Gesù che guarisce lo storpio e viene rimproverato per aver compiuto il miracolo nel giorno del sabato. La spiaggia del lago di Tiberiade, dove Gesù incontra per la prima volta i futuri discepoli e li invita a seguirlo, è la spiaggia di Irto, a ridosso di Capocolonna e del promontorio di Hera Lacinia, dove si trova la colonna di età ellenica. Una foto accanto ad essa, in occasione del Premio Crotone del ’59, immortala Pasolini in Calabria insieme alla giuria.
Lì dove finanche la potenza dell’oceano aveva fallito, riuscì una banale appendicite mal curata. E così, l’1 agosto del 1920, Hollywood si ritrovò a piangere l’ancora 33enne Eugene Gaudio. Non era il suo vero nome, ma l’americanizzazione – dopo lo sbarco nel nuovo continente – di quello ricevuto alla nascita dai genitori Francesco Gaudio e Marietta Severini a Cosenza: Eugenio. Anche suo fratello aveva fatto la stessa cosa quando, insieme ad Eugene, avevano solcato l’Atlantico in cerca di fortuna. Da Gaetano Antonio si era trasformato nel più yankeeTony Gaudio. Non sapevano ancora che il loro cognome sarebbe entrato nella Storia del cinema.
Eugene e Tony Gaudio, da Cosenza agli Usa
Eugene e Tony Gaudio erano nati rispettivamente nel 1886 e nel 1883 per poi crescere a pane e fotografia tra le vie del centro storico di Cosenza. Il fratello maggiore, Raffaele, era già da tempo tra i professionisti più affermati della città in questo campo, con tanto di titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia ottenuto per i suoi meriti sul lavoro.
Fu proprio nei laboratori di Raffaele Gaudio in via Sertorio Quattromani e, in seguito, su corso Telesio che Eugene e Tony appresero a cavallo tra ‘800 e ‘900 i primi rudimenti dell’arte “inventata” da Joseph Nicéphore Niépce.
Ma c’era un’altra invenzione che, più di ogni altra al mondo, sembrava attrarre i due “piccoli” di casa Gaudio. Anche lì c’entravano dei fratelli, solo che erano francesi: Auguste e Luis Lumière. Il loro cinematografo era la novità del momento, il presente, ma da subito fu chiaro che avrebbe rappresentato anche il futuro della messa in scena. E, come per molte altre cose, l’America sembrava la terra promessa dove realizzare i propri sogni. Anche (e soprattutto) quelli da imprimere su pellicola e proiettare su uno schermo.
Il cinema dei pionieri
Fu così che Eugene e Tony Gaudio, come tanti altri in quegli anni, si imbarcarono su un piroscafo diretti a Ellis Island. Hollywood non era ancora quella che avremmo imparato presto a conoscere e anche sull’East Coast erano parecchi i cinematografari. Erano gli anni dei pionieri del grande schermo. L’epoca d’oro in cui – racconterà in un’intervista del 1933 proprio Tony – «non c’erano costosi staff di sceneggiatori… registi, produttori, cameramen, e persino il garzone dell’ufficio, suggerivano storie destinate a diventare dei film». Quella in cui «gli attori principali di ogni studio erano al tempo stesso falegnami, pittori, scenografi, addetti alla sicurezza, nonché le star dei loro film».
Angolo tra la 5th Avenue e la 42nd Street (New York, 1910)
Il più “artista” tra i due emigrati cosentini era proprio Tony – complici gli studi a Roma all’Istituto d’Arte, appunto, e alcuni corti girati per la torinese Ambrosio Film a inizio secolo – ma Eugene, seppur più giovane e inesperto, non era da meno. Grazie alle loro capacità trovare lavoro fu semplice e veloce. Agli impieghi nelle agenzie fotografiche seguirono presto quelli per le prime case di produzione cinematografiche: quella di A. L. Simpson; i Vitagraph Studios; la Life Photo Film Corporation, l’Independent Moving Pictures, con le sue dive come Mary Pickford.
Dall’East Coast alla West Coast
È proprio alla IMP che Tony ed Eugene Gaudio iniziano a farsi davvero un nome, il primo come capo fotografo (e autore di sceneggiature), l’altro come supervisore del laboratorio. Tony inizia a viaggiare tra l’East Coast e la West Coast, Eugene accumula successi professionali a New York lavorando per la Rex Factories e la Commercial Motion Pictures Company. Poi nel 1916 i fratelli cosentini si trasferiscono definitivamente in quella California che somiglia sempre più alla Mecca della settima arte. Eugene lo assume la neonata Universal, ma poco dopo prende servizio con Tony alla Metro. Pochi anni dopo, nel ’24, la casa si unirà ad altre due entrando nell’immaginario collettivo grazie al ruggito del leone che introdurrà per i decenni a seguire ogni pellicola della Metro Goldwin Mayer.
Operatori della MGM filmano il celebre leone che introduce i film prodotti dalla casa hollywoodiana
Eugene Gaudio, il mago del chiaroscuro
Eugene, che per l’antenata della MGM fa il direttore della fotografia, è balzato agli onori delle cronache già un anno prima del suo arrivo ad Hollywood, nel 1915, grazie ai riuscitissimi chiaroscuri in The House of Feardel regista Stuart Paton. È lo stesso anno in cui, insieme ad altri 14, fonda la American Society of Cinematographers. La società ancora oggi accoglie tra i suoi membri direttori della fotografia e tecnici degli effetti speciali che hanno saputo distinguersi nell’industria cinematografica, compreso un calabrese da Oscar come Mauro Fiore.Ma è il 1919 l’anno della sua consacrazione. E anche l’ultimo di cui vedrà la fine.
La locandina di Out of the fog
A portargli le lodi delle cronache culturali dell’epoca sono soprattutto due film diretti da Albert Capellani. Il primo, The Red Lantern, gli dà modo di mostrare tutto il suo talento con le luci durante riprese che vedono coinvolte fino a 800 comparse in contemporanea. Il secondo, Out of The Fog, lo consegna alla storia come – scriverà la stampa di quegli anni – «il primo cameraman a fotografare con successo una nebbia». Eugene Gaudio è ormai, riporta il settimanale newyorkese The Leader-Observer, «uno dei maghi del chiaroscuro» e lo conferma in pellicole come The Man Who Stayed at Home o The Notorius Mrs. Sands (1920), presente nel catalogo dei film muti della Biblioteca del Congresso di Washington.
Ventimila leghe sotto i mari
La pietra miliare della sua carriera, però, è Ventimila leghe sotto i mari. Le riprese sono lunghe, il film arriva in sala nel 1916. Si tratta del primo lungometraggio ispirato al celebre romanzo di Jules Verne, anche se la sceneggiatura pesca negli altri due libri dello scrittore nantese sulle gesta del Capitano Nemo a bordo del sommergibile Nautilus. I costi della pellicola – a seconda dei resoconti – superano i 200mila dollari o sfiorano addirittura il mezzo milione, facendone uno dei primi kolossal della storia del cinema. Gli incassi non saranno altrettanto sostanziosi. Eppure 20.000 Leagues Under The Sea non resta negli annali per il flop in sala. Lo fa perché è il primo lungometraggio di sempre con riprese sottomarine ed effetti speciali incredibili per l’epoca. Per girare le gesta dell’equipaggio del Nautilus Eugene Gaudio mette a repentaglio la sua stessa vita.
Il set del film sono le Bahamas, scelte dalle produttrici Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation per la trasparenza delle loro acque. La WSFC è la casa di John Ernest Williamson, che insieme a suo fratello George, ha appena inventato la photosphere. È una sfera di metallo da oltre 4 tonnellate, con un oblò davanti e un tubo sopra che la collega a una barca in superficie e la rifornisce dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza del cameraman. Ma mentre Eugene Gaudio riprende l’attacco di uno squalo gigante dalle viscere dell’Atlantico qualcosa va storto. È lo stesso cosentino a ripercorrere quei momenti in un’intervista al New York Tribune.
Eugene Gaudio e l’incidente durante le riprese
«Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione».
Ma la barca si trova quasi venti metri più su e la telefonata risolve poco. I soccorritori non arrivano. Peggio: durante le manovre per disincagliare la photoshere e sostituire il collegamento tra Eugene Gaudio e il resto della troupe il braccio telescopico da cambiare si rompe definitivamente. Dal tubo che doveva portare ossigeno adesso entra l’oceano.
Un’illustrazione d’epoca mostra il funzionamento dell’invenzione dei fratelli Williamson
È ancora il cosentino a raccontare il seguito: «La mia unica speranza era quella di uscire da quella camera prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai all’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi (una quindicina abbondante di metri, nda) di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi».
Nove vite
Quando dall’estremità in superficie del tubo sbuca tra le onde la testa insanguinata di Eugene sulla barca hanno perso ormai le speranze. Ma il direttore della fotografia è ancora vivo, sebbene svenga pochi istanti dopo per lo sforzo immane compiuto in assenza d’aria.
«Abbiamo lavorato come delle furie, ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su: hai sicuramente nove vite, come un gatto», gli dirà il regista Paton vedendolo riprendersi dopo la disavventura sottomarina.
Troupe e cast di “20.000 Leagues Under The Sea”: Eugene Gaudio è l’ultimo in alto a destra
Se davvero erano nove, quella rischiata alle Bahamas per Eugene Gaudio è l’ultima vita a disposizione.
L’Oscar non esiste ancora, ma i risultati ottenuti con Ventimila leghe sotto i mari gli portano premi e apprezzamenti da tutti gli addetti ai lavori. Gli resta poco tempo per goderseli però. Nell’estate del 1920 un attacco di appendicite acuta lo porta in ospedale quando ormai è già troppo tardi. La peritonite lo uccide il primo agosto, quando ha ancora soltanto 33 anni. Alla notizia del decesso la diva Alla Nazimova – protagonista di più film con Eugene Gaudio alla fotografia – infrangerà la regola che la vedeva sempre assente alle première delle pellicole di cui era protagonista. Invita centinaia di colleghi all’anteprima di Madame Peacock (1920) all’Hollywood Theatre e dona l’intero incasso dell’evento alla vedova del cosentino, Vincenzina Pietropaolo, anche lei calabrese emigrata da Amantea.
Il “fotografo violinista”
E Tony Gaudio, il fratello di Eugene? Sarà il primo premio Oscar italiano qualche anno dopo, da direttore della fotografia di Avorio nero (1937). Otterrà anche altre cinque nominations agli Academy Awards durante una carriera che lo consacra tra gli indimenticabili della Settima arte. A lui si devono innovazioni tecniche come “l’effetto notte”, quella nuit américaine celebrata decenni dopo da Truffaut nel suo più sentito e famoso omaggio al mondo del cinema d’oltreoceano. Ma anche dispositivi per la messa a fuoco, tecniche di utilizzo delle luci, le prime riprese in Technicolor.
Eugene e Tony Gaudio
Questa però è un’altra storia, andata avanti fino al 1951, trentuno anni dopo la morte del fratello Eugene. Quello che – come scrisse nel 1922 The American Cinematographer – «guardava la propria macchina da presa come un violinista guarda il suo strumento, con tenerezza e affetto».
«Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».
Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.
La Russia di Corrado Alvaro
E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.
Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.
Antifascismo e amicizie
Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.
Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini
Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.
Dopo la Rivoluzione del 1917
Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.
Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio
La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.
«Una grande scuola di addestramento»
Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse conl’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.
Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe
Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.
Corrado Alvaro e la propaganda in Russia
Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.
Il poeta Vladimir Majakovskij
L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.
Un tour sotto controllo
«A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.
La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30
Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.
Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.
Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku
Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.
Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo
Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
«Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».
Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia
Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».
Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa
I bisogni e le speranze del popolo
Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.
Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie
Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki”, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, diaperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.
Memorie da un mondo in costruzione
Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.
Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania
«Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.
Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica
Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.
L’odio verso gli occidentali
«I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».
In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.
Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin
Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.
Lenin e Stalin
Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
«L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.
Russi e calabresi
Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre. La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.
Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese
E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
«Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».
Contro i totalitarismi
Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro
Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.
Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è fortefu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.
Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega
L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.
Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.
«Sono Giuseppe Talotta e mi voglio costituire». Così esordiva il broker della cocaina presentandosi al carcere di Massa Carrara nel 2015 e interrompendo una breve latitanza di alcune settimane. Il 47enne all’epoca era ricercato dalla Dda di Genova e da quella di Reggio Calabria. Diversi i mandati di cattura a suo carico per una serie di procedimenti giudiziari che lo vedevano coinvolto in un maxi giro di cocaina che dal Sud America arrivava al porto ligure e in Calabria.
Basterebbe quella frase del narcotrafficante della ‘ndrangheta – agiva per conto del potente clan degli Alvarodi Sinopoli – per evidenziare la particolarità della sua singolare storia, ma c’è altro. Nei giorni scorsi la Cassazione, accogliendo parzialmente il suo ricorso, gli ha concesso il riconoscimento della continuazione dei reati e stabilito. La pena definitiva da scontare sarà di 16 anni e 8 mesi di reclusione.
La condanna nei giorni scorsi
Il medesimo disegno criminoso tra i processi di Genova e Reggio Calabria che i giudici di Piazza Cavour hanno sancito definitivamente ha consentito a Talotta di non avere in sede di esecuzione la somma aritmetica delle due condanne (12 e 16 anni). Gliene tocca una sola, calcolata partendo da quella maggiore e aumentata per alcune aggravanti. Questo prevede l’istituto giuridico della continuazione del reato, articolo 81 del codice penale, che può essere applicato a “chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge”.
La Corte di Cassazione
L’uomo, forse anche stanco di quella vita criminale, si era costituito spontaneamente alle autorità. E non furono in pochi a stupirsi per le modalità scelte. Giuseppe Talotta decide di bussare letteralmente alle porte del carcere. E lo fa da solo, senza nemmeno il suo avvocato, come se non ne potesse più di certe situazioni. Non si è mai pentito, quindi non si conoscono le motivazioni della sua scelta. Ma nel carcere di Genova, dove poi lo trasferiscono, uno dei principali broker della cocaina dei feroci Alvaro fa una scoperta che gli cambierà la vita. Quella in carcere, ovviamente.
Dalla coca all’editoria: Ristretti orizzonti
Al Marassi – il penitenziario a due passi dallo stadio Ferraris – di Genova c’è un gruppo di detenuti che si occupa di qualcosa di speciale e che si può trovare solo in altri due istituti penitenziari italiani: una rivista. Il periodico, Ristretti orizzonti, lo affascina ed entusiasma a tal punto che in pochi anni diventa uno degli articolisti più prolifici e uno dei coordinatori più importanti.
Il carcere di Marassi a due passi dallo stadio di Genoa e Sampdoria
C’è una ‘ndrangheta che scrive, dunque, e lo fa su un giornale vero e proprio. La più enigmatica organizzazione criminale d’Italia aggiunge un’altra sfaccettatura alle mille che già ha. Ristretti orizzonti, bimestrale, ha la sua redazione centrale nel carcere di Padova e due decentrate nei penitenziari di Parma e Genova.
L’unica differenza con un periodico convenzionale è rappresentata dalla gerenza, dai nomi di chi coordina e scrive. Sì, perché invece di Enzo Biagi o Indro Montanelli alcuni articolisti e coordinatori si chiamano Giuseppe Talotta, Carmelo Sgrò o Domenico Papalia: nomi “pesanti” di narcotrafficanti e boss di ‘ndrangheta.
Colpevoli anche di scrivere?
L’iniziativa, più che meritoria, è partita nel 1998, e negli ultimi anni ha fatto parlare parecchio di sé. Alcune testate nazionali di recente hanno battagliato non poco dopo la denuncia di un’associazione alla Dia. Oggetto dello scontro era il fatto che tra gli articolisti della rivista da un po’ di tempo si erano aggiunti anche detenuti in regime di 41 bis.
Ma al di là del dibattito, delle denunce e dei controlli, la rivista prosegue le sue pubblicazioni. Parla del pianeta carcere, racconta le mille problematiche degli istituti penitenziari italiani e l’intero ordinamento come emerge anche da relazioni ufficiali di organi governativi e da articoli di giornale. Solo che Ristretti orizzontifa parlare di carcere direttamente i detenuti e questo non va giù a tutti.
Riunione in una delle redazioni di Ristretti Orizzonti (dalla pagina Fb della rivista)
In realtà, il punto di vista di chi vive determinate condizioni può essere molto utile. Tanto più quando si parla di riforme carcerarie che nulla hanno a che fare con i reati commessi e le pene da scontare. Un carcere più in linea col dettato costituzionale (la pena deve tendere alla rieducazione del detenuto) aiuterebbe il sistema giustizia italiano e quindi anche la sicurezza delle città. Il dibattito resta aperto.
Zinèe è il primo festival delle fanzine in programma a Cosenza nella sede di Gaia (Galleria indipendente autogestita) il 7 e 8 ottobre 2023.
«Siamo un gruppo di amici appassionati di fotografia che crede nella contaminazione delle arti e nella condivisione dei processi creativi. Abbiamo scelto di organizzare un festival di fanzine (prevalentemente fotografiche ma aperto a tutte le forme espressive) per far conoscere nel nostro territorio questo versatile e libero mezzo comunicativo che, anche se un po’ vintage, è tutt’ora molto vivace». È quanto si legge nel comunicato stampa diramato dagli organizzatori del festival.
La presentazione del Festival negli spazi espositivi di Gaia a Cosenza
Che cos’è una fanzine? La sua storia pare che abbia inizio negli anni ’40 e non è altro che una pubblicazione indipendente prodotta e divulgata dallo stesso autore per diffondere la propria arte, per condividere un’idea o per sollecitare una dissertazione.
«Una fanzine (inglesismo esprimibile in italiano coi termini rivista amatoriale o fanzina) è una pubblicazione non professionale – si legge su Wikipedia – e non ufficiale prodotta da entusiasti di un particolare fenomeno culturale (quale un genere letterario o musicale, o un particolare fandom) per il piacere di condividere i propri interessi con altri».
La fanzine è un mezzo completamente libero perché consente l’autoproduzione e la realizzazione dei propri progetti artistici e dei propri esperimenti creativi senza dover passare dai canali dell’editoria ufficiale, Questo lascia totale spazio all’invenzione, oltre che del contenuto artistico anche dell’aspetto formale ed estetico, permettendo sperimentazioni su formati e tecniche di stampa differenti e sull’eterogeneità dei materiali utilizzati per la realizzazione.
«Forse il nostro desiderio – affermano gli organizzatori – di produrre creatività su carta stampata può apparire in controtendenza in questo momento storico, dal momento che immagini, testi e musica ora viaggiano a milioni sotto forma virtuale, ma forse è proprio per questo che sentiamo il bisogno di realizzare qualcosa di concreto e che possa essere toccato e condiviso. Vogliamo che Zinèe sia una festa libera che abbia lo scopo di far incontrare e mettere insieme tutti coloro che hanno voglia di condividere le proprie fanzine. La nostra ambizione mira anche al rafforzamento della cultura fotografica sul nostro territorio favorendo l’incontro e lo scambio di esperienze artistiche».
Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.
L’ingresso del ristorante madrileno
Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.
Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?
«Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».
In che senso?
«Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.
Il Big Ben, simbolo di Londra
Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».
Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?
«Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.
L’Hotel Four Season di Milano
La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».
Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!
«Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».
Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?
«Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».
Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri
Finita l’estate sei tornato a Roma…
«Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».
E perché sei andato via da lì?
«Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».
Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…
«Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».
E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?
«Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»
Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?
«Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.
Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay
Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».
Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?
«Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».
Manfredi Bosco e Carlo Cracco
In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?
«Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».
Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante…
«Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».
Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid
Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?
«Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»
Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?
«Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale. Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».
Franco Dionesalvi non si è mai pensato intellettuale nel senso ampolloso e ingaggiato del termine. Lo era invece e ben di più nello sguardo sul mondo e nel legame storico-affettivo con la sua città: nessun localismo, nessun souvenir, solo studio, amore, agorà al massimo grado.
Tante vite in un una
È parziario, oltre che impossibile, ricordarlo libro per libro, composizione per composizione, reading per reading. Come per tutti gli scrittori che lavorano da amanuensi la materia della loro scrittura per il filtro dell’ibridazione dei linguaggi, ogni opera è il tassello di un percorso intero ed interiore. Non una scatola chiusa. Quindi, in Dionesalvi vivono tante vene e filoni, tante storie attraverso i suoi scritti rivivono. Le avanguardie letterarie, ad esempio. Senza fare l’archivistica degli stratagemmi semantici, ma investigando il rapporto immediatamente politico-emotivo fra segno e senso. Era uomo del Concilio, pur essendo un bambino nei primi Sessanta, ma gli apparteneva naturalmente un cristianesimo di base, semplice, diretto, dialogico. Ecumenico ed etimologicamente cattolico: persona singolare e universalità collettiva.
Un uomo del ’77
Era uomo del ’77, ancora. Non per portarsi addosso le stimmate laiche di un percorso di autonomia (sul quale ormai tutti hanno la loro, tutti ne hanno fatto parte e tutti lo hanno rinnegato), ché anzi le simpatie estetiche e comportamentali di Dionesalvi andavano più agli Indiani che agli Autonomi. Era figlio del ’77 in quella naturale postura antiautoritaria che ti fa capire, volenti o nolenti, la morte di un certo tipo di appartenenze e l’emersione di una soggettività disorganizzata e plurale, oltre certe logiche e chiese, bisognosa, anzi, di nuovi stimoli, nuove istituzioni e -ancora una volta!- nuovi canali comunicativi.
Franco Dionesalvi: come ricordarlo?
Non si sa come potercelo ricordare Franco Dionesalvi, quale lato debba più prevalere sugli altri: l’amministratore razionale e visionario insieme? Conoscitore dei sistemi locali della cultura europea (come da sua ottima tesi di dottorato) o attivista che apre squarci nuovi e si inventa il festival cittadino che segna una generazione, lontano anni luce da cover e refrain dei decenni successivi? Il romanziere colto, sperimentale, e però legato anche all’abc del romanzo di formazione, alla narrativa come scavo psicologico e percorso di crescita? Il poeta omaggiato a New York o il profeta per un certo periodo dimenticato in patria? Il corsivista ironico e propositivo o l’uomo di teatro che dal dramma ricavava storie di popolo?
Lo ricordo, allora, al netto di tanti begli incontri personali (che con Franco erano o l’uno a uno o il cenacolo improvvisato con amici di tavolo e conversazione sempre nuovi), per una delle sue ultime antologie poetiche, Base Centrale.
A quel libro è legata una circostanza a suo modo e a propria volta storica. La prima presentazione pubblica a Cosenza dopo la pandemia: chiostro del San Domenico sold out. Cinquanta panche piene e se non ci fosse stato il distanziamento sociale ne avrebbe riempito cento.
Base centrale
Non credo né mai crederò a provvidenzialismo alcuno: ci sono artisti, anche nel campo figurativo, le cui ultime opere sono profezie e altri per cui semplicemente non c’è più niente di nuovo da leggere e guardare. Base Centrale è perfettamente coerente a un percorso, a una ricerca, a uno stile. E l’autore stesso avrebbe probabilmente avuto difficoltà a superarsi: sarebbe andato, come tipicamente suo, nella direzione opposta a ogni comodità astratta, a ogni sciatteria mentale.
In Base Centrale c’è l’amore, il racconto del disagio, la simbologia religiosa, la denuncia pasoliniana dei tempi disincarnati (ma assai meno cattedratica, perciò più pura), persino le scosse telluriche della pandemia sulla già frantumata socialità industriale.
Consoliamoci: siamo molto meno che a metà strada per riabbracciare compiutamente tutti i temi e slanci inaugurati dall’autore. Uomo di fede, fede in primis nella donna e nell’uomo, come i predicatori in lotta di un millennio addietro, potrebbe dirci allora: non è che l’inizio. Figli di un umano non ancora nato e a cui non verrà impedito di vedere luce.
Domenico Bilotti Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia
In Australia andare ai tropici significa andare in mezzo a distese enormi di piantagioni di canna da zucchero. Quando tira vento, tra le piantagioni si sentono suoni antichi e primitivi, che riportano alla mente il complicato passato di queste terre. Siamo nel Nord del Queensland, a due passi dalla Barriera Corallina, accanto al Territorio del Nord e a due passi (si fa per dire) da dove è stato girato la serie di film Crocodile Dundee, per capirci. Proprio quelle zone al Nord-Est del Queensland – Ingham, Innisfail, Ayr, Cairns, Townsville – oggi attraggono turisti da tutto il mondo, mentre i residenti ancora faticano a conciliare le varie eredità indigene con quelle anglosassoni. Qui hanno girato un documentario in tre episodi chiamato The Black Hand, la Mano Nera, in onda in queste settimane in Australia e che, nei prossimi mesi, arriverà anche in Europa.
Si tratta di una produzione che ci ha messo circa 20 anni dall’ideazione alla finalizzazione. È il frutto della volontà del produttore Adam Grossetti di ripercorrere certi luoghi nello Stato del Sole – il Sunshine State del Queensland – e raccontare certe storie – ormai lontane, degli anni Trenta – che spesso finiscono per essere fraintese. Come posso attestare personalmente per il mio breve coinvolgimento nel progetto, l’entusiasmo, la curiosità e l’ingegno di Grossetti si è travasato direttamente nella morbidità della narrazione e nell’accuratezza delle fonti utilizzate.
La Mano nera, (quasi) cent’anni dopo
Per la realizzazione ci si è avvalsi di un italo-australiano, di origini calabresi, d’eccellenza per l’Australia. Si tratta dell’attore Anthony LaPaglia, conosciuto a Hollywood per i ruoli in film come Nemesi, Autumn in New York, Rogue Agent, o serie TV come Senza Traccia. LaPaglia è molto orgoglioso delle sue origini e mostra molta curiosità per i fenomeni mafiosi e para-mafiosi che – già da bambino – ad Adelaide, nell’Australia meridionale, poteva vedere, anche senza capirli, nella comunità d’immigrati calabresi, attorno alla sua famiglia. LaPaglia, nel documentario, viaggia tra Palmi e Bovalino, il luogo di origine di suo padre. A volte commosso, a volte sorridente, spesso con toni drammaticamente inquisitori, aiuta a raccontare una storia di quasi 100 anni fa, ma non per questo poco attuale.
Armi sequestrate dalla polizia americana in un’operazione contro la Mano Nera
Il documentario racconta degli eventi degli anni Trenta, circa 1928-1939, che sono ricordati come Black Hand Terror, il terrore della Mano Nera. Si trattava di un’organizzazione, di un gruppo di uomini, italiani, quasi tutti calabresi, che per un decennio ha commesso omicidi, rapimenti, intimidito la popolazione di migranti e non solo, estorto denaro ai commerciati. Tutto in nome dell’avidità che contraddistingue la criminalità organizzata, ma con mezzi, quelli del controllo del territorio e del potere che deriva dalla paura, tipici della mafia. Ma quel termine, Mano Nera, Black Hand, assume un significato importante in Australia, perché sancisce l’inizio del fenomeno dell’Onorata Società – della ‘ndrangheta – australiana.
La Mano Nera negli USA
Ma andiamo con ordine. La Mano Nera è uno di quei fenomeni che rasenta la mitologia, ma che ovviamente ha un fondo di verità storica e anche particolarmente documentata.
Alla Mano Nera molti associano diversi racket delle estorsioni gestiti da gangster italiani, spesso siciliani o comunque del sud, immigrati a New York, Chicago, New Orleans, Kansas City e altre città degli Stati Uniti dal 1890 al 1920 circa.
La Black Hand inviava biglietti minacciosi ai commercianti locali e ad altre persone benestanti – quasi sempre solo altri italiani. A firma della richiesta estorsiva c’erano una stampa di mani nere, pugnali o altri simboli, e la minaccia che il mancato pagamento avrebbe avuto conseguenze nefaste, come la distruzione della casa, o la morte di qualche caro.
Ma il fenomeno della Black Hand è un fenomeno affascinante proprio perché, nello stesso periodo o quasi, si presenta con forme simili anche in Canada e anche in Australia, rendendolo una prima formula di mobilità del fenomeno mafioso a matrice italiana, a scopo protettivo-estorsivo. Attenzione però, perché la Mano Nera non era affatto un fenomeno “primitivo” o acerbo, anzi. Si trattava, come ci ricorda lo storico Salvatore Lupo, di una «fenomenologia criminale impersonale» e come tale a vocazione imprenditoriale. In questo, dunque, molto avanzata e sicuramente antesignana della mafia, se non essa stessa già mafia.
Femio, ultimo a destra, con la mano sulla spalla del suo capo D’Agostino in una rara foto d’epoca
Ma torniamo all’Australia, nel Queensland, dove la Mano Nera ha assunto dei volti e dei nomi molto precisi. Si tratta sicuramente di due boss come Nicola Mam(m)one e Vincenzo D’Agostino, avidi e spietati. Al loro fianco, Francesco Femio (Femia), Giovanni Iacona e Mario Strano ma anche molti altri. Tutti calabresi. D’Agostino era arrivato da Genova nel 1924 a Brisbane, la capitale del Queensland. Si era poi spostato a Nord, come in tanti facevano a quei tempi, per lavorare nei campi e poi aprire un forno.
Giovanni Iacona
Vittime e carnefici calabresi
Le richieste estorsive a firma della Mano Nera arrivavano via lettera che richiedeva “supporto per la Società” con somme variabili, tra i 50 e i 1.000 dollari. La lettera minacciava anche conseguenze molto gravi qualora non si ottemperasse alla richiesta. Non era inusuale bruciare le piantagioni di canna da zucchero, della vittima oppure sparare colpi di fucile verso la sua abitazione, per invogliarlo a pagare. Anche le vittime sono italiane e calabresi, come Alfio Patane (Patané) e Venerando Di Salvo. I familiari di Di Salvo ancora vivi raccontano nel documentario di come si è provato a resistere alla richiesta estorsiva, e di quanto difficile fosse “fare la cosa giusta” in quel periodo.
La morte di Vincenzo D’Agostino, provocata dalle ferite in seguito a un’esplosione proprio nel suo forno nel 1938, chiuderà la faccenda della Black Hand. L’omicidio di D’Agostino rimarrà però insoluto.
Il forno di D’Agostino prima dell’esplosione fatale
Dalla Mano Nera all’Onorata Società
La Black Hand del Queensland già aveva tante somiglianze con quella che poi sarà l’Onorata Società o ‘ndrangheta australiana. Ma come ogni fenomeno criminale migratorio che si rispetti, c’erano anche delle differenze: il coinvolgimento nello sfruttamento della prostituzione ad esempio.
In Queensland come altrove la Black Hand rappresenta quel momento paradigmatico in cui gruppi di mafiosi in erba utilizzano il loro controllo sul territorio – grazie a intimidazione e paura – per lucrare e guadagnare indebitamente. Ma c’è di più. A livello analitico, gli anni della Black Hand rappresentano la nascita del mito mafioso: una società segreta, chiaramente riconoscibile (grazie al simbolo dell’evocativa mano nera) eppure elusiva. E soprattutto una società criminale italiana, o meglio ancora, calabrese.
Mario Strano
Quando Italia si traduce mafia
Nasce con la Black Hand in Australia – ma anche negli Stati Uniti, con debite differenze – quel corto circuito mentale che porterà ad equiparare il fenomeno criminale con l’etnia dei suoi attori: la mafia italiana. Non si sarebbe più tornati indietro su questo punto.
Sebbene la Mano Nera in Queensland sia effettivamente sparita dalla fine degli anni Trenta, il fenomeno viaggiò nel resto dell’Australia e diventò sinonimo prima di criminalità organizzata etnica italiana, poi di mafia, genericamente intesa, e infine di ‘ndrangheta o Onorata Società. C’era, certamente, anche un sentimento anti-italiano, anti-migrante, nel modo di raccontare e tracciare la Mano Nera, ma il fenomeno dell’epoca ha aiutato a costruire “l’etichetta” della mafia di oggi.
Nicola Mam(m)one
Negli anni Cinquanta, sono vari i rapporti di polizia tra l’Australia meridionale, il Queensland, il Nuovo Galles del Sud. L’Australia Occidentale e lo stato di Victoria tracciano attività della Black Hand o mafia. Si tratta quasi sempre di notizie date da informatori spaventati che raccontano di racket dell’immigrazione, cioè di immigrazioni pilotate dall’Italia all’Australia gestite da questa organizzazione criminale, ma anche di intimidazioni, violenze, omicidi e, in breve, paura.
Un documento sulla Mano Nera in Australia del 1953
“Solidarietà” tra emigrati
Nel 1958, nello Stato di Victoria, a Melbourne, un report molto importante delle forze dell’ordine locali cercherà per la prima volta di tracciare la continuità dell’organizzazione criminale dal Queensland oltre venti anni prima a Victoria in quegli ultimi mesi. Il report dirà che l’organizzazione della Mano Nera sul territorio era diretta discendenza della Mafia siciliana, che avrebbe poi esteso il suo potere in Calabria, e in seguito sarebbe diventata The Black Hand all’estero.
Nello stato di Victoria gli affiliati sono tutti calabresi. Si scrive in questo report che «le informazioni aggiuntive che possiamo offrire allarmerebbero il cittadino ordinario di questa comunità [italiana]». Fondamentale notare che fino a quegli anni, anche a Melbourne, la caratteristica primaria della Mano Nera era chiedere somme di denaro, richieste estorsive, per servizi di protezione in nome di una inappellabile solidarietà etnica.
In questo report del 1958 si attesta l’elevato numero di calabresi tra i membri della Mano Nera australiana
Una festa senza il festeggiato
C’è un riferimento interessante, in questo rapporto, a un meeting del 21 Settembre 1957 nel quartiere di Brunswick, oggi quartiere molto hipster di Melbourne, a nord della Little Italy nel quartiere di Carlton, e storicamente quartiere di residenza di molti migranti italiani. Il meeting era a casa di un tal Domenico Versace e vi avevano partecipato almeno 30 uomini. Tutti calabresi. Ventotto di loro vennero arrestati per possesso di armi da taglio, e negarono di conoscere o far parte della Mano Nera.
Versace dichiarò che si trattava soltanto di una riunione tra amici per brindare al battesimo di suo figlio, avvenuto quel giorno, contestualmente al primo compleanno del bambino. Né il bambino né sua madre, però, si trovavano in casa. Un informatore della polizia, però, dirà che si trattava di un “processo” contro un certo Rocco Tripodi che aveva violato le regole della Società, e dunque bisognava concordare la sua punizione e la risoluzione di un problema che Tripodi aveva creato.
Melbourne, una via di Brunswick ai giorni nostri
Questo documento e questa riunione rappresenterà uno degli ultimi momenti storici disponibili in cui il termine Black Hand veniva usato per definire fenomeni criminali legati alla comunità calabrese. Dagli anni Sessanta in poi, per varie ragioni, emergerà il nome dell’Onorata Società, anche perché le attività legate a questi uomini iniziarono ad andare oltre al racket estorsivo, tipicamente identificato nella Mano Nera. È fuor di dubbio, dunque, che esista continuità tra i due fenomeni, se non spesso sovrapposizione.
L’eredità della Mano Nera
Quel che appare certo, a un’analisi criminologica dei dati storici, è che la Black Hand ha dato il via alle due posizioni che, anche oggi, caratterizzano l’approccio alla ‘ndrangheta in Australia: da una parte il sensazionalismo legato alla presenza della “mafia” nel paese, che porta a una sorta di panico istituzionale; dall’altra, la difficoltà di separare il fenomeno ‘ndrangheta e più generalmente il concetto di mafia dai migranti italiani e calabresi. Quell’etnicizzazione del fenomeno che si osserva già negli anni della Black Hand nel Queensland, che portò all’epoca a parlare di “mafia italiana” senza identificare le specificità locali del fenomeno – come raccontato magistralmente dal documentario dell’ABC – è costituente e costitutiva del modo di vedere, capire e spesso anche fraintendere la ‘ndrangheta australiana fino ad oggi.
Ci sono volti e voci che non si dimenticano. Come quella di Emanuele Giacoia, giornalista della Rai che ha saputo raccontare la complessità di una regione come la Calabria e quella di uno sport come il calcio che non è mai stato e mai sarà solo un gioco.
La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” in collaborazione con il comune di Cosenza ha organizzato venerdì scorso, nella parte esterna di Villa Rendano, un ricordo del cronista di razza. “Ciao Emanuele”, questo è stato il titolo di una serata giocata sul filo della memoria. Con testimonianze e ricordi, l’incontro è stato animato dalle domande del giornalista Mario Tursi Prato. Ha partecipato anche Patrizia Giancotti, antropologa, autrice e conduttrice di RaiRadio3.
Da sinistra il presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, Walter Pellegrini; il sindaco di Cosenza, Franz Caruso e il giornalista Mario Tursi Prato
Il presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, Walter Pellegrini, ha sottolineato lo spessore umano e professionale di Emanuele Giacoia: «Un grande uomo e un grande giornalista che manca tanto a questa città e questa regione». E «come se – ha detto il sindaco di Cosenza, Franz Caruso – l’avessimo conosciuto tutti. Ha accompagnato le nostre vite in radio e in televisione».
Da sinistra il caporedattore del Tgr Calabria, Pasqualino Pandullo; il giornalista Mario Tursi Prato e il direttore della sede Rai, Massimo Fedele
Sono state molteplici le testimonianze dei colleghi. Per il caporedattore del Tgr Calabria, Pasqualino Pandullo, un «tratto distintivo della leggerezza di calviniana memoria» animava Giacoia. Massimo Fedele, direttore della sede Rai Calabria, non dimentica un episodio: «Il primo giorno che parlai con il mio ex direttore, mi disse di cercare sempre in me l’empatia di Emanuele Giacoia». Tra i contributi video spunta quello di Bruno Vespa: «Giacoia aveva una voce rotonda e sensuale. Riusciva a far vivere gli eventi. Un grande collega». Un «attentissimo cronista immerso nella realtà» sostiene Bruno Pizzul. Ecco l’amarcord di Vincenzo Mollica: «Primo giornalista che ho visto nella mia vita. Un grande narratore della terra di Calabria e della terra del calcio. Era straordinario».
Da sinistra i giornalisti della Rai, Tonino Raffa e Francesco Repice
Francesco Repice rammenta le parole di Giacoia: «Ricordati che siamo Servizio pubblico, mi diceva sempre. Emanuele mi ha dato grandi insegnamenti, era un patrimonio per noi».
«Oggi Celebriamo la vita di Emanuele. Voce degna del miglior doppiatore di Hollywood», sostiene Tonino Raffa. «Un giornalista di grande carisma, pronto a spendersi per gli altri» – dice Santi Trimboli. «Ho passato 30 anni con Emanuele – ricorda Enzo Arcuri -. Collega con il quale non si poteva litigare, di smisurata umanità e generosità». Giacoia «seduceva uomini e donne con quella voce» – dice Annarosa Macrì-. Era un fuoriclasse. Era il paolo Conte del giornalismo radiotelevisivo italiano».
Emanuele Giacoia è stato pure direttore responsabile dell’allora Quotidiano della Calabria, oggi Quotidiano del Sud. L’editore Francesco Dodaro ricorda «l’impegno e la passione di un direttore che apparteneva ai lettori».
Non poteva mancare il messaggio video di Massimo Palanca, fantasista di quel Catanzaro che conquistò e difese la serie A: «Mi stimava molto e io pure. Solidarietà tra baffuti».
Restano gli insegnamenti e i servizi giornalistici di Giacoia a testimoniarne valore, eleganza e tanto, tanto mestiere.
Il pubblico che ha partecipato al ricordo di Giacoia a Villa Rendano
Quello dedicato a Emanuele Giacoia è il primo di una serie di eventi che la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, di concerto con l’amministrazione comunale di Cosenza, ha deciso di dedicare a figure del giornalismo e della cultura purtroppo scomparse, che si sono distinte per la loro attività e per il contributo che hanno assicurato alla conoscenza e alla valorizzazione della realtà calabrese nei suoi aspetti culturali, artistici e sociali.
A partire dalle prossime settimane saranno ricordati, tra gli altri, il poeta Franco Dionesalvi, l’attore e regista teatrale Antonello Antonante, e i giornalisti Raffaele Nigro, caporedattore della sede cosentina del quotidiano “Gazzetta del Sud”, ed Enzo Costabile, collaboratore della stessa testata, capo ufficio stampa della Provincia di Cosenza e autore di numerosi testi.
Sessant’anni fa, nel 1963, a Cosenza, viene pubblicato il primo dei Quaderni di cinema del circolo Mondo Nuovo. L’informazione si ricava dal terzo, dato alle stampe a Cosenza nel febbraio 1964. Un fascicolo di 54 pagine, con testi di Guido Aristarco, Pio Baldelli, Tommaso Chiaretti, Adelio Ferrero, Giampiero Mughini.
Antonio Lombardi, tappezziere e agit prop
Antonio Lombardi, animatore del circolo Mondo Nuovo, presenta il terzo numero dei Quaderni, dedicato ai problemi della critica della settima arte, precisando che il secondo fascicolo è stato stampato in 500 copie, «testimonianza del successo della nostra iniziativa e in direzione della diffusione e della divulgazione della cultura cinematografica». Nello stesso testo Lombardi annuncia che il quarto numero è già in preparazione e sarà dedicato a Cinema italiano 1943-1963.
Da Fellini a Moretti
Per tutto il periodo della sua attività, tra il 1960 e il 1980, il circolo Mondo nuovo dedica una particolare cura al cinema, organizzando rassegne di film e dibattiti, a cui interviene un pubblico non solo giovane (i fondatori del circolo sono ragazzi poco più che ventenni). Si era nella stagione d’oro, registi italiani come Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini e tanti altri erano studiati e imitati, premiati nei concorsi internazionali.
In una registrazione relativa alle origini del circolo, Antonio Lombardi, circa venti anni fa, mi aveva raccontato le sue prime incursioni nel mondo della critica cinematografica, nel clima di grande emozione suscitato dai fatti di Ungheria del 1956. Quel momento rievocato di recente da Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire, che spinse tanti intellettuali e semplici militanti ad allontanarsi dal Partito comunista italiano e a cercare nuove strade. In quel clima di delusione, di ripensamento, di ricerca di nuove modalità espressive, si costituisce il gruppo di amici, a Cosenza, che darà vita a Mondo nuovo, che sorge ispirandosi all’omonima rivista fondata da Lucio Libertini.
Vittorio De Sica, icona e maestro del cinema
La Ciociara che divide
Ragazzi appassionati di politica e del nuovo linguaggio del cinema, così racconta Lombardi:
«A proposito di Chiaretti nel 1960 facemmo una discussione, a Mondo nuovo, su La ciociara di De Sica, tratto dall’ultimo per me grande romanzo di Moravia. Per me il film valeva poco. Chiaretti invece ne scrisse in termini positivi, allora per la prima volta presi la macchina da scrivere e mandai una lettera a Chiaretti, che Libertini pubblicò insieme alla replica di Chiaretti (Libertini mi conosceva, era venuto a Cosenza ad inaugurare Mondo nuovo). Chiaretti nella replica mi invitava a leggere le posizioni critiche di Galvano Della Volpe nella sua Critica del gusto. Insomma queste riviste non ortodosse mi hanno formato, riviste nate da posizioni minoritarie, come quelle di Libertini, polemico con la dirigenza socialista fin dal 1948, quando si era schierato con Tito contro Stalin, e fondato l’Unione socialista indipendente, un piccolo partito, durato fino al 1956».
Una Olivetti sgangherata
Lombardi senza nessuna timidezza va, dal suo primo intervento, oltre i confini della sua città, è convinto che sia necessario, da subito, allacciare rapporti con gli intellettuali e gli autori, partecipando agli incontri più innovativi e importanti, come quelli a Porretta Terme. Sarà sempre questo il suo modo di operare, diretto e personale, con la Olivetti ormai sgangherata che ha utilizzato fino alla fine, per molti anni dopo la chiusura del circolo.Il testo di Tommaso Chiaretti pubblicato sul Quaderno numero 3, La critica cinematografica tra industria culturale ed organizzazione di partito, è la relazione tenuta a Porretta Terme al convegno Cinema e critica oggi (10-12 settembre 1963). Lo stesso vale per il testo di Guido Aristarco, Realismo, decadentismo e avanguardia nel cinema contemporaneo.
I Quaderni di cinema partoriti nella fucina di Mondo Nuovo
Nella registrazione già citata Lombardi racconta: «Nel 1964 ho fatto un viaggio importante, prendendo contatto con persone come Chiaretti, chiedendogli di collaborare con Giovane critica» di Giampiero Mughini.
Insomma abbiamo dedicato qualche pagina a Chiaretti, che in quel momento non se la passava bene. Questo viaggio nasceva da uno precedente, nel 1963, quando sono stato invitato a Porretta Terme, al Festival del cinema libero, in cui si alternavano proiezioni e dibattiti. Il Festival del 1963 era dedicato alla critica cinematografica, Aristarco era invitato a parlare dell’avanguardia, Chiaretti sul rapporto tra organizzazione partitica e industria culturale.
Intellettuali, borghesi, avanguardisti
C’era anche Giuseppe Ferrara, che ancora non era passato alla regia. Dibattito animatissimo, con una frattura tra gli intellettuali di sinistra, tra chi propendeva per un’integrazione nel sistema dell’industria culturale. E chi invece voleva mantenere le distanze. Era in discussione ben altro, non la critica cinematografica, Mughini non colse questo aspetto. Il nocciolo della questione era la possibilità di fare opposizione di sinistra in Italia. Il capofila della critica ad Aristarco era Lino Miccichè, critico cinematografico de L’Avanti. Sui Quaderni di Mondo nuovo abbiamo pubblicato integralmente la relazione di Aristarco, e lui non perdeva occasione di citarla. Dibattito proseguito a lungo sui giornali, intanto sono andato in giro per capire cosa di pensava in giro.
L’intervento di Chiaretti, Le ragioni dell’avanguardia, a questo proposito mi aveva colpito anche l’intervento di un altro critico, Mario De Micheli, autore de Le avanguardie artistiche del ‘900. Si dibatteva dell’avanguardia sempre a partire dalla crisi dello stalinismo. Il problema non era solo liquidare l’avanguardia come prodotto borghese, decadente, De Micheli e Chiaretti rileggono la crisi che tra gli intellettuali si apre nel 1848 e giunge al culmine nel 1871.
Questi intellettuali non arrivano a posizioni veramente rivoluzionarie, ma sono degli irregolari, a livello artistico questa è l’avanguardia. Molti critici ritengono che il realismo moderno non sia la continuazione del grande realismo borghese ottocentesco. De Micheli e altri pensano a un incontro tra le manifestazioni dell’avanguardia, con le rotture dei linguaggi tradizionali, solo da questa sintesi nasce il moderno realismo rivoluzionario. Ad esempio Majakovskij e Brecht, con il futurismo e l’espressionismo.
Mughini per Mondo Nuovo
Mondo nuovo aveva stretti legami con il Centro universitario cinematografico, CUC, di Catania, animato da Giampiero Mughini, che invia agli amici cosentini un suo contributo per il Quaderno, Vecchio e nuovo nella critica cinematografica.
Gli autori del terzo numero dei Quaderni di cinema sono critici militanti, noti e affermati già in quegli anni, spesso al centro di polemiche roventi, accompagnate da risvolti giudiziari. Nel 1953 Guido Aristarco, direttore di Cinema nuovo, viene arrestato per vilipendio delle forze armate, per aver pubblicato sulla rivista da lui diretta un soggetto cinematografico, L’armata sagapò, relativo alla condotta dei militari italiani in Grecia durante la seconda guerra mondiale. Aristarco e Renzo Renzi, autore del testo, trascorrono quarantacinque giorni nel carcere militare di Peschiera. Sono condannati a scontare rispettivamente quattro mesi e mezzo e otto mesi, ma rimessi in libertà grazie alla mobilitazione della stampa e dell’opinione pubblica.
Il regista e attore Nanni Moretti
Quel che resta del cinema a Mondo Nuovo
Nonostante la diffusione in centinaia di copie dei Quaderni di cinema non sono riuscito a trovare gli altri numeri, il primo, il secondo e il quarto, quelli che sicuramente sono stati pubblicati. Nemmeno nelle biblioteche pubbliche sono consultabili, almeno non risultano nel Sistema bibliotecario nazionale, SBN. Potrebbero trovarsi forse in qualche fondo librario non catalogato. Come accade spesso per gli archivi dei gruppi e delle associazioni, gli animatori del circolo, ragazzi estranei alla cultura ufficiale, all’epoca non si preoccupavano di depositare le copie dei propri stampati, né evidentemente di consegnarli direttamente alle biblioteche pubbliche.
Questo terzo fascicolo, recuperato fortunosamente, apre le porte di un mondo ormai lontano, per certi versi superato, gravato da schematismi ideologici oggi incomprensibili. Ma ci conduce nel cuore del dibattito politico e artistico degli anni Sessanta, seguito con interesse a Cosenza da centinaia di persone. Come nelle palazzine del quartiere romano, dove Silvio Orlando nell’ultimo film di Nanni Moretti, si interroga sul suo ruolo di segretario di sezione del P.C.I. davanti al dramma del popolo ungherese.
Probabilmente sarebbe ancora possibile reperire queste pubblicazioni in qualche biblioteca privata, anche molto lontano da Cosenza, dato che il circolo Mondo nuovo e Antonio Lombardi in particolare, intratteneva una fitta corrispondenza con centri e persone di ogni parte d’Italia. Sarebbe un modo per recuperare uno dei tanti tasselli dispersi della vita culturale cittadina, non per municipalismo, ma al contrario per documentare i legami e gli scambi che da Cosenza si intrecciavano con le più vivaci energie del tempo.
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